Quaderni del Cimarosa 3 2017

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I QUADERNI DEL CIMAROSA III-2017


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Conservatorio di musica Domenico Cimarosa

I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino

III - 2017

a cura di Tiziana Grande, Marina Marino

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I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino III/2017

Comitato di redazione de I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa Carmelo Columbro Direttore del Conservatorio Antonio Caroccia docente di Storia della musica

ISBN 978-88-99697-08-2

© Conservatorio di musica “Domenico Cimarosa” di Avellino Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere tradotta, ristampata o riprodotta, in tutto o in parte, con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, fotocopie, film, diapositive o altro senza autorizzazione degli aventi diritto. Printed in Italy

Maria Gabriella Della Sala docente di Storia della musica Tiziana Grande docente di Bibliografia e biblioteconomia musicale Marina Marino docente di Storia della musica Raffaella Palumbo docente di Storia della musica Fiorella Taglialatela docente di Poesia per musica e drammaturgia musicale In copertina Orlando Marino (1922-2000), Il Coro, disegno a inchiostro, collezione privata La rivista scientifica «I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa» è una pubblicazione periodica senza fini di lucro a cura del Conservatorio Domenico Cimarosa. La redazione di questo numero è stata chiusa il 30 novembre 2017.

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Conservatorio di musica “Domenico Cimarosa” Via Circumvallazione, 156 I - 83100 Avellino (AV) Tel. 0825/306.22 Fax 0825/78.00.74 www.conservatoriocimarosa.org


SOMMARIO Presentazione del Presidente Presentazione del Direttore

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Introduzione a cura di Tiziana Grande e Marina Marino

9 Saggi

GIUSEPPE FINIZIO Luigi Denza compositore moderno di musica vocale da camera

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MARIA ADELE AMBROSIO Radio Napoli. Storia, ricezione e programmazione musicale tra il 1926 e il 1945

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ANTONIO CAROCCIA ... come passa il tempo... Una riflessione teorica di Karlheinz Stockhausen

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MASSIMO SIGNORINI Joe ‘Cornell’ Smelser e la fisarmonica nella grande Orchestra Duke Ellington

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ANITA PESCE Registrazione e riproduzione del suono: spunti per una proposta didattica

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Tesi ROSSELLA GAGLIONE Una promenade nella ‘musicologia satirica’: Vladimir Jankélévitch e Giovanni Morelli

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DOMENICO PREBENNA L’Annibale in Capua di Pietro Andrea Ziani: prolegomeni per l’edizione critica

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LUCA SELLITTO Yngwie J. Malmsteen e la nascita della chitarra neoclassica

137

PIETRO SGUEGLIA Le musiche del popolo Shipibo dell’Amazzonia centrale del Perù

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Note d’archivio MARIA LUISA DONATIELLO I fascicoli di ‘Piedigrotta’ conservati nella biblioteca del Conservatorio di Avellino. Uno sguardo alle ‘carte povere’ dell’editoria musicale. 5

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Interventi MARIA PIA CELLERINO Un progetto d’Istituto del Conservatorio di Avellino: “Corollario italiano”

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ELEONORA DAVIDE Le attività del Conservatorio “Domenico Cimarosa” nel 2016

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Recensioni Mille e una Callas. Voci e Studi (Fiorella Taglialatela)

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Musica e Spettacolo a Napoli durante il decennio francese (1806-1815) (Marina Cotrufo) Giuseppe Sigismondo, Apoteosi della musica del Regno di Napoli (Marina Marino) Enrica Donisi, La scuola violoncellistica di Gaetano Ciandelli (Ciro Raimo)

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Anita Pesce, Adolphe Nourrit. Dall’Opéra al San Carlo. Comme le ciel de Naples (Antonella D’Argenio)

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Cimarosa Complete Piano Sonatas (Domenico Prebenna)

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PRESENTAZIONE Attraverso i «Quaderni del Conservatorio» il «Cimarosa» divulga le preziose attività di ricerca che si svolgono all’interno dell’Istituto avellinese, rese possibili grazie al costante impegno di docenti e discenti che vivono con passione la grande avventura culturale che i percorsi di studio offrono quotidianamente. La musica, la storia e letteratura del nostro Paese fanno parte di un patrimonio invidiabile che va studiato, raccontato, divulgato. Pertanto, il cospicuo bagaglio di conoscenze che il «Cimarosa» conserva, deve essere condiviso, come deve essere assolutamente sostenuta la comunicazione e la diffusione di tali ricchezze. Le attività artistiche, che in questi anni hanno coinvolto un pubblico sempre più affezionato agli appuntamenti organizzati dal Conservatorio di Avellino, costituiscono la prima tessera che permette di leggere un mosaico più ampio fatto di risorse culturali straordinarie. Pubblicazioni come questa dei «Quaderni», inoltre, raccontano un altro aspetto, altrettanto pregnante, della vita del «Cimarosa», rappresentato dai contributi che i nostri docenti e gli studenti hanno prodotto per questo terzo numero, frutto di accurate indagini, ampiamente documentate, e dell’evidente volontà di costruire un bagaglio formativo all’altezza del nome dell’Istituto. Un Conservatorio che, pur vantando solo quarantasei anni di attività, si è fatto conoscere in Italia e all’estero per affluenza e qualità formativa, non evitando le sfide che i tempi impongono. Un doveroso ringraziamento, pertanto, va a tutti coloro che si impegnano ogni giorno affinché tutto questo sia possibile e a coloro, in particolare, che lo comunicano all’esterno attraverso pubblicazioni di estremo interesse e di grande valenza culturale e formativa come i «Quaderni del Conservatorio». Luca Cipriano Presidente del Conservatorio

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PRESENTAZIONE Con questo terzo numero de «I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino» l’Istituto irpino conferma il suo impegno nel campo della ricerca e della didattica in ambito musicologico. Accanto agli interessanti studi condotti da docenti e da studiosi esterni - confluiti nei ‘Saggi’ della prima parte - il volume presenta una corposa sezione relativa alle tesi discusse nell’anno accademico 2016/2017. La varietà degli ambiti disciplinari trattati – dalla filologia alla filosofia musicale, all’etnomusicologia, alla storia del rock – attesta la vitalità e l’ampia offerta formativa del Biennio Accademico in Discipline Storiche, Critiche e Analitiche della Musica, che rappresenta uno dei fiori all’occhiello del nostro Istituto. La sezione ‘Attività’ documenta, invece, la ricca produzione artistica e culturale del Conservatorio che, tra rassegne concertistiche, convegni, seminari, presentazioni di libri, pubblicazioni di volumi e di dischi, rappresenta una delle istituzioni accademiche musicali più attive del Mezzogiorno d’Italia. A tutti i docenti del Conservatorio, che s’impegnano quotidianamente con passione e serietà affinché tutto questo possa realizzarsi, vanno i miei più sinceri ringraziamenti. In particolare desidero ringraziare coloro che hanno reso possibile la pubblicazione di questo volume: gli autori, i collaboratori, i componenti del Comitato di redazione e le due curatrici.

Carmelo Columbro Direttore del Conservatorio

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INTRODUZIONE Con questo terzo numero, «I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino» si confermano iniziativa consolidata dell’Istituto irpino, impegnato sempre più sul fronte della ricerca, oltre che su quello della formazione e della produzione artistica. La presenza di scritti di numerosi docenti e studenti, accanto ad alcuni contributi di studiosi esterni, testimonia una sempre più sviluppata attitudine all’approfondimento di temi inerenti la didattica, la storia e l’analisi musicale dei vari dipartimenti dell’Istituto e non solo di quello di storia della musica e musicologia, tradizionalmente più incline alla ricerca e alla riflessione teorica. La sezione dedicata ai Saggi, nella prima parte del volume, si apre infatti con un interessante contributo del collega Giuseppe Finizio su Luigi Denza, compositore noto a tutti come autore della celebre canzone napoletana Funiculì Funiculà, ma meno conosciuto come docente di canto di fama internazionale, organizzatore di concerti e festival musicali, compositore di musica vocale da camera in lingua italiana, inglese e francese, che nulla aveva da invidiare ai maggiori autori di questo genere, come Francesco Paolo Tosti, di cui Denza fu anche amico. Il secondo saggio di Maria Adele Ambrosio ricostruisce vent’anni di storia musicale di Radio Napoli, la prima emittente radiofonica del sud Italia, presentando un tema del tutto inedito nel panorama degli studi musicali. In verità già il numero precedente de «I Quaderni del Conservatorio» aveva presentato l’estratto di una tesi di una studentessa del corso di musicologia sul tema generale dell’importanza della funzione culturale svolta dalla radio in Italia fin dal 1925, anno di esordio della radiofonia nel nostro Paese. Il saggio della Ambrosio prosegue sulla stessa linea, scandagliando quella preziosissima fonte di notizie costituita dal «Radiocorriere» ( «Radiorario» fino al 1930), ma focalizzandosi sull’emittente napoletana e addentrandosi nei meccanismi organizzativi, soprattutto relativi all’offerta musicale, del Centro di Produzione EIAR di Napoli negli anni a cavallo tra le due guerre. Con il saggio che segue, del collega Antonio Caroccia, l’ambito della ricerca e il suo approccio metodologico mutano completamente. Lo scritto è dedicato a una delle figure più importanti della musica contemporanea, Karlheinz Stockhausen, e precisamente alla sua riflessione teorica sulla musica in rapporto al tempo. Più di ogni altro compositore Stockhausen portò alle estreme conseguenze compositive il concetto di percezione temporale della musica, ricercando quel principio unificatore di tutte le forze fisiche che compongono il suono e utilizzando tutte le opportunità offerte dalla tecnologia. Il quarto saggio, del docente di fisarmonica del Conservatorio di Avellino Massimo Signorini, delinea la figura di Joe ‘Cornell’ Smelser, mitico fisarmonicista dell’orchestra di Duke Ellington che per la prima volta utilizzò questo strumento nel jazz. Lo scritto è impreziosito da una trascrizione dello stesso Signorini di un brano inedito di Smelser per fisarmonica jazz, Accordion Joe, e di alcune rarissime fotografie. Chiude la prima sezione una proposta didattica di Anita Pesce. L’autrice, tra i massimi esperti in Italia di storia dell’industria discografica, evidenzia l’utilità di percorsi di studio sulla registrazione e riproduzione del suono nei Conservatori di musica italiani. Tali corsi sarebbero molto utili particolarmente per Istituti, come quello di Avellino, che non solo svolgo9


no da anni collaudati percorsi formativi nel settore della musica elettronica con indirizzo ‘tecnico del suono’, ma conservano anche importanti raccolte di preziosi documenti sonori del passato su diversi supporti (vinili, nastri, audiocassette), destinati irrimediabilmente al deterioramento se non si acquisiscono competenze specialistiche su come trattare e tutelare questi materiali. La seconda parte de «I Quaderni del Conservatorio» è quella tradizionalmente dedicata ai lavori finali degli studenti del corso di Discipline storiche, critiche e analitiche della musica. Gli ultimi quattro laureati di questo corso di II livello hanno spaziato per le loro ricerche nei più diversi ambiti: dall’impegnativo e recentissimo approccio alla musicologia satirica nel raffronto fra gli scritti di Vladimir Jankélévitch e Giovanni Morelli ad opera di Rossella Gaglione (relatore prof. Antonio Caroccia) al lavoro di edizione critica dall’Annibale in Capua, opera di Pietro Andrea Ziani del 1661, a cura di Domenico Prebenna il quale, prendendo in esame tutte le fonti disponibili, propone un’edizione moderna (relatore prof. Antonio Caroccia); dall’originale approccio al ‘classico’ del chitarrista rock Yngwie J. Malmsteen indagato da Luca Sellitto (relatore prof. Gianvincenzo Cresta) ai risultati di una ricerca sul campo di Pietro Sgueglia in una comunità dell’Amazzonia peruviana (relatore prof.ssa Marina Marino). Per dare il giusto valore alle tesi in qualche caso i relatori si sono avvalsi anche dell’apporto di studiosi esterni che hanno messo a disposizione la loro esperienza con preziosi suggerimenti metodologici: Gianfranco Vinay dell’Université Paris 8 che ha seguito il lavoro di Rossella Gaglione e Giovanni Giuriati, professore ordinario di etnomusicologia presso l’Università “La Sapienza” di Roma per la tesi di Pietro Sgueglia. La sezione Note d’archivio, curata da Maria Luisa Donatiello, fa luce quest’anno su un piccolo ma significativo fondo di 100 Piedigrotte pubblicate tra il 1899 e il 1926 facenti parti della donazione ‘Mario Dell’Angelo’ della biblioteca del Conservatorio di Avellino. Spesso trascurati e negletti nelle biblioteche generali, questi materiali meritano adeguata attenzione perché non di rado rappresentano le uniche fonti esistenti per una consistente parte del repertorio della canzone napoletana. Nella sezione Interventi la collega Maria Pia Cellerino traccia un quadro conclusivo dell’esperienza legata al suo progetto intitolato Corollario italiano che negli ultimi tre anni l’ha vista impegnata a coinvolgere docenti e studenti del Conservatorio “Cimarosa” con lo scopo di far conoscere il repertorio dei compositori italiani. Come di consueto poi, la sezione si avvale del contributo di Eleonora Davide sulle numerosissime attività svolte dal Conservatorio di Avellino nel 2016, spesso in collaborazione con Università ed enti di ricerca e produzione musicale, a testimonianza di un sempre più intenso impegno dell’Istituto in campo culturale e di una sempre maggiore sua apertura verso la città e il territorio. Concludono il volume alcune recensioni di libri e dischi di recente pubblicazione. Avellino, 9 dicembre 2017

Tiziana Grande Marina Marino

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SAGGI Giuseppe Finizio LUIGI DENZA COMPOSITORE DI MUSICA VOCALE DA CAMERA Spesso il nome di un compositore è strettamente legato ad un’unica composizione e gli esempi in tal senso sono molteplici. Anche Luigi Denza, (Castellammare di Stabia, 23 Febbraio 1846, Londra, 27 Gennaio 1922) ha seguito tale destino e il suo nome è indissolubilmente legato a quello che ancora oggi è considerato uno, se non il brano più famoso del repertorio napoletano. Enrico Caruso, prima di diventare amico del compositore stabiese, nell’ascoltare una sua composizione ammise di non conoscerlo e quando il suo interlocutore fece il nome di Luigi Denza, subito Caruso: «Ah, quello di Funiculì, Funiculà?». Ma non si deve credere che Denza abbia cercato di ripudiare la sua canzone più famosa, anzi pare fosse sua abitudine concludere i concerti proprio con Funiculì, Funiculà cantata in coro da tutti, e anche nei salotti aristocratici spesso le serate si concludevano, complici l’ora tarda e qualche bicchierino di buon porto, con un repertorio più ‘leggero’. La storia della nascita di Funiculì, Funiculà ha varie versioni, noi ci limiteremo a leggere una cronaca del Settembre 1880: La canzone di Piedigrotta è nata, secondo tutte le apparenze, ieri domenica, 5 settembre, alle 10 pom., a Castellammare, allo Stabia Hall, dove il principe di Marsiconuovo e il maestro Luigi Denza organarono, a scopo di beneficenza, una bellissima serata. La nuova canzone commemora l’avvenimento locale, napoletano, più popolare dell’anno: la Funicolare – ed è felicemente riuscita. Le parole sono di un nostro collega in giornalismo, il signor Turco; la musica è del maestro Denza, ed è già sotto i torchi di casa Ricordi, che s’è affrettata ad accogliere il nuovo parto del simpatico compositore napoletano. Allo Stabia (Hall) la Funicolare, cantata e sonata egregiamente dalla compagnia Alfonso Fraschino, fu ripetuta quattro volte e contribuì certo essa pure a procurare ai poveri del paese un sollievo di quattrocento lire. Sia lode perciò a tutti; non è più possibile concepire un divertimento senza ricordarsi di chi soffre, come non c’è sorriso in cui, guardando bene non c’è una lacrima; e questo carattere è anche nella nuova canzone, che la colonia di Castellammare si propone di venire a cantare a Piedigrotta, domani sera.1

Che cosa sia lo Stabia Hall è presto detto: un edificio in legno, una sorta di chalet montato all’inizio della stagione estiva e smontato alle prime avvisaglie dell’inverno costruito per la prima volta nel 1879. Matilde Serao lo definiva «quel baraccone dello 1

La canzone di Piedigrotta (Denza, La Funicolare; dal “Piccolo”) in «Gazzetta musicale di Milano», Anno XXXV, n. 37 (12 settembre 1880), p. 298. 11


GIUSEPPE FINIZIO

Stabia Hall»,2 ma bisogna dire che la scrittrice napoletana ne parla in un momento di decadimento dell’edificio balneare di Castellammare che aveva vissuto, soprattutto all’inizio, stagioni di grande richiamo turistico con: […] l’ala sinistra addetta al Teatro […] nell’interno proprio al centro, si apre la gran sala da ballo. Vi sono annessi salotti per signore, fumatori, stanze da toilette e di servizio. Da una parte della gran Sala, un ampio viale per passeggiata, dall’altra un lungo loggiato sporgente a mare.3

Un luogo di sicuro richiamo per le molteplici attività e per quella passeggiata a mare che dà la possibilità alle signore di sfoggiare le proprie toilette e permette di ammirare lo spettacolo della natura con il sole che tramonta dietro l’isola d’Ischia e il Vesuvio in una prospettiva diversa da quella che si osserva da Napoli con il monte Somma a destra anziché a sinistra. Castellammare in quell’epoca è un luogo ameno e riconosciuto come meta turistica quasi obbligata tanto da far dire al De Bourcard che la moda, «impone che de’ mesi dell’anno se ne debbano passar quattro solamente a Napoli e otto girandolando per le sue vicinanze e i suoi contorni» e tra i contorni bisogna andare «in giugno, luglio, agosto e metà settembre a Castellammare, Sorrento, o più lungi ancora, verso la costiera di Amalfi».4 Lo Stabia Hall diventa un luogo di ritrovo e ‘Gigi’ Denza quando torna nella sua città natale, soprattutto nel periodo settembrino in cui a Napoli impazza la Piedigrotta, lo utilizzerà per presentare le sue nuove canzoni: Tirete ‘a renza di Gigi Denza, è la nuovissima, gentil cadenza di quest’autore, che ha genio e cuore. Sul palcoscenico del teatrino (il più carino che può vantare Castellammare) venne cantata da una brigata di popolari cantori e ha sollevato, nel molto pubblico ivi affollato, tale un delirio di acclamazioni, da far venire proprio i bordoni! Denza ha dovuto uscir sovente a ringraziare quella fremente folla entusiasta.

E l’articolo si conclude con un pensiero alquanto singolare: Tutto sommata [sic], fu un’incantevole, dolce serata; la cui mercé risulta che, stelle per stelle, sono più belle queste che splendono qui sulla terra, di tutte l’altre che il ciel rinserra. Così, dovendo studiare gli astri, senz’altri incastri - all’occorrenza - prescelgo Gigi al Padre Denza.5

É un momento magico per la cittadina stabiese, anche per merito delle sue terme e delle molteplici acque che sgorgano sul suo territorio e questo attrae molti turisti, anche quelli che oggi definiremmo del mordi e fuggi, visto che c’è sempre un treno a mezzanotte che li riporterà a casa: 2

MATILDE SERAO, La ballerina, Catania, Niccolò Giannotta Editore, 1899, p. 2. GIUSEPPE D’ANGELO, I Luoghi della memoria, Castellammare di Stabia, EIDOS, Nicola Longobardi editore, 1990, p. 103. 4 FRANCESCO DE BOURCARD, Usi e costumi di Napoli e contorni decritti e dipinti, Reprints Editoriali, 1976 (prima ed. 1853), p. 113. 5 Castellammare, 29 Agosto 1887, (Considerazioni varie. Denza “Tirete ‘a renza” versi di Pagliara), «Gazzetta musicale di Milano», Anno XLII, n. 36 (4 settembre 1887), pp. 271-72. 3

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LUIGI DENZA COMPOSITORE DI MUSICA VOCALE DA CAMERA

La sera e la notte di domenica ultima, Castellammare presentava uno spettacolo fantastico, in cui gareggiavano a produrre effetti sorprendenti ed inaspettati la luce argentea della luna, quella opalina dell’elettricità e la dorata del gas. Lo Stabia hall, che quest’anno s’è reso insuperabile per eleganza e varietà di attrattive, era pieno come un uovo in omaggio alla ‘premiere’ di due canzoni napoletane. Il nostro cav. Luigi Denza, reduce da Londra, e dopo gli allori annuali raccolti a Nizza, ha come al solito risalutato il natio loco con due canzoni, che presto faranno il giro di ogni regione ove si trovi un pianoforte od una chitarra. Il treno di mezzanotte ricondusse a Napoli una quantità notevole di pubblico distinto venuto apposta qui per la graziosa festa artistica, ma allo Stabia Hall non si risentì minimamente la loro partenza, tale era la folla elegantissima.6

Purtroppo come spesso accade ai luoghi che conosciamo ed amiamo, anche lo Stabia Hall vivrà momenti di decadimento e dopo alterne vicende, sarà distrutto definitivamente da un incendio nel 1911. Funiculì, Funiculà sembra raccogliere molti consensi anche tra compositori di un certo prestigio: è il caso di Richard Strauss che in Aus Italien, symphonic fantasy, Op. 16, inserirà la melodia di Denza nel quarto movimento, Neapolitanisches Volksleben (Vita quotidiana napoletana), e fin qui nulla di strano visto che il brano di Strauss è dedicato all’Italia, ma ciò che lascia sorpresi è il fatto che Aus Italien è stato scritto nel 1886, solo 6 anni dopo la nascita della canzone di Denza che in così pochi anni acquista fama e diventa, ‘uno standard internazionale’. Alfredo Casella in Italia, rapsodia per orchestra op.11 (1909) utilizza alla fine del brano, insieme ad un'altra famosa canzone napoletana, Marechiaro di Di Giacomo, Funiculì, Funiculà, in un crescendo in cui la melodia di Denza si trova perfettamente a suo agio, e ancora Rimsky Korsakov con il suo bellissimo arrangiamento per orchestra dal titolo Canzone napoletana, e Arnold Schönberg che scriverà un piccolo arrangiamento per clarinetto, mandolino, chitarra, violino, viola e violoncello nel 1921. Anche la politica si interessa del brano di Denza: Camillo Prampolini, uno dei fondatori dell’allora partito dei lavoratori che sarebbe diventato il Partito Socialista Italiano, utilizzando il testo di un operaio bresciano e la musica di Funiculì, Funiculà scriverà, nel 1893, Inno alla libertà. La scelta di utilizzare la melodia di Denza, che sicuramente non ha un carattere particolarmente ‘rivoluzionario’, è dettata probabilmente dalla sua popolarità: basta avere il testo dell’inno e tutti da subito lo possono cantare: Le plebi sotto il giogo del borghese, Languendo stan, languendo stan, Da fame stenti da pellagra offese, Morendo van, morendo van, Ma delle smorte plebi unite a un patto, Il dì verrà, il dì verrà, Ma il dì solenne e grande del riscatto, Presto verrà, presto verrà. 6

Bibliografia musicale. Le nuove canzoni di Piedigrotta (da Castellammare: Denza, “Tirete ‘a renza”, “Uocchie turchine”). «Gazzetta musicale di Milano», Anno XLII, n. 39 (25 settembre 1887), pp. 299 - 300. 13


GIUSEPPE FINIZIO

Su compagni liberi sorgiam, Su compagni su la fronte alziam Già splende il Sol dell'avvenir, Già splende il Sol dell'avvenir Di pace e libertà glorioso il Sol risplenderà, Di pace e libertà glorioso il Sol risplenderà.7

Un altro esempio dell’utilizzo di Funiculì, Funiculà è The motor car8 un brano inserito all’interno di una pantomima, Alladin del 1896, cantato da un famoso attore e cantante dell’epoca, John F. Scheridan; a quanto pare anche gli inglesi sembrano apprezzare la canzone di Denza: The other day we had a short vacation, I and mamma, also papa; We fixed on Brighton as our destination, By motor car; by motor car. We started off from Camberwell ‘hooraying,’ With loud ‘hurrah!,’ also ‘ha-ha!’ The people in the road stood still, and saying, ‘Oh, there they are! a motor car!’ Puffing, snorting, so peculiar! People shouting, ‘They don’t know where they are!’ They laughed at us – they laughed at pa, They laughed at me – they laughed at ma! When we went to Brighton on our famous motor car!

Insomma uno straordinario successo per una canzone che forse aveva la sola pretesa di essere cantata a Piedigrotta, ma del resto anche il milione di copie vendute da Ricordi lo dimostra ampiamente. Vittorio Paliotti affianca l’inizio della melodia, un pirotecnico intervallo di quarta ascendente, alla mossa melodica de Lo Zoccolaro, un brano inserito in 100 Celebri Canzoni Popolari Napolitane raccolte da Vincenzo De Meglio.9 Non sappiamo fino a che punto questa tesi sia valida, anche perché i due brani hanno un andamento melodico ed armonico completamente diverso, ma in ogni caso queste ipotesi di ‘plagio’ sono comuni a tanti musicisti ed è più probabile che questi ‘incidenti’ siano inconsci, (bisogna credere nella buona fede dei protagonisti). Denza però plagia se stesso, visto che questo ‘intervallo’ lo ritroveremo anche in una sua romanza del 1894 dal titolo A May Morning:

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CAMILLO PRAMPOLINI, Inno alla libertà, (trascrizione di un testo composto da un operaio bresciano anonimo). 8 Ringrazio Pino De Vivo, uno stabiese trapiantato a Londra per avermela fatta conoscere. 9 VITTORIO PALIOTTI, La canzone napoletana, ieri e oggi, Milano, Ricordi, 1962, p. 29. 14


LUIGI DENZA COMPOSITORE DI MUSICA VOCALE DA CAMERA

Figura 1 e 1a: A sinistra l’inizio de Lo Zoccolaro trascritta da V. De Meglio, a destra l’inizio di A May Morning di L. Denza

Dallo stesso Paliotti scopriamo anche quando e perché il grande Salvatore Di Giacomo scriverà la sua prima canzone: La canzone napoletana, nata dal popolo e dal popolo celebrata, attendeva ora il suo grande riformatore, il poeta che la ingentilisse e che la elevasse alle vette dell’arte. Il poeta si chiamerà Salvatore Di Giacomo10 e scriverà la sua prima canzone proprio per far dispetto all’autore dei versi di Funiculì, Funiculà.11

La canzone è Nannì, scritta con un altro grande musicista dell’epoca, Mario Costa, ma non ebbe, almeno all’inizio grande successo, anche se molti la consideravano «in grado di ridar sapore alla musica napoletana e di battere il successo ottenuto due anni prima da Funiculì, Funiculà»,12 ma così non sarà, la canzone di Denza e Turco manterrà il proprio predominio, ed in ultima analisi, un altro aspetto interessante del brano di Denza, riconosciuto da molti critici, è il modulo utilizzato: […] che sarebbe rimasto inalterato fino agli anni cinquanta del novecento […] Formalmente adottando lo schema che nella ‘musica leggera’ viene definito strofa – ritornello, […] questo procedimento non era nuovo, ma mentre prima era uno dei diversi possibili, dopo diventerà praticamente fisso».13

Luigi Denza sin da piccolo mostra una grande predisposizione per la musica e il padre, Giuseppe,14 amante lui stesso della musica, amico ed estimatore di Rossini e 10

Con Salvatore Di Giacomo, Denza scriverà un’unica canzone, Rosa nel 1907. VITTORIO PALIOTTI, La canzone napoletana, cit., p. 30. 12 Ivi, p. 34. 13 GIANFRANCO PLENIZIO, Lo core sperduto, la tradizione musicale napoletana e la canzone, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2009, p. 79. 14 «Giuseppe Denza, padre di Luigi […] si sposa in età matura (48 anni) con una giovane siciliana, Giuseppa Savora, di appena 18 anni [...] Dall’unione nacquero Ciro, l’8 Febbraio 1844, e Luigi Francesco Scipione, il 23 Febbraio 1846» in ANGELO ACAMPORA E GIUSEPPE D’ANGELO, Luigi 11

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GIUSEPPE FINIZIO

Bellini,15 sarà ben felice di assecondarne le capacità e tale vocazione «lo avviò ancora fanciullo, allo studio dei primi rudimenti della musica e lo fece accogliere appena sedicenne, nel Real Conservatorio di Napoli».16 La denominazione ufficiale del Conservatorio di Napoli nel 1862, anno in cui Denza viene ammesso, è Real Collegio di Musica di Napoli, Saverio Mercadante ne è il Direttore, Francesco Florimo l’archivista; il collegio ha un ordinamento datato 1856 17 in cui sono stabilite le regole della vita scolastica scandita da orari per lo studio, per il pranzo o per il riposo. Denza entrerà come detto nel 1862 come allievo esterno, a sedici anni, età adatta per la scuola di composizione ma non per quella di pianoforte i cui limiti di età sono fissati a quindici anni; egli ha già una buona preparazione musicale tanto da permettergli, dopo un primo periodo a pagamento di sei mesi corrispondenti al periodo di esperimento,18 di usufruire per i successivi sei mesi della piazza franca19 - ovvero della possibilità data agli alunni interni ed esterni del Real Collegio di musica di poter frequentare il collegio stesso in modo gratuito - attraverso un concorso ad esame, così come prescriveva il regolamento: «Non passarono molti mesi che in pubblici esperimenti di concorso, vinse il posto gratuito nelle scuole di pianoforte e di composizione».20

Denza il genio di Funiculì, Funiculà, Castellammare di Stabia, Nicola Longobardi Editore, 2001, p. 31. 15 Con Bellini il padre di Denza avrà una breve corrispondenza e tra le lettere, a detta dello stesso musicista stabiese: «ve ne sono due interessantissime che parlano della partizione della Norma». Castellamare di Stabia 1/10/80: Napoli, biblioteca del Conservatorio, Rari 19.23/69 olim 13.8.11/69 deinde Rari Lettere 19/70. Lettera trascritta in edizione critica in: ANTONIO CAROCCIA, Francesco Florimo e i suoi corrispondenti. Con appendici relative alla formazione e alla storia della biblioteca del Conservatorio di Napoli, tesi di dottorato in Storia, Scienze e Tecniche della musica, XXIV ciclo, Università degli Studi “Tor Vergata” di Roma, tutor professore Agostino Ziino. 16 Luigi Denza (medaglione), «Gazzetta musicale di Milano», Anno XXXIX, N. 11 (16 Marzo 1884), p. 103. 17 Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli Archivio storico [d’ora in poi CM NA as], San Pietro a Majella-preunitario, «Raccolta di Statuti Regolamenti ecc.», Atti sovrani riguardanti il riordinamento del Real Collegio di musica di Napoli, Napoli dalla stamperia reale 1856, vol.5. 18 «Art. 135. I primi sei mesi di assistenza alla scuola saranno di semplice esperimento. Scorso questo termine, l’alunno, la cui inclinazione ad apprendere la musica non sia confermata da favorevoli rapporti de’ maestri, verrà congedato», CM NA as, cit. 19 CM NA as, San Pietro a Majella-postunitario, «Lista di carico degli alunni 1862 -1863», inc. 1. 20 Luigi Denza (medaglione) cit. 16


LUIGI DENZA COMPOSITORE DI MUSICA VOCALE DA CAMERA

Figura 2: Lista di carico degli alunni a. 1862 -1863, particolare della registrazione di Luigi Denza, CM NA as, San Pietro a Majella-postunitario, inc.1

In un altro documento del 1864, sempre conservato nell’archivio storico del Conservatorio di Napoli, tra i 16 allievi in piazza franca per la classe di ‘Composizione, Contrappunto, Partimenti e Pianoforte’ è inserito il nome di Luigi Denza che ne usufruirà fino al 24 Febbraio 1868, cioè al compimento del suo ventiduesimo compleanno (anche se Denza è nato il 23)21 e la ragione è da ricercare nel fatto che il regolamento del Real Collegio oltre ad un limite di età per entrare, ne prevede anche uno per uscire e tale limite è fissato appunto a 22 anni:22

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CM NA as, San Pietro a Majella-preunitario, Ministeriali, «Posti franchi 1864», busta 73, fascicolo 50. 22 «Art.103. L’età di uscita dal Collegio è fermata indistintamente per tutti gli alunni agli anni 22 compiuti. Nulladimeno se un alunno per ragionevoli motivi facesse istanza di protrarre per altro tempo la sua dimora nello stabilimento, il Ministero, sulla proposizione del Governo, avvalorata da favorevoli assicurazioni del Rettore e del Direttore della musica, potrà accordare delle proroghe di sei mesi in sei mesi senza accedere in tutto tre anni.», CM NA as, cit. 17


GIUSEPPE FINIZIO

Figura 3: Posti franchi 1864, elenco degli alunni a piazza franca della classe di composizione contrappunto partimenti pianoforte, CM NA as, San Pietro a Majella-preunitario, Ministeriali, busta 73, fascicolo 50.

In un documento similare, ma per la scuola di violino, troviamo un altro nome eccellente che usufruisce della piazza franca, quello di Francesco Paolo Tosti la cui data d’uscita è prevista per l’11 aprile 1868, solo che Tosti andrà via due anni prima. L’amicizia tra Tosti e Denza inizierà proprio in quegli anni di collegio e in una lettera al fratello del 1865 Tosti scrive: 18


LUIGI DENZA COMPOSITORE DI MUSICA VOCALE DA CAMERA

Ora sono in convalescenza. Il giorno 30 venne il medico, e mi disse di prendere un poco d’aria di campagna, approfittai dell’occasione che il mio caro Denza era a Castellammare in famiglia, per le feste, e così mi recai colà ove mi sono alquanto divertito, sino a Capodanno.23

La loro amicizia durerà tutta la vita e molteplici sono gli attestati di stima e rispetto reciproci e finiranno a Londra ad abitare anche nello stesso quartiere. Ritornando a Denza, come si evince dal documento precedente, le classi che frequenterà sono quelle di Composizione e Contrappunto, di Partimenti e Pianoforte. Gli insegnanti sono sicuramente Paolo Serrao per la composizione e l’armonia affiancato da Saverio Mercadante il quale, se pur oberato dalle tante responsabilità, non lesina ‘preziosi consigli’: A professore di armonia e contrappunto ebbe l’egregio Serrao, e lo stesso vecchio Mercadante, quantunque affranto dagli anni e reso quasi inerte dall’invadente cecità, lo aiutò tuttavia coi suoi preziosi consigli e gli fu largo di gentile e costante benevolenza.24

Come secondo maestro di pianoforte nel febbraio del 1863 viene nominato Ferdinando Valente che chiederà anche di essere nominato sulla cattedra di primo pianoforte resasi vacante dalle dimissioni di Russo, ma che vedrà rifiutata la sua istanza. Denza rimarrà in collegio per sei anni studiando, come era ‘buona abitudine’ per gli studenti di composizione dell’epoca, anche canto. Come molti suoi colleghi compositori sarà lui stesso un ottimo cantante e quando nel 1887 si trasferirà a Londra, diventerà anche un apprezzato insegnante di canto, prima alla London Accademy of Music (1887) e successivamente alla Royal Accademy of Music di Londra (1898). La produzione musicale di Luigi Denza è sostanzialmente composta da musica vocale da camera se si esclude una serie di composizioni per pianoforte25 e un’opera, Wallenstein, eseguita al Teatro Mercadante (già teatro del Fondo) di Napoli nel 1876. A quanto pare il risultato non fu esaltante, anche se un critico dell’epoca ne parla in modo lusinghiero:

23

FRANCESCO SANVITALE, Il canto di una vita, Torino, E.D.T., 1996, p. 6. Luigi Denza (medaglione) cit. In quegli anni Mercadante è ‘Direttore della musica’ del Real Collegio e ha un gran da fare per risolvere vari problemi: allievi che se le danno di santa ragione oppure che si allontanano facendo perdere le loro tracce, pianoforti rotti e quindi richiesta per l’affitto di altri pianoforti, coppole per gli allievi da comprare, e anche una diatriba con il primo maestro di pianoforte, Michelangelo Russo che in occasione della nomina del secondo maestro di pianoforte ha una condotta che non piace a Mercadante, che deciderà di sospenderlo per un mese «dall’esercizio del suo ufficio e del godimento dello stipendio». 25 Tra i pezzi per pianoforte ricordiamo Estasi, Una gita a Pompei, Un sospiro, Tre minuti di malinconia, Estasi d'amore, Coquette, Notturnino in la bemolle, Sospiro, Notturno in la bemolle, cfr. RAOUL MELONCELLI, Denza Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, vol. 38,1990. 24

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[…] e prima di tutto vi discorrerò in breve del Vallestein , prima opera del maestro Denza. Questo giovane uscito dal nostro Conservatorio, dove ha studiato con Serrao, è colto, studioso, tratta la scena abbastanza bene, cura molto la fattura de’ suoi pezzi; in questa opera lo strumentale è ben disposto, vario e fiorito, corretta la disposizione delle parti; insomma come primo saggio di un giovane, questo Vallenstein è lavoro commendevole e parla in pro degli studi ben fatti dall’autore, che può far onore all’arte ed al paese.26

In definitiva una buona critica ma probabilmente non sufficiente per convincere Denza a proseguire quel percorso ostico del melodramma, preferendo quello della romanza che offre «approcci più semplici e sicuri senza dimenticare i risvolti sociali e di costume, importantissimi».27 E probabilmente anche questo aspetto sociale e di costume interessa Denza, offrendogli la possibilità di organizzare concerti e incontri musicali nei salotti o nei luoghi come lo Stabia Hall di Castellammare o il Princes Hall di Londra per promuovere la propria musica, come si evince da un articolo del 1889: Il grande concerto dato dal celebre compositore Luigi Denza, nella Princes hall (Piccadilly), sortì un esito davvero straordinario. Il programma ampio e vastissimo, portava, su ventiquattro numeri, sedici composizioni del Denza, che tutte ebbero grandissimo incontro. Stando anzi alla interessante relazione del giornale The Society Herald, i pezzi del chiaro musicista, “Dolce canzone”, “Tardi” eseguite per la prima volta, l’altra “Call me back”, quella: “Turn,time,turn”, L’ “Occhi neri”, il duetto “Voga,voga”, e soprattutto il popolarissimo “Funiculì, funiculà”, con l’a solo cantato da Carpi, destarono vero entusiasmo.28

Il florido e variegato mercato dell’editoria musicale (Ricordi in prima fila) gli permetterà di poter vivere dei proventi delle vendite delle partiture, sebbene, per poter disporre di entrate più sicure, si dedicherà anche all’insegnamento. T’allicuorde e Giulia, due romanze scritte tra il 1869 e il 1870, sono tra i primi lavori di Denza. Testo in dialetto napoletano per la prima, in italiano per la seconda; simili nella struttura (A1, A2; A3,…); una melodia bella ed elegante come quasi tutte le melodie del compositore stabiese; un’introduzione di quattro battute che nel caso di T’allicuorde anticipa la parte vocale, mentre in Giulia è autonoma rispetto alla linea di canto; struttura metrica con il classico periodo doppio a 16 battute (8+8); inizio in tonalità minore che sfocia in un’apertura al relativo maggiore subito dopo il primo periodo di 8 battute. Altro elemento caratterizzante è la sesta napoletana, che si presenta in ambedue i brani già dalla prima battuta; una presenza che rappresenta il sugello di una scuola storica. L’accompagnamento pianistico è semplice e sufficiente, anche per dare respiro al cantante ed aiutarlo nei momenti salienti con raddoppi a terze o ad unisono. La struttura armonica risulta interessante per alcuni aspetti, come 26

Denza, Vallenstein opera nuova, «Gazzetta musicale di Milano», Anno XXXI, N. 27 (2 Luglio 1876), pp. 230-31. 27 La romanza italiana da salotto, a cura di Francesco Sanvitale, Torino, E.D.T., 2001, p. 3. 28 Londra [concerto annuale di Luigi Denza nel Prince’s Hall; musiche eseguite], «Gazzetta musicale di Milano», Anno XLIV, N. 26 (30 Giugno 1889), p. 419. 20


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evidenziato da Gianfranco Plenizio: in T’allicuorde la sesta napoletana risolve sulla classica cadenza I-V-I, ma prima di risolvere sul primo grado c’è un passaggio con un accordo diminuito, accordo ottenuto semplicemente riportando il Mib al suo stato naturale. Questo elemento Plenizio lo definisce ‘medietas’ considerandolo un elemento distintivo della musica di Denza.29A questo se ne può aggiungere un altro, l’abitudine di utilizzare spesso appoggiature sulla linea melodica che ritardano l’accordo, producendo un effetto di sospensione e che rendono la melodia più accattivante. Per quanto concerne i testi Denza collaborerà con molti autori, alcuni professionisti, altri dilettanti di ‘qualità’ come politici, medici, avvocati o commercianti che si dilettavano a scrivere testi spesso con ottimi risultati. Tra gli autori ricordiamo Enrico Bonadia, soprattutto nell’ambito delle canzoni napoletane, Rocco Emanuele Pagliara, che si interessò anche di tradurre in italiano brani originariamente scritti in inglese, ed ancora alcune poetesse - Fausta Falcioni, Emma Lais, Flora Piccoli Mancini, quest’ultima anche cantante e pianista - oltre naturalmente molti poeti inglesi quali ‘l’avvocato’ Frederic Edward Weatherly e Ellis Walton, pseudonimo di Mrs F. Percy Cotton. Non è scopo di questo breve contributo approfondire la struttura e il contenuto dei testi dei brani di Denza (e in generale del periodo in questione), né vogliamo cavalcare un’ipotesi o l’altra rispetto alla qualità degli stessi, ma è innegabile che la nostra sensibilità (o non sensibilità) odierna, poco accetta le modalità di scrittura utilizzate in quel periodo, anche se a ragionarci bene, gli argomenti non sembrano essere cambiati di molto: amore, tradimento, morte sono ancora largamente usati. Pierre Schaeffer, padre della musique concrète, diceva: «In effetti, con mezzi diversi la musica si rivolge sempre all’uomo. Le nostre costanti non si sono mosse da millenni.»30

29

GIANFRANCO PLENIZIO, Lo core sperduto, la tradizione musicale napoletana e la canzone, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2009, p. 95. 30 PIERRE SCHAEFFER, Musica sperimentale, concreta, elettronica, elettro acustica, Storia Universale della Musica. Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1982, p.338. Oggi è più facile accettare un verso del tipo: ‘sull’autostrada cercavi la vita, ma ti ha incontrato la morte’ (Canzone per un’amica, testo e musica di Francesco Guccini) anziché, ‘l’han creduta malata d’etisia! Ora è morta e me l’han portata via!’ (Giulia, musica di Luigi Denza, testo di Edoardo Randegger). 21


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In queste prime esperienze si riconosce quello che sarà il ‘segno’ del compositore stabiese, una capacità di inventiva melodica riconosciutagli da molti critici anche se la ‘semplicità’ degli accompagnamenti pianistici nonché la struttura armonica giudicata non sempre sufficiente non gli concede giudizi benevoli. Tuttavia qualche critico prova a dare una spiegazione logica a tutto ciò: Denza fra gli scrittori moderni di musica da camera per canto è quello che ci tiene, a preferenza degli altri, ad essere semplice negli accompagnamenti, a non guastare la melodia con esagerazioni armoniche che svisano molte volte la serenità, l’ingenuità della forma, e che, napolitano come egli è, evidentemente preferisce, anzi vuole, che la sua musica sia accessibile ed alla portata della natura facile de’ suoi compatrioti del mezzogiorno […].31

Per quel genere di musica i ‘fruitori’ erano alquanto eterogenei e le composizioni trovavano asilo non solo nei salotti aristocratici o nelle sale da concerto, ma anche in luoghi più ‘popolari’: Il signor Denza è un artista simpaticissimo. Popolare a Napoli, suo paese, amatissimo a Londra, dove passa di solito l’estate, egli seppe, col suo triplice talento di compositore, d’accompagnatore e di cantante, crearsi un’autorità artistica incontestata, e rendere, in pari tempo molti servigi. Le sue composizioni, melodie, romanze, barcarole, di gusto italiano, i suoi canti napoletani, sono apprezzatissimi in Italia. Vi si trovano una melodia schietta, un’armonia pura, modulazioni eleganti. Ma i trionfi dei concerti o delle sale non fanno trascurare al giovane maestro la musa popolare del suo paese. Non gli dispiace di sentire il ‘guaglione’ napoletano ripetere nelle trattorie di Santa Lucia o di Posillipo i suoi ritornelli o le sue canzonette d’attualità locale, come Funiculì, Funiculà o le sue produzioni popolari più recenti, La Polenta e Lo Telefono, pubblicate nello scorso Settembre, in occasione della celebre festa di Piedigrotta.32

Una critica assolutamente positiva, ma si sa, il mondo è variegato e qualche volta la critica è meno benevola: Luigi Denza, napoletano, ha camminato dapprincipio, anche lui, come Rotoli,33 un po’ sulle tracce di Tosti ed ora è divenuto uno degli autori da camera preferiti, anche a Londra e a Parigi, per la fluidità del pensiero melodico e un certo garbo nel comporre. Gli mancano però la invenzione, la originalità, e spesse volte per riuscire facile, semplice, scorrevole, riesce comune.34

31

Tessarin, (Composizioni musicali di Luigi Denza), «Gazzetta musicale di Milano», Anno XXXII, N. 23 (4 Giugno 1882), pp. 203-04. 32 Notizie estere. Nizza (dal “Monde Elegant”: relazione sul concerto del maestro Denza con proprie musiche). «Gazzetta musicale di Milano», Anno XXXVIII, N. 9 (4 Marzo 1883), pp. 90-91. 33 Augusto Rotoli (Roma, 17 gennaio 1847 – Boston, 26 novembre 1904), compositore italiano, allievo di Ludovico Lucchesi e come Denza, Tosti ed altri compositori dell’epoca, diventa un ottimo cantante, inizialmente come voce di soprano, e dopo il mutamento della voce, un tenore lirico leggero. Fu amico di Francesco Paolo Tosti che lo introdusse presso gli ambienti culturali di Londra. 34 Filippi Bibliografia (…Nuove pubblicazioni di L.Denza…). «Gazzetta musicale di Milano», Anno XXXVI, N. 5 (30 gennaio 1881), pp. 47-48. 24


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Nel 1877 Denza parteciperà ad un concerto a Roma nell’ambasciata francese a Palazzo Farnese che gli permetterà, tra gli altri, di eseguire alla presenza dei principi di Piemonte un suo brano scritto per l’occasione. Il brano è Tu manchi, o fiore! con parole di Nunzio Federigo Faraglia:

Figura 6 e 6a: A sinistra, frontespizio del 1877 dedicato A Sua Altezza Reale la Principessa di Piemonte, a destra copertina dell’edizioni Ricordi del 1884 con dedica alla stessa principessa ormai diventata regina.

Di questo concerto c’è una piccola cronaca di quell’anno: Roma. Nel giorno 4 corrente in casa del Sig. Marchese di Noailles35 ebbe luogo una serata alla quale intervennero i Reali principi, ed il corpo diplomatico. Si fece buona musica; tra gli altri pezzi si eseguì la Serenata del Maestro Denza scritta espressamente pel Marchese di Noilles in Castellammare: presero parte a questa musica i Maestri Belisario, de Cristofano e Silvestri, non che il Signor Panzetti e la Signora Nascio.36

L’apprezzamento dei Reali italiani, soprattutto quello della regina Margherita, è sicuramente molto importante per il giovane compositore stabiese, che potrà con più energie continuare la propria carriera proponendosi nei salotti e nelle sale da concerto di mezza Europa, oltre che in Italia anche a Parigi, Londra, Berlino, e persino a Mosca.37 35

All’epoca ambasciatore francese in Italia alla cui moglie Laura, Denza dedicò un brano, Ricordo di Quisisana, con parole di Eduardo Jammi console francese a Castellammare di Stabia, cfr. ANGELO ACAMPORA e GIUSEPPE D’ANGELO, Luigi Denza il genio di Funiculì, Funiculà, Castellammare di Stabia, Nicola Longobardi Editore, 2001, p. 34. 36 Roma, (Concerto in casa del marchese di Noailles, con l’esecuzione della serenata di Luigi Denza), «La Musica», Anno II, N. 7 (7 Aprile 1877), p. 47. 37 In una lettera di Denza indirizzata a Francesco Florimo, il compositore stabiese scrive: “vi pregherei di spedire i pezzi a mio fratello (Ciro Denza Castellammare) e sarà sua cura farvene tenere 25


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La produzione vocale di Denza si compone ovviamente anche di canzoni napoletane, alcune scritte per le varie edizioni della Piedigrotta38 e che spesso sono da considerare vere e proprie romanze in dialetto; le strutture talvolta prediligono la forma ‘strofa/ritornello’, mentre in alcuni casi rimandano al passato con forme più vicine a quelle che si riconoscono nelle raccolte di Cottrau o di De Meglio. L’editore Ricordi sarà sempre puntuale nella pubblicazione dei brani di Denza, spesso realizzate in piccole o grandi raccolte. Nel caso della produzione “napoletana”, sicuramente quella più corposa, pubblica le quaranta melodie napoletane (in due fascicoli) con il titolo Dal Golfo di Napoli. Gli editori dell’epoca erano premurosi nell’inviare ai vari giornali specializzati le loro ultime pubblicazioni sperando in una critica positiva: Ho sul tavolo due eleganti volumi di melodie di Luigi Denza, dal titolo: Dal Golfo di Napoli. In ogni volume ci sono venti romanze, colla poesia in dialetto napoletano ed in lingua italiana. La copertina, lavoro del bravo Montalti, è indovinata felicemente, per quanto semplice, rappresenta il Golfo di Napoli, sparso di barchette allegre, dalle quali si sente il canto del marinaro, che pensa alla sua diletta, e si conforta nel sorriso placido delle onde.

L’articolo continua e si conclude con un’esortazione commerciale per l’acquisto della raccolta: Voi, gentile signora, che siete stata a Napoli ed avete goduto tanto di quella vita allegra e spensierata, che avete inteso tante volte, con immenso diletto, quelle canzoni piene di sensi schiettamente amorosi, voi che sapete così bene suonare e cantare, potete fare a meno di comprare questi due volumi, che, a parte tutto, sono due gingilli che accrescono ornamento al profumato vostro salotto? E badate che il costo è abbastanza mite; ogni volume si vende per lire 3.00 (netti), una vera bagattella, quando si pensa che spesso una sola romanza costa tre lire.39

Non c’è che dire, una bella pubblicità e l’articolista può dare dei numeri anche al più smaliziato esperto di marketing odierno. La produzione musicale di Denza è composta anche di innumerevoli romanze in italiano, francese e tedesco oltre a ‘songs’ inglesi che Denza scriverà durante il suo lunghissimo (30 anni) soggiorno a Londra, riuscendo sempre ad ‘integrarsi’ da un punto di vista melodico ed armonico, con il gusto musicale di questo o quel paese:

l’importo. La copia mia potrete spedirla Hotel de Russie Moscov. Dopo domani partirò per Berlino, indi Mosca”. [Castellamare di Stabia, a ] 4/9/79 collocazione: Napoli, biblioteca del Conservatorio, Rari 19.23/71 olim 13.8.11/71 deinde Rari Lettere 19/72. ANTONIO CAROCCIA, cit. 38 La prima canzone scritta da Denza per la Piedigrotta è proprio Funiculì, Funiculà, nel 1880, seguita da altri brani fino al 1892, anno in cui pubblicherà “due bozzetti popolari” dal titolo La fatella mia che saranno gli ultimi scritti per la festa napoletana dal compositore stabiese. 39 Bibliografia musicale, (il fumatore Luigi Denza, Dal Golfo di Napoli), «Gazzetta musicale di Milano», Anno XLI, N. 46 (14 Novembre1886), p. 336. 26


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Gigi Denza, una decina d’anni fa, quando tutti credevano che la povera canzone fosse morta e si dissolvesse miseramente, si accorse che la furbetta sonnecchiava beata, come a ristorarsi un po’. Le si avvicinò pian piano, con quel suo sorriso sereno e biricchino sulle labbra, e, con una sottil piuma di pacone, cominciò a carezzare, solleticandola…Ella, la piccola fata, si riscosse, sorrise anche lei e balzò in piedi, saltando al collo del suo novo travatore! Così nacque quel T’allicuorde! tutto vero sentimento napoletano, così quello ormai celebre Funiculì, Funiculà, così Lo Telefono, Zin,zin, Uocchie nire, e Napole!, Duorme, Uocchie turchine!, tra una Piedigrotta e l’altra, tra un viaggio a Londra, Parigi o a Mosca, il trovatore non ha perduto il suo tempo, e si è tuffato nel mare azzurro delle sirene, a raccogliervi tutte quelle perle leggiadre con le quali, poi, da esperto gioielliere, ha intessuto il monile prezioso ch’ è la raccolta Dal Golfo di Napoli!. Qui lo considero soltanto come canzoniere napoletano. Non parlo delle sue innumerevoli romanze con testo italiano, francese ed inglese; ne è a caso. Perché egli, Gigi Denza, che ha nella sua natura tanta facile versatilità, che ha sì duttile l’ingegno, da scrivere la romanza d’Italia, di Francia o d’Albione secondo il tipo più spiccato di ognuno di questi paesi, e che farebbe lo stesso se dovesse scrivere una melodia cinese od ottentota, qui è il nostro Sordello o il nostro Bernardo di Ventaduor!40

Per questo genere di brani Denza preferirà la forma A, B, C…con eventuali varianti tipo A, B, A, C…, con uno stile scorrevole e melodie accattivanti, trattate con eleganza anche da un punto di vista armonico, e molte di queste composizioni scritte originalmente in lingua inglese, saranno tradotte in francese, tedesco e…in italiano. Denza, oltre che apprezzato compositore ed insegnante, a Londra si farà conoscere anche come organizzatore di concerti; famoso il suo ‘Annual Grand Evening Concert’ nella prestigiosa Princes’Hall a Piccadilly, dove è possibile ascoltare nomi famosi del panorama musicale dell’epoca, siano essi cantanti, strumentisti o compositori. Luigi Denza non è soltanto un compositore popolare, ma è un organizzatore di concerti come ve ne sono pochi. I suoi concerti infatti, come quello di ieri sera, si svolgono sempre con ordine modello ed il pubblico vi digerisce magari 32 numeri con relativi bis senza fiatare, anzi mostrando di divertirsi un mondo. Gli è che il maestro Denza non trascura nessun mezzo per riuscire, e spende dei quattrini sonanti in annunzi sui giornali, in avvisi grandi e piccoli, sul libretto colle parole delle romanze cantate nel concerto. Se aggiungete a tutto ciò che ieri sera egli disponeva di un vero esercito d’artisti di primo ordine, dovrete convenire che il successo non poteva mancargli.41

Il concerto annuale di Denza diventerà per le ‘seasons’ inglesi un tradizionale appuntamento e darà modo anche agli allievi del maestro, di presentarsi ad una platea più vasta: Gli artisti erano tutti scolari di Denza – ora direttore-proprietario della London Accademy of Music – ad eccezione del baritono De Lara, che seppe produrre un ottimo effetto, colla bella canzone Light of the day, scritta espressamente per lui dal Denza. Chiuse la 40

E. DE ROSA, Piedigrotta. Castellammare, 29 Agosto 1887 (Concerto di Luigi Denza), «Gazzetta musicale di Milano», Anno XLIII, N. 23 (3 Giugno 1888), pp. 217-18. 41 Corrispondenze, C. L. Londra, 17 Maggio, (Princess’Hall: concerto di Luigi Denza), «Gazzetta musicale di Milano», Anno XL, N. 21 (24 Maggio 1885), pp. 189-90. 27


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bella serata il Funiculì, Funiculà, cantato in coro da tutti gli artisti, con a solo del tenore Williams – un coloured gentleman, come per eufemismo dicono gli americani – che ha una voce simpatica cha sa modulare con maestria e gusto. Una prova che il concerto annuale del Denza è uno dei migliori della season si è questa, che il pubblico rimase sino all’ultimo pezzo (cosa fenomenale) e che di ogni pezzo insistè per avere il bis.42

Il coloured gentleman parteciperà ad altri concerti di Denza, insieme anche ad un’allieva del maestro, M.lle Leila Dufour che nel 1890 diventerà sua moglie: […] La nuova romanza francese: Vous ne m’aimez plus, pure di Denza, interpretata stupendamente da M.lle Dufour – un’allieva che gli fa molto onore – ed i duetti Sweet hour e Nocturne, anch’essi del concertista, quest’ultimo reso con molta raffinatezza da M.lle Dofour e da un tenorino di grazia appartenente alla razza nera, rispondente al nome di M.r Harry Williams.43

Da quest’unione nascerà un unico figlio, Luigi Carlo, che però non seguirà le orme del padre. La famiglia andrà ad abitare a St. Johns Wood,44 un quartiere di Londra famoso anche per aver ospitato altri musicisti:45 Epperò egli a Londra, come uno dei più luminosi fari della tradizionale, impareggiabile melodia italiana, vive stimato, amato, onorato, vive dividendo il suo cuore nell’affetto verso l’arte, verso il proprio figliuolo e verso gli amici; verso il figliuolo che cresce intelligente, buono, cortese, amabilissimo, fulgida promessa nella vita e nell’arte, amatissimo della musica, ma orientato al diapason dell’inglesismo, tutto dedito alle matematiche – verso gli amici, chè la sua casa, se è un tempio d’arte, è altresì un’oasi di cortesia e di amabilità. Laggiù a St. John’s Wood, il suo tranquillo villino, recinto da aiuole policrome, da biancospini in tutto fiore, è la mecca, è l’anelato, esilarante, ideale ritrovo di tutti gli Artisti Italiani, che convengono nella City durante la grande season primaverile. Là Puccini, Martucci, Sgambati, Mascagni, Mancinelli, Consolo, e Tamagno, De Lucia, Caruso, ecc., si deliziano della sua affabilissima ospitalità.46

Riunioni tra musicisti dove presumibilmente si fa musica e si discorre delle cose d’arte e perché no anche di argomenti più frivoli, ma l’educazione vuole che alla fine della serata ogni ospite lasci un saluto scritto e personalizzato alla padrona di casa:

42

Londra (Concerto Denza; il giudizio di Nick-Bettone sulla gazzetta piemontese), «Gazzetta musicale di Milano», Anno XLVI, N. 23 (7 Giugno 1891), pp. 375-76. 43 Corrispondenze. C. L. Londra, 27 Maggio (considerazioni varie), «Gazzetta musicale di Milano», Anno XLII, N. 36 (4 Settembre 1887), pp. 271-72. 44 Una strada di St. Johns Wood è la Abbey Road, con le strisce pedonali più famose del mondo, immortalate in una celebre foto dei Beatles. La strada diventerà anche il titolo dell’album pubblicato nel 1969 dal famoso gruppo inglese, di cui la foto ne è la copertina. 45 Anche Tosti abiterà nello stesso quartiere: Denza al 16 Abercorn Place, mentre Tosti al 52 Wellington Rd. 46 Luigi Denza [profilo biografico; le sue composizioni; la sua vita a Londra; l'amicizia con Mancinelli e Caruso], «Musica e musicisti», Anno [LIX] 59. Vol. 2o, N. 11 (15 Novembre 1904), pp. 669-71. 28


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Figure 7 e 7a: Due simpatici biglietti di saluto di Francesco Paolo Tosti e di Ferruccio Busoni.47

Denza vivrà a Londra per oltre trent’anni e le visite alla sua città natale diventeranno negli ultimi anni sempre più diradate, tanto da convincere il sindaco della città campana dell’epoca a scrivergli nel 1921 una lettera per invitarlo a Castellammare. Denza risponderà,48dicendosi impossibilitato ad andare quell’anno ma promettendo di andarci l’anno successivo. Ma ahimè, così com’è il destino dell’uomo, Denza non riuscirà a ritornare a Castellammare perché si spegnerà il 27 Gennaio del 1922. Il necrologio pubblicato dopo la sua morte è una critica alquanto velenosa, poco consona a quello che dovrebbe essere il ricordo di una persona che non c’è più: 47

I biglietti ed alcune partiture mi sono stati gentilmente concessi da Luigi Denza, uno dei pronipoti italiani ancora in vita del musicista di Castellammare di Stabia e residente in Italia a Piano di Sorrento. 48 ANGELO ACAMPORA e GIUSEPPE D’ANGELO, Luigi Denza cit., p. 48. 29


GIUSEPPE FINIZIO

[…] Questa roba valeva in verità assai poco: il suo successo era determinato in parte dalla facilità delle melodie, così dette orecchiabili, in parte dal pessimo gusto musicale in Italia; su molli versi di facili rimatori, ahimè, i «versi per musica» si adagiavano blandamente melodie anemiche, d’ultimo chiaro di luna romantico, frastagliati da incisi del più falso recitativo, con il sostegno della più insipida armonia […]49

A quanto pare la morte di Denza è l’occasione per esprimere dubbi ed opinioni alquanto dure non solo nei suoi confronti, ma anche verso altri musicisti dell’epoca, accusati tra l’altro di aver impedito con la loro musica la diffusione delle melodie di Gounod, Bizet e Massenet, confondendo come spesso fanno i critici, il gusto personale con quello più ampio del pubblico che ascolta. Ma la cattiva fede di questo critico è dimostrabile perché la sua ipotesi di “insipida armonia” usata per Denza non è riscontrabile nelle partiture del musicista stabiese, che pur non raggiungendo vette straordinarie, mantiene una propria dignità, e soprattutto sembra aver ben assimilato gli insegnamenti di Serrao e in generale della ‘scuola napoletana’. Denza fa la sua parte, è sicuramente un musicista più ‘pratico’ rispetto agli stessi suoi amici compositori dell’epoca (probabilmente questa sua praticità gli deriva anche dal fatto di essere figlio di un albergatore/imprenditore), ma non tradisce mai la sua natura musicale in cui, secondo la più pura tradizione napoletana, una musica funziona se riesci a cantarla e all’opposto, una linea vocale funziona se riesci a suonarla, e quelle di Denza si suonano tutte. Ringraziamenti: Questo piccolo contributo è nato quasi per caso, e non posso non ringraziare le persone che in qualche modo, anche inconsciamente, mi hanno convinto a realizzarlo. Innanzitutto devo ringraziare Gino Coppola, presidente della Pro Loco di Castellammare di Stabia, con cui ho condiviso l’idea di un concerto da dedicare al compositore stabiese, il pronipote del musicista che porta lo stesso nome e da cui ho avuto le prime notizie e partiture, Tiziana Grande, bibliotecaria del Conservatorio Cimarosa di Avellino che mi ha aiutato a consultare molti documenti on line riguardanti il compositore, Marina Marino per i suoi utili consigli, Antonio Caroccia per avermi aiutato nell’acquisizione di alcuni contributi storici, a Tommasina Boccia, dell’Archivio Storico del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, che si è resa disponibile per le ricerche nello stesso archivio, al compositore Gianvincenzo Cresta per le utili discussioni sull’argomento, all’amico londinese Pino De Vivo per alcuni contributi e che ha avuto modo di conoscere a Londra John Denza, pronipote diretto del musicista stabiese. Infine Cristian Izzo, Anna Spagnuolo, Lello Giulivo, Francesca Pia Vitale, Patrizia Maggio, Pietro Calzolari, Simone Basso, Silvano Maria Fusco, Livia Guari49

A. D. C., Luigi Denza [Cenni biografici su questo compositore, morto nel gennaio del 1922. Studi al Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli con Mercadante. Massimo della carriera a Londra, con la docenza di canto alla Reale Accademia di Musica. Grande successo delle sue canzoni napoletane e romanze da camera. Fra tutte: Funiculì-Funiculà. Motivo: grande facilità delle melodie, fin troppo orecchiabili. Ultimo chiaro di luna del Romanticismo. Citati anche Tosti e Costa], «La Critica musicale», Anno V, fascicolo 3 (Firenze, marzo 1922), pp. 75-76. 30


LUIGI DENZA COMPOSITORE DI MUSICA VOCALE DA CAMERA

no, con cui ho condiviso l’esperienza di un concerto dedicato a Luigi Denza realizzato il 7 Luglio 2017 nell’Auditorium “Vincenzo Vitale” del Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino. Grazie a tutti.

Figura 8: Portrait of Luigi Denza. Black and white photograph. McConn colletion, Royal Accademy of London. .

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Maria Adele Ambrosio RADIO NAPOLI. STORIA, RICEZIONE E PROGRAMMAZIONE MUSICALE TRA IL 1926 E IL 1945 La nascita e i primi sviluppi 1 È il 28 ottobre 1926 quando, in terra partenopea, nasce Radio Napoli, prima emittente radiofonica del meridione.2 La data inaugurale è preceduta da alcune trasmissioni configurate come prove tecniche, trasmissioni che, per le difficoltà iniziali di ricezione dovute a interferenze, vengono effettuate su diverse lunghezze d'onda,3 per attestarsi alla fine sui 333,3 metri, conformemente a quanto stabilito per la stazione di Napoli dal «Piano di Ginevra».4 1

Antecedenti di Radio Napoli erano state Radio Roma, tenuta a battesimo il 6 ottobre 1924, e Radio Milano, che aveva visto la luce l'8 dicembre 1925. È d'uopo precisare come, per quanto le prime tre stazioni radiofoniche italiane (Roma, Milano e Napoli) risalgano tutte alla terza decade del XX secolo, in realtà, la possibilità di utilizzare la radiofonia ad uso civile nell'ambito di un'organizzazione di tipo commerciale viene intuita dal Governo italiano già nel 1910 quando, con Legge n. 395 del 30 giugno, lo Stato avoca a sé l'esclusiva per le comunicazioni radio per ragioni di sicurezza nazionale, facendo salva, tuttavia, una generica possibilità di rilascio di concessioni a privati. Dopo la pausa forzata dovuta agli eventi bellici e alla crisi postbellica, tale possibilità si concretizza con il Regio decreto 8 febbraio 1923 n. 1067 con il quale il Governo Mussolini affida al Ministero delle Poste il potere di nomina dei concessionari, unitamente a un penetrante potere di controllo. Come conseguenza diretta di questi atti normativi vengono a crearsi le diverse stazioni che vanno negli anni a formare la rete radiofonica italiana, a partire, appunto, dalle tre stazioni di Roma, Milano e Napoli. 2 L'evento è registrato dal numero 48 del 27 novembre 1926 del «Radiorario». La testata, sul numero 1 del 18 gennaio 1925, con il primitivo nome di «Radio Orario», si presenta come periodico settimanale e organo ufficiale dell'Unione Radiofonica Italiana (URI) e, come si può leggere nella presentazione “Ai lettori”, «sorge collo scopo di fornire i programmi delle Stazioni Italiane e delle Stazioni Europee trasmettitrici di radio diffusioni circolari, che possono essere udite in Italia». Il periodico mantiene il suo nome anche quando tre anni dopo, nel 1928, la URI viene trasformata in Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR), mutandolo in «Radiocorriere» solo nel 1930, allorché la direzione generale dell'ente è trasferita da Milano a Torino. 3 Più precisamente tra metri 327 e metri 338, come risulta da «Radiorario», II/42, 17 ottobre 1926, p. 3. 4 Notizia di tali prove tecniche era stata riportata nel numero 41 del 10 ottobre 1926 del «Radiorario», dove in un annuncio dell'Ente si poteva leggere che le prove, iniziate il 28 settembre, avvenivano di sera, in due fasce orarie, dalle 22.00 alle 22.30 e dalle 23.30 alla mezzanotte ed erano eseguite nella stessa sala del trasmettitore, in attesa di utilizzare, quanto prima, un apposito auditorium. L'annuncio, poi, nel suo seguito recava notizia di una ricezione di notevole qualità in «varie parti d'Italia», nonostante la presenza di «fenomeni di interferenze», per concludere invitando gli ascoltatori a far pervenire comunicazioni, alla sede di Napoli, in via Cesario Console, che riferissero «sulla potenza e chiarezza della ricezione e sulle eventuali interferenze». Già nel numero precedente del periodico («Radiorario», II/40, 3 ottobre 1926, p. 1) si poteva leggere l'annuncio dell'inizio a breve delle prove tecniche per la nuova stazione e con esso l'avviso della proroga al 15 ottobre del termine (in precedenza fissato al 15 settembre) per l'entrata in vigore del nuovo piano di ripartizione delle 33


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Nessuna conoscenza dettagliata è riscontrabile nell'organo ufficiale dell'URI in merito alla programmazione dei primissimi giorni di trasmissione. La rivista fa un primo accenno ai programmi diffusi da Radio Napoli solo nel mese successivo, registrando sinteticamente un “concerto vario” trasmesso tutti i giorni dalla Stazione di Napoli dalle 18.00 alle 19.00 e dalle 21.00 alle 23.00.5 La prima programmazione dell'emittente radiofonica napoletana riportata per intero è quella del 21 novembre 1926 (circa un mese dopo l'inaugurazione). Nel numero della rivista relativo a quella settimana di programmazione si può leggere che «La Stazione di Napoli, entrata regolarmente in funzione, effettuerà dal 21 corr. CONCERTO VARIO e MUSICA DA BALLO come dai programmi segnati».6 In realtà, come riportato dai programmi segnati, i concerti trasmessi sono due ogni giorno: quotidianamente viene, infatti, trasmesso un concerto vario e musica da ballo dalle 17.00 alle 18.30 e un concerto vocale e strumentale dalle 21.00 alle 23.00. Per questo secondo concerto, sono previsti 10 minuti di intervallo tra una prima e una seconda parte. Le proposte d'ascolto del concerto vocale e strumentale del primo giorno di programmazione sono:7 Prima parte

Seconda parte

Ginger, Marcia e Gavotta (orchestra);

Soltanto una tazza di the, fox trot (orchestra)

Rossini, Guglielmo Tell, Sinfonia (orchestra);

Non dirò a nessuno, romanza (soprano Veli)

Massenet, Manon, Sogno (tenore Norbini);

Rotoli: Il tuo pensiero (tenore Norbini)

Carnevale di Venezia (soprano Veli);

S'il vous plait, intermezzo (orchestra)

Billi, Madama fiorentina, serenata (orchestra);

Verdi, Rigoletto, duetto atto II (Veli-Norbini)

Elegia per violoncello (prof. Belli);

Riccioli d'oro, shimmy (orchestra)

Leoncavallo, Pagliacci, fantasia (orchestra).

Canzonetta - Canzonetta Nanette, one step (orchestra)

Tornando a parlare della struttura della stazione radiofonica, essa è costituita da un auditorium (nel quale viene adottato un microfono del tipo elettromagnetico Marconi)8 con annesso amplificatore (che «porta tutti i dispositivi necessari per effettuare la regolazione della corrente «modulatrice» in modo che la «modulazione» risulti buona sia per i deboli che per i forti di uno stesso strumento o di una stessa voce»)9 e da un apparato trasmittente vero e proprio situato sulla collina di Posillipo, in prossimità della località detta Villa Patrizi, in un'ottima posizione topografica ai fini del buon risultato sia della trasmissione, sia del lavoro nel suo complesso, poiché dotata, al con-

lunghezze d'onda, piano predisposto in agosto dall'Unione Internazionale di Radiofonia di Ginevra (Piano di Ginevra). 5 La notizia si può leggere in «Radiorario», II/45, 7 novembre 1926, p. 8. 6 «Radiorario», II/47, 21 novembre 1926, p. 16. 7 Questo concerto è diretto da Enrico Martucci, un musicista che avrà molta parte nella vita di questa stazione radiofonica, come risulta ampiamente dal prosieguo della trattazione. 8 Tutto il materiale radiotelefonico è fornito dalla Marconi Company. 9 «Radiorario», II/48, 27 novembre 1926, p. 3-4. 34


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tempo, dei requisiti altimetrici necessari e della vicinanza alla sede dell'auditorium. 10 Quest'ultimo è sito in via Cesario Console n. 3, all'ultimo piano del palazzo Pantaleo. I locali dell'auditorium risultano essere troppo angusti per i progetti che l'azienda ha per la stazione di Napoli e così, poiché «lo svolgimento del servizio artistico secondo le nuove direttive non era consentito dalle dimensioni dell'attuale auditorio», l'azienda cerca una nuova sede che possa garantire «l'ampliamento dell'attuale orchestra e l'esecuzione di grandi concerti». Ben presto, la ricerca si concretizza nell'affitto di ampi locali siti in via Egiziaca a Pizzofalcone, uno dei quali è una sala da concerto di circa 200 mq che «sarà adibita a grande auditorio, mentre negli altri locali, previ lavori di adattamento, troveranno posto il secondo auditorio per le piccole audizioni, e gli uffici».11 A fine lavori, il trasferimento riguarda sia gli apparati prima siti in via Cesario Console, sia quelli siti a Posillipo, con l'unica eccezione del trasmettitore, che rimane nella sua prima collocazione, ovvero in località Villa Patrizi. 12 Vengono quindi trasferiti l'apparato di amplificazione, gli uffici amministrativi e quelli artistici. La novità che si registra nella nuova sede è quella della predisposizione di due auditorî, diversi per dimensioni e destinazione d'uso. Nel maggiore dei due (m. 17.50 x 9.50 x 7.30) vengono utilizzati due microfoni, uno per i solisti, l'altro per l'orchestra. Per assicurare una buona resa del risultato, ovvero l'indipendenza dei suddetti microfoni, viene adottato un accorgimento tecnico che potremmo definire di gabrieliana memoria (ripetendo esso in un certo senso la tecnica dei cori spezzati), consistente nel collocamento dei due microfoni (e quindi del solista e dell'orchestra) ai lati opposti della sala.13 Il maestro è messo nella posizione che gli consente facilmente di vedere sia l'orchestra, sia i solisti e la garanzia è reciproca. L'auditorium piccolo (m. 7 x 8 x 7) è adoperato per il concerto del pomeriggio e, più in generale, per i programmi che non vedono impegnati più di 5-6 strumentisti e, in esso, viene adoperato un unico microfono. In entrambe le sale il pavimento è coperto con un tappeto di cocco, mentre le pareti e il soffitto sono ricoperti da pesanti drappeggi aventi funzioni acustiche ed estetiche insieme.14 Tra i validi accorgimenti tecnici adottati per le due sale, è sicuramente degno di nota l'utilizzo di tendaggi mobili per le pareti che rende possibile 10

Le linee telefoniche aeree che collegano l'auditorium alla stazione trasmittente sono lunghe circa 4 km e ½ e per tipologia e metodologia costruttiva si presentano come linee speciali. 11 Questa e le citazioni precedenti sono tratte da una decisione del Comitato direttivo dell'EIAR, riportata da «Radiorario», IV/10, 4 marzo 1928, p. 2. 12 Dell'avvenuta inaugurazione si può leggere nell'articolo La nuova sede della Stazione di Napoli in «Radiorario», IV/34, 19 agosto 1928, p. 34. La sede di Radio Napoli rimarrà nei locali di Pizzofalcone fino al 1937, quando l'emittente sarà interessata da un nuovo trasferimento che ne determinerà lo spostamento in via Depretis, nel Palazzo dei Telefoni di Stato, dove sarà dotata di due nuovi auditorî. 13 All'inizio delle trasmissioni da Pizzofalcone veniva adoperato un solo microfono sia per i cantanti che per gli orchestrali, ma la sistemazione degli uni come degli altri risultava penalizzante per i violini il cui suono rimaneva soverchiato da quello degli altri strumenti. La soluzione alla fine adottata sopraggiunge solo alla conclusione di una serie di prove mirate. 14 L'accorgimento era stato già adottato per la prima stazione di Radio Napoli, quella di via Cesario Console («Radiorario», II/48, 27 novembre 1926, p. 2) e ancor prima per la stazione di Roma («Radio Orario», I/1, 18 gennaio 1925, p. 10) e per quella di Milano, per la quale si registra anche il ricorso a un sistema di tappeti asportabili («Radio Orario», I/48, 12 dicembre 1925, p. 6). 35


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regolare l'estensione della superficie coperta in ragione delle esigenze acustiche dei diversi tipi di trasmissione. Un ulteriore ottimo ritrovato adottato è la predisposizione di due vetri trasparenti che consentono di poter vedere dalla sala degli amplificatori, situata al centro, ciò che avviene in entrambi gli auditorî. Dunque, si può ben dire che tutte le conoscenze tecniche all'epoca raggiunte vengono messe in atto per questa emittente, decretandone, in ogni caso, il favore del pubblico. Del resto, già dopo il primo mese di attività, l'organo ufficiale dell'ente aveva registrato il seguente resoconto: Nel primo mese di funzionamento si sono avuti oltre duemila rapporti di ascoltatori, i quali, a parte i momenti in cui sono stati notati fenomeni di interferenza, attestano che la stazione di Napoli è ricevuta forte e chiara nelle varie regioni d'Italia e di Europa, fino all'estrema Russia.15

In realtà, più di qualche dubbio può legittimamente sorgere sulla bontà e imparzialità di questo resoconto considerando che, con nota del 9 febbraio 1927, il Ministero delle Comunicazioni rende noto che una Commissione governativa, appositamente nominata, lavora al miglioramento dei servizi radiofonici, invitando gli ascoltatori a collaborare per una buona riuscita dell'intento con l'invio al segretario della stessa Commissione (del quale fornisce nome e indirizzo: ing. Tullio Gallo, Viale del Re, 131, Roma) di «una breve notizia circa il modo con il quale sentono le trasmissioni delle stazioni italiane di Roma I, Milano I e Napoli I, e circa i disturbi provenienti da stazioni radiotelegrafiche e da altre cause locali».16 D'altra parte, alla fine dello stesso anno, nella stessa rivista dell'ente17 si parla esplicitamente di interferenze (sotto forma di forte fischio) che gravano sulla Stazione di Napoli provenienti dalla Stazione di Koenigsberg. Nello stesso periodico è riportata notizia del tentativo di risolvere questa problematica mediante due successivi esperimenti consistenti nella trasmissione da due diverse lunghezze d'onda (372 e 407 metri), che non conseguono però i risultati auspicati: viene, pertanto, ripristinata la precedente lunghezza d'onda di 333,3 metri. A prescindere da questo specifico caso, il giornale dell'ente riporta notizia, altresì, di disturbi di altre stazioni estere (tra le quali Radio Barcellona e Le Petit Parisien)18 sulle trasmissioni dell'emittente partenopea. Peraltro, una univocità non si riscontra nemmeno nelle opinioni degli utenti, almeno così come riportate da «Radiorario» in alcuni suoi numeri. In essi sono registrate opinioni di radioascoltatori che vanno dalla completa soddisfazione, al più totale malcontento, passando anche per stati intermedi. Oltre che considerazioni sullo stato della ricezione, gli ascoltatori esprimono, attraverso il giornale dell'ente, la loro opinione anche in merito al valore della pro15

«Radiorario», II/48, 28 novembre 1926, p. 8. La nota ministeriale, dalla quale è nata questa riflessione, è già riportata in UMBERTO FRANZESE: La Radio a Napoli dalle origini alle emittenti libere, Napoli, Edizioni L’Abaco, 1984, pp. 24-25. 17 «Radiorario», III/51, 17 dicembre 1927, p. 2. 18 «Radiorario», III/4, 23 gennaio 1927, p. 10. 16

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grammazione e, in alcuni casi, degli artisti. Si riportano di seguito quattro lettere di radioascoltatori: Lettera a)19 Alassio, 8 novembre 1926. Mi compiaccio con la stazione di Napoli per la scelta varia dei programmi che da qualche sera mi allieta e per la musica veramente buona. Congratulazioni. Ossequi. Tullio Soldi - Via Torino, Alassio Lettera b)20 Napoli, 10 Novembre 1926 Ho avuto occasione, ieri sera, in casa di amici, d'ascoltare l'audizione di questa nostra stazione napoletana e vi ringrazio di cuore delle belle ore fatteci trascorrere. Se me lo permettete, oso pregarvi che non si trascuri la buona e bella canzone napoletana che è sempre piacevolmente ascoltata, specie, come quella di ieri sera, così magnificamente cantata dal vostro ottimo tenore Rotondo, che unitamente all'illustre maestro Martucci, furono gli eroi della serata. Con tutta stima e con i migliori ossequi. Pasquale Migliaccio Lettera c)21 Napoli, 10 novembre 1926. Avendo avuto occasione di ascoltare le audizioni a Napoli, sono rimasto piacevolmente sorpreso per i risultati ottenuti da cotesta stazione in confronto di quelle di Londra e Berlino, dove abitualmente risiedo. Quello che più mi ha colpito si è la esecuzione semplicemente meravigliosa del tenore Sig. Roberto Rotondo, specie nella «Voc'e notte», cantata ieri sera. Erwin von Lobstein Lettera d)22 Trieste, 6 dicembre 1926. […..] Ottimi i programmi e le esecuzioni di tutto il complesso artistico, come pure molto gradito il concerto a plettro Calace e molto bene il duetto del primo atto della Lucia di Lammermoor di G. Donizetti cantato magistralmente dal soprano Sartori e tenore R. Rotondo il 4 c. m. Giuseppe Saino

In merito all'aspetto più propriamente musicale, Radio Napoli, fin dagli esordi della sua attività, consegue ottimi risultati visto che, dopo soli pochi mesi, al febbraio 1927, era già stata costituita una compagnia lirica e una di operette dalle quali erano state già date cinque opere23 e due operette24 che insieme a un concerto di musica da 19

«Radiorario», III/3, 16 gennaio 1927, p. 9. Ibidem. 21 «Radiorario», III/4, 23 gennaio 1927, p. 10. 22 «Radiorario», III/5, 30 gennaio 1927, p. 7. 23 Le opere sono: Cavalleria rusticana, Rigoletto, La Favorita, La Bohème e Lucia di Lammermoor, tutte sotto la direzione di Enrico Martucci, alle quali seguiranno nel solo primo anno di programmazione altre venti opere di compositori diversi. (Cfr. nel prosieguo il paragrafo Primo bilancio artistico per la Stazione di Napoli). 24 Le operette sono: È arrivato l'Ambasciatore e Casta Diva entrambe di Ettore Bellini. A esse, in poco più di sei mesi, ne seguiranno altre diciotto. (Anche per questo dato cfr. il paragrafo Primo bilancio artistico per la Stazione di Napoli). 20

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camera e a uno “canzonettistico” costituiscono le prime trasmissioni realizzate con artisti “interni”, artisti dell'Ente. Apprezzate dai radioascoltatori risultano le produzioni musicali della stazione napoletana come si può evincere da una lettera inviata al giornale dell'ente:25 Napoli, 22 Dicembre 1926 Vi esterno a nome mio e di moltissimi altri amici e conoscenti le più entusiastiche congratulazioni pel modo veramente corretto come fu data ieri sera dalla Stazione di Napoli la Cavalleria Rusticana e pel modo come tutti gli artisti hanno perfettamente espletata la loro parte, specialmente poi il sig. Rotondo che oramai è conosciuto ed atteso vivamente tutte le sere. Vincenzo Parisio

Oltre alle produzioni musicali della Stazione, si registrano, fin dall'inizio, le trasmissioni di opere liriche dal Teatro San Carlo. Vengono poi previste le trasmissioni dei concerti di due complessi bandistici e sono auspicati collegamenti da altri teatri.26 Dei complessi bandistici, uno è quello che fa capo all'esercito, l'altro alla banda comunale “Concerto Civico”, una tra le bande musicali italiane all'epoca più apprezzate. Quest'ultima, dopo il concerto inaugurale del 13 marzo 1899 al San Carlo, diretta dal Maestro Raffaele Caravaglios,27si esibisce ogni domenica nella cassa armonica28 del25

«Radiorario», III/7, 13 febbraio 1927, p. 8. «Radiorario», III/9, 27 febbraio 1927, p. 5. 27 Raffaele Caravaglios nasce nel 1864 a Castelvetrano, in provincia di Trapani, in una famiglia di musicisti. Riceve la sua prima formazione musicale nel Regio Collegio di Musica di Palermo, dove nel 1884 si diploma in violino e composizione. Allievo di Pietro Platania, all'età di diciassette anni dirige un concerto in presenza di Wagner, riportandone gli elogi che, più tardi, saranno reiterati da importanti personalità del panorama culturale e musicale italiano (Pietro Mascagni, Gian Francesco Malipiero, Matilde Serao, Antonio Cardarelli, per citarne alcuni). Prima di trasferirsi a Napoli, chiamato a dirigere la Banda Municipale, egli ricopre vari incarichi in Sicilia, tra i quali si ricordano quello di direttore della Scuola di Musica di Camporeale e delle bande musicali di Castelvetrano, di Alcamo, di Trapani e di Acireale. Giunto nel capoluogo campano, Caravaglios consegue molti incarichi e riconoscimenti. Negli anni, oltre a quello di direttore della Banda Municipale della città, ricopre anche l'incarico di direttore dell'Orchestra del Corpo di Ballo del San Carlo e di docente presso la Scuola Musicale del Real Albergo dei Poveri e presso il Conservatorio "San Pietro a Majella", dove nel 1902 gli viene assegnata la neonata cattedra di strumentazione per banda, come riconoscimento per gli enormi successi riportati nei due concerti dell'anno precedente commemorativi uno di Giuseppe Garibaldi, un altro di Giuseppe Verdi, quest'ultimo svoltosi alla presenza di diecimila spettatori paganti. Per le esibizioni in villa, Caravaglios riscuote un successo unanime ed è destinatario di una lettera encomiastica da parte del critico dell'«Echo de Paris» Gustave de Lafreté. Egli, avendo avuto modo di essere presente a quei concerti, ritornato in Patria, aveva espresso il suo vivo compiacimento per quelle esecuzioni, inviando a Caravaglios una lettera di stima che riportava l'augurio alla Francia di avere un maestro e un'orchestra dello stesso calibro per la migliore educazione musicale del popolo. Convinto promotore della musica francese, Caravaglios come compositore si prova in molti generi. Tra la sua immensa produzione si annoverano opere, operette, inni, marce, suite e diverse strumentazioni per banda di opere liriche. Si ricordano anche le sue Lezioni di istrumentazione e orchestrazione per banda, pubblicate nel 1922. Caravaglios muore a Napoli il 29 novembre 1941. 28 Progettata nel 1862 dall'architetto e urbanista milanese Enrico Alvino e realizzata dopo tre lustri con struttura in ghisa posta su una pedana circolare e sormontata da una cupola con verti bicromi, la 26

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la Villa Reale,29 fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, con un'enorme affluenza di pubblico, dando così vita a un fenomeno sociale e di costume che porta persino all'apertura di nuovi locali nelle zone attigue alla Villa, come il famoso Caffè Vacca che, aperto proprio di fronte alla cassa armonica, ben presto diventa ritrovo di musicisti e letterati, tra i quali, come assiduo frequentatore, anche Salvatore Di Giacomo. Ed è proprio per questi seguitissimi appuntamenti musicali che Radio Napoli istituisce collegamenti diretti con la Villa Reale. Tra i concerti che vengono dati rimane ricordo di quello del 3 aprile 1927, trasmesso da Radio Napoli, durante il quale viene eseguito un programma beethoveniano. Per la nuova emittente, fin dall'inizio del suo ciclo vitale, molta attenzione viene prestata, oltre che a quello tecnico, anche all'aspetto organizzativo per il quale la scelta ricade sull'avvocato Silvio Del Buono, allievo di Giovanni Porzio, deputato del Regno e futuro Senatore della Repubblica, e di Enrico De Nicola, che sarà successivamente il primo Presidente della Repubblica Italiana. Del Buono agisce su mandato dell'URI30 e in ottemperanza all'incarico ricevuto forma anche lo staff dei collaboratori. Vengono reclutati alcuni tecnici, due presentatori (un uomo e una donna) e un certo numero di musicisti. A completare la squadra di lavoro vengono incaricati prima Enrico Martucci31 e, in un secondo mocassa armonica è stata oggetto di un recente restauro che l'ha riportata allo splendore originale sia nelle componenti strutturali che in quelle acustiche, come si è potuto ben apprezzare all'inaugurazione avvenuta il 2 febbraio 2017 con un'esibizione della fanfara dei Vigili del Fuoco. 29 È l'odierna villa comunale della città prospiciente il lungomare, intitolata a Caravaglios dopo la sua morte. 30 L'URI è una società privata costituita il 27 agosto 1924 grazie all'opera di mediazione di Costanzo Ciano e su accordo delle due principali compagnie del settore, la Società Italiana Radio Audizioni Circolari (SIRAC) e la Radiofono (una società anonima controllata dalla britannica Marconi Company che spunta l'85% delle azioni). La società (che si presenta come il braccio italiano di potenti multinazionali, inserendosi in pieno nella politica propria del regime, in quel momento ancora filoamericana), alla fine di quello stesso anno, il 27 novembre, si vede riconosciuto dal Governo il diritto di esclusiva per il servizio delle “radioaudizioni circolari”, un diritto che viene sancito qualche giorno dopo con un Regio Decreto (R.D. 14 dicembre 1924 n. 2191) per un periodo di sei anni prorogabili di ulteriori quattro. Nello specifico, il Decreto (con il quale, in linea di principio, si volevano ricalcare gli indirizzi adottati in altri Paesi europei per la regolamentazione delle radiodiffusioni in regime di monopolio) individuava l'URI come l'unica emittente radiofonica italiana autorizzata a trasmettere notizie di interesse pubblico, conservando, tuttavia, il gravame del visto preventivo dell'autorità politica locale, fatta eccezione per quelle trasmissioni che mettessero in onda notizie fornite da un'agenzia appositamente designata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, cosi come era stato statuito qualche mese prima dal R. D. 10 luglio 1924 n. 1266. L'agenzia, con delibera del Governo Mussolini del 31 ottobre 1924, era stata individuata nella Stefani, un'agenzia giornalistica nata a Torino nel 1853 come prima agenzia di stampa italiana, per iniziativa del giornalista veneto Guglielmo Stefani e per volontà del Conte di Cavour che ne aveva fatto la portavoce della sua politica, ma a quel tempo diventata di proprietà di uno degli uomini più fedeli a Mussolini, Manlio Morgagni, il quale la trasforma in un potentissimo strumento del regime. Dopo l'arresto di Mussolini e il suicidio di Morgagni (che non regge al contraccolpo dell'arresto del Duce), la Stefani viene sciolta e la sua struttura viene acquistata dalla nascente ANSA. 31 Enrico Martucci, che viene ricordato anche per essere stato per un triennio uno stimato maestro sostituto al Regio Teatro San Carlo, è assunto nelle file di Radio Napoli fin dai suoi albori quale organizzatore musicale e direttore d'orchestra. La direzione di Martucci e le esecuzioni della forma39


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mento, Ernesto Murolo,32 l'uno chiamato come direttore d'orchestra e responsabile dei programmi musicali, l'altro con il compito di raccontare delle canzoni e delle vicende storiche napoletane. Dopo un iniziale rifiuto, Murolo accetta l'incarico, condizionando la sua accettazione all'assunzione di Ernesto Tagliaferri.33 Più tardi l'avvocato Del Buono riuscirà a ottenere anche la collaborazione di Franco Michele Napolitano e di Francesco Stocchetti.34 zione di cui è a capo risultano sempre apprezzate. Validissima («Radiorario», VI/29, 19 luglio 1930, p. 39), brillante («Radiorario», VI/18, 3 maggio 1930, p. 43), vigorosa d'espressione e precisa («Radiorario», V/49, 1 dicembre 1929, p.10) la direzione, singolarmente e collettivamente pregevolissima («Radiorario», V/19, 5 maggio 1929, p. 4), con senso d'arte («Radiorario», V/35, 25 agosto 1929, p. 3) o di lodevole e consueta efficacia («Radiorario», VI/37, 13 settembre 1930, p. 41) le esibizioni: sono questi alcuni dei positivi giudizi critici riportati. 32 Ernesto Murolo nasce a Napoli il 4 aprile 1876. In una fitta rete di rapporti parentali illegittimi, le sue origini si legano alla grande famiglia teatrale Scarpetta-De Filippo. È, infatti, Murolo primogenito di una relazione extraconiugale che Eduardo Scarpetta ha con Anna De Filippo, sorellastra di sua moglie Rosa De Filippo. Ernesto viene affidato a una famiglia napoletana ricchissima, quella di Vincenzo Murolo che, con la moglie Maria Palumbo, lo legittima garantendogli una vita agiata e l'ingresso nell'alta borghesia napoletana. Abbandonati gli studi universitari di giurisprudenza che aveva intrapreso, Murolo si dedica alla poesia e all'attività giornalistica, collaborando con i periodici «Il Pungolo» e «Monsignor Perrelli», per il quale, con lo pseudonimo Ruber, pubblica i propri versi. Memore dell'abbandono genitoriale di cui era stato vittima, il poeta nel 1906, nel perseguimento del suo reale intento denigratorio del teatro scarpettiano, presenta al Teatro Mercadante «un corso di rappresentazioni con quella tal compagnia, destinata ad insegnare a tutte le altre il vero modo di recitare», come scrisse polemicamente lo stesso Scarpetta nel suo Cinquant'anni di palcoscenico. Murolo si cimenta anche come autore teatrale, dopo aver scritto il testo di molte tra le più note canzoni napoletane, tra le quali si ricordano Pusilleco addiruso del 1904 con musica di Salvatore Gambardella, Addio a Napule del 1906 con musica di Ernesto De Curtis, Suspiranno del 1909 con musica di Evemero Nardella, Mandulinata a Napule del 1921 e Piscatore 'e Pusilleco del 1925, entrambe con musica di Ernesto Tagliaferri, con il quale Murolo stringe un sodalizio artistico quasi ventennale. Firmatario nel 1925 del Manifesto degli intellettuali fascisti, dopo aver dilapidato tutto il suo immenso patrimonio, il poeta muore a Napoli nel 1939, di rientro da una tournée teatrale in Puglia. 33 Ernesto Tagliaferri nasce 1'8 novembre 1888 a Napoli, nel borgo popolare di Sant'Antonio Abate. Di origini modeste, studia violino al Conservatorio "San Pietro a Majella". Dopo il diploma, entra, come primo violino, nell'orchestra del Real Teatro San Carlo. La sua attività di compositore si volge quasi esclusivamente alla canzone napoletana e con musicisti e autori dei versi di essa ha fecondi rapporti artistici: con Libero Bovio, ma soprattutto con Ernesto Murolo. Co-fondatore con Bovio, Gaetano Lama e Nicola Valente della Casa editrice La Bottega dei 4, muore a Torre del Greco il 6 marzo 1937. Nella sua produzione si ricordano, oltre alle già citate Mandulinata a Napule del 1921 e Piscatore 'e Pusilleco del 1925, Napule ca se ne va del 1919, Qui fu Napoli del 1924 e Tarantella internazionale del 1926, tutte su testi di Murolo. 34 Franco Michele Napolitano nasce a Gaeta il 22 gennaio 1887, compie i suoi studi musicali al Conservatorio San Pietro a Majella, dove si diploma in organo, composizione e canto corale. Dal 1908, quasi ininterrottamente per tutta la vita, è organista titolare della Basilica del Carmine Maggiore. La sua attività musicale si rivolge anche alla didattica, ricoprendo egli la cattedra di canto corale del Conservatorio che lo aveva avuto tra i suoi allievi. Direttore, successivamente, dello stesso Istituto, ne riorganizza la biblioteca. Nel 1918, insieme alla moglie, la pianista e compositrice Emilia Gubitosi, fonda l'Associazione Alessandro Scarlatti. Muore a Napoli il 16 marzo 1960. Francesco Stocchetti nasce a Napoli il 9 aprile 1894. Fin dagli anni giovanili abbraccia la fede futurista, 40


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Figura 1: Edificio della stazione (da «Radiorario», II/48, 27 novembre 1926).

Figura 2: Auditorium via Cesario Console (da «Radiorario», II/48, 27 novembre 1926). meritandosi anche una nota di incoraggiamento e plauso da Tommaso Marinetti apparsa sul numero 10/III della rivista «La Piccola Fonte». Poeta, scrittore (tra gli altri suoi scritti: Le donne e gli amori di Oscar Wilde, Brigata Sassari, Acquerelli napoletani), traduttore (di Byron, Shelley, Goethe, Wilde), collaboratore di varie testate giornalistiche (dopo l'esordio nel 1923 al Giornale della Sera, scrive per «Il Giornale», «Pungolo», «Don Marzio», «La Lettura», «Tavola Rotonda», «Ma chi è?», «Vela Latina»), cronista-capo del «Corriere di Napoli», inviato speciale del «Mattino» e direttore della rivista letteraria «Minima», Stocchetti è noto anche con i suoi tre pseudonimi: Udal, Tipperary e Fiocco. 41


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Figura 3: Auditorium grande di Pizzofalcone (da «Radiorario», IV/34, 19 agosto 1928).

Figura 4: Auditorium piccolo di Pizzofalcone (da «Radiorario», IV/34, 19 agosto 1928).

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Primo bilancio artistico dell'azienda per la Stazione di Napoli A ottobre 1927 è trascorso un anno dall'inaugurazione della stazione napoletana dell'URI e l'ente ritiene doveroso rendere pubblico, attraverso le pagine del «Radiorario», un primo bilancio delle trasmissioni di carattere artistico e delle relative attività svolte. Riguardo al settore musicale, viene reso noto che per la compagnia lirica l'azienda ha perseguito il fine di formare «un lodevole complesso artistico coadiuvato da una orchestra buona il più possibile, affiatare artisti ed orchestra sotto una abile direzione»,35 direzione che è nello specifico quella di Enrico Martucci, «un giovane dal sicuro avvenire».36 Della compagnia fanno parte Myriam Barenco, Pina Bruno, Gastone Ferrero, Elena Riccardi, Roberto Rotondo, Luigi Siravo, Giorgio Schottler. Nell'opera di completamento dei quadri artistici, alla direzione di Martucci l'azienda affianca quelle di Ettore Bellini37 per l'operetta, Guido Laccetti38 per i concerti di musica da camera ed Evemero Nardella39 per le canzonette. Riguardo ai concerti di musica da camera, l'azienda comunica che «I concerti classici di musica da camera costituirono pertanto una insigne peculiarità della Stazione di Napoli e incontrarono il più alto gradimento, non solo degli amatori del genere, ma ancora di tutto il vasto pubblico dei radioascoltatori.»40 e per la canzonetta che «La stazione di Napoli, però, non 35

«Radiorario», III/44, 29 ottobre 1927, p. 3. Ibidem. 37 Ettore Bellini nasce a Napoli il 29 febbraio 1884. Suo padre è il compositore Cesare Bernardo Bellini. La sua formazione si compie nel Conservatorio di Napoli, città dove più tardi stringerà rapporti di amicizia con Salvatore Di Giacomo, Edoardo Nicolardi e Libero Bovio. Dopo aver composto l'opera lirica Anime infrante su libretto di Achille Macchia (rappresentata al Teatro San Carlo nel 1907) e alcune romanze, volge la sua attenzione al mondo dell'operetta (componendone alcune di successo) e della canzone napoletana. Muore a Napoli il 21 maggio 1948. 38 Guido Laccetti nasce a Napoli il 1 ottobre 1879, figlio di un chirurgo di chiara fama. Le evidenze biografiche tramandano notizia di incarichi di docenza per le cattedre di composizione dei Conservatori di Palermo e di Napoli. Dalla sua biografia, oltre che a un'intensa attività di riduzioni e trascrizioni (principalmente del Settecento napoletano) e a orchestrazioni di pezzi per pianoforte di Schumann, risulta che Laccetti abbia dato vita a una discreta produzione operistica nel cui ambito, con La Contessa di San Remo (1904), Hoffmann (Napoli, Teatro San Carlo, 15 aprile 1912, che riscuote un buon successo), Il Miracolo (Napoli, 1915) e La favola dei gobbi (1935), si ricorda, quale suo più importante lavoro, Carnasciali (Roma, 1925), su libretto di Giovacchino Forzani, salutato dal pubblico con vasto consenso. La critica dell'epoca riscontra nell'opera forti similitudini con le orchestrazioni francesi, riconoscendo in essa un lavoro incomparabilmente gratificante per il registro baritonale. Laccetti muore l'8 ottobre 1943 a Cava de' Tirreni. Per un ulteriore approfondimento sulla figura di Guido Laccetti in rapporto agli operisti suoi contemporanei, si rimanda a MAXIMILIAN CLAAR in Die Musik, Monatsschrift, Schuster & Loeffler, Stuttgart, XVIII/9, juni 1926, pp. 700-701. 39 Evemero Nardella nasce a Foggia il 25 settembre 1878, studia composizione a Napoli, al Conservatorio "San Pietro a Majella" sotto la guida di Paolo Serrao e Camillo De Nardis. Già maestro concertatore e direttore d'orchestra in molti teatri lirici, si rivolge alla composizione di canzoni napoletane, campo nel quale, siglando collaborazioni con alcuni tra i più noti autori di questo genere (Libero Bovio, E.A. Mario, Eduardo Nicolardi, Ernesto Murolo e Rocco Galdieri), riesce a ottenere buoni successi tra i quali si ricordano Mmiez' 'o ggrano, Suspiranne, Buonasera ammore. Sua anche l'operetta Miss America. Muore a Napoli il 23 aprile 1950. 40 «Radiorario», III/44, 29 ottobre 1927, p. 5. 36

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poteva trascurare anche per le vivissime insistenze del pubblico, un genere del tutto napoletano, che trova l'ammirazione di tutto il mondo: la canzonetta.»41 Vengono tramandate notizie anche del repertorio e degli interpreti. Per quanto attiene al repertorio lirico, per il primo anno sono venticinque le opere (delle quali poco meno della metà di compositori veristi) e tredici gli autori trasmessi: Mascagni (Cavalleria rusticana - la prima opera trasmessa da Radio Napoli, il 21 dicembre 1926 - e L'amico Fritz), Leoncavallo (Pagliacci), Puccini (Manon Lescaut, La Bohème, Tosca, Madame Butterfly, Suor Angelica e Il Tabarro), Giordano (Fedora e Andrea Chénier), Ponchielli (La Gioconda), Donizetti (La Favorita, L'elisir d'amore e Lucia di Lammermoor), Bellini (Norma), Verdi (Un ballo in maschera, Rigoletto, La Traviata e Il Trovatore), Cilea (Adriana Lecouvreur), ma ci sono anche i francesi Gounod (Faust), Massenet (Werther) e Bizet (Carmen), un'incursione nel Settecento napoletano di Pergolesi (La Serva Padrona) e un'altra nella letteratura musicale contemporanea, con un dramma lirico di Guido Laccetti (Hoffmann). Alle opere si accompagnano venti operette (tutte trasmesse dall'11 febbraio al 16 agosto 1927): È arrivato l'Ambasciatore e Casta Diva (Ettore Bellini), Madama di Thebe e La Duchessa del Bal Tabarin (Carlo Lombardo dei Baroni Lombardo di San Chirico), Selvaggia (Tom Cioffi ed Edmondo Corradi), Il Paese dei Campanelli (Virgilio Ranzato e Carlo Lombardo), Eva, Il Conte di Lussemburgo e La Vedova Allegra (Franz Lehár), Danza delle Libellule (Franz Lehár e Carlo Lombardo), Addio Giovinezza (Giuseppe Pietri), Miss America (Evemero Nardella), La Geisha (Sidney Jones), Schimmy verde (Nicola Valente), Bajadera (Emmerich Kalman), Katia la ballerina (Jean Gilbert), La Signorina del Cinematografo (Karl Weinberger), Cin-ci-là (Virgilio Ranzato) e La piccola cioccolataia (Achille Schinelli).42 Per il repertorio cameristico trasmesso da Radio Napoli, risultano essere state degne di nota le esecuzioni dello Stabat Mater di Pergolesi, quella del Miserere di Mercadante e del concerto commemorativo per il centenario della morte di Beethoven (con programma interamente beethoveniano: Settimino op. 20, Sonata a Kreutzer e Trio in si bemolle maggiore).43 Con i nomi degli interpreti delle esecuzioni più rimarchevoli, sono noti anche quelli degli altri artisti chiamati a interpretare i concerti cameristici, nomi che risultano essere tutti tra i migliori musicisti napoletani del tempo e che sono identificabili in Giuseppina De Rogatis, 44 Achille Longo, Nina e Rosetta Vetere oltre ai già citati Vincenzo Cantani, Nina Borrelli e Michele Rocca. Riguardo al genere canzonettistico, invece, dopo un concerto inaugurale mandato in onda la sera del 31 dicembre 1926, la diffusione radiofonica segue 41

Ibidem. Per la compagnia di operetta l'azienda chiama coloro che vengono ritenuti tra i migliori rappresentanti del genere: Amelia Ferraran, Francesco Fortezza, Enzo Pacifico, Carla Spinelli, Carla Soleri. 43 Gli interpreti di questo concerto furono: Nina Borrelli, Vincenzo Cantani, Michele Rocca, Giorgio Falvo, Ernesto Carpio, Carlo Eymann e Gennaro Cembrola. 44 Per un approfondimento della figura di Giuseppina De Rogatis si rimanda a TIZIANA GRANDE, La donazione "Procida" della biblioteca del Conservatorio di Avellino. Ritratto di Giuseppina Procida De Rogatis e catalogo dei manoscritti, in I Quaderni del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino, 2, 2016, pp. 193-214. 42

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due canali: le audizioni dei supporti sonori della Casa Editrice «La Canzonetta»45 e i concerti organizzati e diretti da Evemero Nardella.46 Sempre con riferimento a questo genere musicale, quello della canzone napoletana, dalle note informative dell'azienda relative al primo anno di attività si apprende che furono date tre serate monografiche, due dirette a diffondere la produzione artistica di Ernesto Murolo, l'altra quella di E.A. Mario. D'altra parte, questo tipo di programmazione radiofonica, peculiare della stazione napoletana, s’inquadra nell'evenienza che, sia pure nell'ambito di una politica unitaria, tutte le tre emittenti allora operanti presentano anche specificità di carattere locale che, nel caso di Radio Napoli, si concretizzano sia nella proposta di alcune rubriche direttamente legate al territorio,47 sia, soprattutto, nella riserva di un ampio spazio dedicato alla canzone napoletana. Proprio nell'ambito di tale riserva si pone, sempre per il 1927, l'istituzione da parte di Radio Napoli di un concorso a premi legato alla festa di Piedigrotta. La stazione 1NA, prendendo spunto dal notevole successo di pubblico riscosso negli anni precedenti dalle audizioni radiofoniche delle canzoni napoletane eseguite durante la festa di Piedigrotta, bandisce un concorso rivolto alle case editrici. Il concorso chiede ad ognuna delle case editrici che si dovessero presentare di proporre 20 canzoni «prevalentemente dialettali» per concorrere a un primo premio di 1.000 lire e a un secondo di 500. Riconoscimenti sono previsti anche per gli autori (della musica) ai quali sono riservati rispettivamente 500 lire per il primo premio e 300 per il secondo. Quattro sono le case editrici che rispondono al bando: Capolongo, Izzo, Mario,48 Santojanni. Raccolte le richieste di partecipazione, sono fissate quattro date (25, 26, 27 e 28 agosto) ognuna per l'esibizione di una delle quattro case editrici con replica nei successivi 1, 2, 3 e 4 settembre. Al doppio turno di esibizioni segue la votazione (effettuata su un tagliando speciale inserito nel «Radiorario», la cui immagine è riportata alla fine di questo paragrafo): il pubblico è chiamato a scegliere due canzoni tra quelle presentate. Risultano vincitrici, rispettivamente per il primo e il secondo premio, le case editrici Capolongo e Santojanni e gli auto-

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«La Canzonetta» è una casa editrice e discografica, tuttora esistente, fondata a Napoli nel 1901 da Francesco Feola. Dopo essersi affacciata sul mercato con la pubblicazione di una rivista, dal 1907 La Canzonetta lega il suo nome alle audizioni di Piedigrotta, una rassegna canora nell'ambito della quale vengono presentate canzoni su testi dei poeti più illustri e conosciuti a Napoli, tra i quali Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Libero Bovio ed Ernesto Murolo. In seno alla Canzonetta, intorno al 1917, nasce una scuola di canto che ha tra le sue funzioni quella di favorire lo studio del dialetto napoletano. Dal 1978 a essa si affianca l'etichetta discografica «Sintesi 3000». 46 A questi concerti prendono parte alcuni tra i migliori artisti del genere, tra i quali si ricordano Marcella Bay, Prima Farfuy, Mario Massa, Salvatore Papaccio, Mario Pasqualillo, Vittorio Parisi e Alfredo Sivoli. Si rinvengono anche dati relativi al repertorio eseguito: Era de maggio, O sole mio, Uocchie c'arraggiunate, Torna a Surriento, O marenariello, Palomma 'e notte, A retirata, Nun chiagnere Carmé. 47 Tra le rubriche si possono ricordare Monumenti napoletani e Dintorni di Napoli, in onda rispettivamente il martedì e il mercoledì. Cfr. «Radiorario», III/40, 1 ottobre 1927, pp. 14, 17. 48 Era questa la Casa editrice facente capo a E. A. Mario. Il poeta, quello stesso anno, aveva tenuto alla stazione di Napoli un concerto patriottico in occasione del IX annuale della vittoria della prima guerra mondiale durante il quale, riscuotendo un notevole successo, aveva eseguito le sue “canzoni di trincea” raccolte ne Il libro grigio-verde dedicato a Vittorio Emanuele III. 45


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ri delle musiche Giuseppe Capolongo e Attilio Staffelli49 con le canzoni 'A busta d' 'o core, su versi di Giacomo Bugni, e A rezza (marinaresca all'antica), su versi di Alfonso Mangione. Altro dato da rilevare nel primo bilancio artistico è quello relativo ai numerosi collegamenti esterni: tra tutti, quelli dal Teatro San Carlo hanno per oggetto trasmissioni di intere opere liriche che avvengono con frequenza bisettimanale, quasi sempre nelle serate delle prime. Nel bilancio fornito dall'azienda sono riportati i titoli delle opere già trasmesse a ottobre 1927: Francesca da Rimini, Madama Butterfly e ballo Brahama, Il Barbiere di Siviglia, Il Tabarro e Gianni Schicchi, Turandot, La Bohème e Il lago dei cigni, Aida, Il piccolo Marat, I quattro rusteghi, Nerone e Il Trovatore. Il collegamento dal San Carlo è considerato dai radioascoltatori il più importante. A esso se ne affiancano altri, comunque molto seguiti, realizzati da teatri (Politeama,50 Eldorado, Alhambra), da siti accademici (Conservatorio "San Pietro a Majella") e culturali (Salone dei Concerti del Circolo Artistico e Sala degli Illusi51), da giardini pubblici (Villa Comunale), da caffè e locali di divertimento (Trocadero e Tea Room Caflisch per la musica jazz) e da luoghi di culto (dalla Basilica del Carmine Maggiore sono trasmessi i concerti d'organo di Franco Michele Napolitano).

Figura 5: Tagliando Concorso “Piedigrotta” della Stazione di Napoli (da «Radiorario», III/34, 20 agosto 1927, p. 6) 49

Attilio Staffelli sarà titolare della cattedra di Armonia e contrappunto al Conservatorio “S. Pietro a Majella”. 50 Dal Politeama nel 1927 è trasmessa l'esibizione del Coro rumeno. 51 La Sala degli Illusi afferiva alla Compagnia degli Illusi, un'associazione culturale fondata a Napoli nel 1919 dagli esponenti dell'aristocrazia e della borghesia unitamente agli intellettuali della città. La presidenza onoraria sarà in seguito attribuita a Benedetto Croce. 46


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Considerazioni sul primo bilancio artistico dell'azienda Da un'analisi del bilancio artistico di Radio Napoli presentato dall'azienda allo scadere del primo anno di programmazione si desumono alcuni dati che è d'uopo commentare, anche inquadrandoli in un contesto più ampio. Si procederà cioè operando una verifica incrociata di questi dati con le linee dettate dall'azienda a livello centrale, per sottolineare le eventuali convergenze o difformità e ci si accinge a farlo in questo punto della trattazione, allargando l'orizzonte temporale fino alla fine degli anni venti. Ci s'intende, innanzitutto, riferire alla duplice presenza nel palinsesto della rete campana di trasmissioni radiofoniche registrate negli auditorî e trasmissioni registrate nei teatri e in altri luoghi diversi dalla sede dell'ente, cioè trasmissioni registrate in studio e trasmissioni registrate in esterno. Riguardo a queste ultime, il punto di partenza è dato dalla serie di accordi che, nei primi anni di vita dell'emittente, la dirigenza, nella persona dell'avvocato Del Buono, volendo conseguire un miglioramento della programmazione, sigla con teatri, sale da concerto e complessi orchestrali. I contratti mirano ad accaparrarsi le «dirette» di concerti, opere, operette e, più latamente, di manifestazioni musicali di vario genere. Procedendo alla verifica incrociata che muove questo punto dell'indagine, si nota che il dato converge con gli indirizzi emanati a livello centrale. Già nel 1925, infatti, l'URI comunica agli ascoltatori che L'Unione Radiofonica Italiana ha ben avviato accordi con l'impresa del “Costanzi” di Roma per la trasmissione delle opere che vengono rappresentate nel detto teatro. Sono in corso gli opportuni esperimenti e se essi – come si ha fondata ragione di credere – daranno un risultato favorevole, quanto prima si inizierà la diffusione degli spettacoli, che verrà effettuata due volte alla settimana, sempre che si tratti di opere non appartenenti alla Casa Editrice Ricordi, dalla quale la U.R.I. non ha ancora ottenuto la necessaria autorizzazione, malgrado trattative al riguardo, che tuttora si vanno svolgendo.52

Il risultato della politica aziendale adottata a livello centrale e periferico, per quanto riguarda nello specifico Radio Napoli, è certamente di segno positivo, dato che la stazione «al quarto mese di vita, ha saputo porsi per il valore dei suoi programmi fra le più importanti stazioni Europee mediante le trasmissioni dal Reale Teatro San Carlo53, dove si sta svolgendo una apprezzatissima stagione lirica sotto la direzione del maestro Vitale54 e con l'intervento di artisti di fama indiscussa».55 52

«Radio Orario» I/1, 18 gennaio 1925, p. 4. e «Radio Orario», I/2, 24 gennaio 1925, p. 21. Nel n. 4 dello stesso anno, la rivista «Radio Orario» alla pagina 9, nella programmazione di sabato 14 febbraio, dà notizia della «Prima trasmissione d'opera dal Costanzi». 53 Nel 1927 Radio Napoli stabilisce due giorni fissi, il martedì e il sabato, per mandare in onda le trasmissioni dal Regio Teatro San Carlo, essendo questi i due giorni della settimana in cui si concentrano le rappresentazioni di maggior pregio artistico, motivazione di cui dà conto ai suoi utenti in «Radiorario», III/10, 5 marzo 1927, p. 3. 54 Edoardo Vitale nasce a Napoli nel 1872, studia sotto la guida di Eugenio Terziani al Liceo Musicale "Santa Cecilia" di Roma dove dal 1893, quale vincitore di concorso, ricopre la cattedra di Armonia. Contemporaneamente si afferma nella direzione d'orchestra quale sostituto di Arturo Tosca47


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La politica aziendale delle dirette in esterno è attuata anche dalle altre stazioni trasmittenti. E’ interessante leggere un resoconto giornalistico dell'organo ufficiale dell'URI che riporta una contemporaneità nella stessa serata di dirette teatrali da tutte le tre emittenti allora operative: «Nella stessa sera di sabato scorso, […...] si effettuava da 1MI la trasmissione dell'opera Don Pasquale, da 1NA si trasmetteva il Barbiere dal Teatro San Carlo e da 1RO l'opera Hensel e Gretel dal Teatro Argentina.»56. Bisogna ad ogni modo tenere a mente che per la Stazione di Napoli, quelli dal Regio Teatro San Carlo, sono solo una parte dei collegamenti realizzati. A tal fine, si riporta uno schema riassuntivo dei collegamenti certamente già attivati al 1928. Tabella 1 – Collegamenti stabili di Radio Napoli attivi al 1928 Collegamenti Teatri 57

Istituti Musicali

Circoli culturali

Alberghi

Caffé

S. Carlo Conservatorio Salone Hotel Excelsior Trocadero Politeama “S. Pietro dei Kaflisch Radio Bellini a Majella” concerti Napoli Eldorado del Alhambra Circolo Artistico -----------Sala degli illusi

Giardini Pubblici Villa Comunale

Luoghi di culto Basilica del Carmine Maggiore

Con riferimento ai collegamenti esterni, è interessante operare una verifica incrociata tra diverse stazioni radiofoniche per accertare se quella di Napoli possa essere collocata nella media. Nello schema di seguito riportato la Stazione di 1NA è messa a confronto con quelle di Roma, Milano, Genova e Torino. Tra le cinque stazioni prese in considerazione,58 Napoli con i suoi 13 collegamenti stabili si presenta in posizione

nini al Teatro alla Scala dal 1908 al 1910. In seguito, dopo un'intensa attività in Sud America, dal 1926 dirige l'orchestra del Regio Teatro San Carlo di Napoli del quale nella stagione 1927-1928 diventa direttore generale degli spettacoli. Muore a Roma nel 1937. 55 «Radiorario», anno III/7, 12 febbraio 1927, p. 1. 56 Ibidem. 57 Vi è anche notizia dell'esistenza di un collegamento nel 1928 con il Real Teatro Mercadante: l'informazione si può leggere in «Radiorario», IV/35, 26 agosto 1928 che, alla pagina 4, registra la trasmissione dal “Mercadante” di un concerto del Corpo corale dei Cosacchi del Kubany, una formazione che in quegli anni riscuoteva molto successo in tutta Italia. Non è però chiaro se si è in presenza di un collegamento stabile o occasionale. 58 Oltre queste cinque stazioni, al 1929 era stata inaugurata solo quella di Bolzano (il 12 luglio 1928 «in occasione dei grandi festeggiamenti patriottici avvenuti nella città per l'inaugurazione del Monumento della Vittoria». Cfr. «Radiorario», IV/30, 22 luglio 1928, p. 4.), che non è stata inclusa in questa analisi incrociata, essendo stata creata dall'Ente come una stazione locale e, quindi, da considerare fuori da un possibile circuito di comparazione. 48


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intermedia tra le stazioni di Roma (19) e Milano (15) da un lato, e Torino (11) e Genova (7) dall'altro. Mettendo a confronto il dato relativo al tipo di strutture collegate, si evince che solo i collegamenti da teatro sono attivati per tutte le stazioni. Tabella 2 – Collegamenti al 1929 per le Stazioni di Roma, Milano, Napoli, Torino e Genova Stazioni Collegamenti Teatro

Roma

Milano

Napoli

Genova

dell'Opera Adriano Argentina Nazionale Eliseo Augusteo

alla Scala Lirico Dal Verme Filodrammatici Arcimboldi Excelsior del Popolo

S. Carlo Politeama Bellini Eldorado Alhambra

Carlo Felice Margherita Genovese

Torino Regio Chiarella V. Emanuele di Torino Trianon Balbo

Conservatori

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S. Pietro a Majella

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Licei Musicali

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Accademie

Filarmonica

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Tempia

Università

Regia

Popolare

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Liceo musicale

Scuole

Cesi

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Istituti di Cultura

Casa di Dante

Istituto fascista Cultura

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Circoli

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del Convegno

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Varietà

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Maffei

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Giardini pubblici Alberghi

Villa Comunale Russia Plaza Palazzo Quirinale

Ristoranti ---Caffè

Fiaschetterie

Salone dei concerti Circolo Artistico Sala degli Illusi

Casina / Casinetta delle Rose ----

Excelsior ----

Savini Toffoloni Cova

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Kaflisch Trocadero

De Ferrari Imperia

Ligure Lagrange

Toscana

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Sindacati

Fascista Ingegneri

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Organismi politici

Senato

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Centri sportivi

Via Flaminia

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Rinascente

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Basilica del Carmine S. Lorenzo Maggiore N. S. delle Vigne

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Grandi magazzini Chiese

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MARIA ADELE AMBROSIO

Nuovi indirizzi normativi in favore delle radiodiffusioni di spettacoli dal vivo. La legge 14 giugno 1928 n. 1352 Com’è stato possibile appurare dalle analisi precedenti, nell'economia dell'azienda una voce importante è data dalla programmazione di musica dal vivo con la conseguente necessità di dover favorire la diffusione capillare dei collegamenti stabili esterni, da sempre inevitabilmente obiettivo dell'ente. Dopo un iniziale atteggiamento fortemente retrivo degli operatori dello spettacolo, che rendeva difficoltoso il conseguimento di tale obiettivo, in pochi anni vengono realizzati molti collegamenti con siti diversi che, per quanto riguarda nello specifico i teatri, interessano tutte le stazioni già operanti. Ciò potrebbe lasciar pensare a un'apertura improvvisa e generalizzata degli impresari e degli enti teatrali verso i collegamenti radiofonici dai loro siti, in realtà la ragione va individuata in una specifica normativa che, emanata con la L. 14 giugno 1928 n. 1352, sancisce una procedura definita come espropriazione per pubblica utilità a favore dell'ente concessionario del servizio di radioaudizioni circolari (EIAR). L'articolato della L. 1352/1928 (11 articoli, ai quali se ne sommano altri 8 dell'annesso regolamento) detta l'intera regolamentazione delle procedure atte a rendere possibile la radiodiffusione di esecuzioni musicali, e artistiche in genere, da locali pubblici. Per comprendere appieno il portato del disposto legislativo e l'incidenza dello stesso sia sulle radiodiffusioni, sia soprattutto sugli interessi economici e non degli operatori dello spettacolo dal vivo, nel prosieguo viene analizzato e, ove necessario, commentato il testo normativo. Il nucleo di tale testo può essere sintetizzato in quattro punti, ai quali va ad aggiungersi la normazione di altri aspetti che non faranno comunque parte di questa indagine in quanto, regolamentando le possibili controversie che si fossero potute eventualmente instaurare tra concessionario dei servizi di radiodiffusione e impresari o altri aventi diritto, si ritengono di pertinenza e interesse prettamente giuridico e, pertanto, ne viene tralasciato l'esame in questa sede. In concreto, quattro sono i punti rilevanti per questa analisi di nostro interesse, ovvero quelli che riguardano le trasmissioni, le prove, il compenso corrisposto agli aventi diritto per procedere alle registrazioni e la ripartizione tra loro di tale compenso. In merito a questi quattro punti, dal combinato disposto della legge e dell'annesso regolamento si evince che: riguardo alle trasmissioni, l'EIAR ha il diritto di effettuare la radiodiffusione da luoghi pubblici o aperti al pubblico (teatri, sale da concerto, accademie e conservatori)59 a titolo di espropriazione per pubblica utilità, fatta eccezione per le 59

Giuridicamente il luogo aperto al pubblico si distingue da quello pubblico in quanto, a differenza di quest'ultimo, è un luogo di per sé privato ma nel quale è consentito un accesso regolamentato, ovvero in determinati momenti e a determinate condizioni che comprendono molto spesso anche la dazione di un corrispettivo economico (tipico esempio di luoghi aperti al pubblico sono i luoghi in cui si svolgono spettacoli, come appunto i teatri).

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prime teatrali e per le opere nuove. Il diritto è sancito esclusivamente per le stagioni teatrali o di concerti di durata uguale o superiore a due mesi ed è regolamentato da un'articolata serie di limiti: all'EIAR, infatti, è imposto di non superare la soglia di un accesso settimanale. Tale accesso può essere esercitato una volta ogni cinque concerti (o frazione di cinque), ma in ogni caso è comunque garantito in misura non inferiore a due volte mensili, a prescindere dal numero di concerti effettuati. Va specificato che, così come è stato espresso in altra parte del testo normativo, per “prima” deve intendersi la prima rappresentazione di ciascuna opera durante ogni stagione teatrale e per “opera nuova” l'opera che è stata rappresentata nei teatri meno di tre volte; riguardo alle prove, l'EIAR ha diritto a installare gli impianti che ritiene atti alla radiodiffusione e a effettuare le prove tecniche necessarie. Per le prove sono previsti due tempi diversi: un primo tempo durante il quale, su accordo con gli impresari o con gli enti, vengono effettuate, nel corso delle prove d'insieme, prove tecniche in numero non inferiore a cinque per le quali è tassativamente interdetta la trasmissione e un secondo tempo durante il quale vengono effettuate riprese di brani di esecuzioni o di rappresentazioni per le quali, al contrario, è prevista la trasmissione, in orari inconsueti rispetto a quelli normali della stazione, ma ne è interdetto l'annuncio al pubblico in qualsiasi forma. Relativamente a questo secondo punto va commentato che il disposto (di per sé vessatorio, com'è in qualsiasi procedura di tipo espropriativo, a prescindere dal tipo di regime che la dispone) è in parte mitigato da previsioni favorevoli per gli impresari (e quanti altri interessati) consistenti sia nella possibilità di opporre reclamo al Ministro per le comunicazioni relativamente a una cattiva resa delle radiodiffusioni, sia nel diritto di ottenere un'eventuale imposizione (ad opera dello stesso Ministro) al concessionario dell'obbligo di miglioramento delle radiodiffusioni che risultassero di cattiva resa; riguardo al compenso, l'EIAR è tenuto a corrispondere un equo compenso agli aventi diritto che non è dovuto per le trasmissioni delle prove. Commentando questo specifico punto del disposto normativo, è d'uopo operare in via preliminare un distinguo tra due categorie di aventi diritto: alla prima categoria appartengono impresari (o enti esercenti), direttori d'orchestra, artisti primari o comprimari, concertisti solisti, attori, orchestre, cori e bande; della seconda fanno parte, invece, autori ed editori di musica e di teatro, proprietari di teatri e di sale da concerto, conservatori, accademie e altri locali dove si consuma musica dal vivo. Tra gli appartenenti alla prima categoria, agli impresari (o in alternativa agli enti esercenti) è riconosciuta una posizione privilegiata rispetto agli altri, nei confronti dei quali essi esercitano, per disposizione normativa, un potere di rappresentanza. Infatti, secondo quanto prescritto dal regolamento attuativo della legge 1352/1928, negli accordi con il concessionario miranti a stabile l'entità dell'equo compenso, l'impresario agisce, oltre che in proprio, anche in nome e per conto degli altri appartenenti alla prima categoria. Gli appartenenti alla seconda categoria, dal canto loro, redigono accordi autonomi con il concessionario per la determinazione dell'indennizzo; 51


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riguardo alla ripartizione dell'“equo compenso”, è sempre agli impresari (o enti esercenti) che la legge in esame riconosce una posizione privilegiata statuendo che per le rappresentazioni teatrali un terzo spetta all'impresario (o ente esercente) e due terzi sono da dividere tra tutti gli altri appartenenti alla prima categoria (direttori d'orchestra, artisti primari o comprimari, concertisti solisti, attori, orchestre, cori e bande) in misura proporzionale agli emolumenti e alle paghe riscosse. Parimenti per i concerti i tre quinti competono all'impresario (o ente esercente) e i due quinti residui sono da dividere tra tutti gli altri appartenenti alla prima categoria (direttori d'orchestra, artisti primari o comprimari, concertisti solisti, attori, orchestre, cori e bande) sempre in misura proporzionale agli emolumenti e alle paghe riscosse. L'affermazione di Radio Napoli quale centro di produzione musicale Il particolare rilievo riconosciuto, anche dagli utenti, ai collegamenti stabili realizzati dall'emittente radiofonica campana non può comunque portare a disconoscere il valore e l'entità delle trasmissioni da studio che, con l'avvenuta istituzione di una compagnia lirica, una di operette, un'orchestra per i concerti e una per le canzonette, fanno sì che, già alla fine degli anni venti, l'emittente napoletana possa legittimamente essere considerata un centro di produzione, oltreché di trasmissione, musicale. Del resto, tutto ciò è pienamente convergente con gli indirizzi generali dell'ente che, in seguito, saranno chiaramente espressi per le produzioni liriche. L'occasione è data dall'inaugurazione di un'altra stazione radiofonica,60 quando viene affermato che La Radio italiana ha il primato fra le radio europee per le trasmissioni liriche dai teatri e dagli auditorii (anche dagli auditorii: insistiamo su questo fatto, perché troppi dimenticano che l'EIAR non ricava le trasmissioni dai teatri che in qualche mese dell'anno e provvede negli altri autonomamente, occupando artisti e masse che resterebbero inattivi.

La preminenza delle trasmissioni liriche dagli auditorî rispetto a quelle dai teatri riportata dalla Direzione dell'Ente in via generale, per quanto riguarda nello specifico Radio Napoli è sintetizzata dal prospetto seguente:61 Tabella 3 – Trasmissioni da Radio Napoli nel triennio 1926-1928 Radio Napoli Anni 1926-1928

Numero di opere eseguite

Esecuzioni per opera

Numero di operette eseguite

Esecuzioni per operette

Dall' Auditorio

56

139

34

54

Dai Teatri

29

61

----------

----------

60

Le affermazioni sono fatte durante l'inaugurazione dell'emittente fiorentina (21 aprile 1932) e si possono leggere in «Radiocorriere», VIII/16, 16 aprile 1932 p. 3. 61 Il prospetto è stato ricostruito per stralcio da altro più ampio riportante gli stessi dati anche per le altre due stazioni al tempo funzionanti, Radio Roma e Radio Milano, e pubblicato in «Annuario E.I.A.R.», 1929, p. 84. 52


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Come risulta, per la stazione di Napoli il rapporto tra le opere trasmesse dall'auditorium e quelle trasmesse dai teatri si approssima al doppio mentre il rapporto tra le esecuzioni addirittura lo supera. Un discorso a parte va fatto per le operette per le quali dal prospetto precedente sembrerebbe che per il periodo preso in considerazione (1926-1928) non si registrassero per niente esecuzioni dai teatri cittadini. In realtà, da alcuni numeri del «Radiorario» per la stazione di Napoli, con riferimento a questo periodo, risulta la trasmissione (comunque in numero limitato) di operette dal Teatro Bellini. Si potrebbe ipotizzare che la discordanza tra le risultanze del periodico dell'Ente e quelle del suo Annuario fosse dovuta in parte al dato che per la stazione di Napoli il segmento dello spettacolo leggero era per lo più soddisfatto con la trasmissione di canzoni. Nell'ambito del triennio preso in considerazione, va riportato, poi, un dato importante per lo sviluppo della programmazione da studio: la costituzione di una nuova orchestra. Il dato è ascrivibile al 1928, anno in cui, con il trasferimento della struttura da via Cesario Console alla nuova sede di Pizzofalcone, l'emittente si trova ad avere a disposizione spazi più ampi di quelli precedenti. Sotto la guida di Enrico Martucci, viene allora inaugurata la nuova Orchestra della Stazione di Napoli che sarà costituita dai migliori orchestrali napoletani, prime parti del Teatro San Carlo e docenti del Conservatorio S. Pietro a Majella. Tabella 4- Organico dell'Orchestra inaugurata a Radio Napoli nel 1928 Direttore

Enrico Martucci

Maestro sostituto ed istruttore del coro

Alessandro Lualdi

Primo violino solista

Giovanni Calveri

Prima viola

Giorgio Falvo

Primo Violoncello

Giuseppe Martorana

Primo contrabbasso

Francesco Gamberini

Primo violino di riga

Matteo Manganello

Primo violino di riga

Macario Principe

Violino di riga

Giulio Salvati

Violino di riga

Luigi Rocca

Primo flauto

Giorgio Ventre

Primo oboe

Giorgio Dinisio

Primo clarinetto

Ernesto Carpio

Primo fagotto

Elpidio Crestini

Primo corno

Filiberto Capozzi

Prima tromba

Giovanni Aita

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MARIA ADELE AMBROSIO

Peculiarità della programmazione radiofonica di Radio Napoli ai suoi esordi La programmazione radiofonica degli esordi dell'emittente napoletana presenta due peculiarità convergenti con quelle delle altre emittenti già operative: il carattere aristocratico-borghese e quello ludico. S’indugia sul primo dei due molto brevemente, solo per mettere in evidenza che esso si pone in rapporto di stretta consequenzialità con i costi esorbitanti che i dispositivi riceventi hanno all'inizio dello sviluppo della radiofonia e, sia pure in misura minore, con l'obbligatorietà62 e l'onerosità dell'abbonamento. Ci si sofferma, invece, più lungamente sul carattere ludico, peraltro determinato dalle direttive centrali e, pertanto, comune alle altre emittenti. È questo, quello di un perseguito carattere ludico, un dato che si può facilmente inferire dall'analisi dei fascicoli della testata dell'Ente, come dalle linee programmatiche dell'azienda rinvenibili nell'Annuario EIAR del 1929. In queste ultime, è innanzitutto stabilito che i programmi debbano essere raggruppati in precise categorie individuate in: 63 1° - Notizie ed informazioni; 2° - Conferenze, lezioni, conversazioni, discorsi; 3° - Racconti, declamazioni, recitazioni; 4° - Musica; 5° - Varie

A questa prima dichiarazione d'intenti e al suo corollario «ciascuna di tali categorie, nelle sue varie suddivisioni, deve essere, in opportuna proporzione e con determinati criteri, rappresentata»,64 segue l'esternazione di altri principi che si presentano di segno opposto tra di loro. Infatti, pur essendo espressamente riconosciuto che «L'EIAR deve aspirare a diventare il giornale parlato d'Italia, strumento potente di propaganda a disposizione del Governo», viene anche affermato che «La musica costituisce la base principale delle nostre trasmissioni».65 Quest'ultima affermazione trova riscontro, sicuramente, nelle programmazioni delle diverse stazioni radiofoniche e, dato maggiormente interessante, in quelle di Radio Napoli, nelle quali a un'ampia copertura della programmazione con musica di vario genere si contrappone una messa in onda limitata di programmi parlati, almeno fino a quando il regime, compresa appieno la forza dirompente del nuovo mezzo, ne inizia ad incrementare l'utilizzo come strumento di propaganda.66 Una vocazione fonda62

L'obbligatorietà è sancita dall'art. 27 del Regio decreto 1226 del 10 luglio 1924. Il decreto fissa le tariffe in £. 90 annue maggiorate di ulteriori £. 80 da pagarsi una tantum per «diritto, tasse e spese di licenza»; per abbonamenti biennali o pluriennali, il testo normativo prevede sconti variabili a seconda del numero di anni per i quali l'abbonamento è sottoscritto. Tra le condizioni ostative alla fruizione della radiofonia, ne è stata annoverata anche una aggiuntiva per le zone rurali: la mancanza di energia elettrica in molte abitazioni. 63 «Annuario E.I.A.R.», 1929, p. 41. 64 Ibidem. 65 Ivi. pp. 60-70. 66 In linea con l'intento propagandistico è anche la trasmissione, al termine delle programmazioni quotidiane, di Giovinezza, inno del Partito Nazionale Fascista composto nel 1922, con musica di Giuseppe Blanc su parole di Marcello Manni. Proprio per l'emittente di Napoli, un riferimento 54


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mentalmente musicale, quindi, per gli inizi di Radio Napoli che si evince dalle linee programmatiche delineate per la stagione musicale del 1929 per questa stazione radiofonica, linee nelle quali, accanto alla trasmissione di esecuzioni di opere italiane e straniere, è progettata l'esecuzione di operette (per entrambe sono previsti tanto lavori già eseguiti, quanto nuovi), musica da camera («solistica e d'insieme», in esecuzioni sia di illustri virtuosi, sia di due quartetti - uno d'archi, l'altro di fiati) e «periodiche esecuzioni di musica corale, sia nel genere polifonico puro (voci sole) sia in quello prettamente teatrale e folkloristico».67 Una vocazione, questa, che si esprime in termini di prevalenza della musica nelle programmazioni di Radio Napoli. Radio Napoli per l'infanzia Accanto alla vocazione musicale, a Radio Napoli non manca nemmeno un dichiarato intento educativo delle nuove generazioni in linea con i dettami propri del regime. A tal fine, già dall'inizio della vita della stazione radiofonica partenopea, è organizzata una Confederazione di fanciulli con annesso tesseramento per i figli degli abbonati cittadini all'URI con la predisposizione di concorsi e giochi a premi, Confederazione che «mira alla collaborazione educativa coi genitori».68 Proprio a proposito della programmazione per bambini è d'uopo mettere in luce la differenza che corre tra quella dell'emittente campana e quella dell'emittente 1MI, la rete radiofonica milanese. Ambedue presentano uno spazio dedicato ai più piccoli che per Radio Napoli prende il nome di Bambinopoli e per Radio Milano quello de Il Cantuccio dei bambini, con impronta e funzioni sostanzialmente diverse. Infatti Il Cantuccio dei Bambini prevede, con cadenza regolare, un vasto spazio musicale con audizioni di vario genere, dalle fiabe musicali ai profili di musicisti corredati da esecuzioni di brani delle loro opere, dalle commedie musicali per bambini alle prime esecuzioni di musiche per l'infanzia. Radio Napoli e il rapporto con il suo pubblico: i gusti dei radioascoltatori Nella descrizione della struttura e del funzionamento dell'emittente qualche cenno, sia pur breve, al rapporto tra Radio Napoli e il suo pubblico è dovuto. S'intende qui far riferimento al modo d'approcciarsi dell'emittente ai suoi ascoltatori per conoscerne i gusti musicali. D'altronde, il grado di soddisfazione dell'utenza è certamente un dato importante per ogni azienda e anche l'ente radiofonico non si può sottrarre a questa logica, per cui, già dagli inizi, non manca, in più di un'occasione, di chiedere ai radioascoltatori di rendere noti gusti e desiderata, con la promessa di tenere gli uni e gli altri nel debito conto. A tal fine, l'Azienda instaura un rapporto diretto con il proprio

esplicito a questo dato si può leggere sulla copertina del Vol. XIII, numero 334 di venerdì 18 dicembre 1931 del «World-Radio», l'analogo inglese del «Radio Orario». 67 Le notizie sono ricavate da «Radiorario», IV/45, 4 novembre 1928, p. 3, così come le citazioni che seguono nel testo di questo paragrafo. 68 «Annuario E.I.A.R.», 1929, p. 76. 55


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pubblico attraverso le pagine del «Radiorario» sulle quali indice dei veri e propri referendum. Gli indirizzi della politica centrale sono colti, ovviamente, a livello periferico, evenienza che induce Radio Napoli a chiedere ai propri ascoltatori di inviare alla sede (a quell'epoca in via Cesario Console) dei desiderata di pezzi di musica (nel numero massimo di tre) che potranno eventualmente confluire nel Concerto del pubblico che sarà trasmesso il primo giovedì del mese. L'iniziativa che ha il fine di «rendere le trasmissioni sempre più confacenti ai desideri degli ascoltatori»69 si concretizzerà nella proposta di programmi formati con i brani che hanno avuto il maggior numero di richieste e che prenderà il via già dalla settimana successiva.70 Ricezione del nuovo mezzo radiofonico a Napoli Riguardo all'accettazione del nuovo mezzo di comunicazione da parte dei napoletani, al momento della nascita della Stazione 1NA si registrano sentimenti e atteggiamenti diversi: sicuramente accolto con favore dal cittadino professionalmente del tutto lontano dal mondo musicale e artistico in genere, lo è molto meno da chiunque, a vario titolo, partecipa all'industria del divertimento e del tempo libero. Agli esordi della programmazione, apertamente schierati contro il nuovo mezzo sono i proprietari dei cinematografi cittadini e, a maggior ragione, quelli dei locali dove si consuma musica dal vivo, e ciò per ovvie ragioni, considerando che, come prevedibile e inevitabile, l'avvento della radio porta con sé un significativo calo delle richieste dei servizi forniti dagli uni come dagli altri. Del resto, l'ostilità verso il nuovo strumento non è un atteggiamento assunto esclusivamente dagli operatori napoletani del settore. Infatti, nella stessa ottica si pone su tutto il territorio nazionale la resistenza delle direzioni di alcuni teatri a instaurare collegamenti stabili, o anche solo occasionali, con la radio per la trasmissione in diretta delle loro rappresentazioni ed esecuzioni musicali. Ovviamente opposta è la posizione degli operatori del nuovo mezzo, che nel considerare il rapporto tra radiofonia e teatro affermano: Tali collegamenti riferiti ai teatri (massimi e minimi), hanno recato inquietudine a proprietari, impresari, artisti di tutti i paesi: artisti creatori, artisti esecutori. Le associazioni, le corporazioni, gli enti in parte hanno combattuto finendo col mettersi sulla giusta via, in parte combattono ancora la nuova grande conquista, poiché credono che la radiodiffusione porti un ingente danno diretto od indiretto alle collettività ed agli individui isolati.71

D'altra parte, la posizione avversa ai collegamenti è diffusa anche all'estero. Infatti, in alcuni paesi europei si registra il timore di eventuali effetti deleteri dell'introduzione della radio nel comparto dello spettacolo. Dal Bollettino dell'Union Internationale de Radiophonie de Geneva del 1927, a esempio, risulta che in Norvegia i direttori dei 69

«Radiorario», IV/8, 19 febbraio 1928, p. 30. Anche in questo caso il canale attraverso il quale l'URI instaura il rapporto con il suo pubblico è la testata ufficiale dell'Ente. 70 Cfr. «Radiorario», IV/9, 26 febbraio 1928, p. 15. 71 Radiofonia e teatro in «Radiorario», II/52, 26 dicembre 1926, p. 19 56


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teatri e gli organizzatori di concerti sono dell'opinione che la Radiofonia possa cagionare loro rilevanti perdite.72 Ritornando all'ambiente più direttamente di interesse per questo elaborato, va messo in luce come, nel timore di riportare danni alla propria attività, agli operatori dello spettacolo dal vivo si aggregano gli appartenenti ad altre due categorie, i titolari dei tanti negozi napoletani di pianoforti e gli accordatori, figure professionali legate a quella sorta di hausmusik73 molto sviluppata anche a Napoli, tra gli ultimi anni del XIX secolo e i primi del successivo, la cui attività per l'avvento della radio viene fortemente ridimensionata. Pur se in misura minore, risentono dell'incidenza del nuovo mezzo anche i commercianti di abiti (pure delle più prestigiose case di moda cittadine) che registrano nelle loro attività l'incremento delle vendite di pantofole e vestaglie da camera (abbigliamento appropriato per la vita più casalinga incentivata dall'avvento della radio) che non riesce, tuttavia, a compensare le perdite dovute al calo delle richieste di abiti eleganti, precedentemente venduti per le frequentazioni di teatri e sale da ballo. Il nuovo corso di Radio Napoli: polo tecnico potenziato, polo artistico declassato «Crediamo bene premettere alla cronaca della stazione napoletana una smentita a voci fantastiche messe in giro non sappiamo da chi e a quale scopo. L’Eiar, secondo questi informatori male informati, penserebbe a sopprimere la stazione partenopea. Niente di vero. L’Eiar pensa di intensificare l’attività della Stazione e si propone di migliorarla ancora tecnicamente ed artisticamente». È l'alba di un nuovo corso per Radio Napoli quella che inizia con questo proclama comparso su «Radiocorriere» VI/5 del 2 febbraio 1930 (p. 11). L'ente tranquillizza i radioascoltatori circa l'ipotesi di una soppressione della Stazione di Napoli. In realtà, qualcosa di molto simile accade di lì a poco. La Stazione viene sempre più potenziata solo da un punto di vista tecnico (con un aumento dei Kw di potenza-antenna motivato dallo scopo di aumentare la ricevibilità dell'emittente), ma, per contro, diminuisce drasticamente ogni sua attività di produzione. 1NA, attraverso il sistema del relais (il sistema che realizza un'interconnessione tra più stazioni, per modo che ognuna di esse può anche irradiare il segnale di una delle altre), in pratica finisce per diventare satellite del centro dominante di produzione che, nel caso specifico, è quello di Roma. La conseguenza pratica è che da questo momento ben poche saranno le produzioni della stazione napoletana, con un inevitabile declassamento e conseguente abbattimento dell'interesse per la sua programmazione, che rimane minimale. Per questo motivo, è stato deciso di non 72

«Radiorario», III/1, 1 gennaio 1927, p. 2. Tra le riunioni musicali che prendevano abitualmente vita a Napoli nei primi decenni del XX secolo che possono essere inquadrate come forme di hausmusik vanno ricordati «I tè danzanti della Pro-russi», eventi mondani organizzati dal Comitato «Pro russi poveri» tra il 1922 e il 1924 (con l'acme al 1923) in un padiglione del giardino Vasto (in via de' Mille), durante i quali si svolgevano conferenze, spettacoli, letture di romanzi russi e concerti per un pubblico di russi che vivevano a Napoli. Durante queste riunioni, dopo la consumazione di un tè offerto dai padroni di casa e un ballo, si poteva avere l'occasione di ascoltare, tra gli altri, il violinista Alberto Curci accompagnato dalla famosa pianista russa Raisa Lifschitz e il pianista Enrico Martucci (che qualche anno più tardi ritroveremo a Radio Napoli). 73

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MARIA ADELE AMBROSIO

approfondire in questa sede la storia dell'emittente per la fascia temporale intermedia tra questo evento e il momento della rinascita della Stazione che avverrà molti anni in avanti, nel 1943, con l'arrivo delle truppe alleate. Radio Napoli dopo l'8 settembre 1943 Nel 1943 la sede di Radio Napoli di via Depretis è fatta saltare dai tedeschi, ma, ben presto, con l'arrivo degli alleati, l'emittente avrà nuova vita. Con l'ausilio di apparecchiature militari e il ricorso a un sistema embrionale di collegamento radio, da Pizzofalcone, sulla lunghezza d'onda di metri 228, la stazione torna a trasmettere dal 15 ottobre, con la diversa denominazione di “Radio Napoli-Nazioni Unite”. Questa nuova collocazione sarà tuttavia di breve durata: il 1 ottobre 1944 la stazione sarà spostata in Corso Umberto I (nella sede requisita della Singer) dove rimarrà fino al 1962.74 L'emittente è organizzata e controllata dal Psychological Warfare Branch (P.W.B.).75 Le fasi iniziali della nuova stagione sono caratterizzate dalla più completa precarietà. Tempi di programmazione ristretti (all'inizio sono solo quattro le ore di trasmissioni giornaliere, dalle 20.00 alle 24.00), mancata diffusione all'intero perimetro cittadino e scarsa copertura del segnale a medio-lungo raggio76 sono tra le pecche maggiori dell'emittente agli inizi della nuova fase storica. La programmazione, tuttavia, aumenta in termini di tempo gradatamente, quasi fin da subito, per arrivare, dopo appena cinque mesi (al 15 marzo 1944) a una copertura che va dalle ore 7.00 alle ore 01.00 e ha come sigla l'attacco di quello che sarebbe diventato l'inno nazionale: "Fratelli d'Italia" di Goffredo Mameli. La Radio Napoli del PWB è sicuramente una radio d'informazione77 e di propaganda bellica, che trasmette con un duplice obiettivo, da un lato quello di combattere le armate tedesche e la Repubblica Sociale Italiana, dall'altro quello di infondere tranquillità alla popolazione e ingenerare in essa l'idea che le truppe alleate fossero giunte per portare a termine la liberazione di un popolo oppresso da un giogo ventennale. Duplice è, pertanto, anche l'approccio: da un lato molti sono gli intellettuali, gli attori e i registi che si possono ascoltare ai microfoni di Radio Napoli, da Antonio Picone Stella a Luigi Compagnone, da Raffaele La Capria 74

A questa data risale l'ultimo trasferimento in Via Marconi, dove oggi insiste la sede del Centro di Produzione della RAI di Napoli. 75 Il Psychological Warfare Branch (Divisione Guerra Psicologica) è un organismo creato dal governo militare anglo-americano in Italia, alla vigilia dello sbarco in Sicilia, con funzioni di propaganda antifascista e antinazista nei territori controllati dalla coalizione alleata, operativo fino al 1 gennaio 1946, quando il governo italiano rientra in possesso della sua piena sovranità. La divisione ha il compito di indirizzare l'attività dei mezzi di comunicazione di massa mediante censura, diffusione, controllo e supervisione delle notizie divulgate, al fine di facilitare l'occupazione dell'Italia Centro-Settentrionale, sede del governo della Repubblica Sociale Italiana. Per evidenziare il nuovo corso, con provvedimenti discrezionali il PWB chiude le testate giornalistiche compromesse con la dittatura fascista sostituendole con altre nuove e requisisce le stazioni radio del regime. È la sorte che spetta prima a Radio Bari e successivamente all'emittente napoletana. 76 La potenza iniziale è di un solo KW: il segnale, pertanto, ha una copertura molto limitata. 77 Fanno parte della programmazione di Radio Napoli-Nazione Unite notiziari tradotti dalle trasmissioni di Radio Algeri, della Voice of America (VOA, il servizio radiotelevisivo del Governo federale degli USA) e della BBC. 58


RADIO NAPOLI. STORIA, RICEZIONE E PROGRAMMAZIONE MUSICALE TRA IL 1926 E IL 1945

a Tommaso Giglio, da Domenico Rea a Leo Longanesi, da Mario Soldati a Stefano Vanzina78 da Aldo Giuffrè a Arnoldo Foà,79 da Giuseppe Patroni Griffi a Francesco Rosi,80 ma dall'altro, come è logico, il ritorno alla normalità, che si va tenacemente ricostruendo dopo lo scempio bellico, passa necessariamente attraverso altre coordinate, ben note, che si identificano fondamentalmente nel divertimento e, più nello specifico, nello spettacolo e nella musica. Nel perseguimento di questi fini viene creato un settore spettacolo posto sotto la responsabilità di due intellettuali: Edoardo Antonelli (che aveva adottato lo pseudonimo di Eduardo Anton), scrittore teatrale, e Ettore Giannini, talentuoso regista, scrittore e musicista. Nella stessa ottica, ampio spazio viene riservato alla musica nella programmazione della ricostituita Radio Napoli. Il grande impulso dato a questo tipo di trasmissioni, nello specifico, si pone come elemento di rottura con un passato recente (in cui le emittenti radiofoniche avevano proposto soprattutto bollettini di guerra e commenti politici), riallacciandosi, di contro, alla storia che Radio Napoli aveva avuto dai sui albori fino alla catastrofe bellica. E ciò riguarda i protagonisti, gli schemi di programmazione e le tipologie di trasmissioni musicali. Primo elemento di continuità con il passato è dato dalla presenza di Enrico Martucci, al quale viene offerto l'incarico di organizzatore del settore lirico della nuova Radio Napoli, settore che sarà molto curato, essendo certamente il popolo napoletano un popolo di melomani. E anche questo rappresenterà un elemento di continuità: vengono ripristinati i collegamenti con il San Carlo. Dal Massimo, attraverso l'etere, nelle abitazioni dei napoletani arrivano le opere liriche e i concerti sinfonici, ma, quella dal San Carlo, non è l'unica musica che viene offerta loro. Ci sono i concerti da studio (e si ripropone anche in questo caso un elemento di continuità con la programmazione precedente) di famosi concertisti,81 in interpretazioni solistiche e in duo. Ci sono poi anche i format innovativi. C'è, a esempio, il Rendez vous con, una sorta di rubrica di divulgazione/educazione alla musica, tenuta dalla pianista Marta De Concilis che, con la classica lezione-concerto, conduce i radioascoltatori attraverso singoli approfondimenti sulle più importanti figure di musicisti, senza tralasciare i contemporanei. Con Radiofollie arriva anche il prototipo dei moderni talent show. È quella di Radiofollie una formula complessa e nuova per i programmi del tempo, in78

Stefano Vanzina, con lo pseudonimo Steno, cura la rubrica satirica e di propaganda antifascista “Stella bianca!” insieme a Longanesi e Soldati, che, più tardi, nel 1947, ne Il Canzoniere del profugo, ricorderà la sua esperienza a Radio Napoli con i versi “Fischia il vento al Calascione/tra le case diroccate:/siamo cinque o sei persone/mal nutrite, malpagate.” Tutti e tre, in fuga dalla Capitale, erano giunti a Napoli dopo un viaggio rocambolesco, intrapreso perché temevano l'arrivo dei tedeschi. 79 Con la rubrica “L'Italia combatte”. La rubrica, con lo stesso titolo, aveva fatto parte del palinsesto di Radio Bari: quest'ultima era un'emittente sorta in precedenza, sempre sotto l'egida del PWB, quale avamposto nella guerra di liberazione e si avvaleva della collaborazione di molti di quegli stessi intellettuali (tra i quali anche Foà) che, quando il capoluogo campano verrà occupato dagli Alleati, si trasferiranno a Radio Napoli-Nazioni Unite, costituendone il nucleo propulsivo. 80 Il regista, più tardi, ricordando questa esperienza racconta che a Radio Napoli conduceva in diretta una rivista radiofonica di successo di un'ora di durata, su copioni di Fischietti (un eccellente autore napoletano di rivista), con attori e cantanti napoletani e con l'orchestra diretta da Gino Campese. 81 Tra gli altri, la pianista Marta de Conciliis, il violoncellista Willy La Volpe, la mandolinista Maria Calace. 59


MARIA ADELE AMBROSIO

quadrabile tra intrattenimento (con parti dialogate miste a parti musicali) e laboratorio per nuovi talenti che si esprimono nella recitazione e, in misura maggiore, nel canto. Tra le novità, le trasmissioni di canti partigiani francesi e, in genere, di tanta musica popolare straniera. In questa scia, Radio Napoli-Nazioni Unite diventa anche il mezzo per sdoganare finalmente il jazz, dopo anni di discussioni, di tentativi di penetrazione e tentativi opposti di resistenza, che non avevano comunque mai tolto vitalità al genere. Con l'arrivo degli alleati, ovviamente, lo sdoganamento del jazz diventa immediato. Radio Napoli lo favorisce con un doppio appuntamento quotidiano, alle 12.45 con Personaggi del jazz e alle 00.30 con Complessi di jazz, non meno che con la messa in onda dei VDisc.82 A Radio Napoli vengono ripresi anche i concerti “canzonettistici” con canzoni italiane e napoletane. Per questi l'emittente si avvale di interpreti solisti, anche famosi, e di molti complessi orchestrali: il Quartetto Cinque Punte,83 il Sestetto Ardest,84 l'Orchestra Esperia, l'Orchestra Calace, l'Orchestra folcloristica di Umberto Colonnese e l'Orchestra Campese. Quest'ultima, nota come Orchestra “Melodie del Golfo”, diretta prima da Salvatore Colonnese, poi da Gino Campese e Giuseppe Anepeta, avrà buona parte nella programmazione radiofonica degli anni 1946-1948. L'attività autonoma (sotto il controllo del PWB) di Radio Napoli, iniziata il 15 ottobre 1943, terminerà alla fine della guerra, quando l'emittente confluirà definitivamente nell'ente nazionale (RAI).

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La V-Disc (Victory Disc) nacque su un'iniziativa del Governo americano che portò a un accordo con le maggiori case discografiche del tempo per mezzo del quale queste ultime si impegnarono a fornire dischi per allietare le truppe americane, con la condizione che ne venisse distrutta la matrice dopo l'incisione e la duplicazione. 83 Composto da flauto, mandolino, chitarra, violino, sotto la direzione di Amedeo Pariante. 84 La denominazione ufficiale è Orchestra da ballo di Radio Napoli. 60


Antonio Caroccia ... COME PASSA IL TEMPO... UNA RIFLESSIONE TEORICA DI KARLHEINZ STOCKHAUSEN Karlheinz Stockhausen è certamente una delle figure portanti della musica del XX secolo, e la sua importanza aumenta ancor di più considerando la duplice veste in cui agisce; vale a dire quella di compositore e quella di teorico. Come compositore egli incarna il molo di autentico propulsore di quel laboratorio di sperimentazione musicale rappresentato dai Ferienkurse di Darmstadt,1 ruolo che lo ha portato ad un riconoscimento culturale non limitato ad uno specifico campo artistico. Come teorico, poi, arriverà a formulare alcune istanze tra le più innovative della musica del Novecento. Le sue prese di posizione, – tradotte poi in composizioni vere e proprie – sulle questioni inerenti la musica strumentale, la musica elettronica e le connesse soluzioni acustiche, restano i punti di partenza fondamentali per comprendere lo sviluppo della composizione in epoca contemporanea ... Come passa il tempo..., pubblicato nella rivista francese «Contrechamps»;2 si tratta di un articolo oggetto di numerose critiche, che a distanza di trent’anni conserva, tuttora, elementi degni di discussione e di studio. A Karlheinz Stockhausen è sufficiente una frase di tre sole parole per introdurre un argomento così complesso quale quello della musica in rapporto al tempo: “... come passa il tempo...”. Come sappiamo, l’alternanza tra i momenti di suono e di silenzio, le cosiddette fasi, possono essere distinti in periodiche e aperiodiche. La durata costituisce quindi l’elemento fondamentale di distinzione tra le varie fasi, pur considerando che la percezione rimane un fenomeno del tutto personale, una volta fissata la nostra unità di misura di base tutte le altre verranno messe di conseguenza in relazione. Il senso percettivo, dunque, non si limita a cogliere la durata della fase ma anche l’altezza. Ciò è dimostrabile con una semplice esperienza: fino a 1/16 di secondo i due parametri si colgono ancora separatamente; ma se si scende gradualmente fino a 1/32 di secondo durata e altezza non sono più percettibili separatamente, e non si può più parlare di durata di una fase in senso assoluto. Ma una durata minima è necessaria anche per riuscire a cogliere distintamente l’altezza. Questa poi pure va delimitata entro limiti che variano a secondo delle singole capacità psico-recettive, ma sono mediamente quantificabili fisicamente. Così la durata si colloca tra 6 secondi e 1/16 di secondo e l’altezza si percepisce tra 1/16 e 1/3200 di secondo. Gli strumenti possono pure essere in grado di produrre suoni più acuti, ma essendo questi inudibili non vengono utilizzati. 1

Cfr. ANTONIO TRUDU, La “scuola” di Darmstadt. I Ferienkurse dal 1946 a oggi, Milano, RicordiUnicopli, 1992 (Le sfere, 18). 2 KARLHEINZ STOCKHAUSEN, ...comment passe le temps..., «Contrechamps» 9, 1988, pp. 26-65, pubblicato per la prima volta con il titolo ... Wie die Zeit vergeht..., «die Reihe» 3, 1957. 61


ANTONIO CAROCCIA

Un aspetto importante nella definizione degli intendimenti nuovi di Stockhausen è costituito dal senso e dalla notazione delle durate. Prima di passare alla fase propositiva Stockhausen si sofferma sul senso tradizionale del concetto di durata e soprattutto di come essa sia stata tradizionalmente notata. Il compositore tedesco mette in luce quanto siano relativi i concetti di durata e in particolare di distanza tra le varie fasi. La conseguenza più immediata dell’inadeguatezza della maniera “classica” di intendere e notare 1a durata è la necessità di scegliere scale di durate impostate su rapporti logaritmici; ciò consentirebbe una migliore percezione nei rapporti relativi fra le durate; almeno, fino al rapporto 15:16, intervallo ultimo per una adeguata possibilità di discriminazione fra durata e altezza. La stessa suddivisione della scala cromatica moderna è basata sulla relazione logaritmica dodici radice quadrata di due di 12 semitoni sentiti come uguali. Ricordiamoci che lo sviluppo della musica seriale era partito proprio dalla ricerca di rapporti di uguaglianza di suoni, soprattutto in relazione alla loro altezza. La costruzione della serie d’altra parte si risolveva in una gamma di intervalli tutti diversi tra loro; la ricerca di nuovi sistemi compositivi aveva, portato poi all’estensione di concetti seriali, anche, nell’ ambito delle durate e alla formulazione di una scala di 12 durate appunto:

Esempio 1

Partendo dall’unità di base biscroma/semicroma/croma si arriva progressivamente all’estremo costituito da 12 semibiscrome / l2 semicrome / 12 crome costruendo serie di proporzioni subarmoniche, che possiamo pure definire come un modo. Un tale meccanismo comporta però un grave problema per il compositore: fasi più lunghe vengono sentite come più importanti dall’ascoltatore: si ricostruisce così, in un certo qual modo, quel senso gerarchico di relazioni interne che la musica seriale aveva voluto abbattere. Questo ostacolo tuttavia può essere superato in parte attraverso il meccanismo della trasposizione, mutando cioè nell’ambito dello stesso l’unità di riferimento. I limiti di questa e simili soluzioni sono costituiti da una visione particolare e non globale. L’espansione e l’applicazione di sistemi seriali anche a parametri complessi, appare essere la via da seguire; così come il riferimento ai valori irrazionali può rappresentare un importante campo in cui l’indagine. del compositore può concentrarsi. La consapevolezza tuttavia dell’importanza dei rapporti in base 2 nelle relazioni collegate alla percezione apre ulteriori indagini di ricerca.

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... COME PASSA IL TEMPO... UNA RIFLESSIONE TEORICA DI KARLHEINZ STOCKHAUSEN

Esempio 2

Esempio 3

L’orientamento di Stockhausen appare comunque indirizzato verso il riferimento ad una unità fondamentale. La connessione tra relazioni temporali macro e microacustiche rileva tali e tante possibilità di sfruttamento da parte del compositore, pensiamo al “Dissolving Interval” da indurre Stockhausen a dedicarvi un’ampia parte della sua trattazione, con una serie di riferimenti articolati e complessi. Le analogie e le differenze tra vari aspetti della musica colta sono numerose: ciò che separa il metodo dal ritmo è paragonabile a ciò che separa il tono fondamentale dal tono di colore; anche se non è del tutto chiaro il senso da attribuire a quest’ultimo concetto. Ciò consente un’integrazione senza contraddizioni tra strutture seriali riguardanti le durate e le altezze? E quali corrispondenze sono suggerite tra i due differenti sistemi? Forse il meccanismo modulativo che già viene applicato alla “dodecafonia” può essere trasposto alla ritmica. Come dimostra il fatto che sia mancato al parametro ritmo un’evoluzione analoga a quella che il sistema temperato ha rappresentato per il parametro altezza. Un tale sistema, una scala cromatica temperata delle durate, può essere tuttavia creato, sulla base combinata di durata metronomica e scala logaritmica; il ri63


ANTONIO CAROCCIA

sultato finale è una scala cromatica di durate di circa 7 ottave, inclusi tra 8” e 1/16” in relazione 2:1 esse stesse ripartibili.

Esempio 4

La gestione di questo sistema non è comunque facile; le complesse regole indicate da Stockhausen mirano fondamentalmente a un sistema razionale in cui venga naturalmente eliminato qualsiasi punto di riferimento, gerarchicamente ordinato, estendibile poi a qualsiasi parametro.

Esempio 5a

Esempio 5b

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... COME PASSA IL TEMPO... UNA RIFLESSIONE TEORICA DI KARLHEINZ STOCKHAUSEN

Finora non è stato preso in considerazione altro che l’evento sonoro, ma anche il momento di silenzio è un elemento da inserire e strutturare all’interno del sistema.

Esempio 6

Anche la realizzazione di composizioni assolutamente seriali con strumenti, gruppi di strumenti e orchestre è un problema di non facile risoluzione per il compositore che deve gestire un insieme di micro e macro elementi complessi su un mezzo certamente non del tutto adeguato ad esprimere le piccole e grandi peculiarità. Per rendere poi una partitura complessa nella notazione per riuscire ad esprimere fino in fondo le sfumature che le esigenze artistiche del compositore impongono, bisogna fare i conti con le capacità dei musicisti stessi, non sempre in grado di elaborare al meglio le partiture contemporanee e seriali in particolare. Rimane proprio la resa delle durate la maggiore difficoltà di cui il compositore deve tenere conto. A tal proposito, Stockhausen cita un lavoro di John Cage in cui il musicista statunitense dà il senso di durata occupando spazi proporzionalmente adeguati sul pentagramma.

Esempio 7

La riflessione di Stockhausen indugia sulle possibilità di sviluppo di tali forme da lui definite “notating field-sizes” e il loro rapporto con la comune notazione. La gestualità stessa dell’interprete, come nell’esempio dell’esecuzione di abbellimenti diviene per Stockhausen un ulteriore fase di ricerca e approfondimento da inglobare e sviluppare secondo quelli che sono i suoi fondamentali principi estetici, ed il suo costante desiderio di ricerca e sperimentazione. Vanno perciò posti dei limiti temporali anche all’esecuzione delle grace notes, limiti sempre definiti su una base proporzionale, e strettamente connessi ai gesti, che il musicista deve compiere durante l’esecuzione. Si può paradossalmente arrivare a momenti dell’esecuzione in cui la preparazione di un suono dura più a lungo della stessa esecuzione del medesimo, Stockhausen, tuttavia, non è un semplice teorico e la sua pratica quale compositore gli fa ricordare che comunque qualsiasi concetto da lui espresso, soprattutto per quanto riguarda i veri campi di proporzione, deve essere pensato e deve tenere conto del 65


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mezzo utilizzato per la sua realizzazione, vale a dire lo strumento, i piccoli gruppi strumentali le orchestre e i relativi esecutori. In definitiva sono proprio i campi di proporzione a dover costituire la struttura generante il brano, e sono contemporaneamente il momento in cui il compositore ha la maggior libertà per scegliere un componente più o meno grande del campo stesso. La stessa libertà di intervento per l’esecutore è collegata alle proporzioni presenti all’interno di ciascun campo. L’azione del suonare si deve porre in rapporto alle relazioni temporali già devono poter essere visibili attraverso un semplice esame della partitura, ma è soltanto al momento dell’esecuzione che esse assumono un significato autentico, compresi i momenti in cui l’esecutore dovrà egli stesso scegliere le soluzioni che meglio si adattino alle presunte intenzioni dell’esecutore. Il problema della soggettività del tempo e delle relative proporzioni, che può quindi portare a due interpretazioni “legittime” ma differenti tra compositore ed esecutore. Risulta perciò utile al compositore predispone serie di livelli di libertà ancora concepiti proporzionalmente: tali campi di scelta possono inoltre essere mediati completamente con strutture predeterminate e indeterminate. La libertà diviene quindi il momento di scelta nell’ambito di strutture razionali e singolarmente preordinate. Un tale approccio compositivo ha dirette ripercussioni, nel campo dello strumentario disponibile, sono inutilizzabili tutti gli strumenti con intonazione fissa; compreso quindi il pianoforte, e vanno utilizzati strumenti in cui ogni altezza è in qualsiasi momento determinabile; questo consente anche al compositore di optare per soluzioni notazionali, particolari, e che riescono ad esprimere l’indeterminazione di alcuni parametri. La soluzione ideale per rispondere a tutte queste esigenze rimarrebbe tuttavia la costruzione di uno strumento completamente nuovo in cui, per esempio, si potrebbero produrre fasi più o meno costanti attraverso differenti pressioni su una fascia continua, con la determinazione pure dell’altezze. Un suono potrebbe trasformarsi gradualmente in un rumore, analogamente si potrebbe intervenire su ciascuno dei parametri considerati, compresa ovviamente la durata, collegata alla durata di ciascuna azione. Solo il musicista però può essere in grado di suggerire al costruttore di strumenti musicali le caratteristiche di questo nuovo mezzo; tuttavia Stockhausen ritiene che prima o poi arriverà il momento in cui si potrà avere a disposizione uno strumento musicale così concepito. Tuttavia per molti compositori questa strada è troppa ardua e preferiscono ritornare a un atteggiamento più vicino alla tradizione compositiva vista quasi come un’attività artigianale, rinunciando a questi nuovi concetti o comunque compromettendoli irrimediabilmente. Ovviamente Stockhausen non condivide questo atteggiamento e, come ha dimostrato la sua produzione, egli ha preferito da novello “Don Chisciotte” combattere contro i mulini a vento, senza rinunciare a quella tensione ideale che pervade la sua produzione teorica e parimenti quella musicale.

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Massimo Signorini JOE ‘CORNELL’ SMELSER E LA FISARMONICA NELLA GRANDE ORCHESTRA DUKE ELLINGTON Duke Ellington,1il ‘genius’ del jazz, ebbe modo di utilizzare la fisarmonica nella sua grande orchestra, una volta venuto a collaborare musicalmente con Joe ‘Cornell’ Smelser,2 un talentuoso polistrumentista (pianista, sassofonista, flautista, clarinettista e fisarmonicista) con doti eccelse nell’improvvisazione e nell’impiego della fisarmonica nel jazz. Per ascoltare quei pochi brani registrati con l’uso della fisarmonica, nella grande orchestra di Duke Ellington, occorre essere muniti di pazienza e spirito di ricerca.

Figura 1: Duke Ellington che imbraccia la fisarmonica.

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Edward Kennedy ‘Duke’ Ellington (Washington, 29 aprile 1899 – † New York, 24 maggio 1974). Joe ‘Cornell’ Smelser (Budapest, 17 agosto 1902 – † New York, 7 marzo? 1993). 67


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È assai raro e complicato venire in possesso del disco Duke Ellington and his orchestra 1928-1933, prodotto della etichetta Joker sm3081/e, stereo-mono (registrato il 22 aprile 1930 e ridistribuito nel 1971) ma una volta trovato è possibile ascoltare un raro impiego della fisarmonica nel jazz. Il brano in questione è Accordion Joe, composto da Joe ‘Cornell’ Smelser in collaborazione con Winbrow. La durata del brano è di soli tre minuti ma è possibile apprezzare, unitamente alla fisarmonica di Joe ‘Cornell’ Smelser, anche gli altri straordinari musicisti dell’Orchestra di Duke Ellington: Arthur Whetsol, Cootie Williams alle trombe, Joe ‘Tricky Sam’ Nanton e Juan Tizol ai tromboni, Barney Bigard al clarinetto, Johnny Hodges al sax alto e al sax soprano, Harry Carney al sax baritono, Fred Guy alla chitarra, Duke Ellington al pianoforte), Sonny Greer alla batteria e Dick Robertson alla voce.

Figura 2: copertina del disco Duke Ellington and his orchestra 1928-1933. Al suo interno è presente il brano Accordion Joe interpretato alla fisarmonica da Joe ‘Cornell’ Smelser.

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L’altro disco, in cui è possibile apprezzare l’eclettico fisarmonicista Joe ‘Cornell’ Smelser è Duke Ellington masterpieces 1926-1949, prodotto dalla Proper Box UK Sales Rank n° 27628, in cui il nostro Joe emerge con un meraviglioso solo di fisarmonica nel brano Double Check Stomp, composto da Duke Ellington. Questi due brani, Accordion Joe e Double Check Stomp, risultano essere presenti anche in alcune incisioni della Duke Ellington’s Orchestra per la casa discografica Brunswick catalogati rispettivamente nei codici di serie n°4783 e n°6846. Ma chi fu Joe ‘Cornell’ Smelser? Joe ‘Cornell’ Smelser fu il primo fisarmonicista a entrare nella scena del jazz intorno agli anni ‘20, per sparire come una meteora nel 1931. Joe nacque il 7 agosto 1902 a Budapest in Ungheria. Il pianoforte fu il suo primo strumento e ricevette l’educazione musicale frequentando il conservatorio statale di musica di Budapest. All’età di soli diciotto anni, dirigeva una ensemble di ventisei musicisti.

Figura 3: Joe ‘Cornell’ Smelser con la sua antica fisarmonica.

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Joe si trasferì a New York negli anni ‘20 e qualche anno dopo cominciò a far parte di alcune orchestre-jazz,3 a partecipare in alcune produzioni di musical a Broadway, a suonare commedie musicali nei teatri fino ad arrivare a sfruttare l’occasione di suonare al Carnegie Hall.4 Joe in questo periodo alternava l’uso del pianoforte a quello della fisarmonica, ma nel 1929 cominciò a credere ancor di più nello studio della fisarmonica, fino ad arrivare ad essere il fisarmonicista jazz più richiesto per le registrazioni con le orchestre a New York. Ebbe modo di concentrarsi anche sulle tecniche di trascrizioni collaborando con la World Broadcasting System, la Columbia Concert Corporation, con i fratelli della Warner, con Eugene Ormandy e Louis Katzman, Gus Henshien e con l’organista Kleinart.

Figura 4: George Gershwin con la fisarmonica. 3

Con il termine orchestra jazz si fa riferimento a quel tipo di formazione orchestrale affermatosi sin dagli anni venti in America ed interpretante un repertorio prevalentemente jazz in particolare swing e free-jazz ma anche mambo e salsa. Di frequente utilizzo, per designare lo stesso tipo di complesso, il più grande nell'ambito del jazz, sono anche le definizioni inglesi di big-band (letteralmente, grande gruppo musicale) o di stage band. 4 La Carnegie Hall è una delle più importanti sale da concerto di musica classica e leggera a livello mondiale. Situata a New York nella 7th Avenue, fu costruita nel 1890 dall’imprenditore e filantropo Andrew Carnegie. È composta da tre sale: l’Isaac Stern Auditorium (2804 posti), la Zenkel Hall (599 posti) e la Weill Recital Hall (268 posti). 70


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Lo storico concerto del 20 aprile 1931 trasformò Joe nel primo fisarmonicista solista ad eseguire con l’accompagnamento di un’orchestra sinfonica la Rapsodia in Blue5 di George Gershwin,6 trasmessa sulla rete nazionale della NBC.7 L’orchestra era composta da quaranta orchestrali ed era diretta dal maestro Ohman Arden. Joe fu l’unico fisarmonicista cui Gershwin dette il ‘permesso speciale’ di eseguire questa sua opera per radio: altri musicisti che ebbero questo ‘permesso speciale’ furono l’orchestra di Paul Whiteman8 e l’organista Jesse Crawford.9 Joe sapeva improvvisare sempre con una sorprendente freschezza accompagnata da un suono sempre elegante e bello, che gli permise di essere accettato da tutti gli altri strumentisti jazz come uno di loro. Dalle sue registrazioni avvertiamo nei suoi soli dei Choruses, torsioni armoniche imprevedibili, un senso ritmico eccellente, l’uso del valore del silenzio, l’uso dinamico ed espressivo del mantice, il senso delle frasi e la capacità di esprimere in pochi secondi il significato della ‘eternità musicale’. La comparsa di Joe ‘Cornell’ Smelser nell’orizzonte della fisarmonica jazz è stata caratterizzata dai tratti stilistici di un grande genio, e sebbene il destino di questo artista sia stato quello di brillare come una magnifica stella nel firmamento della musica moderna solo per un periodo molto breve, posso sicuramente affermare che abbia conquistato per sempre la memoria di tutti coloro che hanno conosciuto ed amato il modo in cui suonava la fisarmonica.

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Il brano fu inizialmente pensato dall'autore per due pianoforti. L’incontro con Paul Whiteman, direttore dell’orchestra jazz di New York, spinse Gershwin a proporre la rapsodia come brano per pianoforte e big band. L’orchestrazione fu affidata all’arrangiatore di Whiteman, Ferde Grofé. Il brano venne presentato il 12 febbraio del 1924 all'Eolian Hall di New York. L’esecuzione al pianoforte di Gershwin fu un clamoroso successo: erano presenti alcuni grandi della musica del tempo, tra cui Fritz Kreisler, Igor Stravinsky, Sergej Rachmaninov e Leopold Stokowski. 6 George Gershwin (Brooklyn, 26 settembre 1898 – Hollwood, 11 luglio 1937). 7 Fondata nel 1926 dalla Radio Corporation of America (RCA), la NBC è stata la maggiore emittente radiotelevisiva degli Stati Uniti. 8 Paul Whiteman (Denver, 28 marzo 1890 – Doylestown, 29 dicembre 1967). 9 Jesse Crawford (Woodland, 2 dicembre 1895 – Los Angeles, 27 maggio 1962). 71


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Anita Pesce REGISTRAZIONE E RIPRODUZIONE DEL SUONO: SPUNTI PER UNA PROPOSTA DIDATTICA

Da una prospettiva educativa, in un sistema culturale ormai tarato sui ‘nativi digitali’ (al punto da incoraggiare, a livello scolastico di base, l’uso costante e consapevole dei mezzi informatici), appare vivamente consigliata un’operazione d’individuazione e di storicizzazione delle matrici tecnologiche del sistema stesso. In campo musicale, il momento storico di snodo è senz’altro quello in cui nascono gli apparecchi di registrazione e riproduzione del suono, individuabile per convenzione nel 1877, con il brevetto del fonografo da parte di Thomas Alva Edison; rispetto a quel momento cruciale per la storia delle tecnologie sonore, possono attivarsi una serie di riflessioni che coinvolgono svariati segmenti didattici. È di grande importanza che il mondo del suono riprodotto sia studiato in maniera sistematica e funzionale anche a livello accademico, attraverso la lettura del suo impatto sul mondo della musica e della sua interazione con il medesimo. Su tale versante l’attuale situazione italiana, sia nei Conservatori di Musica che nelle Università che prevedono indirizzi di studio musicali, non sembra delle più incoraggianti. Laddove la materia è affrontata (di solito in poche ore annue), ciò avviene perlopiù in maniera non sistematica ed è, per così dire, frutto di scelte estemporanee dei singoli docenti, quasi mai messe a sistema: come se, in fin dei conti, l’argomento sia considerato d’importanza marginale rispetto al bagaglio di competenze che devono essere trasmesse allo studente affinché egli possa orientarsi nel mondo della musica, che sia essa suonata o affrontata nelle sue varie declinazioni storiche o teoriche. In questo articolo si tenterà di dimostrare l’importanza dello studio sistematico della materia, delineando altresì una proposta didattica di massima, adattabile sia ai Conservatori di Musica sia ai corsi universitari a indirizzo musicale, che dunque giustifichi la validità formativa della materia stessa. Si escluderà invece tutta la parte pertinente a quella prassi compositivo/musicale che, storicamente, abbia fatto uso degli strumenti di registrazione e riproduzione del suono a fini artistici (come nel caso della musica elettronica), in quanto è materia comunque già praticata nei Conservatori di Musica e affrontata storicamente, sia negli stessi Conservatori, sia nei corsi di Storia della Musica presso le Università a indirizzo musicale. Perché in ambito accademico si dovrebbe inaugurare o potenziare un corso di studi di registrazione e riproduzione sonora? - per attivare un processo di riflessione e di storicizzazione che risulti fondamentale ai fini della conoscenza di stili e prassi esecutive attraverso lo studio dei materiali sonori riprodotti; 75


ANITA PESCE

- per capire il forte condizionamento esercitato dalle tecnologie sulla ricezione della musica: tecnologie che hanno, di fatto, gradualmente ma inesorabilmente rivoluzionato la stessa produzione artistica, oltre ai rituali sociali a essa connessi; - per conoscere sistemi sonori ‘altri’, appartenenti a quel mondo popolare che ha prodotto per secoli musiche orali e che, con l’invenzione del fonografo, è divenuto a sua volta oggetto di studio e di riflessione; - per sollecitare una visione in prospettiva di tutela archivistica su un vastissimo patrimonio ‘materiale’, che merita di essere salvaguardato: ciò può avvenire solo se tale patrimonio è conosciuto, catalogato, conservato adeguatamente. Ovviamente, rispetto a tali tematiche, non è che ci sia il deserto assoluto in ambito didattico/accademico. Nel corso del XX secolo è già stata sentita l’esigenza da parte di taluni docenti di operare una riflessione o semplicemente di ‘adoperare’ con consapevolezza pedagogica dischi, nastri magnetici e materiali video. Ma sono stati casi sporadici, affidati a iniziative singole, che solo raramente hanno fatto scuola e che comunque non sono riusciti, di fatto, a rinnovarsi in maniera metodica e istituzionalizzata. Insomma, per farla breve, al giorno d’oggi è comunque raro che un corso di registrazione e riproduzione sonora venga attivato e sopravviva a lungo, in un Conservatorio di Musica italiano così come all’interno di indirizzi universitari che prevedono lo studio teorico della musica. Eppure qualche precedente illustre c’è: per esempio, nell’immediato dopoguerra, presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, Cesare Valabrega insegnava la Storia della Musica adoperando i dischi a fini didattici.1 Non a caso Valabrega collaborò con la Discoteca di Stato tra il 1958 e il 1963, curando la realizzazione di quaranta dischi per una Storia della Musica Italiana. Certo egli si limitava all’uso educativo del disco, non estendendo le sue riflessioni al mezzo utilizzato, ma di sicuro era all’avanguardia per i suoi tempi. Restando in ambito accademico, questo abbozzo di genealogia della didattica del suono riprodotto induce a citare almeno altre due figure fondamentali: Roberto Leydi e Carlo Marinelli. Roberto Leydi, uno dei padri dell’etnomusicologia italiana, si muove in ambito universitario, presso il DAMS Musica di Bologna, fin dalla sua fondazione all’inizio degli anni Settanta. Da etnomusicologo egli non poteva non prestare attenzione all’importanza che sul mondo musicale avesse avuto l’apporto delle tecnologie utili all’acquisizione di documentazione sonora di matrice orale, a partire dagli strumenti musicali meccanici fino ai fonografi, ai grammofoni e agli apparecchi per la registrazione magnetica. Leydi trasmetteva puntualmente questa competenza nelle sue lezio-

1

Lo ricordava di recente Roberto De Simone, che fu suo allievo negli anni Cinquanta, nel corso di una conversazione con l’autrice. Anche il Conservatorio napoletano attivò uno studio di incisione discografica, cfr. ADRIANO LUALDI, Discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico 1937-38 in «Bollettino del r. Conservatorio S. Pietro a Majella», I/1, 1937-38, pp. 8-14. 76


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ni, delineando la storia di queste tecnologie e la loro funzione, ovviamente riferite in modo particolare alla musica popolare.2 Carlo Marinelli si occupa del documento discografico e videografico soprattutto rispetto ai repertori classici (in particolare opera e balletto) anche attraverso una serie di riflessioni teoriche; negli anni di attività dell’Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale (IRTeM),3 egli è estremamente attivo nell’organizzazione di convegni e incontri – con relativa produzione di atti – focalizzati sul documento riprodotto osservato da molteplici prospettive. Marinelli, in virtù di queste sue competenze, ha attivato, nel 1998, il primo corso in Italia di Discografia e Videografia presso il DAMS di Bologna. Non ci si dilungherà sulle figure di altri ‘pionieri’ ed ‘eredi’, collegati in varia misura non solo allo studio di questo campo ma anche alla sua divulgazione in ambito didattico, perché l’argomento occuperebbe troppo spazio. Terminata, di fatto, nel 2010 l’attività militante dell’IRTeM, si può rilevare che attualmente molti impegni di natura informativa e divulgativa extra-accademica siano tra i compiti istituzionali dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi (già Discoteca di Stato) di Roma che deve, in ogni caso, essere considerato un punto di riferimento per chiunque voglia occuparsi di suono riprodotto in Italia. Come si può organizzare un corso di studi sull’argomento? Le prospettive sono molteplici e si tenterà in questa sede di enumerarne quante più possibili. La scelta di approfondirne una anziché un’altra è dettata dall’ambito entro il quale si muove la proposta didattica: se essa dovesse essere ‘agganciata’ a un campo di studi dedicato alle Tecnologie Musicali, sarà utile approfondire la parte tecnologica; se sarà un seminario all’interno di un corso di Storia della Musica si procederà a evidenziare l’utilità di attivare una coscienza storica e comparativa nel mondo dell’incisione discografica, e via discorrendo. È da chiarire che, denominando Registrazione e riproduzione sonora un possibile corso di studi, si rischia di cadere in un equivoco linguistico che porterebbe a escludere tutto il segmento riguardante la documentazione in video di eventi musicali. Ciò non deve accadere: ben lo sapeva Carlo Marinelli quando ha intitolato il suo corso universitario Discografia e videografia.4 È fin troppo chiaro che, in una riflessione globale sulla riproducibilità degli eventi sonori, non si possa tener fuori l’elemento visivo, anche se esso sia stato evidentemente introdotto in tempi più recenti rispetto all’avvento delle prime apparecchiature in grado di registrare un evento sonoro (seppur per minimi frammenti temporali) e poi riprodurlo. Di là dalle riflessioni filosofiche e sociologiche sull’avvento di tali mezzi di riproduzione, la cosa importante è che essi esistano e che vadano conosciuti storicamente 2

A memoria di chi scrive, Roberto Leydi dedicò di sicuro un intero corso all’argomento, all’inizio degli anni Ottanta del Novecento. 3 Fondato a Roma nel 1984 dallo stesso Marinelli, insieme con Paola Bernardi, Egisto Macchi ed Ennio Morricone. 4 A chi scrive la denominazione Discografia e videografia risulta però restrittiva per altri versi. Per questo ha optato per Registrazione e riproduzione sonora. 77


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e avvicinati con consapevolezza. Anche la videografia entra dunque di diritto nella materia, poiché strumento capace di documentare eventi che, nel caso in esame, saranno circoscritti al mondo musicale. Si attiveranno dunque specifiche riflessioni su strumenti e materiali che, nella sostanza, si presenteranno con funzioni ‘aumentate’, ma analoghe ai mezzi che si limitano a registrare e riprodurre solo i suoni. Si sono individuate sette aree di riferimento (ma è una semplice ipotesi di comodo, opinabile e soggetta a rimodellamenti): 1 2 3 4 5 6 7

Storico/Musicologica Etnomusicologica Sociologica Tecnologica Archivistica Didattica Manageriale

Per ciascuna di queste aree sono stati individuati contenuti o spunti di riflessione da sviluppare in fase progettuale: 1. AREA STORICO/MUSICOLOGICA: Giusto a titolo di esempio, si pensi a un giovane pianista che per incrementare il suo bagaglio di conoscenze debba acquisire consapevolezza dell’evoluzione delle modalità interpretative sui repertori romantici. Non potrà certo ascoltare un’incisione discografica dell’esecuzione di un brano di Chopin o di Liszt interpretata dagli stessi autori, ma riuscirà a risalire – grazie all’acquisizione di opportune competenze – ai primi pianisti che hanno inciso (o perforato rulli di Welte Mignon) all’inizio del Novecento e che risentivano ancora pesantemente dell’influenza stilistica del pianismo romantico. Un pianista che sappia riconoscere e utilizzare a proprio vantaggio l’evoluzione dello stile esecutivo da (giusto per citare a caso) Paderewsky a Richter, passando per Busoni e Cortot, sa anche collocarsi nel suo tempo con la consapevolezza necessaria a operare delle scelte interpretative. Argomenti: a. I precedenti (carillon e strumenti musicali meccanici). b. Da Edison a Berliner (fonografo e grammofono). c. L’industria del disco a 78 giri in Italia e nel mondo. d. La registrazione su nastro magnetico. e. L’avvento del vinile. f. Da analogico a digitale: il CD. g. La documentazione audiovisiva. h. Registrare e riprodurre al giorno d’oggi.

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i. La coscienza storica rispetto al suono riprodotto: come utilizzarla in ambito musicologico, sia per la sua utilità a fini analitici che performativi (ad esempio attraverso gli ascolti comparati). j. Una riflessione sul documento sonoro come testo di riferimento per osservare le modalità stilistiche e le tradizioni interpretative (cioè quel sistema di informazioni extra-verbali ed extra-cartacee che il testo scritto non può fornire): tale lavoro può essere utile per storicizzare le prassi esecutive e comprenderne l’evoluzione. 2. AREA ETNOMUSICOLOGICA: Imprescindibile per acquisire strumenti conoscitivi fondamentali è l’apprendimento della storia degli strumenti di registrazione e riproduzione sonora per i futuri etnomusicologi: a parte l’attività di ricerca sul campo, che prevede un minimo di competenze tecniche per effettuare riprese audio e video, è importante sapere non solo che l’etnomusicologia praticamente nasce grazie all’invenzione del fonografo, ma anche riconoscere e classificare i documenti sonori di musica etnica più antichi, che talvolta si trovano in contesti insospettabili.5 Argomenti: a. Vedi anche parte storico/musicologica. b. L’etnomusicologia e gli strumenti di registrazione e riproduzione del suono. c. La documentazione audiovisiva: l’uso nella ricerca etnomusicologica. d. Una riflessione sull’importanza del testo sonoro, che molto spesso, nel caso della produzione musicale etnica, è fonte primaria in quanto non derivante dal testo scritto. 3. AREA SOCIOLOGICA: Acquisire una coscienza sociale delle trasformazioni epocali in campo musicale legate all’avvento degli strumenti di registrazione e riproduzione del suono è senz’altro importante per chi si occupa di musica in prospettiva teorico-speculativa. Ma è altresì fondamentale affiancare tale consapevolezza a un percorso storico (le considerazioni di natura sociologica possono procedere di pari passo) e stimolare nello studente riflessioni sul processo che si è attivato nel corso del tempo dal momento dell’avvento della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Argomenti: a. L’impatto sociale della registrazione e riproduzione sonora: com’è cambiata la ricezione da Edison in poi. b. La documentazione audiovisiva in campo musicale: riflessioni in chiave sociologica della sua evoluzione (documentaristica e commerciale).

5

Come avviene, ad esempio, per la serie napoletana della casa discografica tedesca Favorite Record del primo decennio del Novecento che ha una (seppur minima) sezione dedicata ad autentiche testimonianze della tradizione campana (come i canti a fronn’’e limone o lo spettacolo popolare natalizio della Cantata dei Pastori). 79


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4. AREA TECNOLOGICA: Saper ‘mettere le mani’ su materiali antichi, saper trasferire dall’analogico al digitale, conoscere l’evoluzione delle apparecchiature in termini tecnici, consente anche di affrontare tale area con una consapevolezza che spesso viene sottovalutata. Argomenti: a. Spunti di riflessioni su riversamento, restauro e conservazione digitalizzata delle antiche fonti sonore. b. Esercitazioni che prevedano attività di riversamento e restauro da supporti analogici. c. Come realizzare un documento audiovisivo in ambito musicale. 5. AREA ARCHIVISTICA: Una competenza che potrebbe trovare applicazione è quella nel campo della catalogazione dei materiali. Oltre a quanto già in uso nel sistema di catalogazione nazionale per la catalogazione dei beni non librari, si può far capo anche alle norme dell’International Association of Sound and Audiovisual Archives (IASA),6 che vanno approfondite e messe in relazione con i sistemi di schedatura in uso (si può analizzare il sistema dell’ICBSA). Argomenti: a. Come catalogare i materiali discografici etc. b. Creare un archivio sonoro. c. Un censimento degli archivi sonori. d. Il videoarchivio. 6. AREA DIDATTICA: Insegnare a insegnare la storia, l’utilizzo, la conoscenza tecnica e archivistica dei materiali audiovisivi può rientrare in un corso di didattica della musica. Argomenti: a. Come utilizzare le competenze acquisite sull’argomento a fini didattici, per le scuole di ogni ordine e grado. 7. AREA MANAGERIALE: Lo studio del management musicale potrebbe non limitarsi ad apprendere come organizzare festival e concerti, ma anche a come impiegare materiali, solitamente destinati agli archivi e alle biblioteche, in chiave divulgativa e turistica: un archivio sonoro potrebbe diventare, se opportunamente promosso, un ottimo attrattore turistico.7 6

http://www.imaginar.org/taller/dppd/DPPD/105%20pp%20IASA.pdf A tal proposito viene in mente, a titolo di esempio, l’uso virtuoso che in tal senso si potrebbe fare rispetto ai materiali dell’Archivio Storico della Canzone Napoletana della RAI (sede: Casina Pompeiana a Napoli) o dell’Archivio Sonoro della Campania (sede: Archivio di Stato, Napoli). 7

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Argomenti: a. Cosa farne, di tutto questo patrimonio? b. Come renderlo produttivo? c. Come arrivare ai flussi turistici? In definitiva, per chiudere: di quale utilità può essere un corso di registrazione e riproduzione sonora? Innanzitutto esso amplierebbe il sistema di conoscenze/abilità/competenze di futuri musicisti o musicologi; siffatto corso, in prima istanza estenderebbe dunque gli orizzonti culturali di discenti che sono orientati su altre carriere (che non sia nello specifico occuparsi di vecchi dischi o di digitalizzazione di videoteche). Si deve notare con una punta di realistica amarezza che molto ridotte, invece, sono allo stato attuale le possibilità di immettere sul mercato specialisti del settore che vengano impiegati per le loro effettive competenze: in Italia figure professionali che richiedano una preparazione a tutto tondo sull’argomento, sarebbero al momento utili solo ad autoalimentare il sistema accademico (che però, come è noto, offre ben pochi sbocchi lavorativi). Nonostante la presenza di archivi sonori pubblici, privati, ibridi, sul territorio italiano (e non tenendo conto dell’ICBSA), si tende a risolvere la cura di questi patrimoni culturali riciclando competenze archivistiche o affidandosi alla buona volontà e all’iniziativa dei singoli che si trovino a vario titolo coinvolti nella gestione di queste attività; attività che talvolta sopravvivono a intermittenza, dipendenti come sono da finanziamenti pubblici o da sponsorizzazioni. Eppure è proprio l’assenza di figure professionali formate a tutto tondo che impedisce la creazione di un sistema di tutela, conservazione, divulgazione, di un patrimonio sonoro che, anche se vogliamo limitarci all’Italia, è vastissimo e di grande interesse storico. Per concludere, acquisire una competenza basata su quanto si è detto permette di muoversi all’interno del sistema-musica su svariati piani, sia teorici che pratici: ipotizzare una strutturazione a livello didattico dell’argomento non si limita a essere una mera ipotesi speculativa, ma punta a creare strumenti concreti e competenze che troverebbero, in contesti più attenti, importanti ricadute pratiche; pertanto tale proposta si trasforma anche in un accorato appello alle Istituzioni affinché ci si attivi per riconoscere e formalizzare un segmento formativo al momento praticato di rado, a intermittenza e con limitata consapevolezza della sua reale portata culturale.

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TESI

Rossella Gaglione UNA PROMENADE NELLA ‘MUSICOLOGIA SATIRICA’: VLADIMIR JANKÉLÉVITCH E GIOVANNI MORELLI Nell’orizzonte euristico della tradizionale ricerca musicologica, questa tesi si presenta come un triplo ‘azzardo’ perché, prendendo le mosse dalla proposta ermeneutica di Gianfranco Vinay in merito alla prospettiva metodologica di Giovanni Morelli, intende non solo delineare una nuova struttura polimorfica, quale è quella della ‘musicologia satirica’, ma anche collimare le riflessioni jankéléviciane al di sotto di questa stessa lente deformata e deformante, così da dimostrare, in maniera più agevole, le affinità e le divergenze tra i due pensieri presi in esame, nonché – conseguentemente – la necessità di un orientamento plurivoco nei confronti del fenomeno musicale. Il lavoro, strutturato come una promenade dans un vernissage de tableaux vivants, si presenta proprio come una passeggiata condotta simultaneamente dallo scrittore e dal lettore, due protagonisti flaneurs che nei lunghi corridoi di una mostra particolare e sinestetica, si lasciano trascinare nel vorticoso mondo satirico e si concedono il lusso della meraviglia dinnanzi a quegli strani quadri che, ad ogni istante, prendono vita e cambiano forma. Il vernissage, che qui si propone, è da intendersi nel duplice significato, l’uno traslato e l’altro letterale, di ‘inaugurazione’ (essendo – questo – da considerarsi come l’umilissimo tentativo di battesimo teorico conferito alla musicologia satirica, che nelle sapienti mani di Gianfranco Vinay ha ricevuto la nascita ufficiale) e di ‘vernice trasparente’, la quale protegge i dipinti dagli agenti corrosivi dell’usura del tempo, così come questo lavoro ha – tra i vari obiettivi – quello di difendere (se mai ce ne fosse bisogno!) l’enorme portata, in termini di svecchiamento e disincrostazione della disciplina musicologica, che contraddistingue l’opera di Vladimir Jankélévitch [1903-1985] e quella di Giovanni Morelli [1942-2011]. Preliminarmente, si rivela necessario un confronto con le caratteristiche proprie della musicologia satirica, una monade complessa e complicata in cui forma e contenuto coincidono nell’essere satirici: ciò è possibile solo attraverso uno scandaglio analitico dello spettro semantico del termine ‘satira’. Col termine ‘musicologia satirica’ si vuole analizzare non tanto un nuovo genere di musicologia quanto piuttosto le peculiarità di approcci prospettici nei confronti della materia musicale evidentemente comuni tra i due musicologi appartenenti a due diverse generazioni, tenendo ben presente le singolarità di entrambi e le loro speculazioni esclusive rispetto a quelle tradizionali. Nello specifico, l’aggettivo ‘satirico’ associato alla musicologia apre ad un ventaglio semantico molto complesso: innanzitutto vale la pena sottolineare nuovamente che si tratta di una proposta interpretativa – qui pienamente accolta – che per la prima volta 83


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è stata esposta da Gianfranco Vinay nel 20011 in occasione di un saggio pubblicato sulla rivista trilingue «Avidi Lumi». Lo stesso paradigma ermeneutico fu riproposto sempre da Gianfranco Vinay in un convegno organizzato a Parigi il 23 e 24 maggio 2013, a due anni dalla dipartita di Morelli, e i cui atti sono contenuti nel volume Giovanni Morelli, la musicologie hors d’elle.2 In questi scritti, l’autore mostra i differenti significati dell’aggettivo ‘satirico’: innanzitutto viene recuperata l’accezione più originaria e autentica, quella propria dell’espressione latina satura lanx che rimanda al tipico vassoio ricolmo di miste primizie della terra (frutta e ortaggi) offerte in dono alle divinità nelle cerimonie rituali; da qui, deriva la satura latina, termine inizialmente utilizzato per indicare celebrazioni in onore della dea Cerere, accompagnati da canti e scene giocose: con la satura lanx condivide il significato dell’aggettivo satur (pieno, sazio) e dell’avverbio etimologicamente correlato satis (abbastanza), entrambi implicanti il concetto di varietà, mescolanza e abbondanza, essendo – questa – una rappresentazione mista di danze, musica e recitazione, che racchiude lo spirito licenzioso dei fescennini (dalla città di Fescennium, al confine fra Etruria e Lazio), celebrazioni agresti del II secolo a.C. organizzate per festeggiare proprio l'abbondanza del raccolto attraverso versi sboccati rivolti come ringraziamento alla divinità fallica. Se si considera qui l’accezione originaria dell’aggettivo, si comprende bene, quindi, come si configura l’orientamento musicologico satirico, caratterizzato dalla dinamicità dello sguardo (e di conseguenza da una sostanziale eterogeneità ermeneutica) e dalla ricchezza dei contenuti. Ma se si intende la ‘satira’ come genere letterario che si distingue per l’utilizzo di espedienti ironici (dal sarcasmo alla caricatura, dallo humour al paradosso), allora quello stesso nuovo, inusitato approccio musicologico, si colora delle sfumature variopinte e dei retrogusti frizzanti dell’ironia. I primi due significati presi a prestito dalla latinità, sembrano rimandare piuttosto l’uno all’enorme varietà contenutistica, l’altro alla forma (sarcastica e pungente), ma un altro significato deve essere preso in esame: il termine ‘satira’ rimanda anche all’operazione di ‘saturazione’ che nel linguaggio chimico indica lo stadio di massima concentrazione del soluto; in questo specifico caso, considerando quest’accezione, che potrebbe sembrare apparentemente astrusa, la musicologia satirica viene a delinearsi non solo come una soluzione satura di concetti (da qui il riferimento al primo significato preso in esame) ma anche come approccio metodologico avente lo scopo primario di sedimentazione di quegli stessi concetti nell’alveo coscienziale dei lettori. Sulla scia delle suggestioni abilmente intrecciate da Gianfranco Vinay nei suoi scritti a proposito del nuovo paradigma musicologico, la facies, o meglio le facies, della musicologia satirica si moltiplicano a dismisura: nell’articolo qui preso in esame, infatti, Vinay riprende il concetto di ‘gnommero’ dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quer pa-sticciaccio brutto de la via Merulana, caratterizzato da una pluralità di punti di vista e da una mescolanza 1

Si tratta del saggio di GIANFRANCO VINAY, Vingt ans après. Genesi, sviluppi e viluppi della musicologia satirica, «Avidi Lumi», IV/11, pp. 24-27 poi ripreso col medesimo titolo in «Venezia Musica e Dintorni», VIII/42, settembre/ottobre, 2011, pp. 11-14. 2 Giovanni Morelli la musicologie hors d’elle, sous la direction de Gianfranco Vinay et Antony Desvaux, Paris, L’Harmattan 2015. 84


UNA PROMENADE NELLA ‘MUSICOLOGIA SATIRICA’: VLADIMIR JANKÉLÉVITCH E GIOVANNI MORELLI

tra situazioni, personaggi e linguaggi. Ritorna ancora una volta il topos dell’abbondanza variegata, ma questa volta la forma che sembra assumere la musicologia satirica è molto particolare: il termine ‘gnommero’, mutuato dal dialetto romano, vuol dire groviglio, nodo, garbuglio o meglio, letteralmente, gomitolo. Invero l’immagine mentale del gomitolo richiama concettualmente alla peculiarità propria di questa ‘nuova’ musicologia che si presenta «come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo»3 un’architettura spiraliforme che si complica attorno al fenomeno musicale. Nell’intreccio tessiturale di fili diversificati quali l’analitica, la critica, la filosofia, l’antropologia, l’iconografia, la poesia, la scienza, la medicina, la sociologia, che rientrano a pari merito nell’orizzonte reticolare che è, senza dubbio, la musicologia satirica, un’opera musicale presa ad oggetto non ne risulta, quindi, ingabbiata o cristallizzata, ma è libera di esprimersi perché ne diventa il prezioso ordito. La dialettica tra semplicità e complicazione, peraltro sottolineata da Gianfranco Vinay a proposito della prospettiva musicologica morelliana, si trova qui ad avere una sintesi: la musicologia satirica si presenta esattamente come una monade, dall’aspetto unitario ed eterogeno ma dalla trama complicata e complessa, pullulante di vita e dinamicità sin nei suoi anfratti più misteriosi e reconditi. Per comprendere meglio in che senso si possa parlare di musicologia satirica in riferimento alla speculazione morelliana, bisogna considerare l’atto di nascita di questo nuovo stile euristico-musicologico: Tu lampada, tu asciugamano, tu piatto, tu Maple Leaf, tu zucchero,…Una odissea filosofica nelle concordanze metaforiche di Joplin;4 si tratta di un saggio singolare dedicato alla nascita del ragtime, in cui Morelli analizza la biografia e in particolare la carriera jopliniana, risucchiate in un turbinio di suggestioni psicoanalitiche, etniche, sociali, patologiche, etimologiche, che vanno dal casoemblema freudiano dell’Uomo dei Topi (e da qui alle ‘concordanze metaforiche’, esplicitate nel titolo, tra immagine e sua rappresentazione mentale) alle tecniche di produzione e lavorazione della canna da zucchero, fino alla dialettica hegeliana tra servo e padrone: il tutto disegnato all’interno di una complessa odissea che sembra un viaggio di ritorno-non-ritorno tra la coscienza e i suoi inconsci ed occulti anfratti. Si delineano in questo modo alcune delle caratteristiche proprie della musicologia satirica qui presa in oggetto, quali il plurilivellismo contenutistico e l’ironia scritturale le quali, in un gioco di rimandi, mostrano l’alto livello di cultura, perspicacia ed acutezza intellettuale che contraddistinguono il genio morelliano. Nei suoi viaggi scritturali interdisciplinari, che permettono di giocare con le scissioni tra significati e significanti, tra immagini e suoni, e che sono, propriamente, la Conoscenza vera e propria (intesa nel senso lato del termine), l’ironia gioca il ruolo principe di ‘collante ermeneutico’, di miracoloso cicatrizzante di quella ferita inferta al Sapere: non più, dunque, un Sapere scisso in discipline (quale quello musicologico con le sue discipline sorelle) bensì un Sapere che, non infrangendosi in quello specialismo fine a se stesso che tende ad indebolirlo, mostra la sua forza nella capacità di superare le specificazioni, con3

G. VINAY, Vingt ans après cit., p. 12. GIOVANNI MORELLI, “Tu lampada, tu asciugamano, tu piatto tu Maple Leaf, tu zucchero, …” Una odissea filosofica nelle concordanze metaforiche di Joplin, «Rivista Italiana di Musicologia», XIV/2, 1979, pp. 394-435. 4

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siderandole nient’altro che facce diverse di uno stesso preziosissimo gioiello. La peculiarità essenziale della musicologia di Vladimir Jankélévitch, invece, che fa pensare in maniera immediata al particolare e inusitato approccio tipico della musicologia satirica, non è solo l’orientamento chiaramente filosofico – qui non latente come in Morelli ma dichiarato sin nelle premesse, essendo Jankélévitch anzitutto un filosofo – o, anche, l’utilizzo dell’ironia dissacratoria (a livello contenutistico e metodologico), ma soprattutto l’eccentricità rispetto alle ricerche musicologiche tradizionalmente intese: il tutto va a confluire in una critica aperta alla musicologia e agli idòla musicologici sino ad allora accettati (più o meno) senza riserve. In Jankélévitch c’è una riscoperta dell’atavica convergenza tra teoria e prassi musicale: il tutto, comporta una rivalutazione della musica come atto del Fare musica. Il Dire – sembra mostrare il filosofo francese – atrofizza il Fare, priva la musica della sua primaria caratteristica, e cioè lo charme, e una musica senza charme – lo abbiamo capito – perde il suo senso più proprio, che altro non è se non senso del senso. Tutto lo sforzo jankéléviciano è votato, infatti, a testimoniare l’impossibilità di dire l’indicibile, che la musica è, se non disdicendolo, ed è quello che farà in tutti i suoi scritti: ad ogni riga, la musica non è presa come oggetto fisso di uno sterile discorso, di una teorizzazione volta a privarla del suo fascino, che solo si diffonde nel tempo; le pagine jankéléviciane risuonano della musica con cui egli stesso scrive, essendo il suo scrivere uno scrivere con la musica, o musicalmente, cioè nient’altro che scrivere contraddittoriamente, esprimere non esprimendo, dire e nello stesso momento negare ciò che si sta dicendo: si tratta dell’influenza esplicita che la teologia apofatica ha nella riflessione jankéléviciana e che prevede la formulazione di due affermazioni contraddittorie, le quali, scontrandosi l’un l’altra, si elidano. Per definire questa coincidentia oppositorum impalpabile che è la musica, non sarebbero, tuttavia, sufficienti infinite coppie di predicati che si affermano e si negano a vicenda: è per questo motivo che la filosofia della musica si configura come una pericolosa scommessa e una continua acrobazia: la scommessa sta nel permettere alla musica di continuare a vivere anche nella dimensione scritturale, che tende per sua natura a paralizzarla, mentre l’acrobazia sta nella ricerca costante di un equilibrio tra la negazione della scrittura e il suo necessario utilizzo. «Non si dovrebbe scrivere ‘sulla’ musica, ma ‘con’ la musica e musicalmente – restare complici del suo mistero…»5 ed è questo, forse, l’obiettivo fondamentale della musicologia satirica: stabilire (o meglio ristabilire) quel legame di profonda, atavica, complicità e sintonia con la musica, ma soprattutto – prima ancora che scrivere – pensare musicalmente. Seguire il fil rouge che lega la riflessione morelliana a quella jankéléviciana implica, innanzitutto, doversi confrontare con la disambiguazione, più o meno latente, del concetto di ‘Tempo’. La rilevata natura idiosincratica, in merito, profonda le proprie radici nel comune terreno bergsoniano, da cui, palesemente, Jankélévitch e Morelli traggono linfa vitale e preziosa ispirazione. La doppia faccia della medaglia temporale non fu, per la prima volta, presa in considerazione da Bergson; egli ne è, piuttosto, il teorizzatore per eccellenza, in quanto non fece altro che riproporre ciò che non solo 5

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH-BEATRICE BERLOWITZ, Quelque part dans l’inachevé, Gallimard, Paris 1978, p. 248. 86


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appare abbastanza scontato sul piano dell’evidenza empirica, ma che già la filosofia greca aveva sapientemente sottolineato: la semantica del Tempo prevede una biforcazione in Cronos e Kairos, il primo termine ne sottolinea la natura quantitativa e il secondo quella eminentemente qualitativa. Le radici di questa duplicità sono da ricercarsi nella sapienza greca: i greci, per indicare il Tempo, utilizzavano non solo il termine Κρόνος ma anche Kαιρός: il primo era il tempo metronomizzato, quantificabile, mentre il Kairos era esattamente il ‘momento propizio’, ciò che connotava qualitativamente la successione temporale, un varco aperto nella logica sequenziale.

Figura 1: Il Presbimeneto6 6

«Dal greco, il nome di questa bestia è “vecchio che attende” […]. È un grandissimo animale, visto spesso dai santi monaci che coltivano erbe preziose. Può dirsi senz’altro il più innocuo e il più saggio degli animali inesistenti. Praticamente potremmo definirlo come un grande albero dell’altezza 87


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Figura 2: Il Rocots7 circa di un cipresso, a fronde regolari ma indefinibili e a foglia lunga. Il tronco è rugosissimo e molto largo, circa m 1,50 di diametro, ciò gli attribuisce caratteristiche senili da cui il nome. In cima a questa pianta immobile si trova un capo pensieroso e ansioso, con l’occhio lontano e la lunga arcata nasale segnata da una composizione decorativa semplicissima che simula una dentatura. Dalla sutura temporo-occipitale, nella parte laterale posteriore del capo, simmetricamente, sporgono due cespugli di cardo», G. MORELLI, Animali immaginari, Faenza, Lega Editore 2015, p. 17. 7 «È un animale fuggitivo, quasi invisibile. L’occhio umano percepisce, nelle sue apparizioni, qualche sensazione di forma o la piccola traccia di un movimento e basta. È descritto da Bodin che lo chiama anche Kilkrops. Pare abbia un corpo lungo e moltissime teste e che sia un demonio in via di 88


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Nei suoi testi speculativo-musicologici, Morelli si accorda alla visione duplice del Tempo, in particolare ho voluto associare a ciascuna biforcazione concettuale, uno degli animali fantastici frutto della penna e della mente geniale di questo musicologo extra generis. Analizziamo primariamente il Presbimeneto,8 immagine ideale del tempo cronologico: letteralmente ‘vecchio che attende’, pensieroso e ansioso, questo animale aspetta ciò che verrà, e con l’occhio guarda fisso nel passato, è il tempo cronologico che Morelli ravvisa nel poemetto scritto da un giovane Goethe nel 1774 intitolato An Schwager Kronos, musicato da Schubert che ne fece un Lied. Ad esso si affianca, – come osserva Morelli –, nella poetica goethiana una figurazione contrastante capace di produrre una dialettica senza possibilità di sintesi: è l’allegoria del Kairos che rappresentiamo con l’immagine del Rocots.9 Appare immediatamente, il Kairos, e poi subito scompare, proprio come il Rocots, il cui avvistamento è inatteso tanto quanto la sua stessa esistenza; è sempre bambino perché non ha il Tempo per crescere, e non si esaurisce che in un istante subitaneo. Trasposto in musica, è il poemetto di mano goethiana, Meeres Stille, anche questo musicato da Schubert, che mostra un ‘Tempo-senza-tempo’. Queste due facce del divenire, mutuate dalla tradizione ellenica, un tempo metronomizzato, quantificabile, e un altro qualitativamente caratterizzato, improvviso, che apre uno squarcio silenzioso nel flusso temporale, Morelli le declina in ambito musicologico e sostiene che uno dei lasciti del secolo XVIII ha a che fare con la doppia natura del tempo che, in termini estetico-musicali, può essere individuata nelle leggi armoniche (tempo cronologico) e nei principi extra-musicali (tempo cairologico), a cui si aggiunge un terzo tempo, quello della critica, quello che distingue il bello dal brutto, è il Tempo dell’attesa, è la nascita della coscienza musicale. Per comprendere come questa duplicità semantico-temporale rientra nello spazio della musica, Morelli compie un interessante percorso attraverso l’analisi della facoltà emotiva in relazione alla creazione musicale ma anche alla ‘creazione musicale di emozioni’. Per il musicologo, si tratta di una complicazione emozionale che garantisce la fisionomizzazione (e quindi il passaggio al dominio spaziale) di accadimenti che altrimenti rimarrebbero puro tempo: si potrebbe dire che una performance sonora, puntellata di episodi kairologici e, in fondo, essa stessa un unicum kairologico, deve essere filtrata e direzionata dal fruitore-ascoltatore, il quale, grazie alle proprie facoltà, gli fornisce una veste cronologica (e quindi spazializzata). Alla base della trattazione morelliana due sono i fattori che vengono presi in considerazione: il primo riguarda la ‘componenzialità essenziale (natura componenziale) della funzioneemozione’, mentre il secondo si riferisce alla ‘memoria-stato-dipendente’ cioè ad una memoria che è strettamente subordinata all’attivazione di un evento esterno il quale fa rivivere determinate esperienze pregresse sollecitandone la traccia mnestica; si tratta, in quest’ultimo caso, di una riproposizione di accadimenti analoghi a cui la

sviluppo. Si definisce anche come un bambino, un bambino ibrido, nato da un incubo e una donna. Concepimento e nascita sono ravvicinatissimi, da uno a due minuti. È stato visto principalmente dalle donne che lo hanno partorito con terrore», Ivi, p. 46. 8 Figura 1. 9 Figura 2. 89


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mente reagisce emozionalmente. Per comprendere meglio l’utilizzo di questo tipo di memoria, Morelli ricorda un evento musicale organizzato da Karlheinz Stockhausen a Darmstadt nell’agosto del 1967: a quel corso parteciparono allievi già iscritti otto mesi prima e che avrebbero dovuto portare un nastro contenente 25 frammenti sonori isolati e pre-lavorati da utilizzare nel lavoro compositivo secondo le direttive stockhauseniane. Stockhausen, infatti, guidò le elaborazioni sottoponendo gli allievi a continui trapassi dalle percezioni senza memoria (attivate dall’ascolto di 12 sconosciuti intermezzi) alla memoria stato-dipendente. Le creazioni dinamicamente moltiplicate (e moltiplicabili) all’infinito, nell’orizzonte spaziale (fisico) di prove e riprove compositive (e/o emozionali) costituito da una palestra molto ampia in cui si alternavano, si sovrapponevano o si separavano 12 strumenti solisti (uno per ogni compositore), giocava – lo afferma Morelli – sulla presenza-assenza di Stockhausen: la presenza era data probabilmente dalle tracce fornite su cui lavorare ma anche dalle rigide regole a cui erano sottoposte le creazioni (che portavano l’impronta di chi le aveva formalmente decise), mentre l’assenza era data dall’innovazione/novità apportata dagli autori all’impianto prestabilito; si trattava, però, anche di una lontananza e una presenza che si basavano a un tempo sulla proposizione e la riproposizione di un dato percettivo: lontana a livello mnestico (ma presente nella riesposizione percettiva) era l’esperienza rivissuta nell’elaborazione di un elemento già conosciuto, e presente a livello percettivo (ma allo stesso momento assente a livello mnestico) era l’accadimento musicale completamente nuovo. Mettendo tra parentesi questa esperienza musical-compositiva, Morelli stila una tabella di raggruppamento qualitativo in famiglie ben distinte della musica (novecentesca) di ‘genere-sui-generis’ ma sempre spazializzata, una musica, cioè, basata sul genere della programmatica spazializzazione del suono all’interno del quale si distinguono le varie composizioni, tutte diverse, tutte innovativo-sperimentali e quindi tutte sui generis. Su due opere, tuttavia, il musicologo si sofferma in particolare: si tratta di Indianarlieder »Am Himmel wandre ich« di Karl-Heinz Stockhausen e Rituel, in memoriam Bruno Maderna für Orchestre in acht Gruppen di Pierre Boulez. Seguiremo quindi l’analisi della prima opera, relegando quella della seconda all’appendice dedicata al concetto di sacrificio e rito in Giovani Morelli. La composizione stockhauseniana (si tratta di Alphabet pour Liège) è nata in una situazione totalmente spaziale: è il 23 settembre del 1972 quando Stockhausen presenta un’idea performativa oltre che compositivo-musicale che prevede un insieme di 13 situazioni – per l’appunto – create da 18 musicisti in 14 sale del Palais des Congrès di Liège in Belgio, privo di porte e finestre; si tratta di un ambiente, quindi, aperto e con zone comunicanti, caratterizzato, per sua struttura, da un gioco labirintico, sicuramente previsto e voluto, di aperture e chiusure spaziali; il titolo iniziale Alphabet pour Liège nasce dall’utilizzo di trenta lettere (26 dell’alfabeto latino con, in aggiunta, SCH, SP, ST e Ü) a cui erano legate particolari azioni-base, due delle quali dovevano essere estratte da un mazzo di carte da ciascun artista e diventavano, queste, l’input per scambi situazionali e performativi: il tutto (per la durata complessiva di 4 ore) era coordinato da particolari segnali acustici e dettami di minutaggio ben definiti. Nello specifico, Indianarlieder (anche noto con le parole del primo brano di apertura »Am Himmel wandre ich«) fu estrapolata da Alphabet (es90


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sendo l’unico capace di vita autonoma rispetto al contesto in cui nacque) in forma di cantata per 2 voci, elaborata su 12 testi estratti da The Winged Serpent/Indian prosa e poesia: An Anthology a cura di Margot Astrov; la spazializzazione, qui, sembra ancora una volta legata al ruolo che assumono le componenti emozionali della memoriastato-dipendente (delle situazioni emotive riproposte ma anche della serie dodecafonica già conosciuta) e della percezione (dell’incipit iniziale), entrambe – lo abbiamo capito – giocate sul concetto di lontananza e presenza spaziale laddove la memoria ripropone la lontananza in presenza, mentre la percezione (analizzata) può diventare presenza in lontananza. Il percorso morelliano intorno alla problematica della lontananza sembra complicarsi quando il musicologo fa riferimento all’Existenzmalerei di burckhardtiana memoria; in realtà questo non è che un passaggio quasi obbligato per comprendere il ruolo della lontananza nella liricità musicale. Nel Cicerone del 1855, Burckhardt attribuisce alla scuola pittorica veneta (che fa capo a Giorgione) il neologismo di Existenzmalerei letteralmente ‘pittura dell’esistenza’, una tipologia di pittura, quindi, non votata alla rappresentazione dei sentimenti o delle azioni ma percorsa e trapassata, essa stessa, dal flusso della vita: si identificava come veneziane quelle «pitture [ma la cosa valeva anche per altre opere d’arti diverse, finanche le minori] fatte nella esistenza per rappresentare nella pittura [o comunque, nell’opera] l’esistenza stessa». Nulla, pertanto di realistico, fra le sue ragion d’essere della Existenzmalerei, ma, piuttosto, una sorta di «andare, vagabondare, dalla pittura alla pittura attraverso la vita».10

Lo spunto burckhardtiano dà la possibilità a Morelli di enucleare la sua idea di lontananza, una lontananza sinora giocata tra la percezione e la cognizione, tra l’Io lirico e l’enunciazione lirica, tra le facoltà emotivo-emozionali e la memoria-statodipendente: qui, il baricentro sembra apparentemente spostarsi nella misura in cui il paradigma in questione si concentra sul binomio tra la Vita e l’Arte e ad esso si connettono non tanto i dispositivi atti a presentificare il lontano, quanto piuttosto a consentire il movimento transitorio tra entrambi i poli lirici (Existenz – Malerei, o genericamente, Leben – Kunst) permeabili e trasparenti. Il passaggio dalla pittura imbevuta di Esistenza dell’Existenzmalerei alla musica palpitante di Vita dell’Existenzmusik si compie all’ombra del canto cullante, e allo stesso tempo premonitore e inquietoinquietante, dell’ancella co-protagonista indiscussa di più di un frammento iconicomusicale del Tristan und Isolde wagneriano: a metà del secondo atto, il sottofondo lontano all’amplesso impetuoso degli sfortunati amanti è proprio il canto di Brangania, la quale vigila dall'alto di una torre e li ammonisce che l'alba è vicina (Einsam wachend in der Nacht- Solitaria vegliando nella notte); ma gli innamorati, completamente persi nella beatitudine dell'estasi amorosa, non ascoltano e innalzano un inno solenne all'eternità dell'amore oltre la morte (So starben wir- Così siamo morti) e l’isottiano «Lass mich sterben» (lasciami morire), che racchiude tutta l’ebbrezza dell’incuranza di vivere, fa da contraltare al lapidario grido lancinante della serva, il 10

GIOVANNI MORELLI, Scenari della lontananza. La musica del Novecento fuori di sé, Venezia, Marsilio, 2003, p. 241. 91


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quale irrompe e rompe la magia. È un esempio, questo presentato da Morelli, del doppio livello della Vita e dell’Arte, entrambi alternativamente presenti e lontani sulla scena: il presente vitalistico dell’Amore lascivo e orgiastico si contrappone al canto lontano della vigilante, in una circolazione sonora dinamicamente continua. Che sia forse Venezia la suggestiva cornice in cui lontananza e presenza, come acqua e terra, riescono per magia a tenersi per mano e coabitano felicemente in un Regno in cui Arte ed Esistenza sono entrambi compossibili? Proseguendo l’analisi del paradigma della lontananza nell’evento lirico in relazione allo spazio, c’è da dire che Morelli - lo abbiamo compreso - avvia il proprio discorso a partire da un’analisi pittorica in cui la situazione-situabilità spaziale propria di un dato elemento rappresentato si inserisce, per forza di cose, in un orizzonte genericamente prospettico. I dipinti di Paolo Uccello danno, infatti, la possibilità al musicologo di scandagliare i limiti della lontananza in ambito narrativo: egli si concentra in particolare su un dipinto uccellesco, San Giorgio e il drago, conservato nel Museo Jacquemart-André di Parigi. L’autore distingue, dunque, rispetto all’istantaneità della rappresentazione, un tipo di lontananza temporale salvaguardata dalla presenza sullo sfondo panoramico di elementi propri di uno scenario futuro rispetto alla situazione raffigurata (è il caso della fortezza e del castello nei quali dovrebbe svolgersi la prosecuzione dell’azione inquadrata), e una lontananza spaziale in cui si moltiplica l’orizzonte percettivo grazie all’introduzione di dispositivi prospettici. Il discorso morelliano, apparentemente complesso, che riguarda propriamente la questione della lontananza considerata da un punto di vista iconico, come parte integrante dell’immagine, risulta essere una lontananza compressa, lontananza compresente e irrimediabilmente persa nel presente. In breve, Morelli vuole dimostrare come questo particolare paradigma nel momento in cui rientra nell’enunciazione lirico-pittorica, deve sottostare a determinate regole della rappresentazione la quale, per sua natura, tende a delimitare l’indelimitabile: ne vien fuori una lontananza che, presentificata, resa cioè dipendente dai dettami della ragione iconografica, grazie all’intervento salvifico della prospettiva, si denaturalizza, localizzandosi e assumendo come focus-limitante di relazione lo sguardo dell’Io. Ma proprio quando la si vuole limitare, logicizzandola, la lontananza rientra prepotente nella prospettiva e ne sfrutta i dettagli ampliando la percezione dello sguardo, cioè ingrandendo, avvicinando, sfocando e trasformando la localizzazione in temporalizzazione: è il passaggio alle immagini mentali proprie dell’Io lirico. Così, col desiderio dell’inconfigurabile, l’irrapresentabile, indomabile lontananza, quasi come in un cerchio magico, la riflessione morelliana sembra congiungersi con quella jankéléviciana, dipanatasi sotto l’egida dello charme. Per comprendere appieno, infatti, le riflessioni musicologiche di Jankélévitch, occorre, confrontarsi con la nozione di charme. Egli utilizza il termine charme rifacendosi all’etimo latino carmen che significa letteralmente, nelle sue due accezioni, formula d’incantesimo e componimento poetico (da carme): in entrambi i casi il termine indica qualcosa che suscita un’attrazione irresistibile ed è capace di sedurre inspiegabilmente. Come il Nescioquid, anche lo charme non è propriamente ‘qualcosa’ ma, rivolto all’avvenire, è piuttosto qualcosa che sarà, ecco perché è possibile applicarlo alla temporalità: lo charme nel tempo si definisce come un’entità sempre altrove, sempre oltre, sempre rivolta al Domani, un Domani 92


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non empirico ma infinito; e se non ha di per sé consistenza, è perché lo charme si diffonde temporalmente come un profumo. Ma lo charme è anche la proprietà primaria del Tempo, anzi, è esso stesso Tempo, divenire diffluente che inebria di sé la Musica che lo attraversa: nonostante l’impossibilità di localizzarla, essendo la più vana tra tutte le apparenze, la Musica, in effetti, è il ‘senso del senso’, lo ‘charme dello charme’, col suo fascino incantatorio ha un potere straordinario sull’uomo, agisce su di esso, s’insedia nel suo animo e lo fa risuonare. In generale, Jankélévitch sottolinea sempre il ruolo dello charme musicale, ma è con Fauré – e per Fauré – che il musicologo si preoccupa di associare continuamente le composizioni all’aura di charme che le accompagna: Fauré per il musicista dello charme, par excellence, e la sua Ballade in fa diesis maggiore ne è un esempio di straordinaria concretezza sonora. A proposito dello charme notturno, ritorna, dunque, la questione della presenza e dell’assenza, perché è la notte che si presta naturalmente all’evocazione: i contorni netti con la luminosità del sole diventano sbiaditi, tutto è tenue, sfocato, soffuso ed evanescente. L’incantesimo notturno aumenta lo stordimento e il viandante-ascoltatore, immerso fascinosamente nel turbinio della Musica, eccitato nei sensi e nell’intelletto da un potere inspiegabilmente misterioso, si trova a confondere vicino e lontano, prossimo e remoto. È possibile, in definitiva, comprendere – ora – il titolo che Jankélévitch attribuisce alla sua raccolta di saggi musicologici: è lo charme l’unica vera inebriante e avvolgente présence lointaine. Nell’individuazione preliminare dei concetti di ‘lontananza’ e ‘presenza’, mi servirò – per Jankélévitch – di alcuni passi scelti, tratti da un testo pubblicato nel 1983, La présence lointaine. Albeniz, Séverac, Mompou11 e successivamente applicherò le riflessioni che ne deriveranno alla musica primonovecentesca. La ricerca di una definizione univoca dei due termini presi in esame nel tessuto testuale jankéléviciano sarebbe una ‘perdita di tempo’: ma Jankélévitch, che – più di ogni altro autore – apprezzava le ‘perdite di tempo’ e ne riconosceva la profonda utilità, ci obbliga a procedere a tentoni nella sua riflessione, senza apparentemente seguire un filo logico, girando tutt’attorno agli oggetti di pensiero con la speranza – forse vana? – di afferrarli. A proposito dei misteri della distanza e della notte, nel testo preso in esame, Jankélévitch scrive: Le lointain ! telle est la vocation d’une musique qui n’est pas à proprement parler impressioniste, mais qui obéit d’une certaine manière aux lois de la perspective, et qui besoin d’un espace sonore pour s’y déployer, pour y vibrer, pour respirer.12

Si parla, dunque, di una lontananza strettamente legata allo spazio sonoro: nella creazione musicale, insomma, – sembra sostenere Jankélévitch – la necessità che il suono vibri, e che se ne possa distinguere una lontananza o una vicinanza, è legato alla presenza di uno spazio in cui quello stesso suono possa espandersi e di cui possa 11

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, La présence lointaine. Albéniz, Séverac, Mompou, Paris, Éditions du Seuil, 1983. 12 Ivi, cap. 1 par. 6, Edizione Kindle. (La lontananza! Questa è la vocazione di una musica che non si può dire propriamente impressionista, ma che in qualche modo obbedisce alle leggi della prospettiva, e che ha bi-sogno di uno spazio sonoro per ricorrere ad esso, per farlo vibrare, per respirare). [La traduzione è mia]. 93


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servirsi; non più quindi il suono al servizio dello spazio, ma lo spazio servo del suono! La singolarità di questa citazione non sta tanto nella valutazione dell’obbligatorietà della presenza di uno spazio – in cui la materia sonora possa dipanarsi, fin troppo scontato appare l’assunto perché lo si possa considerare come strutturante l’analisi jankéléviciana – la nostra attenzione dovrà, invece, focalizzarsi sulla vocazione naturale della musica – propriamente impressionista certo, ma sostanzialmente di tutta la musica direzionata – che è quella della lontananza. Una lontananza legata al suono nello spazio, come quella che si delinea nella riflessione di Vladimir Jankélévitch, deve di necessità essere prodotta attraverso degli accorgimenti compositivi e il filosofo francese, dalla straordinaria conoscenza in ambito musicologico, analizza a ragione alcune composizioni di Albeniz, Séverac, Mompou, ma anche Liszt, Rachmaninov e Debussy, ricercando in esse tutti i dispositivi attuati e pensati per seguire la naturale vocazione musicale. Insomma, più che di presenza e di lontananza, la Musica sembra innervata di ‘presenza-lontana’ o, per meglio dire, ‘lontananza-presente’: se la Musica si dispiega nel Tempo e la dimensione temporale continuamente diffluente non ammette la sintesi della dialettica dei contrari ma, per sua stessa natura, cede dinnanzi all’aporeticità dell’ambiguo, la materia musicale, imbevuta di Tempo, diventa essa stessa la dimensione dell’evasivo, dello charme. Per comprendere la coloratura e il significato che il filosofo attribuisce alla presenza e alla lontananza, bisogna considerare i riferimenti continui, attuati in sede di analisi delle forme compositive, alle scelte sonore e alla dinamica: Jankélévitch guarda alla musica del primo Novecento, ma è già avanti, il suo sguardo è già tutto al secondo periodo del XX secolo e nelle sue vene scorrono le rivoluzioni velocissime che si sono susseguite nella seconda metà del suo secolo in ambito musicale. Il dosaggio del pedale, il passaggio dalla bitonalità alle dissonanze, l’uso della polifonia: si tratta di espedienti che nei Préludes di Debussy giocano sulla dialettica irrisolta e mai risolvibile della presenza e lontananza, a tal punto che la musica diventa il luogo della compresenza di entrambe le caratteristiche fortemente strutturali, e strutturanti, il discorso musicale. Jankélévitch sembra chiaramente alludere ad un modo architettonico di costruire la musica, o meglio l’onda musicale che si propaga nel tempo e che è costituita da un voluto allontanarsi ed avvicinarsi della fonte sonora, situazione – pare ovvio – opportunamente creata attraverso dispositivi compositivi atti a sfruttare la natura già equivoca ed indeterminata della musica, abitante del divenire, e producenti evocazioni indeterminate e a tratti nostalgiche. Inoltre, individuare netta-mente i momenti musicali che in maniera dichiarata evochino la lontananza e la presenza non è così possibile come si possa pensare: la Musica è il regno dell’assenza di sintesi, è la dialettica senza soluzione che si produce nel movimento in divenire. La Musica per Jankélévitch non è linguaggio, e non lo è nella misura in cui il linguaggio è portatore di un senso ed è in un certo modo sintesi di quel senso, invece la casa temporale, e la Musica che la abita, non dà possibilità di sintesi, perché la dialettica del divenire è continuo superamento ed alternanza tra tesi e antitesi. Il linguaggio, inoltre, è presenza, e si contrappone al silenzio dell’assenza, laddove invece la Musica ha la capacità di racchiudere in sé presenza e lontananza, e in un certo qual modo anche assenza, perché il silenzio entra prepotente nella composizione in qualità di materia musical94


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mente plasmabile. Presenza e lontananza non si mescolano, ma nell’unione mantengono la propria identità perché la Musica li fa vivere entrambi nella contraddizione, senza necessariamente pretendere di risolverli in un coacervo di indi-stinto. Il tertium non è datur essendo la Musica jankéléviciana, come pure la sua Filosofia, già – da sempre – Terzo: non scelgono tra l’una e l’altra faccia del pensiero, ma si crogiolano nell’abitare al margine, godono della virtù derivante dal guardare il mondo dai bordi e lì tutto è, e contemporaneamente non è, assenza e presenza: è il Regno dell’impalpabile coincidentia oppositorum. Della complessa e complicata dimensione musicale, non si è avuto modo di analizzare sinora il suono in qualità di oggetto della percezione sensoriale, così come non si è compiuta una disamina precipua del corpo in quanto veicolo e ricettore sonoro. Inoltre, la semantica del corpo è da considerarsi molto più intrigata, in quanto strettamente relata alla questione del testo musicale e della sua rappresentabilità. Si è ritenuto opportuno, quindi, approfondire la tematica corporea nell’orizzonte di pensiero jankéléviciano e morelliano, per poter seguire l’odissea della carnificazione dell’evento sonoro e della sonorizzazione della materia vivente. Indagare l’ordito scritturale di Vladimir Jankélévitch col proposito esplicito di far emergere lo stretto ed imprescindibile legame dinamico che il corpo intesse col suono, significa confrontarsi inevitabilmente con l’approccio compositivo di Debussy. A Debussy, Jankélévitch dedica una monografia originale e innovativa che vale la pena dettagliare: egli, infatti, attraverso un’opera puntuale di analisi estetica, filosofica e musicologica, conduce il lettore direttamente nell’universo sonoro del compositore francese, non a caso permeato da un indecifrabile mistero. La musica debussiana si connota, infatti, nell’interpretazione jankéléviciana, come musica misteriosa e non è solo dal titolo (Debussy e il mistero) che si evince questo singolare legame col mistero: l’intero testo è tutto costruito su questa tematica che già dalle prime righe viene delineata nelle sue caratteristiche più proprie che la distinguono da quella dell’enigma e le conferiscono, nonostante tutto, un’indiscutibile dignità ermeneutica, essendo da considerarsi come un’inusitata, e a tratti improbabile, categoria di pensiero. La disamina compiuta da Vladimir Jankélévitch riscontra una sostanziale, e graduale, evoluzione della liricità di Debussy dal segreto (decifrabile) al mistero (indecifrabile): si tratta, evidentemente, dell’affinarsi di idee sottese alla creazione musicale e concretizzate, per l'appunto, nelle mirate scelte compositive. Lo scarto tra una fase aurorale di produzione e una avanzata si palesa grazie ad un’analisi estetica comparata della giovanile Damoiselle élue e del Pelléas et Mélisande, tra i quali intercorre un lasso di tempo di ben dieci anni: dalle riflessioni compiute da Jankélévitch è possibile, tuttavia, insistere sul fatto che non si tratta tanto della distinzione tra una maturità in potenza (nel primo caso) evidentemente in netto contrasto con la successiva sua attualizzazione (nel secondo), quanto piuttosto di come prende corpo la musica tra enigma e mistero della vita. La Damoiselle élue, nata dalla penna di Dante Gabriel Ros-setti, attraverso la traduzione di Gabriel Serazin, vive nella musica di Debussy: con la sua aurea maestosamente mistica e tristemente angosciata, espressa attraverso l’utilizzo di cromatismi e uno spiccato diatonismo, la giovane si abbandona a gesti corporeosonori che, però, a differenza di Pelléas, risultano essere facilmente decifrabili; la 95


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fanciulla, infatti, cela un segreto, più che un mistero: è il lamento di una donna che dal Paradiso rimpiange il proprio amore, tra sfumature carnali e spirituali, ormai perduto per sempre. Non c’è niente che sfugga alla comprensione dell’ascoltatore: la musica ci dice qualcosa di molto chiaro, e solo in apparenza latente. Diverso è il caso di Pelléas, il cui personaggio a breve sarà analizzato nelle caratteristiche più proprie che in Debussy misteriosamente si fanno suono. La musica di Debussy, quella della maturità esemplificata nel Pelléas, è la musica di questo atavico segreto, che è poi è il vero e unico mistero della vita: la morte. Nella monografia dedicata a Debussy, il musicologo azzarda (come di consuetudine) una descrizione delle incomunicabili e irrappresentabili figure del mistero: i misteri del destino (angoscia, voluttà, morte) e quelli del mezzogiorno (articolantesi nei differenti aspetti musicali della stagnanza, della ripetizione, dell’interruzione e dell’oggettività). In parti-colare nel primo caso, relativo ai ‘misteri del destino’, il filosofo dedica un’attenzione particolare proprio al Pellèas et Mèlisande, dramma musicale, tratto dal dramma in prosa di Maurice Maeterlinck, che narra le vicende tragiche dell’amore tra i giovani Pellèas e Mèlisande, contrastato dalla gelosia di Golaud. Col ‘mistero d’angoscia’ Jankélévitch intende contemporaneamente presenza dell’assenza e assenza della presenza, esistenza inesistente e inesistenza dell’inesistente, presenza invisibile di chi non c’è , e nella composizione in questione si fa riferimento proprio alla figura del marito dubbioso la cui assenza è musicalmente resa presente da figurazioni ritmico-melodiche che si prestano a suggestioni allusive e ambigue, funzionali ad evocare sentimenti angosciosi e perturbanti. La sonorità si corporeizza, quindi, a tal punto da stuzzicare l’immaginazione dell’ascoltatore che è portata ad associare determinate figurazioni musicali alla figura stessa di Golaud, il quale si materializza sulla scena pur non essendoci fisicamente: è la materia sonora a diventare dunque materia corporea. Le scelte ritmico-melodiche compiute da Debussy hanno, qui, il preciso scopo di invocare il ‘mistero d’angoscia’, di creare cioè attraverso dei meccanismi musicali una situazione inquietante. I ‘misteri di voluttà’ invece riempiono di desiderio il terzo atto e d’amore il quarto atto del dramma: è l’angoscia che diventa passione, stavolta, e che si concretizza in suono, è il desiderio che diventa musica, ed è quella stessa musica che riesce mirabilmente ad esprimere – molto meglio delle parole –, fino quasi a coincidervi, il sentimento della smania d’amore. Di mistero della morte è ripieno l’ultimo atto, considerato una vera e proprio thanatofania cioè una ‘rivelazione di morte’; si tratta del mistero per eccellenza, della chiave di tutti gli altri misteri. Qui Jankélévitch ci mostra il mistero più profondo delle composizioni di Debussy e cioè quello del destino dell’uomo, un destino spesso cupo, oscuro, irrazionale, pur nella sua ineluttabile prevedibilità, che altri non è se non il ritorno al silenzio della morte, al niente dell’inesistenza. Ma è Mélisande il personaggio che per eccellenza incarna il ‘mistero della morte’, con la sua infelicità assurda e l’ingiusta fatalità della sua fine. Sulla scia della disamina compiuta a proposito della corporeità della musica, bisognerebbe – qui – occuparsi dei caratteri fondamentali della misteriologia di Debussy: essi risultano essere l’oggettivismo, la stagnanza, il presentismo. Come se ognuna delle sue composizioni potesse essere identificata in un’istantanea della vita del mondo, un’immagine immobilizzata della storia universale, Jankélévitch considera le caratteristiche della musica di Debussy 96


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confluentesi in una sorta di ‘cosmogonia universale’; il compositore, infatti, ha di straordinario proprio questo: la capacità di afferrare l’inafferrabile, di sorprendere la vita all’improvviso nel suo quotidiano scorrere, ritraendola in un dagherrotipo musicale; per questo motivo, l’impressionismo di Debussy non viene avvicinato alla filosofia di Bergson (e al suo dinamismo, al contrario della musica di Faurè), bensì a quella di Epicuro, essendo tutto concentrato nella puntualità del presente, quasi come se il divenire musicale fosse una successione di ‘istanti in istanza’, di punti culminanti, di vertici acuminati, frutto di un repentino arresto del lento scorrere del tempo. Un esempio dell’istantaneismo di Debussy è offerto dalle sue composizioni meteorografiche: Nuages, Fêtes, The snow is dancing, Sirènes, La Mer, Le vent dans la plaine, Feux d’artifice, Les parfums dans la nuit, Cloches à travers les feuilles, Et la lune descend sur le temple qui fut, Ondine, Poissons d'or, Jardins sous la Pluie, Rondes de printemps, Reflets dans l’eau, non sono che poemi di elementi naturali che diventano a tutti gli effetti soggetti principali di ‘fotografie’ messe in musica. Si tratta, in effetti, della natura stessa che si fa corpo sonoro: Jankélévitch ci dimostra, infatti, come Debussy utilizzi tutti gli espedienti compositivi atti a creare atmosfere talmente suggestive che, attraverso i trilli, le dissonanze, i glissandi, si riesce nitidamente a sentire il fruscio del vento, lo scrosciare dell’acqua o il silenzio pietrificante della neve, e si possono chiaramente vedere le girandole pirotecniche che si disegnano nelle fiamme di fuoco o i cerchi sulla superficie del mare al cadere della pioggia. In questa magica sinestesia, l’immaginazione è disorientata, perché non si tratta più di attribuire arbitrariamente immagini all’inesprimibile-espressivo che è la musica, ma piuttosto di percepire ognuno di questi elementi che entra nelle composizioni in maniera quasi irreale e se ne appropria misteriosamente. È grazie alla presenza assente, che come abbiamo visto coincide con lo charme della musica, che nello spazio musicale si trovano a coesistere la lontananza e la vicinanza. In questo ‘panteismo musicale’, però, gli stessi oggetti perdono di consistenza, sfumano, vengono meno nella loro pesantezza corporea, divenendo quasi trasparenti, e l’atmosfera che si crea pone l’ascoltatore in una condizione di mistero e approssimazione continua, che altro non è se non la condizione stessa di ambiguità e anfibolia in cui si trova l’uomo, sempre teso sul filo dell’istante diffluente, come se fosse costantemente in uno stato meridiano, nell’ora del mezzogiorno, in cui la propria esistenza è quotidianamente al culmine e si prepara vorticosamente al declino. Abbiamo sin qui analizzato la concrezione dell’assenza misteriosa nella presenza sonora, ma su Jankélévitch si è scritto anche a proposito del corpo sonoro, nel rapporto strettissimo tra l’esecutore e lo strumento musicale. Vale la pena quindi ricordare due saggi interpretativi della musicologia jankéléviciana: La musique et le corps. Vladimir Jankélévitch sur l’art du piano13 di Gabor Csepregi e L’existence charnelle des sons. Une réflexion sur la dimension corporelle de l’exécution pianistique14 di Maurizio Cogliani. La musicologia jankéléviciana è lo 13

GABOR CSEPREGI, La musique et le corps. Vladimir Jankélévitch sur l’art du piano, dans Sagesse du corps, Alymer, F.d. du Scribe, 2001, p. 103. 14 MAURIZIO COGLIANI, L’existence charnelle des sons. Une réflexion sur la dimension corporelle de l’exécution pianistique, in En dialogue avec Vladimir Jankélévitch, Paris, VRIN 2009, pp. 307320. 97


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spunto naturale per una riflessione sul complicato rapporto tra musica e corpo, strettamente connesso alla questione della percezione. Nella comprensione di questo legame sostanziale ed atavico, bisogna anzitutto sottolineare che Jankélévitch, come osserva Csepregi, si concentra sulla figura del pianista nell’atto esecutivo. Nel pieno sviluppo della musicologia di Jankélévitch, compenetrata da ogni parte dalla sua filosofia (e viceversa), il pianoforte diventa un ‘organo-ostacolo’, paradigma teoretico mutuato dalla filosofia bergsoniana che indica qualcosa al tempo stesso strumento e impedimento di realizzazione (in questo caso, del suono). Il pianoforte, quindi, che materialmente si oppone alla corporeità dello strumentista, si mostra al contempo come l’unica possibilità della produzione del suono e diventa motivo di seduzione e fascinazione psicologica: si tratta propriamente di un processo di induzione affettiva in un circolo magico sonoro tra lo strumentista e l’uditore che si qualifica come piacere della funzionalità. Se è il pianoforte che per eccellenza riassume le qualità e la complessità del rapporto tra il corpo dello strumentista e il corpo dello strumento è perché tutto è concentrato sulla tattilità e la tangibilità corporea che permette di toccare la tastiera (nello spazio) ma anche di toccare al volo l’istante fortuito (nel tempo): il tocco virtuoso (dell’état de verve) è dato proprio da questa coincidentia oppositorum miracolosa tra la spontaneità irrazionale e la riflessione cosciente. Sul rapporto tra l’istantaneità dell’azione esecutiva e la coscienza dell’esecuzione ci soffermeremo nell’appendice dedicata all’improvvisazione: in effetti Csepregi si concentra, nella seconda parte del suo saggio-omaggio alla relazione complicata tra corpo e musica, sul ruolo dell’improvvisazione nella musicologia jankéléviciana, situabile esattamente tra l’universo della riflessione (delle regole, della prudenza preparatoria all’azione) e dell’irriflessione (dell’intuito, delle tracce mnestiche iscritte nella memoria-nonconsapevole). Al contrario di Csepregi, il quale – lo abbiamo capito – si occupa propriamente della corporeità fisica dello strumento-strumentista, Maurizio Cogliani (che pure parte dalla stessa linea evidenziata da Csepregi tra Corpo e Musica) si sofferma in particolare sull’esistenza carnale dei suoni e sulla risonanza corporea. Al posto del triangolo strumento-strumentista-uditore si delinea quello tra esecutoremusica-strumento: il circolo vizioso-virtuoso, che pure sottende una bilogicità (emozionale-razionale) nell’esecuzione (propriamente musicale), non è né di carattere psicanalitico né filosofico quanto piuttosto antropologico. L’uomo, con tutte le sue attitudini corporeo-psicologiche, rientra interamente come protagonista – questa volta – della relazione col pianoforte. Se in Csepregi lo strumento si oppone all’esecutore (pur essendo il mezzo attraverso il quale è possibile produrre il suono), in Cogliani il pianoforte diventa un’appendice dell’uomo o, meglio, una sua estensione corporea: il corpo dell’uomo è lo strumento esecutivo e, a un tempo, il pianoforte diventa esso stesso il corpo dell’esecutore. Ma questo strumento musicale che si configura come estensione del corpo dell’esecutore permette a Cogliani di approfondire la questione esecutiva in termini innovativi: il triangolo tra il pianista, la musica e il pianoforte ricostruisce quella magica e misteriosa interconnessione vitale che si produce tra il feto, il liquido amniotico e la gestante. Il rapporto corporeo fusionale che si instaura tra il pianista e il suo strumento produce uno stato di grazia idealmente comparabile al momento in cui il rapporto prenatale tra madre e feto si riduce ad un indecifrabile e 98


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misterioso continuum di espressioni sonore (e al contempo corporee) perpetuato anche dopo la nascita del bambino, fino a quando la comunicabilità non viene relegata al linguaggio dispiegato. Si tratta di una comparazione tra il mondo musicale e quello naturale antropologico che permette di sottolineare alcune caratteristiche essenziali della musica, evocate nelle riflessioni musicologiche jankéléviciane: essa si presenta come un avvenimento immotivato e ineffabile, destinato a rimanere senza risposta perché, al di là della ragione, è tutto giocato sulla linea sottile tra il corpo, le percezioni e le emozioni. Le interpretazioni di entrambi gli studiosi a proposito del rapporto tra il corpo e la musica in Jankélévitch non è così avulso come può sembrare: il musicologo, infatti, ha dato dimostrazione di aver preso in considerazione la spinosa questione nei suoi scritti. È Maurizio Cogliani che, in conclusione al suo saggio, lascia parlare – a ragione – Vladimir Jankélévitch, riportando una sua risposta a proposito della relazione corpo-musica, contenuta in Penser la mort?.15 In quest’orizzonte relazionale, la danza da dimostrazione di come il corpo coi suoi movimenti sia in grado di seguire la fluidità delle onde sonore per il solo fatto che esso stesso è, nella sua propria essenza, musicale, e senza lucida coscienza si sente trasportato (nello spazio) dall’andamento ritmico-melodico del divenire sonoro (che si dispiega nel tempo). A quelqu’un qui lui demandait: “Y a-t-il des relations entre le corps et la musique?”. Jankélévitch répondit: “Oui, je crois. […] J’ai toujours négligé cet aspect, mais je pense que ce serai important de l’approfondir, d’abord parce qu’il y a un domaine commun dans lequel la musique et le corps sont parties prenantes: c’est la danse. La musique est fait pour la danse, la musique est danse naissante. Une partie de la musique européenne et étrangère est née de cette participation du corps. Le rhytme est un élément essentiel de la musique et intéresse également directement le corps. Le corps est donc le lieu de rencontre, malgré tout, à la fois de la musique et de la danse. Dans la musique même, l’élément rythmique implique une participation du corps, une participation des organes. Un frappe du pied involontairement, instinctivement, sans s’en apercevoir soi-même dans certains cas, et puis on est transporté par des ondes, les ondes musicales, qui impliquent la présence du corps.

Nella musicologia morelliana, il rapporto tra la musica e il corpo è strettissimo: tutte le considerazioni si installano, infatti, su un terreno filosofico chiaramente di carattere empirico e l’influsso empirista è chiaramente rappresentato dall’arcaico fil rouge che unisce il suono con la materialità fisica umana. In questo paragrafo, tuttavia, abbiamo analizzato il termine ‘corpo’ nella sua accezione più ampia e complessa, per poter meglio metterne in luce la dialettica che esso intesse con l’evento sonoro. Si è ritenuto opportuno, quindi, compiere una disamina approfondita della dicotomia complessa che si instaura tra la musica e il suo ‘corpo’ testuale, o meglio il suo farsi corpo attraverso il testo. Già dalle prime righe di esplicazione morelliana della tematica presa in esame se ne rivela tutta la complessità: comprendere il rapporto tra la 15

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, Penser la mort?, Paris, Liana Levi 2000. 99


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musica (in quanto evento sonoro che si dispiega nel tempo) e la rappresentabilità del testo (inteso come rappresentazione fisica – dunque visibile e spaziale – di ciò che con l’esecuzione si rende temporale) obbliga a confrontarsi con due concezioni ben precise. Quella di Morelli è una posizione anomala perché, a conti fatti, non è una posizione: come di consuetudine, il musicologo considera tutte le stratificazioni interne ad una questione, sottolineandone – a ragione – la pluripolarità (o meglio bipolarità, in questo caso). Perché anomala? Perché la posizione di cui vorrei dire non è una posizione. Non è una posizione, perché al suo interno contiene due posizioni animosamente antitetiche (le due statue dei commendatori, appunto, di cui dicevo all’inizio), che a loro volta dovremmo ben imparare a distinguere – assecondando o l’uno o l’altro dei due credo di cui sono portatori/portatrici – proprio e del tutto in ordine al modo di «pensare la visibilità della musica». L’una statua, o fazione che sia, vorrebbe che le cose si spiegassero, tutte in un ordine-quadro, determinante, di entropia, ragion per cui visualizzandosi nel testo, la musica regredirebbe a uno stato di naturalità inferiore perdendo così parte, o la gran parte (spesso la migliore, la più perspicuamente «divina») delle sue proprietà e della sua sostanzialità, e rinunciando parimenti senza appello, a quella sacra natura prima che la lega ad un voto, a un patto, d’intangibile ed eterna invisibilità (sia mundana che humana). L’altra fazione (o l’altro commendatore o gendarme che sia) vorrebbe, invece, che la visualizzazione e la «produzione testuale» della musica fossero (con)validate come prova o come conseguenza di una storicizzazione evolutiva, linguistica, del fenomeno musicale, necessaria (vuoi sul versante della creazione, che su quello della esecuzione-riproduzione delle idee musicali originali, o anche delle formanti del loro ascolto), ragion per cui  la musica verrebbe ad esistere solo se o solo in quanto «tra-smessa» come cosa scritta, e, pertanto visibile; scritta e visualizzata in codice per puri motivi di comodo, per assecondare più istanze d’ordine tecnico-pragmatico: a) vuoi in funzione di una praticabilità agevolata della sincronizzazione più regolare delle sue parti, b) vuoi di un perfezionamento «artigiano» delle sue materie in grado di rendere più coese o più coerenti le sue parti, vuoi di correzioni degli errori indotti dalle défaillances espressive della propria, essenziale creaturalità e della propria debole prima umanità ecc.).16 Le due considerazioni differenti inerenti il rapporto tra la visiva testualità musicale e la musica ‘ascoltata’ risultano qui chiare e distinte: nel primo caso si ritiene il testo sostanzialmente demeritante rispetto alla musica vera e propria, essendo il primo una specie di specchio in frantumi dell’immagine originaria-originale, o meglio, una copia difettante della primigenia realtà sonora; in questo caso la musica è caricata quasi di un senso ultra-mondano dato dall’impossibilità della sua stessa rappresentazione, o meglio, legato alla sua stessa invisibilità; come per il divino, così per la musica, 16

Scenari della lontananza, cit., pp. 71 - 72. 100


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l’iconografia appare dunque come essenzialmente depauperante. Nel secondo caso, invece, la musica esiste grazie al testo e proprio attraverso quel testo essa si tramanda e si convalida, non solo: il fenomeno sonoro è, in quanto diviene visibile, e la sua rappresentabilità non è che il frutto di una sedimentazione evolutiva del linguaggio testuale-musicale. L’una posizione – la più «teocratica» – induce a coltivare, nei confronti dei testi musicali, che nei tempi moderni sempre di più sono scritti (vieppiù leggibili, vieppiù retinici, vieppiù visibili), una sorta di carica avversativa emanata da un sentimento essenzialmente nostalgico: una nostalgia che si è nutrita, anche, di una certa autoistigazione a idiosincrasie specifiche, risentite, luttuose e reattive, che nella «visione del testo» altro non scorge che l’icona negativissima della perdita o della prossima dipartita della originaria-primeva-etnica-antropologica «natura autentica della musica assoluta». (Intesa, quest’ultima, come un complesso di armonia-melos-cromìa essenzialmente immotivato, irresponsabile e assolutamente privo di ogni necessità di contesti – se non contesti simil-divini). L’altra posizione – la più «laica» - assomma invece la soddisfazione di più istanze «prometeiche-democratiche» che generano – come conseguenti dell’esistere del testo visibilizzato – altre nuove nature in progress, per tutte le opere musicali, sia per le passate, reinterpretabili, che per le presenti «da comprendere», che per le venture (da immaginare ex nihilo). Nature da scoprire, nature da alimentare, nature da capire e da far crescere.17 Nel primo caso, decontesualizzata, la musica si trova relata ancor di più e irrimediabilmente alla propria natura antropologica: se attraverso il testo è allontanata dalla sua fonte originaria di nascimento, non ha più ragione di esistere; questa posizione, definita ‘teocratica’ per la trattazione univocamente comparabile che ne scaturisce tra la Musica e Dio (condividendo entrambi un’unica irrappresentabile radice), si carica di un senso nostalgico: è la nostalgia dell’unità primordiale tra il suono e il corpo (umano), minacciata dalla ferita inferta da quella musica che si fa corpo (o meglio pretende di farsi corpo) nel testo. La laicità della seconda considerazione, invece, – essendo in netta opposizione alla prima – rivalutando la natura del raffigurabile (visibile) in relazione al sonoro, è proiettata verso nuovi orizzonti sperimentali di rappresentabilità dell’opera musicale. La necessità della visività testuale pone la Musica a doversi confrontare con la necessità di farsi corpo per l’occhio, e non più di esser soltanto suono per l’orecchio: è la necessita umana di associare la realtà spaziale a quella sonora, fosse solo attraverso l’immaginazione e questo non avviene solo da parte dell’ascoltatore che tende ad attribuire un’immagine ad un suono, ma anche dello stesso compositore, il cui processo creativo – a ragione – è associato da Morelli a quello immaginativo. Il tentativo di legame mimetico tra la pratica musicale e quella poietica (che sia essa pittorica o poetica) comporta, quindi, un’attenzione per la grafia e per il segno, il modo più immediato di rappresentazione visiva del sonoro: il tutto – come su osservato – coincide con l’evoluzione del linguaggio stesso della musica, si17

Ivi, pp. 72 – 73. 101


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no agli estremismi della creazione autonoma e soggettiva di grafismi nella musica del ventesimo secolo. Non è un caso che, nel panorama della ‘Nuova Musica’, per meglio sottolineare il processo evolutivo che ha portato il rapporto tra il sonoro e l’iconografico ad emanciparsi attraverso un gioco sinestetico tra occhio e orecchio, Morelli ha citato l’opera pioneristica di John Cage. In effetti, le sperimentazioni sulla notazione musicale, oltre che ovviamente sulla prassi esecutiva, connotano particolarmente l’opera di Cage: in lui la visibilità della musica e la stessa componente visiva assumono un ruolo determinante, anche perché spesso le indicazioni in partitura non sono dirette alla produzione del suono ma si trovano a descrivere l’atto stesso e il procedimento necessario messo in campo nell’esecuzione musicale. Il caso dell’aleatorietà, invece, è emblematico in questo senso in quanto risulta centrale il ruolo dell’esecutore nel suo atto visivo, e di conseguenza la funzione primaria della partitura in quanto musica che si fa corpo (o in tal caso corpo che si fa musica); l’interprete, infatti, inizia l’esecuzione partendo dal primo frammento su cui gli è caduto l’occhio e ciò diventa – anzi è – la variabile soggettiva della molteplicità di esecuzioni possibili: è il caso, ad esempio, di Refrain (composizione per tre esecutori pubblicata da Karlheinz Stockhausen nel 1961) in cui la notazione è a servizio del libero arbitrio dell’interprete che intraprende (quasi) autonomamente il proprio percorso musicale. Nel caso di Cage invece il riferimento è all’originalissima Notations, un libro, ideato a quattro mani con Alison Knowles e pubblicato nel 1969 per la casa editrice Something Else Press, frutto di ibridazioni e scambi interdisciplinari tra musica e arte visiva con esplicito riferimento al carattere iconico e visuale assunto dalla partitura, esempio emblematico dell’utilizzo di simboli non convenzionali tipici delle avanguardie musicali del secondo Novecento. In questo astruso contesto, infatti, proprio la partitura musicale è considerata, prima ancora che una rappresentazione grafica del suono, come immagine, che si carica di un senso proprio, e come linguaggio altro, ossia insieme di simboli epistemologicamente connotato e connotante (o meglio denotante): non più la musica che si fa corpo, dunque, ma innanzitutto il corpo (- testo), nella sua struttura più complessa e nelle molteplici possibilità interpretative, e poi la musica. Il pionerismo di John Cage produce propaggini rigeneranti che si protraggono fino all’estremo limite temporale novecentesco: è il caso di György Kurtág che, nella sua ricerca frammentata di esplorazione del macrocosmo umano, altrettanto frammentato e profondamente misterioso, presenta, nell’universo musicale di fine XX secolo, un’opera singolare: si tratta dei Kafka-Fragmente. C’è un testo, dunque, ed è un testo kafkiano, in particolare una prosa intima come poteva essere quella dei diari e delle lettere private all’amica Milena Jesenská, che comporta un’interazione magica tra la semantica testuale e la sintassi musicale. Il carattere aforismatico unito all’asciuttezza dell’organico presentato (violino e voce) fa in modo che ogni pezzo non sia altro che una storia compattata in daggherotipo istantaneo, una compressa stentorea di riflessione musicale: non più un flusso di coscienza, non più un tentativo di unificazione dei momenti biografici ma flashs, lampi improvvisi, scene scheggiate di un’umanità che si scopre (o meglio si riscopre) in frantumi. Ne nasce un tessuto sonoro frutto di fili testuali e iconografici reciprocamente compenetranti: tutto è raffigurato, e tutto è – a un tempo – sonorizzato. Bisognerebbe prendere in considera102


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zione che nell’analisi condotta da Morelli si evince un plurilivellismo corporeo interessante; si distingue infatti un livello-base del testo musicale corrispondente ad una visualità denotativa, ovverosia alla visività di un linguaggio (quello della notazione standardizzata qui utilizzata) che direttamente è legato ad un significato ben preciso e convenzionale (corrispondenza segno-nota); un secondo livello è il testo utilizzato – quello kafkiano in questo caso – di per sé comunicante e comunicativo; un terzo livello è quello delle indicazioni in partitura (staccatissimo, acuto, ben in tempo, non dolce) che sono informazioni sia dirette all’esecuzione (e quindi orientate ad una gestualità ben precisa) sia caratterizzanti il fenomeno naturale preso sonoramente in carico (ad esempio il temporale). La straordinaria acutezza di Morelli dirige l’attenzione verso l’invisibilità iconografica di un evento atmosferico (non essendo il temporale associabile ad un’unica immagine quanto piuttosto ad un insieme di suoni) il quale, caricandosi di una sonorità ben precisa, si trasforma in visibilità attraverso il suono. Si assottiglia sempre di più il confine tra il corpo sonoro e il suono corporeo col quarto esempio riportato da Morelli: è un quadro ancora più astratto e irrappresentabile alla vista, anche se, indubbiamente, «quadro» è. La partitura disegna il cammino sempre diritto e incorreggibile degli uomini probi-buoni-onesti e anche la sconoscenza degli altri che sulle tante loro rotte di vita, tutte eguali, intrecciano una danza del tempo che si spegne prima di essere, perché il tempo dei non buoni è allusivo, è falso come falsa e inesistente è la sua danza. Un bel problema, fornire questo complesso di figure visibili non-allegoriche perché reali – passo e danza, dei buoni e degli altri -. Il testo musicale, però, provvede, nella sua scrittura estremamente visibile a rivelare il passo regolare – guardare il violino – dei buoni (più regolare di così!...), o l’inquietudine inespressivamente dubbiosa degli «altri» soperchiati dalla vanità di quella danza che svapora del «quasi niente!»; (tutto qui, ma lo si può vedere, nella pagina, delineato – per divenire, una volta letta e sonorizzata la pagina, l’«ascolto di una visione irrappresentabile»-).18

Si tratta della situazione più complessa di tutti gli esempi presentati perché di per sé è strutturata in maniera composita: i passi producono un suono preciso mentre l’iconografia ad esso collegata è particolare in quanto deve dipanarsi nella bidimensionalità spazio-temporale. Così, la regolarità grafica delle note sul pentagramma è la regolarità stessa dei passi degli uomini buoni (ogni nota è un passo) che sembrano procedere ad infinitum essendo, il loro, un cammino in uno spazio atemporale e in un tempo aspaziale. Un altro esempio di corporeità testuale-musicale kurtágiana è Játékok, una serie di pezzi pseudo-pedagogici per pianoforte in 9 volumi risalenti agli anni tra il 1973-1979 composti con il preciso intento di recuperare l’atteggiamento ludico con cui i bambini si relazionano per la prima volta ad uno strumento musicale, accarezzandolo, sfiorandolo e sperimentandolo. Il gesto lirico sotteso alla creazione testuale di questo tipo di composizioni-visibili si propone di indagare l’uomo sin dai primordi del suo approccio al materiale sonoro, fase aurorale in cui l’atto immaginativo è tutt’uno con quello creativo, così come l’atto uditivo è di per sé visivo, in quanto nasce dalla necessità propria dell’uomo di instaurare un rapporto dinamico con la 18

Ivi, p. 86. 103


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datità del fatto percepito, attraverso l’iconografia coscienziale. Si tratta di seguire il processo dialettico della creazione musicale-testuale, da una fase di flessione coscienziale, ad una fase espressiva, passando attraverso la riflessione cosciente: il tutto si visibilizza, prendendo corpo, nella testualità (paratestualità e metatestualità) della musica. Sembra rimodularsi, probabilmente completandosi, l’approccio alla nuova visibilità testuale-musicale proposta da Kurtág: giungere all’origine dell’umanità significa considerare l’atto del bambino che, nel percepire per la prima volta con circospezione lo strumento musicale, si scopre autocoscienza ovverosia soggetto percipiente. Si tratta di una situazione pre-situazionale: rispetto agli esempi esposti in precedenza, tutti spazio-temporalmente ben contingentati, in questo caso l’evento scatenante la testualità in questione è originario, confinante cioè tra il precognitivo e l’espressione pura, è l’atto stesso di nascita dell’Io lirico. Ma fattivamente com’è possibile calmierare il tutto in un orizzonte di visibilità testuale-musicale? Morelli analizza vari frammenti di Játékok ma uno – che poi dà il nome al capitolo qui preso in considerazione – mi sembra particolarmente significativo: C’è qualcosa qui che è quasi una composizione […]; il pianoforte è suonato a palme aperte, scorrendo su tutti i registri anche sopra i pentagrammi e finendo nel grave (può essere la morte o altra immagine del genere, comune una fine); i tasti toccati sono soltanto i bianchi, e una volta sola, in falsa partenza del movimento della risposta, i neri (=le notone bianche e nere). Null’altro che libertà, caso, sentimento commosso del cominciare, durare e finire.19

Si tratta di Virág az ember (L’uomo è un fiore), un pezzo musicale, ma anche un pezzo di storia lirico-cognitiva in quanto mostra a un tempo la parabola ideale dell’atto creativo e, in tutta la sua potenza visivo-ideativa, l’odissea stessa della ragione, dall’inconscio generativo alla coscienza, fino a concludersi col silenzio dell’assenza totale di pensiero. Il suono segue la traiettoria del fiore che, come un bambino o come un timido e primigenio atto di riflessione, vede liberamente la luce per la prima volta: la linea sonora che va dall’acuto al grave è l’immagine musicale della vita che scorre e si conclude nell’oblio della morte. La musica, in breve, sembra farsi corpo proprio perché l’uomo è, propriamente, con la sua dinamica cognitiva, la sua capacità percipiente, la sua attitudine creativa e le sue pieghe ideative, il corpo della musica. Continuando con la mostra animalesca immaginaria, frutto della mente ingegnosa e singolare di Giovanni Morelli, ci si imbatte in un astruso animale che per le sue insolite caratteristiche potrebbe essere considerato come l’iconografia di una delle peculiarità proprie della musicologia satirica: l’ironia.

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Ivi, p. 89. 104


UNA PROMENADE NELLA ‘MUSICOLOGIA SATIRICA’: VLADIMIR JANKÉLÉVITCH E GIOVANNI MORELLI

Figura 3: La Mandala20

La figura in questione è quella della Mandala e analizzandone i dettagli descritti con precisione dal suo ideatore è possibile, in effetti, ritrovare alcuni dei tratti fondamentali che contraddistinguono l’approccio ironico morelliano: la circolarità derivante dal riferimento all’ambito divinatorio – essendo la Mandala, presso alcune culture orientali, il simbolo ciclico dell’universo –, come pure il corpo stesso, un ibrido tra uomo e serpente, può essere vista come la forma circolare stessa dell’ironia, che avvinghia vorticosamente la testualità scritturale e la penetra sin nelle sue pieghe più profonde; se gli occhi sono irregolari – poi – e la bocca appare distorta, è perché l’ironia musicologica necessita di uno sguardo asimmetrico capace di analizzare al diritto le storture e di sbieco le presunte linearità del pensiero: si tratta di un atteggiamento scherzosamente sagace, a metà tra il serio e il faceto, profondo nelle intenzioni e leggero solo all’apparenza, che marca le riflessioni di Giovanni Morelli, come anche quelle di Vladimir Jankélévitch. Se l’etimo della Mandala è di chiara derivazione francese, probabilmente è perché, nell’analisi comparativa sin qui condotta tra l’immagine animalesca e l’attitudine ironica, l’ironia morelliana è di esplicita origine francese; il sarcasmo sottile e pungente che contraddistingue la speculazione filosofica di Rousseau, Diderot, Voltaire, influenza chiaramente la maggior parte delle pagine musicologiche di Morelli. L’ironia si impone nel Settecento come forma espressiva privilegiata, in diretta correlazione con la ben nota ironia socratica, dalla quale mutua l’apparente ignoranza con cui si presenta legata alla ricerca profonda della verità: nelle mani degli illuministi francesi, la sagacia diventa un’arma a doppio taglio poiché risulta essere non solo un approccio scritturale alternativo ma anche una forma 20

“Il suo nome significa in geomanzia «cerchio». Si tratta di una grandissima bestia zebrata, dal corpo cilindrico regolare, con diametro di circa 3-4 metri, quasi sempre fortemente attorcigliato sul suo asse. A un capo di questa lunga forma quasi serpenta-ria si trova una testa quasi umana, con due occhi irregolari e una bocca distorta. Dalle due guance, sotto le arcate zigomatiche rudimentali, sporgono due bracci carnosi, rivolti indietro, terminanti con 5 + 3 dita artigliate. È un animale francese e il suo nome dialettale tradotto suona circa come: «il naso d’oro di Carlomagno»”, GIOVANNI MORELLI, Animali immaginari, cit., p. 19. 105


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di dissimulazione sarcastica di pensiero, che si pone in aperta critica contro il fanatismo e l’ignoranza, sintomi di arretratezza e imbarbarimento della ragione. Nella continua ricerca morelliana – metodologicamente non-metodica – di dissacrazione degli idòla e di disincrostazione delle calcaree e ataviche opinioni in ambito musicologico, in alcuni casi il riferimento alla sagacia francese illuministico-settecentesca è esplicito e sin dal titolo delle sue opere il nesso – voluto e studiato – appare evidente; in altri casi, invece, lo stile scritturale, la vivacità dei toni, la raffinatezza di pensiero, la ricercatezza linguistica, pur sottesa ad un apparente barocchismo, richiamano il milieu illuministico francese e mostrano quanto Morelli risenta fortemente di quell’argutezza tipica di questo contesto intellettuale. Se Vladimir Jankélévitch dedica un testo intero all’ironia, oltre a plasmare i suoi scritti utilizzando una chiara dinamica demistificatoria propria di un autentico approccio ironico indipendente dal contesto storico che lo origina, Morelli prende a piene mani gli influssi ironici dell’illuminismo francese, ma li rimodula, secondo i propri scopi intellettuali, inserendoli all’interno di un discorso di carattere musicologico che si colora di sfumature nuove, inusitate e spesso irriverenti. Il testo morelliano che, più di tutti probabilmente, mostra il debito – e forse la leggera ipoteca – degli ironici predecessori francesi del ‘700 è Il morbo di Rameau.21 Si tratta di uno scritto molto complesso, che cattura e coinvolge il lettore in un vortice dagli esiti inaspettati: per quanto egli possa non conoscere assolutamente niente dell’opera rameauiana presa in considerazione nella trama testuale, si troverà, alla fine, a conoscerla nelle sue pieghe, fin quasi a possedere gli elementi necessari a farsene un’idea, senza – forse? – accorgersene. Non è tanto l’ironia morelliana che qui si vuole esaltare o il dispositivo narrativo, per altro geniale, che sottende la precipua analisi dell’opera di Rameau, quanto piuttosto il fil rouge, sottile, raffinato, intrigato, che lega quella ironia all’ironia jankéléviciana: la Coscienza. Il morbo di Rameau si presenta una discussione esilarante tra due bons à rien costruita – nella sua solo apparentemente latente struttura – come una recensione critica su Le Indie Galanti: si tratta di un’opéra-ballet di Jean-Philippe Rameau consistente in un prologo e quattro entrées su libretto di Louis Fuzelier, la cui prima rappresentazione ebbe luogo a Parigi nel 1735 all’Académie Royale de Musique et de Danse, nel Théâtre du Palais-Royal. Il dialogo immaginario messo in piedi da Morelli, è quello tra i nipoti degli autori dell’opera in questione, Rameau e Fuzelier, i quali si incontrano la sera del 18 luglio 1743 proprio in una sala del Café de la Régence, al Palais Royal e, conoscendo nei particolari il frutto della sinergia compositiva degli zii, tra una brioche e una torta-statuetta di marzapane, ne intentano un’analisi dai toni interpretativi molto personali, arguti e, effettivamente, critici. La scelta del nipote di Rameau è un aperto riferimento al testo-dialogo diderotiano Il nipote di Rameau o la satira seconda, in quanto ne condivide non solo il personaggio ma anche l’ambientazione; tuttavia Diderot aveva come scopo primario quello di demistificare la cattiva coscienza parigina proprio attraverso la figura complicata e complessa di Jean-François Rameau, il quale pur essendo dotato di una grande sensibilità musicale, era un uomo senza scrupoli, del tutto sprovvisto di senso etico. A farci riflettere, però, 21

GIOVANNI MORELLI, Il morbo di Rameau: la nascita della critica musicale, Bologna, il Mulino, 1989. 106


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più che la scelta morelliana ricaduta su Jean-François, è quella dell’opera di JeanPhilippe presa in oggetto: perché Rameau? E perché proprio Le Indie Galanti? Per rispondere alla prima domanda, basterebbe leggere Morelli: La sua musica non piace a tutti. È con lui che la Critica musicale comincia a fare capolino dal nido della Teoria quando si scatena a censurare in opposizione alla figura del bravo artiste/artiste quella negativa dell’artiste/savant (cioè lui: Rameau=). Troppe cose del suo immane sforzo creativo sembrano fatte per «effaroucher le coeur» e ben poco belle sono considerate le sue grandi visioni delle «vérités d’algèbre». 22

Il rumorista Rameau – come lo definisce Morelli23 – in effetti si presta bene, per la sua opera-operazione musicologico-compositiva altra e alternativa, a costituire lo scomodo, il crinale-critico, ovverosia esattamente il punto di krisis, poiché egli si trova a questionare la propria Coscienza critico-musicale, ma soprattutto – forse di conseguenza? – a diventare questione. Più complicata potrebbe apparire la risposta alla seconda domanda sul perché della scelta de Le Indie Galanti: per rispondere, occorrerebbe seguire la chiacchierata immaginaria tra i due perditempo. Ad un primo impatto con l’opera di Rameau e Fuzelier si potrebbe senz’altro dire che essa ben si adatta, per le molteplici caratteristiche concatenanti, a diventare oggetto di discorso: innanzitutto il libretto fuzelieriano antidrammaturgico, perché sostanzialmente rotto nel verso e libero nella scansione metrica; la musica, invece, fu «discussa, esecrata, maltollerata, ma anche subita con allegria per lustri e lustri di repliche e repliche», 24 la lingua, che subisce delle modificazioni nel corso delle varie rappresentazioni, diventa lo sforzo di unificazioni di frammenti dissociati; a tutto questo si aggiungono l’impianto ideologico-politico sotteso, nonché il dispositivo stesso dell’opéra-ballet. Per questi motivi il dialogo tra i due Cadets implica una riflessione sulla transculturalità, anzi, si spinge sino a considerazioni di carattere antropologico, sulla natura dell’uomo, al di là delle distinzioni culturali stesse. La peculiarità del discorso critico si costruisce intorno alla duplicità delle posizioni di Rameau e Fuzelier rilevatesi attraverso l’analisi puntuale dell’opera: il primo si attesta su argomenti di carattere filosofico, il secondo invece ha una visione piuttosto storica della vicenda, questo perché l’occhio di Rameau risente della sua stessa coscienza filosofica così come quello di Fuzelier è, in fondo, l’occhio della sua coscienza storica. Terminata la disamina dell’opera, Morelli immagina il prosieguo della discussione; vent’anni dopo, in occasione della (forse) ultima rappresentazione de Le Indie Galanti i due nipoti incontrano un terzo, illustre, nipote: si tratta di Hieronymus David Gaub, professore di patologia umana e di chimica a Leyden, nipote di Hans Gaub, a sua volta illustre medico. Il terzo personaggio invita i due perdigiorno a casa perché vuole mostrar loro quanto quella conversazione, avvenuta anni fa a cui lui aveva assistito dalla finestra della casa dello zio in Rue des Bons Enfants, abbia apportato alle sue ricerche scientifiche ma, in effetti, mostrerà anche come quelle stesse ricerche mediche possano fornire una lettura nuova, inusitata, e critica dell’opera di Rameau. Se il legame tra la sfera coscienziale e quella 22

Ivi, p. 22. Ivi, p. 24. 24 Ivi, p. 35. 23

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critica si delinea sempre più, è perché l’ironia, che fa da linea di demarcazione trasparente e in sostanza permeabile, risulta essere lo sguardo lucidamente critico e criticamente cosciente sull’oggetto, che possa esso essere (come in questo caso) un’opera musicale o la società stessa. L’occhio di Rameau risente della sua stessa coscienza filosofica così come quello di Fuzelier è, in fondo, l’occhio della sua coscienza storica; stessa cosa vale per Gaub il quale non avrebbe potuto che compiere una disamina critica in pieno ossequio alla sua coscienza medico-scientifica. Ecco che, la sua Rameaukritik assume tutti i contorni di una diagnosi: Rameau è il più tribolato dei tribolati, affetto da un morbo (incurabile?), anzi, è lui stesso (probabilmente) il Morbo, la febbre da infezione. Rameau era, a tutti gli effetti, un «tribolato vincitore» di prima categoria. Gran parte della sua arte, della sua poetica e del suo gran genio innovatore erano tutti i postumi di quelle febbri che Gaub aveva osservato ben cercando sempre di individuare il benefico innesco culturale di quegli sconvolgimenti da esse imposte al nuovo Secolo. E, nel nuovo Secolo, alle città del continente più illuminante, più sottoposte alla tensione critica della relazione Tradizione/ Rinnovamento. Anzi di quel quadro il caso dello Zio era stato per Gaub uno dei più ricchi di sollecitazioni, tanto che nella casa dell’illustre paziente era riuscito ad allestire una vera e propria «stazione di rilevamento». 25

Così nasce la Critica musicale, dunque, come una presa di coscienza, uno sguardo gettato sulla società attraverso l’opera o, anche, sull’opera attraverso la società. La coscienza è infatti da intendersi – qui – come struttura antropologica, modalità propriamente umana di approccio alla realtà (e, in questo caso, di approccio ironico, ovverosia lucido, nei con-fronti della società), ma anche come sovrastruttura, cioè prodotto della società stessa. Effettivamente, letto in maniera retrospettiva, Il morbo di Rameau nella sua complessità già dalle prime righe in cui si sta intentando l’analisi critica de Le Indie Galanti ci mette in guardia: il vero morbo di Rameau non è che il morbo della società. Come in Morelli, anche in Jankélévitch l’ironia è lo sguardo che prende ad oggetto la coscienza stessa o, anche, la realtà delle cose, e si rivela essere in fondo nient’altro che uno strano e bizzarro modo di vivere la vita, un certo atteggiamento nei confronti del mondo essendo esso non serio o frivolo per se stesso ma in relazione ad uno spirito che lo pensa; non a caso, il filosofo utilizza delle appropriate metafore tratte dall’ambito linguistico-ermeneutico: l’ironia è considerata come un’allegoria, o meglio una pseudologia, perché è una modalità coscienziale che intrattiene un rapporto ambiguo col pensiero, pensa una cosa ma in realtà ne dice un’altra. A più riprese, Jankélévitch analizza le opere di determinati compositori attribuendo loro sfumature ironiche e ciò chiarisce meglio il legame intimo tra Ironia e Musica. Per comprendere come in Jankélévitch il rapporto tra ironia coscienziale e ironia musicale si esplichi dal punto di vista compositivo, bisogna considerare primariamente il compositore ironico jankéléviciano per eccellenza: Erik Satie. Il musicologo, in particolare, si occupa di questo musicista nella sua collazione di saggi Le nocturne:

25

Ivi, p. 242. 108


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Fauré, Chopin et la nuit, Satie et le matin.26 La musica di Satie è interrogativa, e quindi ironica (alla maniera socratica) perché, essenzialmente, demistificatoria, il suo intento – insomma – è tutto volto a risvegliare la coscienza degli ascoltatori, a disvelare la verità, a far accedere al cuore più profondo e misterico della vita, proprio attraverso i suoni, utilizzando due forme particolari, ambigue, satiriche e, comunque, maieutico-disincantanti: le refus de développer et le refus d’exprimer.27 Satie sembra insegnarci, infatti, che la forza più grande dei dialoghi socratici sta nel dire a metà, nell’alludere a qualcosa di importante senza esprimerlo apertamente, perché il vero ruolo dell’interlocutore sta proprio lì, nel cogliere più che ciò che si è detto, ciò che non si è detto, e da qui partire per l’analisi introspettiva che lo condurrà alla verità. In questa operazione fortemente ironica, nel senso più demistificatorio del termine, la musica gioca un ruolo essenziale perché prende proprio il posto di quelle parole che socraticamente non sono dette, o meglio quelle che restano tra l’eloquenza del dire e il silenzio dell’assenza: Satie è il Socrate della musica, poiché mostra la straordinaria potenza dell’allusività del suono, del paradosso della litote musicale, e il suo linguaggio ironico si attesta su posizioni brachilogiche in quanto risulta essere l’ostentazione dell’inespressivo, il climax apparentemente discendente ma in realtà ascendente nella più intimistica delle operazioni pudiche di disvelamento emozionale. In effetti le refus de développer e le refus d’exprimer non sono altro che due facce della stessa medaglia e non corrispondono per niente ad una maschera (nel senso di dispositivo che occulta, nasconde e camuffa la verità) o, peggio ancora, ad una gabbia dei sentimenti, anzi: dal punto di vista ideativo-compositivo, Satie si rende conto che per disvelare il segreto dei sentimenti è necessaria non tanto una loquace sincerità quanto una lucidità interiore, una dose di sincero esoterismo, una schiettezza espressiva che solo la giusta misura può conferire all’opera musicale. La musica di Satie incanta, ma nel suo incantesimo ha la capacità di disincantare l’ascoltatore, e di risvegliarlo ai più grandi misteri della vita, i misteri alla luce del sole, quelli meridiani: è tutta lì, giocata tra un’emozione apparentemente soffocata nell’espressione ma in realtà – e proprio per questo – libera di esprimersi, la forza straordinaria della sua ironia, ed è il motivo per cui la sua musica bisogna, davvero, prenderla sul serio. Anche Morelli intenta un’analisi ai limiti dell’ironico, in particolare uno dei suoi ‘compositori ironici’ può essere considerato Charles-Camille Saint-Saëns di cui intenta una drôlerie a metà tra l’analisi dell’attività compositiva e la biografia. Ma questa modalità di approccio alle questiones critico-musicali, concerne anche una proprietà particolare del fare musica e del farsi musica: è il caso del «celebre Carnaval bestiario».28 Al di là dell’ironia applicata alla biografia dell’autore, si mette in rilievo la sua operazione musicale di congelamento delle bestie (il riferimento è ai 14 pezzi comici del Carnaval) dalla quale sfugge il cigno, «il grosso pennuto dà prova di annegare ogni giorno, tutti i giorni, per poi uscirne redivivo».29 Qui il riferimento è ad una musica che si presenta 26

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, Le nocturne: Fauré, Chopin et la nuit, Satie et le matin, Paris, Albin Michel 1957. 27 Ivi, pp. 125 – 140. 28 GIOVANNI MORELLI, Scenari della lontananza, cit, p. 53. 29 Ivi, p. 54. 109


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come usata, o meglio abusata, ritraendosi a sfondo delle più grandi manifestazioni coreografiche (da qui «l’inesauribile serie delle clonazioni ballettistiche»)30 da parte di étoiles di tutto il mondo che si fingono agonizzanti e ripropongono gestualmente la morte del cigno e che ne modificano il messaggio originario. Morelli utilizza l’espediente ironico per disincrostare, dalle interpretazioni poetico-gestuali, il vero messaggio lirico-poietico dell’extrait du Carnaval des animaux. Paradossalmente, quella ‘musica senza parole’ ritrova nelle parole di Proudhomme il suo senso più vero e autentico, quel senso che Morelli vuole dissotterrare dalla «lettura troppo invasiva dei violoncellisti (altre bestie non salite sull’arca di Noè della grande fantaisie zoologique) e delle ballerine (altre bestie ecc.)».31 Effettivamente, al di là dell’ermeneutica post-compositiva a cui il Cigno è stato sottoposto, il vero messaggio predisposto da Saint-Saëns è questo: il cigno più volte morto e risorto, che canta ogni volta instancabile la sua morte, è (o meglio torna ad essere) un cigno silenzioso, ‘senza parole’, ma soprattutto che ‘non muore’, semplicemente ripropone quotidianamente il suo rituale, rinchiudendosi nel sonno come una semisfera sul letto tranquillo delle acque del lago. Comprendere a pieno la portata innovativa della musicologia satirica è possibile attraverso un’analisi non solo delle propaggini del pensiero dei due autori ma anche attraverso una disamina delle possibili prospettive ermeneutiche di cui è foriera, che non hanno a che fare con un ambito prettamente musicologico ma di cui questo stesso dominio si trova arricchito. Considerare in particolare il ruolo degli spunti ermeneutici jankéléviciani alla luce dell’evoluzione, rapida e talvolta inafferrabile, delle teorie estetico-musicologiche contemporanee, richiede uno sforzo di proiezione dello sguardo al di là del milieu teorico nel quale è inserito (pur senza aderirvi) il pensatore francese. La visuale, nel tentativo di rendere più agevole la scommessa di legittimare ogni posizione anacronistica, si espanderà seguendo delle linee concettuali paradigmatiche che si trovano ad essere alla base delle questioni fondamentali novecentesche di carattere estetico-musicologico e che sinora sono state prese in esame solo all’interno dell’orizzonte teorico jankéléviciano: prime tra tutte la duplicità temporale e il silenzio. Se dovessimo enucleare dalle teorie di Vladimir Jankélévitch una punta di eccentricità pioneristica in relazione alla tematica temporale, dovremmo senza dubbio richiamare l’attenzione all’approccio inusitato all’analisi musicale che tiene conto del modo in cui la musica si dispiega nel tempo, delle modalità con cui essa occupa lo spazio temporale e della duplice ambiguità temporale insita in essa e nel suo ‘abitare’ il divenire: il riferimento – lo abbiamo notato – è quello bergsoniano, la cui radice si ritrova in alcune teorie di Michel Imberty che rimodulano la pratica-teorica dell’esperienza musicale. Inoltre è possibile ravvisare l’impronta delle suggestioni jankéléviciane nell’interpretazione della musica di Debussy compiuta da Imberty, in particolare in merito all’istantaneismo del compositore francese, alla sua caratteristica musica acquatica, al fantasma della morte che aleggia in Pelléas et Melisande e al silenzio che entra (come aveva osservato anche Jankélévitch) nei dispositivi di composizione musicale a pari titolo del suono. Non è un caso, infatti, che Jankélévitch abbia voluto attribuire alla raccolta inconclusa dei suoi saggi di carattere musicologico il ti30 31

Ivi, p. 58. Ivi, p. 61. 110


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tolo De la musique au silence, con lo scopo fondamentale di considerare la musica come uno charme che si profonde dal silenzio, al silenzio, attraverso il silenzio. Questa teoria apparentemente sui generis potrebbe essere accostata a quella di Gisèle Brelet, musicologa e musicista francese, la quale ragiona sull’evoluzione estetica musicale e, nel suo testo su Le temps musical,32 sostiene che l’opera musicale si dipana proprio dal silenzio, si genera da esso poiché la dimensione complessa del silenzio non è un puro nulla ma rappresenta l’attesa e l’attenzione; anzi: la sua riflessione arriva a considerare il fenomeno musicale come riempitivo della distanza tra due silenzi, quello generativo (della sua nascita) e quello finale (del suo compimento). Anche Jankélévitch che si occupa del medesimo argomento arriva a sostenere che la musica è delineata da un ‘silenzio-ante’ e da un ‘silenzio-post’, cioè da un silenzio ricco di aspettative e promesse, che precede l’esecuzione ed è rotto dall’evento sonoro, e da un silenzio al termine dell’esecuzione, in cui la musica sembra fare ritorno e fa serbare nell’ascoltatore l’eco delle note che furono. Riprendendo le fila del discorso sulla duplicità temporale, a proposito della dialettica tra continuità e discontinuità vale la pena di confrontare le concezioni del musicologo francese con quelle di Pierre Boulez, il quale, nel suo testo Pensare la musica oggi,33 ha compiuto una disamina dettagliata che tiene conto della distinzione tra tempo pulsato e tempo amorfo, tempo liscio e tempo striato, tempo crononometrico e tempo globale, alla luce degli eventi musicali di cui si trova riempito (o meno) l’ambiguo spazio-tempo musicale. In merito alla capacità propria della musica di occupare il tempo, Jonathan Donald Kramer ha sviluppato le sue teorie alla luce dei due concetti di continuo e discontinuo (e qui il richiamo a Bergson è d’obbligo) nonché del flusso del divenire, tematica alla base delle teorie musicologiche jankéléviciane. In realtà il discorso di Kramer solo apparentemente prende le mosse dalle premesse bergsoniano-jankéléviciano ma poi le pieghe che assume sono differenti e ancora più complesse perché implicano un rapporto con l’esperienza musicale e quella temporale: in generale, con non pochi azzardi, potremmo sostenere che il tempo ordinatore di cui parla Kramer è il tempo cronologico di Jankélévitch, mentre quello musicale è quello cairologico. Se si intende per ‘pionerismo’ lo spirito di ‘intraprendenza intellettuale’, in Jankélévitch esso si carica insomma di una forza particolare in quanto il suo pensiero, pur approdando a teorie differenti, ha avuto la peculiarità di partire dagli stessi quesiti che tutt’ora si trovano ad animare instancabilmente il dibattito estetico-musicologico. La stessa intraprendenza intellettuale, che permette di legare il proprio pensiero ad altri orizzonti ermeneutico-disciplinari, è tipico anche delle riflessioni morelliane: se si considera ad esempio un paradigma come quello del rito/sacrificio, molto presente nelle speculazioni musicologiche di Giovanni Morelli, è possibile analizzarlo alla luce di alcune teorie di antropologi quali Girard e Frazer. A proposito della creatività musicale delle avanguardie del Novecento, in linea con i nuovi dispositivi spazio-temporali, Morelli si chiede che ruolo abbia la dimensione della ritualità: 32

GISÈLE BRELET, Le temps musical, essai d’une estéthique nouvelle de la musique, Paris, Puf, 1949. 33 PIERRE BOULEZ, Pensare la musica oggi, Torino, Einaudi 1979. 111


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La posizione della domanda è semplice: la crescente importanza data alla spazializzazione del suono delle opere significa una trasposizione del loro valore ideativo e recettivo dalla sfera della consumabilità (diversissimamente declinato nella tradizione) alla sfera della non consumabilità, propria della dimensione comunicativa e rappresentativa del rituale? […] Quella combinazione di elaborazione di atti-materiali di memoriastato-dipendente sottoposta alla elaborazione di un processo-protocollo di governo dell’emozione […] è un rituale? Se tale è, un rituale, è un rituale nel senso (liberamente laico, senza compromissioni spirituali-spiritualiste) della definizione di Erving Goffman oppure è tale in quelli (ancora più laico) della definizione perfezionata dai più recenti etologisti? Faccio seguire le due definizioni: 1.GOFFMANN: rituale: attività in cui l’individuo o il gruppo controllano ed evidenziano le implicazioni simboliche dei loro atti alla presenza di un processo mentale che tende ad imporre la necessità del suo valore particolare. 2.ETOLOGIA: rituale: azione formalizzata riconoscibile come «primariamente simbolica» e, come tale, associabile a un repertorio o a una serie di memorie di comportamenti-segnali che comprovano una fine avvenuta: l’esito definitivo di un processo evolutivo; […]34

Il musicologo successivamente si domanda anche se quegli stessi rituali siano rituali di rigenerazione o di estinzione (come nel caso di Boulez) ma una cosa qui vale la pena sottolineare: comunque lo si intenda, il rituale è caratterizzato da una forte impronta simbolica. Il simbolismo alla base dei rituali fu osservato anche da Frazer e Girard, pur con le dovute differenze: in Frazer l’aspetto della ritualità è simbolicamente connotato in base al rapporto tra simbolo fisico e rappresentazione spirituale (è il caso dei riti iniziatici del totemismo delle tribù primitive in cui le cerimonie stabiliscono un contatto tra il ragazzo e il suo totem, che lo rappresenta) mentre in Girard il rito ha un carattere funzionalistico in relazione alla società (e per questo la sua posizione è antropologica nel senso socio-culturale del termine) legata alla liberazione collettiva dalla violenza (individuale); in entrambi i casi si può parlare dell’uno e dell’altro tipo di rito considerati da Morelli, ovverosia di rigenerazione e di estinzione essendo in Frazer presente un’analisi primitiva sia del rituale di morte che di quello di resurrezione, mentre in Girard le due tipizzazioni coincidono nella scelta e nel sacrificio del capro espiatorio. Ma se Morelli ha voluto approcciarsi all’analisi compositiva tenendo conto della tematica del rito, non è solo per un fattore simbolico di chiara derivazione psico-emotiva, ma anche probabilmente per l’aspetto temporale insito nel rito stesso: a proposito di temporalità rituale, Frazer fa spesso riferimento al legame esistente tra i riti delle popolazioni antiche e la circolarità del calendario (il rapporto si intensifica a tal punto da essere una chiave di lettura della natura connotante e denotante di una divinità la quale, a ragione, veniva sempre celebrata in un periodo particolare dell’anno). Il rituale, insomma, rientra per Frazer nel ciclo naturale delle stagioni, mentre per Morelli il rapporto con la ciclicità della creazione musicale si complica notevolmente: qui la temporalità è da intendersi in senso lato, ma soprattutto in un plurilivellismo che implica il rapporto con la storicità e la coscienza (individuale, 34

MORELLI, Scenari della lontananza cit., pp. 34-35. 112


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storica e collettiva). Morelli osserva come Wolfgang Steinecke, ‘ideatore’ di Darmstadt, abbia concepito il suo progetto come tendente alla realizzazione di rivoluzioni sul piano della creazione musicale, le quali si sarebbero programmaticamente attuate con la rottura di abitudini inveterate e attraverso un sostanziale polimorfismo sul piano della fruizione nonché, forse di conseguenza, con l’introduzione di elementi di originalità nel triangolo tra opera-autore-pubblico, allo scopo di restituire, o meglio di instituire, sulle rovine dell’identità umana lacerata dalle violenze delle due guerre mondiali, una nuova umanità. In breve, in effetti, a parte Cage il quale mostrò che il vero rivoluzionamento era proprio l’anti-ritualità e coincideva col sacrificio dell’opera (per quanto la sua presa nel panorama musicale non fu mai definitiva ma si presentò solo come fugace), non ci furono che esempi di ritualità presentatisi col proposito di rompere la ritualità ma conclusisi, sostanzialmente, con il ritorno alla sua riproposizione (spesso sotto altre forme) che era stata negata in maniera programmatica. Morelli analizza però ‘un’isola rivoluzionaria’ che apparentemente potrebbe far pensare alla rottura, una volta per sempre, della ritualità circolare: è il biennio del 1967-1968 e il dopo Auschwitz si connota ai Ferienkurse di Darmstadt, come una Ganz-Stockhausen35 ovverosia un’epoca caratterizzata dal ‘dominio creativo’ stockhauseniano. In parti-colare, il 1967 è segnato dall’esperienza musicale dei Vorkurs descritti da Rolf Gelhaar nel Darmstädter Beiträge, e dalla composizione Ensemble, nata come «un tentativo di sperimentare forme concertistiche non-tradizionali»36 e caratterizzata da una creazione collettiva, una percezione unitaria (e ancora una volta collettiva) della dimensione spaziale in cui l’attenzione del pubblico è deconcentrata dalla contemporaneità (pure collettiva) delle esecuzioni; il tutto si risolve in una frammentazione degli eventi (Moment-formen) la quale doveva implicare la lacerazione della circolarità del rituale creativo. Esperienza simile si ebbe nel 1968, anno dedicato al Kompositions-studio. Forse la scelta di una casa come spazio esecutivo alternativo aveva lo scopo di «aggiungere una dimensione plurale spaziale alla precedente dimensione plurale temporale di Ensemble», ma la ritualità era sempre lì, sempre presente, nei passaggi compositivi ed esecutivi decisi preliminarmente da Stockhausen, o anche nel legame fortissimo e circolare con l’esperienza dell’anno precedente: eppure qualcosa era cambiato, al di là di quelle caratteristiche proprie del rito, come il simbolismo interno e il rapporto tra individualità e collettività, le quali potevano essere comunque ravvisate, in quella composizione-esecuzione che si mostrava rivoluzionaria, e permanevano, nonostante tutto. Del rituale, insomma, era rimasta la sacralità, ovverosia il ‘rispetto’, per quel passato che non era mai passato, per quel presente che non era ancora futuro, e per quel tempo frantumato che faticava a rimarginarsi e che, a sua volta, sacrificava l’unità dell’individuo e, conseguentemente, del collettivo, quel collettivo così tanto avidamente invocato nelle sperimentazioni del ’67 e del ’68. In questa dialettica, forse mai del tutto risolta, di lacerazione dell’esperienza musicale, un ruolo importante hanno – non a caso –Rükblick poiché in esso tromba, contrabbasso, pianoforte, clavicembalo e celesta suonano programmaticamente senza interruzioni, come in un ‘rituale’ e Kafka-Fragmente, programmati35 36

Ivi, p. 139. Ivi, p. 148. 113


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camente frammentari, di Kurtág. Morelli ha scelto di analizzare entrambe queste opere per dimostrare come in realtà l’aspetto della ritualità sia insito di necessità nell’atto del comporre. Una necessità, però, quella del rituale, che, se seguiamo le speculazioni di Frazer (il quale confronta i meccanismi ancestrali delle cerimonie) e Girard (che nell’analisi del fenomeno religioso rivaluta il rapporto che il rito intesse col mito approdando alla teoria della dipendenza del primo dal secondo), sono alla base dell’umano: Morelli ha dimostrato ancora una volta che non perde mai d’occhio la radice fondamentalmente ed essenzialmente antropologica della creazione musicale. I due antropologi qui presi in considerazione fanno dipanare le loro speculazioni da una radice comune tra il rito e il sacrifico, e in effetti anche nelle opere di Morelli permane questa stessa radice – lo abbiamo visto – ma il testo sugli Scenari della lontananza non ne è l’unico esempio: Il paradosso del farmacista,37 infatti, si snoda tenendo conto delle vicende che l’oggetto/soggetto Farmaco realizza nella Storia, partendo primariamente dal mondo classico e tenendo, ovviamente, presente l’evoluzione del Sacrificio, che poi coincide con l’evoluzione stessa del Farmaco, dalla sfera pubblica alla sfera privata, in un’escalation in cui il collettivo e l’individuale non sono sfere così distaccate come possa sembrare. Prima di tutto va sottolineata una distinzione sintomatica e fondamentale nella trattazione di questo argomento da parte dei due celebri antropologi: Frazer esamina il capro espiatorio in una dimensione esclusivamente religiosa e rituale, analizzando le cerimonie antiche e le celebrazioni dei popoli; da questi confronti, il ‘capro espiatorio’ perde il proprio significato figurato di individuo o di una minoranza che servono da espiazione per una maggioranza, perché va inserito all’interno del contenitore rito/mito. René Girard approfondisce la questione e studia l’argomento da una prospettiva differente da quella di Frazer, perché tiene conto del meccanismo inconscio della rappresentazione e dell’azione persecutoria: appare più naturale quindi avvicinare la trattazione morelliana a quella girardiana; potrebbero essere, questi stadi rituali eziologico-simbolici da Morelli metaforicamente presentati come momenti differenti dell’odissea del Farmaco, confrontati con quelli individuati da René Girard: l’antropologo sostiene, in effetti, che il sacrificio, quel processo vittimario basato sul fatto di pagare per gli altri, nasce dalla necessità di una liberazione della violenza collettiva: la folla, insomma, che vive uno stato di crisi profonda, che sia essa causata da eventi naturali come catastrofi, epidemie, carestie, o conflitti, religiosi o politici, interni, cerca una causa esterna alla quale attribuire la colpa e si convince che, attraverso la persecuzione di uno o più individui, si possa purgare la comunità dai suoi elementi impuri e corrosivi. Il secondo stadio si attua grazie alla natura mimetica (nel senso di ‘imitativa’, identificativa in una rappresentazione) propria di ogni uomo, attraverso la polarizzazione di quella stessa violenza la quale va catalizzata in un’unica figura: si seleziona, quindi, la vittima sacrificale, non in base ad una comprovata o presunta colpevolezza ma per delle caratteristiche fisico-biologiche, criteri religiosi o etnici; la connotazione della vittima diventa così capro espiatorio. 37

GIOVANNI MORELLI, Paradosso del farmacista. Il Metastasio nella morsa del tranquillante, Marsilio, Venezia 1998. 114


UNA PROMENADE NELLA ‘MUSICOLOGIA SATIRICA’: VLADIMIR JANKÉLÉVITCH E GIOVANNI MORELLI La risoluzione combinatoria delle interazioni progressive della credenza sul problema viene tentata operando col solito sistema del Farmaco, ossia mettendo in serie 3 (tre) azioni di (1) scelta, (2) contatto e (3) allontanamento di una figura unica riconosciuta quale vittima capace o in grado di incorporare-catalizzare, sia pur vagamente, i contenuti del vissuto angoscioso (sia il timore, sia l’orrore dello svantaggio, o l’orrore della vergogna, o la paura della colpa), così da caricarsi degli stessi, per vanificarli, dipoi, grazie al mortale sacrificio del contenitore di quel carico.38

Sembra quasi leggere Girard, e invece è Morelli, che intenta, qualche riga prima, una storia del Farmaco, che altri non è che la storia stessa del Sacrificio. Ma di pharmakos si occupa anche Girard, nella sua analisi del capro espiatorio, e in particolare in riferimento ad Edipo, il quale è considerato nella duplice accezione di veleno e antidoto, personaggio esecrabile e venerabile. Al di là delle pieghe che prende il discorso morelliano (nell’analisi precisa della biografia umana e intellettuale di Metastasio), al di là delle pieghe che prende il suo Farmaco (che nel corso degli anni diventa narcotico e poi tranquillante), risulta possibile stabilire concordanze tra il suo discorso e quello di Frazer e Girard; ma un’altra fortuita coincidenza si rivela all’orizzonte: l’approccio dei due antropologi in questione è considerabile in tutto e per tutto come ironico. Il Ramo d’oro, in effetti, in ogni sua parte si colora delle sfumature dell’ironia di chi osserva la moltitudine del genere umano, pur sapendo di farne parte, e ne demistifica i meccanismi; stesso approccio si ritrova nelle teorie di Girard il quale, applicando le sue conoscenze in ambito sociale, religioso, psicologico, attua un’operazione di smascheramento delle radici alla base dell’azione umana. Che possa essere – dunque – possibile rilevare una linea ermeneutica che vada sotto il nome di ‘Filosofia satirica’? Attraverso l’analisi dei punti di forza di questo nuovo approccio metodologico, quali l’unione delle discipline (prettamente morelliana) che possono presentarsi come coadiuvanti a creare uno sguardo completo in relazione al fenomeno musicale e la critica (propria della riflessione jankéléviciana) ad un tipo di prospettiva di ricerca che tende con la scrittura a deprivare la musica del suo charme perché non riesce a pensare musicalmente, si è dimostrato quanto sia utile la materia-forma satirica come visione ‘alter-nativa’ della materia-forma musicale. La filosofia di Jankélévitch, da una parte, e le conoscenze in ambito letterario, pittorico, medico, e anche filosofico, di Morelli, rientrano a pieno titolo a completamento dell’approccio critico alla musica. L’intento programmatico di questa ricerca era – certo – quello di mostrare quanto più, o meglio, proprio la musicologia satirica sia valida rispetto alla ricerca musicologica tradizionalmente intesa, eppure, nel suo formarsi, questo lavoro ha dimostrato la necessità di aprire i propri ‘occhi’ ermeneutici, allargando così il contenitore musicologico di per sé già essenzialmente plastico, tanto quanto l’oggetto-Musica. Allo stato attuale non è possibile prendere in considerazione altri approcci musicologici che possano essere ascrivibili a quello della musicologia satirica: è questa la ragione fondamentale per cui questa ricerca appare insoluta. Altre ragioni sono da ricercarsi nella scelta programmatica di analizzare soltanto due paradigmi, quello spazio-temporale e 38

Ivi, pp. 14-15. 115


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quello ironico, perché in questo caso (nel confronto tra la riflessione di Jankélévitch e quello di Morelli) si mostravano adatti a far risalire, nella superficie dell’agitato mare della musicologia satirica, immediatamente le distinzioni teorico-metodologiche dei due pensatori presi in esame. Questa tesi vuole essere solo un primo, primissimo, ‘trampolino di lancio’ della proposta ermeneutica di Gianfranco Vinay, ma è anche un monito alla ricerca musicologica, affinché possa essere sempre in grado di cangiarsi, così come la Musica nelle sue forme, continuamente dubitando di se stessa. In definitiva, che si possano riscontrare altri approcci musicologici simili a quelli di Jankélévitch e Morelli (pure tra loro eterogenei) è una scommessa che i due flâneurs dovrebbero accogliere, ma che ci siano nuovi ‘musicologi satirici’ è un auspicio che la musicologia stessa si dovrebbe augurare.

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Domenico Prebenna L’ANNIBALE IN CAPUA DI PIETRO ANDREA ZIANI: PROLEGOMENI PER L’EDIZIONE CRITICA Introduzione Questo lavoro ha l’obiettivo di proporre un elaborato preparatorio alla stesura della prima edizione critica esistente su l’Annibale in Capua di Pietro Andrea Ziani. Prendendo come editio princeps il libretto della prima veneziana del 1661 e la partitura conservata presso la Biblioteca nazionale Marciana ho intrapreso un lungo processo di collazione di tutte le altre fonti di cui sono venuto in possesso. I dati emersi dalla collazione dei vari esemplari di libretti e partiture, e la loro organizzazione sistematica, hanno permesso la costruzione di uno stemma, lavoro sempre molto insidioso che ha, però, restituito un quadro più chiaro per ciò che concerne la tradizione e l’evoluzione di quest’opera. Una concezione ormai superata della filologia musicale porta a ritenere che l’edizione critica sia destinata in maniera quasi esclusiva allo studioso, penalizzando altre categorie quali gli esecutori e la prassi esecutiva; gli orientamenti filologici recenti tengono in gran considerazione il discorso relativo alla prassi e, per questo motivo, ho cercato di proporre una partitura moderna, curata anche dal punto di vista grafico, che potesse rispondere in futuro anche alle esigenze dell’esecutore professionista e dello studente oltre che a quelle del lettore e del dilettante. Cenni biografici su Pietro Andrea Ziani e Nicolò Beregan Pietro Andrea Ziani nacque a Venezia il 19 novembre 16161 e morì a Napoli il 12 febbraio 1684.2 Fa parte di quel novero di musicisti e compositori tenuti in grandissima considerazione mentre erano ancora in vita e poi, purtroppo, poco studiati ed eseguiti in epoca moderna. Infatti, i suoi contemporanei, così come gli storici nei secoli successivi, hanno sempre riconosciuto le grandissime doti del musicista veneto; nella Storia della musica sacra datata 1854, curata dal musicologo e magistrato Francesco Caffi si legge: Ziani Pier Andrea. Organista dell’organo primo. Ascritto Pier Andrea Ziani alla milizia ecclesiastica come canonico regolare Lateranense in Venezia sua patria, certo è che tutto dedicossi alla musica. La precisa epoca del suo nascimento, e s’egli o no procedesse dalla patrizia storica famiglia Ziani, che nel duodecimo e decimoterzo secolo diede alla 1

Archivio di Stato di Bologna, Demaniale 216, 1661, c. 105v.: «D. Petrus Andreas in seculo Petrus Andreas Zianus natus die 19 Novembris 1616», pubblicato in SASKIA MARIA WOIKE, Pietro Andrea Ziani. Varietas und Artifizialität im Musiktheater des Seicento, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2008, p. 33. 2 Sugli anni napoletani di Ziani, cfr. ULISSE PROTA-GIURLEO, I teatri di Napoli nel secolo XVII, in ERMANNO BELLOCCI, I teatri di Napoli nel secolo XVII, vol. III: L’opera in musica, Napoli, Il Quartiere, 2002. 117


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repubblica due dogi assai celebri, ignoro: e m’è dubbio, se istitutore nella scienza, che poi praticò, e con valor eminente, gli fosse, come probabile a me sembra, il Maestro Monferrato, uomo distinto nella scienza, e nelle doti del cuore insuperabile, di cui parmi ch’egli seguisse lo stile piuttosto solido che artificioso. Ma chiunque fosse il suo dottore nella scienza, certissima cosa è che Ziani riuscì in quella eccellente; sicchè tutt’i suoi contemporanei, comunque l’istabilità di lui e la perpetua sua scontentezza del presente conoscessero appieno, per tutti lo cercavano e lo riverivano come posseditor d’un merito esimio. […].3

Le prime notizie certe sulla sua vita sono documentate a partire dal 1639, quando all’età di ventitré anni figurava come organista e diacono presso la chiesa di San Salvatore a Venezia dove, un anno più tardi, fu ordinato sacerdote.4 La carriera di Ziani fu contrassegnata da incarichi prestigiosi ricoperti in Italia e in importanti corti europee. Infatti, dopo il ruolo a San Salvatore, ottenne ben presto il posto di maestro di cappella a Bergamo in Santa Maria Maggiore dal 1657 al 1659. Maurizio Cazzati, suo predecessore, che a sua volta successe a Giovanni Legrenzi, stimava a tal punto Ziani da non considerare nemmeno necessario fare pubblico concorso per assegnare l’ambita posizione di «M.ro di Cappella»: Havendosi havuto pienissima informatione della peritia, et virtuose qualità del M. R. P. D. Pietro Andrea Ziani nella musica dall’eccellenza del quale spera questo mag.co Consiglio debba l’impiego suo col titolo di M.ro di Cappella della Chiesa di S. Maria Maggiore di commune intiera soddisfatione, ne credendosi che nel concorso, che si esponesse potessero comparere sogetti à questo eguale, si manda parte che, per questa volta senza esponere cedole, contenuti nelli Capitoli all’officio del M.ro di Cappella ingionti, et con salario delli scudi duecento da lire sette l’uno a ragione d’anno […].5

Nel 1662 Ziani mette la sua maestria al servizio dell’Imperatrice Eleonora Gonzaga d’Austria ad Innsbruck6 prima di compiere il grande salto presso la cappella reale asburgica a Vienna. Qui, dal 1662 al 1667, la vena creativa di Ziani produsse molteplici opere; basti citare a mo’ di esempio L’Oronisbe, La Cloridea, La Circe, L’Onore trionfante e ancora oratori sacri quali Santa Caterina, San Pietro Piangente, Assalone punito ecc. Il 20 gennaio 1669 fu nominato primo organista della Basilica di Venezia a San Marco, al posto di Francesco Cavalli, che era stato di recente promosso maestro di cappella, posto al quale Ziani ambì per tutta la vita, non centrando però 3

FRANCESCO CAFFI, Storia della musica sacra nella già Cappella Ducale di S. Marco in Venezia (dal 1318 al 1797), vol. II, Venezia, G. Antonelli, 1855, pp. 302-307. 4 Nell’Archivio di Stato di Bologna è conservato questo documento in cui si apprendono notizie sulla sua vestizione, Demaniale 216, 2661, fol. 105v.: «D. Petrus Andreas Zianus natus die 19 Novembris 1616. Habitum susceptis die 29 Junii 1632 Candianae. Sacerdos in temporibus adventus conventualis Sancti Salvatoris Venetiarum. […], pubblicato in WOIKE, Pietro Andrea Ziani cit., p. 187. 5 ALBERTO COLZANI, La cappella musicale di Santa Maria Maggiore a Bergamo dopo Legrenzi, in Giovanni Legrenzi e la cappella ducale di San Marco. Atti del convegno di studi, (Venezia 24/26 maggio1990 – Clusone, 14/16 settembre 1990), «Quaderni della Rivista Italiana di Musicologia», XXIX, a cura di Francesco Passadore e Franco Rossi, Firenze, Olschki, 1994, pp. 29-45: p. 29. 6 WALTER SENN, Musik und Theater am Hof zu Innsbruck, Innsbruck, Österreichische Verlagsanstalt, 1954, p. 268. 118


L’ANNIBALE IN CAPUA DI PIETRO ANDREA ZIANI: PROLEGOMENI PER L’EDIZIONE CRITICA

mai questo obiettivo neanche dopo la morte del suo predecessore, sopraggiunta nel gennaio del 1676. A questo punto il raggio d’azione dello Ziani si amplia sino ad arrivare a Napoli, dove si stabilì a partire dal 1677, ricoprendo ruoli di assoluto prestigio. Fu insegnante presso il Conservatorio di Sant’Onofrio dal 1678 al 1680 e, proprio alla morte del suo predecessore Filippo Coppola, avvenuta nel 1680, divenne «mastro di Musica della Cappella Reale di Palazzo» dove inizialmente rivestiva il ruolo di organista onorario. Mantenne questa carica, con stipendio di trentacinque ducati al mese, fino alla sua morte.7 Le lettere trascritte e inventariate da Remo Giazotto presso l’Archivio di Stato di Venezia e pubblicate come “Appendice B” nel suo contributo dal titolo La guerra dei palchi (Seconda serie)8 ci forniscono un ritratto di un personaggio di spicco e di assoluto valore, nonché di un abilissimo impresario di se stesso. Queste dieci lettere, comprese in un lasso di tempo che va da marzo 1665 a luglio 1666, sono tutte indirizzate all’impresario teatrale Marco Faustini. Di quanto fosse attento alle sue vicende finanziarie si può leggere in questa lettera datata 22 marzo 1665 e inviata da Vienna: Il voler dunque dimandare la grazia a Sua Maestà senza restar d’accordo delli trattamenti tanto per me quanto per il Signor Forni (che tiene molta disposizione di venir a servirla) non è bene. Sì che bisogna che Vostra Signoria Illustrissima cominci a trattare con poche parole quello doverà fare nei trattamenti, perché cosi andando d’accordo (già che vuol trattarli li fatti suoi) si ultimerà con poche lettere il tutto. Lei sappi che io se bene sono il Ziani non son più quello che era se non in riguardo ad altro per esser attuale di Sua Maestà che mi provede abondantemente sì che io me resto da par mio con 100 Reali al mese, pane e vino e aiuto di conto considerabili, che mi ritrovo al presente così ben accomodato che niente più e tengo d’annuali 2000 ongari senza li mobili et habiti et altro e questo denaro lo tengo costì. Habbi riguardo alli viaggi sì come alle fatiche e al merito che so poi io quello posso fare per servirla […].9

Che Ziani avesse un temperamento piuttosto focoso e che non sopportasse molti dei suoi colleghi, lo si capisce bene da questa lettera spedita il 28 novembre 1665, sempre da Vienna, dove abbiamo notizie della Doriclea; un lavoro che non risulta essere mai stato rappresentato nei teatri veneziani: Quanto poi a quel processo che lei mi dice si faceva qui contro di me, vado vedendo che potrà farsi contro gli emuli e Nemici quali alla mia comparsa in Vienna hanno messo le spine in sacco e non sanno dove nascondersi. Sono venuti a baciarmi le mani col veleno in bocca, ma ogni giorno più si scopre la loro malignità e presto si potrà sentire qualche novità. Vostra Signoria eccellentissima è mio buon amico e potrà in ogni occasione che 7

Cfr. PAOLOGIOVANNI MAIONE, Il mondo musicale seicentesco e le sue istituzioni: la Cappella Reale di Napoli (1650-1700), in Francesco Cavalli. La circolazione dell’Opera Veneziana nel Seicento, a cura di Dinko Fabris, Napoli, Turchini edizioni, 2005 (I Turchini Saggi, 2). 8 REMO GIAZOTTO, La guerra dei palchi, «Nuova rivista musicale italiana», I/3, settembre/ottobre 1967, pp. 465-508. 9 Da queste lettera apprendiamo che l’impresario Marco Faustini avrebbe voluto ingaggiare anche alcuni importanti virtuosi, come: Forni, G.T. Manelli e un tale «signor Gabriele». Archivio di Stato, Venezia; Scuola Grande di San Marco, B. 188, n. 104, pubblicato in GIAZOTTO, La guerra dei palchi cit., p. 503. 119


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sentisse a parlare contro di me consolarsi che sono Cani che abbiano alla luna e non hanno voce in capitolo.10

In una delle risposte del Faustini inviate a Ziani, deve avergli riferito dei successi riscossi dal Tito di Cesti a Venezia e in questa sua successiva lettera datata 9 maggio 1666 si conferma, ancor di più, che Ziani disponesse di un notevole ego: Clarissimo et eccellentissimo Padron mio Colendissimo, Ricevo la sua con l’accluso duetto. Sento l’aviso che mi da della perdita che fece nel Tito etc. Se è hora (come qui non si crede) me ne dispiace perché io l’amo senza adulazione. Quest’anno prossimo con la gran virtù del Signor Cesti, che sento sia stato invitato a suo nome per operare rifarà al passato. Mi dispiace che il mio Anibale non sia stato fatto da altro Virtuoso che forse dava più materia a Maligni (ma più ignoranti) di diffamarlo. A me poco importa ad ogni modo delle parole di tali soggetti, non ne fe altro capitale che quello lei mi può intendere. Il verro è duro e vorrei vederlo in mani di qualche d’uno altro che si dichiara che (se non haverà opera a suo modo vista e rivista e musici di suo grado) non la farà. Basta prudenti pauca. Il mio scrivere è presto, ma sono tardi pagato, non so se per mia mala fortuna o se per altro effetto. Se le mie arie sono, state e saranno state buone sì per teatro come per le chiese tutte passano sotto la medema fretta nell’operatione. Se un Teseo fatto e rifatto di cui volle un Antioco, una Rodope, un Annibale, le fortune d’Ercole, per Deianira et altre mio opere tutte fatte in fretta e particolarmente l’Anibale in cinque giorni hanno sortito bene e buona fortuna. Bugiardi e maligni sono quelli che tassano l’Alciade fatto per viaggio (che non è vero però) ma se fosse stato fatto anco sopra alle zangole gli farei un presente della sedia e a suo dispetto farò sempre buona riuscita. Ma che bado a cotesta sorte di gente?11

Nicolò Beregan (Vicenza, 11 febbraio 1627-Venezia, 17 dicembre 1713)12 occupò un ruolo rilevante nella Venezia del tempo, in cui il teatro d’opera era un sicuro punto di riferimento culturale ed economico nella società del XVII secolo. Beregan produsse sei libretti andati in scena nell’arco temporale tra il 1661 e il 1683, con la caratteristica di essere stati posti in musica da tre grandissimi compositori della seconda metà del Seicento: Pietro Andrea Ziani, Pietro Antonio Cesti e Giovanni Legrenzi. L’ordine di rappresentazione di queste opere è il seguente: L’Annibale in Capua, musica di Ziani, Venezia, Teatro SS. Giovanni e Paolo, nel 1661; Il Tito, musica di Cesti, Venezia, Teatro SS. Giovanni e Paolo, nel 1666; Il Genserico, musica di Cesti/Partenio, Venezia, Teatro SS. Giovanni e Paolo, nel 1669; L’Eraclio, musica di Ziani, Venezia, Teatro SS. Giovanni e Paolo nel 1671; L’Ottaviano Cesare Augusto, musica di Legrenzi, Mantova, Teatro Ducale nel 1682; Il Giustino, musica di Legrenzi, Venezia, Teatro di San Salvatore nel 1683.

10

Archivio di Stato, Venezia; Scuola Grande di San Marco B. 188, n. 354, pubblicato in GIAZOTTO, La guerra dei palchi cit., p. 504. 11

Archivio di Stato, Venezia; Scuola Grande di San Marco B. 188, n. 279, pubblicato in GIAZOTTO, La guerra dei palchi cit., p. 506. 12 GIAN FRANCO FERRARI, Beregan Nicolò (Berengani, Bergani), in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, vol. VIII, pp. 804-805.

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L’ANNIBALE IN CAPUA DI PIETRO ANDREA ZIANI: PROLEGOMENI PER L’EDIZIONE CRITICA

Le fonti dell’Annibale in Capua Dell’Annibale in Capua di Nicolò Beregan si conservano ben dieci versioni del libretto: Venezia 1661,13 Malta/Messina 1664 e Napoli 1671,14 Ferrara 1665, Milano 1666, Bologna 1667, Parma 1668, Bergamo 1668, Viterbo 1671, Lucca 1675 e 1676.15 Sono giunte sino ai giorni nostri anche tre copie di partiture manoscritte che si trovano nella biblioteca Marciana a Venezia, nella biblioteca Vaticana a Roma e nella biblioteca statale di Ansbach in Germania. Tutte le versioni del libretto, pur avendo caratteristiche che rendono unica ogni versione, si basano su quella veneziana del 1661 e da loro derivano le partiture, come è possibile riscontrare dal seguente stemma:

La versione ferrarese del libretto (1665), rispecchia in gran parte il libretto veneziano, ma vanno sottolineate alcune differenze rilevanti, in primis l’importanza drammaturgica che riveste il personaggio di Alcea. In appendice 16 troviamo ben tre scene, con la maga protagonista e ciò potrebbe far presupporre che il cast ferrarese disponesse di una valida cantante in questo ruolo; questa rimane però solo un’ipotesi dato che nei libretti veneziani, fino a fine secolo, gli elenchi con gli interpreti erano molto rari se non quasi del tutto assenti.17 13

Vi è anche una seconda impressione sempre del 1661. In questo caso però la musica viene attribuita a Vincenzo Tozzi (Roma, 1612 circa – Messina, prima del 1679), maestro di cappella della città di Messina. 15 Su questa versione del libretto va segnalata una incongruenza: secondo CLAUDIO SARTORI, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, Cuneo, Bertola & Locatelli, 1992 (scheda nr. 2040), il libretto si troverebbe presso la biblioteca della fondazione Cini di Venezia (I-Vgc) cosa che però non risulta dai cataloghi della prestigiosa istituzione. 16 NICOLÒ BEREGAN, L’Annibale in Capua, Ferrara, Eredi del Suzzi, 1665, p. 94-96. 17 Sul libretto d’opera italiano nel Seicento cfr. PAOLO FABBRI, Il secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera in Italia nel Seicento, Roma, Bulzoni Editore, 2003. 14

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La scena aggiunta (I/5), introdotta dalla didascalia Alcea in abito da soldato, Floro, e Gilbo tratta dell’apparizione della maga Alcea, che davanti a un Floro afflitto e provato dalle pene d’amore, tenta di convincere il giovane che quel sentimento per poter essere efficace e duraturo debba essere accompagnato da serenità e gioia: «la bellezza non ama un ombroso». Ai due si affianca Gilbo, che con spirito contrariato critica l’uso di troppe parole preferendone la concretezza dei fatti «ma il Padron nei suoi perigli, vuol soccorsi di mano e non consigli». Una successiva aggiunta è inserita prima della sua aria nella diciannovesima scena del primo atto (I/19) dove Alcea svela a Floro la sua vera identità mentre l’ultima scena aggiunta in appendice è la scena tredicesima del secondo atto (II/13) dove troviamo ancora Alcea travestita da soldato, che in uno struggente arioso, «Và pur và, turbato amante», si discosta molto dal prototipo della strega anzi assume caratteristiche languide e malinconiche. Cronologicamente, la successiva rappresentazione è quella per il Teatro Regio di Milano nel 1666 dove le differenze riscontrate nel libretto sono sostanziali. Anzitutto vengono tagliati molti righi di recitativi in diverse scene oltre a due scene per intero, vale a dire la scena di Arbaste nella quale Pacuvio viene gettato in mare per ordine di Annibale (II/21) e, quasi in finale di melodramma, la maestosa scena della maga Alcea dove narra dei suoi stessi trionfi e preannuncia aspre vendette sui cartaginesi (III/20). Vanno però considerate anche numerose aggiunte che non ritroviamo nel testo veneziano e ferrarese: ben quattro arie in più assegnate a Floro, due arie in più ad Annibale, una ad Emilia e addirittura una intera scena, con recitativo e aria, per Pacuvio. Altra curiosità è senza dubbio il ballo che si trova a fine secondo atto denominato «Ballo de’ Covielli e Babuini»; questa insolita denominazione si trova solo nel libretto milanese. Anche la versione successiva del libretto, ovvero quella per il Teatro Formagliari di Bologna nell’anno 1667, risulta essere sostanzialmente ridotta. Come per Milano, anche qui molti versi nei recitativi vengono recisi come del resto ben nove arie.18 Il personaggio su cui si ripercuotono maggiormente questi tagli è senza dubbio Arbaste, che rimane senza la sua aria conclusiva del secondo atto, «Un fetonte è la speranza». Interessante notare come l’aria di Artanisba «Mi ribello al Dio d’amore» (I/17) dal carattere così energico, oserei dire quasi sprezzante, venga sostituita da un’altra aria di spirito totalmente opposto, quasi un lamento, ovvero «Moribondo il mio cor». Tra le aggiunte troviamo l’aria «Non disperi un core amante» (III/11) della maga Alcea e una particolarità che contraddistingue solo questo libretto, cioè l’attribuzione a Pacuvio, nel coro conclusivo del terzo atto, di un ruolo di rilievo, mediante l’aggiunta di ben tre righi: Di te mio Duce ovunque aggira il sole 18

Il taglio più vistoso appare in III/9 con ben 24 versi in meno di recitativo rispetto a Venezia (1661). 122


L’ANNIBALE IN CAPUA DI PIETRO ANDREA ZIANI: PROLEGOMENI PER L’EDIZIONE CRITICA

con cento bocche e cento spieghi l’occhiuta Diva. Riguardo il libretto di Parma, anch’esso del 1668, la prima differenza che balza subito all’attenzione si incontra già nel frontespizio del testo a stampa e riguarda il luogo destinato alla rappresentazione, non un teatro ma un collegio: «Rappresentato in Parma nel Colleggio de’ Nobili. «Per le nozze de’ Serenissimi Ranuccio II Duca di Parma, e Maria Principessa d’Este». Come per i precedenti libretti, anche in questa fonte si riscontrano diversi tagli di recitativi o di intere scene, tra le quali quella con Gilbo e Dalisa (III/8). Nel secondo atto l’aria di Dalisa (II/16) «Questi paggi vezzosetti» che troviamo in L.Ve è totalmente modificata con questo testo: Quanti volti vezzosetti mi s’aggirano d’intorno; li vagheggio tutto giorno ma mortifico gl’affetti che una guancia morbidetta se ben non è per me, pur mi diletta. Già si sa che vecchio labro non è favo da far miele e che Amor ape crudele vuol sol bocca di cinabro ma sia pur con altrui pace s’Amor non è per me, però mi piace. Dalisa, tipico personaggio comico intercalato nell’opera seria,19 “subisce” anche il taglio dell’aria «Questo volto vecchiarello» nella scena tredicesima del secondo atto. L’edizione del libretto di Bergamo, datata 1668 è quella che meno si discosta della prima versione veneziana del 1661 se si eccettuano le cospicue aggiunte; in appendice, infatti, si trovano tre arie di Emilia, una per ogni atto: «Fiera sorte, iniquo fato» (I/3), «Paventa quest’alma» (II/8), «Non trova mai pace» (III/8). Viene aggiunta la scena solistica di Maerbale (III/6) e anche un’altra aria per Alcea «Non disperi un core amante» (III/11). Al contrario di Bergamo, la fonte di Viterbo (1671) è molto lontana dal testo veneziano essendo la versione col testo più corto; questo è dovuto in gran parte all’eliminazione di tre personaggi importantissimi nello sviluppo drammatico della vicenda, ossia Pacuvio, Maerbale e Arbaste.

19

Sull’argomento cfr. BARBARA MARANINI, Il comico nel tragico: i drammi per musica di Giacinto Andrea Cicognini in Commedia dell’arte e spettacolo in musica tra Sei e Settecento. Atti del convegno (Napoli, Centro di Musica Antica, 28-29 settembre 2001), a cura di Alessandro Lattanzi, Paologiovanni Maione, Napoli, Editoriale Scientifica, 2003, (I Turchini saggi, 2). pp. 185-212. 123


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Già dal numero delle pagine e dalla prefazione si intuisce che il libretto ha subìto evidenti rimaneggiamenti: Lettore, torna di nuovo alle stampe il Dramma Musicale dell’Annibale in Capoa (sic.) ridotto nel modo, che vedrai, non per far torto all’Autore, ne corregere l’Originale altre volte stampato, ma per facilità maggiore dell’Opera. Spero sia per piacerti ancora in questa forma, come appunto è stato fatto rappresentare a proprie spese da questi magnanimi signori, anzi con qualche arietta, e mutazione di scene d’avantaggio accresciute nella recita avanti questa lettera, e dopo la stampa dell’opera. Io l’ho stampata così di loro ordine, e commissione, però se la trovarai diversa dall’Originale, sappi che la (sic.) io se ne porto l’avviso, e vivi sano.20

I tagli, oltre che ai personaggi, si estendono anche ai recitativi, infatti, troviamo pochi versi di recitativo ad inizio e fine scene. Da segnalare, inoltre, il prologo totalmente differente dalla versione di Venezia, ispirato questa volta dal nome del dedicatario Acquaviva21 dove gli elementi acqua, luce, terra e fuoco rendono omaggio alla città di Viterbo: Del mondo più giocondo fortunata, e lieta parte […] Luogo Apicho di Vetulonia, antica ecco ch’intento sempre alle gioie tue è ogn’elemento. Il prologo termina con un vero e proprio inno all’acqua e, quindi di rimando, al dedicatario Acquaviva: Et io fatosa, e lieta in ogni riva vanterò di mie glorie il cor superbo mentre gl’ossequi suoi rende Viterbo all’alta fonte di quest’AQUAVIVA. L’edizione di Lucca del 1675 è, per estensione, quella più ampia, questo a fronte di pochi versi tagliati e molti aggiunti. Qui il personaggio Pacuvio, che nell’edizione bolognese del 1667 era molto ridimensionato e in quella di Viterbo addirittura eliminato, assume una importanza strategica e oltre a lui, a ricevere arie completamente nuove, di due strofe, sono anche: Emilia (III/2 e III/9), Annibale (I/1), Pacuvio (I/20 e III/12), Dalisa (I/11), Alcea (III/12) e Floro (III/15). Un’analisi approfondita andrebbe fatta per quanto riguarda 20

Lo stampatore a chi legge, Viterbo, Pietro Martinelli, 1671. Monsign. Illustriss, e Reverendiss. D. Ridolfo Abbate Acquaviva D’Aragona, Arcivescovo di Viterbo. 21

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l’aria di Artanisba (I/17) «Moribondo mio cor» che, come per l’edizione bolognese, rispetto a Venezia 1661, sostituisce l’aria «Mi ribello al Dio d’Amore» e inoltre risulta essere, qui nell’edizione lucchese, di tre strofe in luogo di due. Un discorso a parte, e uno studio più approfondito, meritano i libretti di Malta/Messina 1664 e Napoli 1671. Il libretto del 1664 (una sorta di co-produzione ante litteram Malta/Messina) fu musicato da Vincenzo Tozzi22 mentre quello di Napoli fu quasi certamente musicato da Ziani che intratteneva e intratterrà in futuro rapporti con l’ambiente napoletano, nonostante non vi siano chiare indicazioni sul libretto. Per quanto riguarda le messe in scena del libretto del 1664 sappiamo, pressoché con certezza, che l’Annibale in Capua musicato da Tozzi venne rappresentato a Messina mentre per quanto riguarda Malta vi sono ipotesi discordanti scaturite da recenti studi: secondo Giuseppe Azzopardi23 l’opera venne rappresentata a Malta nel 1664. Questa tesi è però confutata da Giuseppe Donato24 secondo il quale a Malta fu stampato solo il libretto: Come si legge nel suo frontespizio, il libretto non fu stampato a Messina ma a Malta senza l’indicazione dell’anno. Questo, però, risulta evidente dal libretto della rappresentazione napoletana dell’Annibale in Capua, stampata nel 1671 e che reca l’impressum “In Malta 1664, Et in Napoli 1671”, senza nome di editore. Quanto alla rappresentazione messinese del melodramma di Beregan, arrivato qui direttamente da Venezia, non vi può essere alcun dubbio: essa risulta evidente dal frontespizio del libretto. Se ciò non bastasse, vi è anche una testimonianza quasi coeva: in una lettera da Palermo datata 18 settembre 1665 scritta da Francesco Ventimiglia a Leone Allacci, il poeta siciliano chiede al celebre bibliotecario che lo “[…] avvisi ancora se vuole molte [opere], che sono d’Autori forestieri ma rappresentate, e stampate in Sicilia”; nel breve elenco che segue compare pure “L’Annibale in Capua Rappresentata e stampata in Messina nel 1664”

Sempre a proposito del luogo di stampa del libretto, Giuseppe Lipari 25 è di parere diverso: Neppure L’Annibale in Capua, che denuncia nella fattura non pochi elementi di provenienza messinese, è stato ovviamente stampato a Malta, data l’assoluta mancanza di attestazioni relative ad una attività impressoria nell’isola in quegli anni. Si può del resto escludere anche una committenza maltese, in quanto il librario promotore dell’edizione

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Vincenzo Tozzi, ricopriva in questo periodo la carica di Maestro di cappella al Duomo di Messina. 23 GIUSEPPE AZZOPARDI, La cappella musicale della Cattedrale di Malta e i suoi rapporti con la Sicilia. In “Musica sacra in Sicilia tra Rinascimento e Barocco: Atti del Convegno di Caltagirone, 1012 dicembre 1985” a cura di Daniele Ficola, Palermo, S.F. Flaccovio, 1988, p. 65, nota n.39. 24 GIUSEPPE DONATO, Appunti per una storia della musica a Messina nel Cinque e Seicento, Messina, Facoltà di Magistero dell’Università di Messina, Istituto di Storia dell’arte, Cattedra di storia della musica, 1981, pp. 175-176. 25 GIUSEPPE LIPARI, Il falso editoriale a Messina nel Seicento, Messina, Università degli Studi di Messina, 2001, p. 77. 125


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operava proprio nella Città dello Stretto e la sua bottega era nella piazza più importante della città, in quel piano di S. Maria sul quale si affacciava la Cattedrale.

Pietro Andrea Ziani, che si stabilì nella città partenopea dal 1677 al 1684 anche se vi era già stato nel novembre del 1673, pur sempre due anni dopo la rappresentazione al Teatro di San Bartolomeo. Di questa presenza (quindi solo due anni dopo la messa in scena dell’Annibale in Capua a Napoli del 1671) ne veniamo a conoscenza grazie ad una cedola bancaria datata 29 novembre 1673 che testimonia l’avvenuto ingaggio da parte del celebre impresario del San Bartolomeo, Giulia De Caro.26 Il documento recita così: «All’abbate Pietr’Andrea Ziani si fa pagamento di tutte le spese fatte per il viaggio a condurre e qui a virtuosi musici da Venetia».27 Sempre basati sulla editio princeps di Venezia, questi libretti mostrano nell’elenco dei personaggi qualche divergenza forse dovuta semplicemente ad errori di stampa o ad altri tipi di “sviste” tipografiche, Pacuvio diventa «Pacuccio» ad esempio. Per quanto riguarda il testo, molte sono le aggiunte come nella scena che conclude il secondo atto dove Pacuvio viene fatto precipitare dalla scogliera e Arbaste commenta la sua morte; è qui che vengono aggiunti sette versi: Vanne monstro a albergar nell’Oceano profondo che se si scaccia il mondo non sia ch’il mar t’abborra: io te n’affido che abbraccia è traditor spesso un piede infido. Per quel che riguarda la musica dell’Annibale in Capua si conservano tre partiture manoscritte: Venezia I-Vnm It.IV.387 (9911), Ansbach D-AN 6.g.36 e Vaticano IRvat Chigi Q.V:62, quest’ultima ha la particolarità di avere due stesure, per così dire, sovrapposte. A queste vanno aggiunte le arie conservate nella raccolta miscellanea della biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli (I-Nc 33.5.33). Il manoscritto della partitura, conservato nella biblioteca Marciana, non corrisponde né all’edizione del libretto della prima rappresentazione né ad altre edizioni da essa ricavate; la somiglianza leggermente più accentuata è con la ristampa di Venezia 1661, che contiene, però, caratteristiche delle versioni di Bologna, Lucca e Bergamo. Nella seconda edizione del libretto veneziano si trovano delle virgolette basse („) che delimitano recitativi o pezzi di arie che mancano nel manoscritto. Di questa spe26

Su Giulia De Caro si rinvia a PAOLOGIOVANNI MAIONE, Giulia De Caro «Seu Ciulla» da commediante a cantarina. Osservazioni sulla condizione degli «armonici» nella seconda metà del Seicento, «Rivista Italiana di Musicologia», I/32, 1997, pp. 61-80 e Giulia De Caro famosissima armonica e il bordello sostenuto del Signor don Antonio Muscettola, Napoli, Luciano editore, 1997. 27 PAOLOGIOVANNI MAIONE, note critiche in Pietro Andrea Ziani, Assalone Punito, Il Complesso Barocco, Alan Curtis, Milano, Stradivarius, 1998 (CD etichetta STR 33548). 126


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cie sono l’intera scena III/7, l’aria di Dalisa «S’io trovo un amante» nella scena precedente (III/6) e altri versi disseminati lungo i tre atti. Rispetto alla prima stampa del libretto veneziano, nella sua ristampa troviamo l’aggiunta di quattro arie che sono state lasciate nella partitura ossia l’aria di Artanisba «Moribondo il mio cor» (I/17), l’aria di Alcea «Non disperi un core amante» (III/11), l’aria di Floro «Che pretendi Amor da me» (III/5) e una intera scena di Maerbale (III/6). La singolarità delle arie «Moribondo mio cor» e «Non disperi un core amante» è che si trovano integralmente solo nel libretto bolognese del 1667. Corrisponde totalmente al manoscritto di Venezia, dal punto di vista testuale, quello conservato nella biblioteca statale di Ansbach con delle differenze, seppur minime, solo di carattere squisitamente musicale. Anche questo manoscritto si basa sui libretti veneziani (in particolare la ristampa) e ha anche caratteristiche di altri libretti quali Bologna, Lucca e Viterbo. Da segnalare che in questo caso l’aria di Dalisa «S’io trovo un amante» (III/7) non viene messa in musica, al contrario della partitura veneziana. Il manoscritto della partitura conservato nella biblioteca Vaticana è senza dubbio quello più complesso da analizzare e decodificare ma allo stesso tempo è anche quello più interessante. Le versioni sono due: una originaria e l’altra modificata successivamente28 con tagli, aggiunte, indicazioni per l’esecuzione, sostituzioni e trascrizione di nomi dei personaggi e cancellature con linee trasversali anche di intere sezioni. La prima versione di questa partitura corrisponde al libretto di Ferrara (1665): questo lo si apprende già ad un primo sguardo, dato che sono presenti tutte le arie di Alcea (I/4, I/13, I/19). I versi che nel libretto veneziano sono contrassegnati dalle virgolette, e che quindi vengono omessi nella partitura veneziana, in questo caso appaiono sia sul libretto ferrarese sia sulla partitura vaticana. Nella scena quindicesima 29 del terzo atto, l’aria di Emilia «E se fia che l’empio cada» è prolungata da una sorta di cavata in Do «S’estinto è l’Idol mio». Questa nuova sezione, preceduta dall’indicazione del copista «segue con violini», è un’assoluta novità dato che in tutte le altre fonti l’aria termina con la parola “amante”. La seconda versione della partitura vaticana, quella aggiunta successivamente, corrisponde all’edizione di Viterbo. Sono molto interessanti le indicazioni manoscritte che si trovano disseminate lungo tutta la partitura, alcune illuminanti per quanto riguarda l’esecuzione musicale e la successione delle scene: si legge nella scena I/6, fol.25v. «Qui manca: Le saette si canta à 2. Si salta la scena 7.a». Curiosa anche l’indicazione che si trova nella scena II/5, fol.88r. «Qui mancano molti versi, che dice Gilbo come nell’opera manuscritta».30 La raccolta miscellanea conservata nella biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli (33.5.33) contiene quattro arie relazionabili con l’Annibale in Capua. Quelle che corrispondono sia testualmente che musicalmente alle arie della par28

Si nota, in queste modifiche, una calligrafia differente rispetto alla prima stesura e dovrebbero essere contemporanee o di poco precedenti alla messa in scena di Viterbo nel 1671. 29 Corrisponde alla scena XIV di L.Ve e P.Ve. 30 Non specifica a quale manoscritto si riferisca. 127


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titura veneziana sono «Miei draghi frenate» di Alcea31 e «Sì per vendicarmi»32 di Artanisba. Per quanto riguarda l’altra aria di Artanisba «All’armi ò pensieri» la corrispondenza è solo testuale, ma appare musicata da capo. Le arie «Armata di sdegno col ferro alla mano»33 e «Felici tormenti»34 non si trovano in nessun libretto e in nessuna partitura; questo mette in dubbio la reale provenienza da quest’opera nonostante la dicitura «Annibale» posta all’inizio delle due arie. Il teatro dei SS. Giovanni e Paolo, palcoscenico della prima rappresentazione veneziana La prima rappresentazione dell’Annibale in Capua andò in scena per il carnevale dell’anno 1661 al Teatro dei SS. Giovanni e Paolo, conosciuto anche col nome di Grimano poiché di proprietà della famiglia Grimani. Proprio l’ingresso dei Grimani nell’attività teatrale veneziana, dopo i vari Tron, Michiel, Giustinian, Vendramin, fu una spinta notevole per tutto il movimento operistico, infatti, si deve a questa famiglia e alla loro abilità imprenditoriale se Venezia mantenne il primato teatrale per lungo tempo in tutta Europa. Interessanti notizie sulla storia di questo importante teatro, ce le fornisce Giovanni Salvioli nelle sue memorie storiche sui teatri veneziani del XVII secolo: Qualche anno appresso all’edificazione in Venezia dei due teatri di San Cassiano, il vecchio ed il nuovo, sorgevane un terzo nella parrocchia dei SS. Giovanni e Paolo, di cui assumeva il nome. In origine veniva fabbricato tutto di tavole a spese della famiglia Grimani di S. Maria Formosa presso la calle della Testa e rio della Panada verso le Fondamenta nuove, sopra fondo proprio ed in parte non suo, aprivasi a comiche compagnie unicamente.35 La solidità di questo teatro non essendo stata ritenuta soddisfacente, venne riedificato interamente in pietra, pressochè nel medesimo sito, sopra terreno del tutto proprio del nobil’uomo Giovanni Grimani della famiglia suddetta, generosamente a sue spese, quello stesso Grimani che in seguito, nel 1655, erigeva per la commedia il teatro di San Samuele […]. Aprivasi nel 1639 all’opera in musica, e tosto saliva a straordinaria celebrità per la magnificenza di scene, macchine ed addobbi che venivano profusi nell’esecuzione dei drammi, pella quale venivano chiamati i migliori artisti di quel tempo. […] Il teatro in discorso mantenne il proprio lustro pressochè per tutto il secolo XVII, mentre si videro rappresentate non meno di novantanove opere in musica […] Nel periodo dei tre primi lustri del secolo XVIII due sole volte si aperse ai drammi musicali. In seguito veniva chiuso e finalmente distrutto, essendochè nel 29 dicembre 1748 il di lui tetto precipitava completamente.36 31

Carte 175r.-177r. Carte 185r.-186v. 33 Carte 186r. 34 Carte 177v.-179v. 35 Si firma con lo pseudonimo di Livio Niso Galvani. 36 GIOVANNI SALVIOLI, I teatri musicali di Venezia nel secolo XVII: 1637-1700 memorie storiche e bibliografiche, Milano, Regio Stabilimento Ricordi, 1879 (rist. anast. Sala Bolognese, A. Forni 1984), p. 29. 32

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Il Teatro dei SS. Giovanni e Paolo era tecnologicamente all’avanguardia e a calcare il palcoscenico erano spesso le migliori star del momento, a questo proposito, Giustiniano Martinoni, nelle sue “aggiunte” alla preziosa raccolta storica su Venezia di Francesco Sansovino, asserisce che: In quello di S. Giovanni e Paulo si recitano [per] il carnovale opere musicali con meravigliose mutationi di scene, comparse maestose e ricchissime, macchine et voli mirabili: vedendosi per ordinario risplendenti Cieli, Deitadi, Mari, Reggie, Palazzi, Boscaglie, Foreste et altre vaghe e dilettevoli apparenze. La musica è sempre squisita, facendosi scelta delle migliori voci della città conducendone anco di Roma, di Germania ed altri luoghi, e specialmente donne, le quali con la bellezza del volto, con la ricchezza degli habiti, con il vezzo del canto, con l’attioni proprie del personaggio che rappresentano apportano a stupore e meraviglia.37

Intorno al 1660 si pensò ad un rifacimento della sala per adattarla alle esigenze del momento e alla costante richiesta di posti da parte del pubblico veneziano per le messe in scena; di questo periodo è l’unica pianta che si conosca e che ci mostra una grossa sala a ferro di cavallo con cinque ordini da ventinove palchi, che in seguito diverranno trentadue e con la scena adornata da un arcoscenico.38 Venezia, durante il carnevale, era meta anche di visitatori stranieri attirati dalle feste e dalla ben nota attività teatrale. A questo proposito è estremamente interessante la descrizione di uno spettacolo al Grimano39 che fa un viaggiatore inglese, Philip Skippon, che nel carnevale del 1664 assistette alla rappresentazione della Rosilena,40 riportando varie curiosità che ci accompagnano virtualmente dentro uno dei palchi: Verso le due della sera41 siamo andati ad occupare i posti segnati col nostro nome e per i quali avevamo pagato cinque lire per bollettino, per assistere all’opera Rosilena. I palchi o balconi erano riservati ai nobili e ai mercanti i quali pagano una somma fissa per l’affitto di ogni palco, mentre pagano in anticipo il canone di un anno. Prima del levarsi del sipario si udì suonare una tromba cui rispose con grazia un violino. Le scene sembravano naturali. Durante il prologo alcuni attori rimasero sospesi in aria, poi attraversarono il palcoscenico volando e quello che rappresentava una Furia con due giovanetti che gli si aggrappavano alle gambe, scese in volo verso il palcoscenico, poi sempre volando tornò di nuovo in volo. I cambiamenti di scena erano precisi e ingegnosi: sembrava che le nuvole si muovessero e che le mura di un castello venissero distrutte. Tutti i cantanti cantarono in modo eccellente. Rosilena era interpretata da una cantante romana, 37

FRANCESCO SANSOVINO, Venetia città nobilissima et singolare […] con aggiunta di tutte le cose notabili […] da D. Giustiniano Martinioni, Venezia, Stefano Curti, 1663, p. 397. 38 Il disegno originale, firmato da Tomaso Bezzi, si trova al Soane Museum di Londra; per una descrizione della sala e per una riproduzione della pianta vedi MARIO CARROZZO e CRISTINA CIMAGALLI, Storia della musica occidentale. Vol. 2. Dal Barocco al Classicismo viennese, Roma, Armando editore, 2008, p. 60. 39 Il teatro veniva generalmente chiamato così. 40 Dramma per musica di Giambattista Volpe (detto Rovettino) su libretto di Aurelio Aureli. 41 Vale a dire le ore venti scrive JÉROME DE LANAD in Voyage d’un francoise en Italie, fat dans les années 1765 & 1766, VII, Génève, 1790, pp. 465-472: «Gli italiani contano le ventiquattro ore di seguito da una sera all’altra. La ventriquattresima ora che si chiama l’Ave Maria suona una mezz’ora o tre quarti d’ora dopo il calar del sole e cioè a notte calata». 129


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nota come la più bella voce del mondo […]. Quando la rappresentazione piaceva, il pubblico gridava: ben, ben! Belo, belo!42

Un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia 43 conferma ancor di più quanto questo teatro fosse attrezzato; ci mostra, infatti, un corposo inventario con tutte le scene usate dopo la stagione 1660/1661 e quindi proprio nell’anno dell’Annibale in Capua. Tra le scene sicuramente usate per l’Annibale segnalo, ad esempio, «piaza con tre lontani con telleri grande et doi archi trionfalli» servita per l’ingresso trionfale di Annibale nella città di Capua44 o anche «grotte magiche con teleri grandi» sicuramente utilizzata per la scena con Floro e Gilbo e nella seguente con protagonista la maga Alcea.45 Fortuna e ricezione dell’Annibale in Capua Dalla prima esecuzione del 1661 a Venezia all’ultima di cui restano tracce tangibili, ovvero quella del 1675 a Lucca, trascorsero ben quattordici anni. Questo è un dato abbastanza significativo sulla qualità di questo melodramma e sul riscontro che ebbe dal pubblico italiano, abituato com’era in quel frangente storico a compositori e artisti di assoluto rilievo. A partire dalla metà del Seicento, la storia romana, più di quella greca, rappresentò una fonte pressoché inesauribile da cui attingere per la messa in scena di melodrammi e la scelta, da parte del Beregan, di servirsi di una figura quale Annibale, condottiero valoroso ed eroico, ma conquistato dalla bellezza del gentil sesso, pagò molto in termini di successo e di critica. Andrea Da Mosto in un suo saggio sul teatro veneziano del 1899, scrive del gran successo riscosso dall’opera di Ziani, non citando però la fonte di tale notizia: «All’Annibale in Capua, melodramma con poesia del conte Nicolò Beregan, patrizio veneto, e musica di D. Pietro Andrea Ziani, dato nel febbraio del 1661 nel teatro dei SS. Giovanni e Paolo, vi fu una tale ressa che una simile non si era mai veduta a Venezia».46 Quanto lungo fu l’eco di quest’opera, tanto breve fu la “gestazione” da parte del compositore, talmente breve che Ziani ne fa un motivo di vanto e non perde occasione per ricordarlo, in varie occasioni, all’impresario Marco Faustini. Il primo stralcio di lettera in cui si parla dell’Annibale è datato 25 luglio 1665, in cui, come spesso accadeva nella corrispondenza col Faustini, si toccavano questioni di denaro e di prestigio. Da questa lettera si può dedurre che l’opera fece incassi straordinari, tali da coprire le spese del teatro per un intero anno; Ziani però è scon42

PHILIP SKIPPON, An account of a journey, in A collection of Voyages and Travels, VI, London, 1732, p. 506. 43 I-Vas, SGSM, b. 194, cc. 228-228v. 44 Atto I, scena I. 45 Atto I, scene XVIII e XIX. 46 ANDREA DA MOSTO, Il teatro a Venezia nel secolo XVII, «Rivista politica e letteraria», VIII, 1899, pp. 144-164: 161. 130


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tento del trattamento ricevuto in quell’occasione e non manca di farlo notare con qualche frase a dir poco pungente: Quanto poi al regallo [sic] che dice di farmi di 200 ducati per la mia fatica col movermi in consideratione quello hebbi l’ultima volta per l’Amor Guerriero etc. volendomi dare a vedere che sia ricognizione per me avvantaggiosa et altri particolari, gli rispondo che se a Vostra Signoria pare premio per me al presente eccedente che a me pare poco in riguardo che mi trovo al servizio di sua Maestà absente dalla Patria e non più quel minchion di sempre, che per haver fatto un Annibale in sei giorni col espormi a cimenti così pericolosi, ho saputo far guadagnare a Vostra Signoria tanto che non solo ha pagate tutte le sue spese in un Anno che egli sovrastava tanta Rovina, ma ha saputo molto bene regalare tutti li musici, ed a me causa principale di tanto beneficio non solo mi si è dato regallo, ma mi si levò 70 ducati del mio solito salario e se bene non fu lei la cagione di farmi operare, ma altri, tutto ciò lei hebbe il guadagno ed io la lode come il Corvo ed altri il formaggio. Mi creda Signor Marco che quando considero questo punto e la gran crudeltà usatami per Dio che la rabbia mi rode.

Ancora una volta Ziani fa notare come sia sempre puntuale e veloce nello scrivere e, come per la lettera del 9 maggio 1666,47 anche in questa del 10 luglio 1666, parla di cinque giorni, e non sei, impiegati per scrivere l’Annibale: È qualche settimana che io mi trovo indisposto ne per anco sollevato. Onde non posso né poco né molto applicarmi. In risposta della sua del 26 passato dico che io non ho disgusto né sdegno contro di lei, bensì mi lamento del torto spaccato che mi è stato fatto nel premiar la mia fatica meno di qualche d’un altro etc. E se quelli che sono padroni della sua volontà mi havessero premiato o per dir meglio fatto premiare da Vostra Signoria per un Annibale fatto da me in 5 giorni con tanto suo utile e mie fatiche, non havrei tanta occasione di dolermi, se trattenessero con queste forme anco con altri che non hanno questi meriti con lei, e pure sono pagati sopra alla broca e se bene non hanno fatto miracoli per lei. […] Se non nasceva in momenti un Annibale favorevole solo a Vostra Signoria che gli era contrario e che non voleva a fatto nissuno. Dico benigno a tutti, fuori che a me che l’ho partorito. Non so se chi la domina trattasse così con altri e pure lei vi condescende a tutto e li tratta superiormente de gli altri, e per me non vi fu ragione né carità e fui mandato da Herode a Pilato, e mi si levò contro giustizia non solo il merito ma fui defraudato di 70 ducati del mio solito regallo. Hora veda Signor Marco se questa ingratitudine chiama vendetta a Dio. […] Per Dio che qui siamo in un Paese, che non è più de coglioni […]. In ogni caso ringrazio Vostra Signoria della buona opinione che tiene verso di me, che in ogni caso sarà da me sempre stimato.48

Per nessuno dei libretti a stampa dell’Annibale in Capua è riportato l’elenco degli interpreti, o almeno qualche nome dei principali cantanti.49 Fa eccezione la messa in scena al San Bartolomeo di Napoli del 1671 che vide calcare quel palcoscenico dalla famosa cantante Giulia de Caro, agli inizi della sua breve ma intensa carriera.50 47

Vedi il paragrafo su i Cenni biografici di Pietro Andrea Ziani. Archivio di Stato, Venezia; Scuola Grande di San Marco B. 188, n. 269, pubblicato in GIAZOTTO, La guerra dei palchi cit., p. 507. 49 Prassi, in effetti, abbastanza infrequente per il libretto seicentesco. 50 Cfr. MAIONE, Giulia de Caro cit. 48

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«Commediante Cantarinola Armonica, Puttana»51 con questi appellativi veniva etichettata dalle cronache cittadine seicentesche, ‘Ciulla de Caro’ che ebbe il merito, come già accennato in precedenza, di portare nelle vesti di imprenditrice, Pietro Andrea Ziani sulle scene napoletane. Un’altra donna impresario, e con analogo curriculum dell’’armonica cantarina’, fu la fautrice del debutto di Giulia de Caro, ovvero quella Cecilia Siri Chigi che figura come l’autrice della dedica al Principe Francesco Maria Carafa che appare nell’introduzione al libretto per l’Annibale in Capua del 1671 a Napoli.52 Conclusioni La successione delle operazioni per la formalizzazione di questo “principio” di edizione, ovvero la recensio dei testimoni e il confronto sistematico delle varie fonti, ha prodotto risultati che hanno chiarito molte problematiche presentatesi all’inizio del lavoro. La prospettiva di ricerca per quanto riguarda l’Annibale in Capua offre ampi margini di integrazione e scoperta, dato che sino ad oggi non vi sono studi che hanno approfondito a fondo questo melodramma che merita di essere riportato agli antichi splendori.

Figura 1: Frontespizio del libretto per la rappresentazione veneziana del 1661 (Roma, Biblioteca dell’Istituto Storico Germanico – Rar. Libr. Ven. 83). 51

INNOCENZO FUIDORO, Giornali di Napoli dal MDCLX al MDCLXXX, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1934-1939, notizia del 10/II/1676. 52 Vedi L.Na (1671) nel paragrafo d) I libretti a stampa. 132


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Figura 2: Sinfonia dalla partitura di Venezia (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It. IV, 387=9911, c. 1r).

Figura 3: Sinfonia dalla partitura di Ansbach (Ansbach, biblioteca statale D-AN 6.g.36, c. 1r). 133


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Figura 4: Aria di Alcea Miei draghi frenate (Napoli, biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella� 33.5.33, c. 175r).

Figura 5: Esempi di cancellazioni e aggiunte nella partitura Vaticana (Roma, biblioteca Apostolica Vaticana, Rvat. Chigi Q.V.62, c. 17r).

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Figura 6: esempio di edizione moderna dell’Annibale in Capua.

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Luca Sellitto YNGWIE J. MALMSTEEN E LA NASCITA DELLA CHITARRA NEOCLASSICA Yngwie J. Malmsteen, virtuoso chitarrista svedese, classe 1963, viene alla ribalta nel mondo della chitarra rock all’inizio degl’anni Ottanta ed è ritenuto dalla maggior parte della critica inventore del neoclassical rock, o anche neoclassical metal. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1983, a soli diciannove anni, dopo aver invano tentato di avere successo come chitarrista nel suo paese nativo, debutta ufficialmente sulla scena con gli Steeler ed il mondo della chitarra elettrica subisce una profonda scossa. Difatti, una folta schiera di chitarristi e fan della musica rock rimane impressionata dallo stile dello svedese. La sua tecnica strabiliante, i suoi fraseggi intrisi di reminiscenze baroccheggianti, i velocissimi arpeggi in stile violinistico ed il suo immenso carisma lo rendono il guitar hero più osannato di quel momento nell’ambito della musica hard n’ heavy, generando un fanatismo piuttosto diffuso, che porta addirittura allo slogan “Yngwie is God”. Mai prima di allora l’influenza della musica colta era stata così avvertita nello stile di un chitarrista rock. Tanto si è scritto su di lui nel corso degl’anni ed ancora si continua a scrivere, soprattutto su riviste e siti specializzati in musica rock ed heavy metal, ma non esiste una pubblicazione che esamini il personaggio nella sua interezza, che metta tutti i dati in ordine con rigore, che analizzi l’evolversi della sua carriera e che, soprattutto, scavi più a fondo su quanto ci sia effettivamente di colto nel suo stile. Chi scrive di Malmsteen è generalmente appassionato ed esperto di musica rock ed heavy metal, ma quasi mai di musica classica in senso lato, ovvero dei diversi stili di musica colta occidentale. Di conseguenza, la critica è generalmente solita fornire un’immagine opaca ed approssimativa su cosa realmente ci sia della musica classica nello stile di Yngwie Malmsteen, non andando molto oltre la menzione del semplice utilizzo di determinate scale e progressioni che presumibilmente dovrebbero giustificare esaustivamente l’utilizzo del termine neoclassical rock. Da tali presupposti nasce il mio desiderio di indagare più a fondo su quale sia stato il percorso di crescita artistica seguito da Malmsteen, su quanto il contesto familiare, sociale e storico in cui è cresciuto sia stato di peso, su come abbia plasmato il suo stile innovativo rimaneggiando vari stili di musica colta, dal barocco al classicismo, fino ad accenni di romanticismo, allo scopo di poter fornire un’immagine più chiara dell’essenza innovativa del suo stile chitarristico. Nella mia tesi cerco di ampliare la prospettiva da cui generalmente si analizza il grande chitarrista svedese, nel tentativo di fornire nuovi spunti di riflessione riguardo ad un personaggio così importante per la storia della chitarra moderna. Malmsteen resta un chitarrista rock e non un musicista classico, nonostante nel 1997 abbia inciso un disco con un’intera orchestra. La mia ricerca in parte ha indagato dunque su quali siano state la funzione e l’importanza storica dello svedese nell’ambito della chitarra rock, cercando di ricostruire tutto il suo percorso a partire dall’infanzia, attraverso una ricostruzione ordinata degli episodi e delle esperienze fondamentali che presumibilmente lo hanno stimolato e guidato. Pertanto, nei primi due capitoli mi sono con137


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centrato sul far luce nella maniera più completa possibile sulla sua infanzia e sulla sua adolescenza trascorse in Svezia, raccogliendo ed ordinando quante più notizie storiche attendibili mi è stato possibile reperire, con particolare attenzione alle sue prime esperienze in ambito musicale. Il terzo capitolo tratta invece della sua carriera da chitarrista professionista negli Stati Uniti e della sua venuta alla ribalta, tentando di fornire un’immagine chiara del cruciale momento storico in cui si trova la chitarra rock quando il virtuoso svedese appare sulla scena. Così come anche nei primi due capitoli, non mi sono soltanto limitato a raccogliere dati storici e curiosità di vario tipo, ma ho tentato di fornire delle chiavi di lettura e degli spunti di riflessione riguardo al fenomeno Malmsteen, commentando l’evolversi della sua carriera in relazione a ciò che accade contemporaneamente nel mondo del business musicale di quei tempi e cercando anche di scavare a fondo nell’animo di un personaggio che, seppur apparso spesso controverso ed arrogante, ha avuto il grande merito di restare fedele alla sua arte e portare avanti la sua idea di musica rock combinata con influenze classiche fino ad oggi, al di là delle alterne e passeggere mode del mercato discografico. Nel quarto ed ultimo capitolo ho invece focalizzato l’attenzione sullo stile di Malmsteen, dapprima dando un’idea dei suoi modelli di partenza, per poi analizzare a fondo la sua tecnica, i suoi fraseggi, le progressioni armoniche più utilizzate e quant’altro. Successivamente, ho elaborato una mia riflessione critica sul come Malmsteen possa in un certo senso essere accostato alla figura di Niccolò Paganini, aggiornata e calata in tempi moderni, quantomeno restando entro i limiti della musica rock, o più specificamente hard n’ heavy. La mia trattazione volge dunque al termine con un’analisi di un disco realizzato dallo svedese con un’intera orchestra, in cui fornisco una mia visione su quali siano le effettive influenze classiche presenti nel suo stile e come esse vengano rimaneggiate, supportando le mie argomentazioni con una teoria analitica mai utilizzata in riferimento a personaggi della musica rock. Ciò che occorre ben evidenziare è che la ripresa referenziale attuata dallo svedese non riguarda le forme della musica colta, bensì i topic. Leonard G. Ratner, nel suo volume Classic music: Expression, Form and Style (1980), conia per la prima volta il termine topic e, grazie anche all’opera dei suoi discepoli Kofi Agawu e Wye Jamison Allanbrook, la topic theory rappresenta un utile strumento di analisi che è andato sviluppandosi negl’ultimi quarant’anni. È opportuno citare anche il volume Musical meaning in Beethoven: Markedness, Correlation and Interpretation (2004) di Robert S. Hatten, in cui l’autore definisce i topic stili di musica ampiamente codificati. La topic theory, prendendo spunto da antichi teorici come Koch, Collman, Riepel e Sulzer, si basa dunque sul presupposto che la musica abbia sviluppato una serie di figure caratteristiche, ovvero topic, le quali possono o associarsi a determinati sentimenti ed affetti o essere viste come espressione di un gusto pittoresco. Tali figure sono scaturite dal contatto della musica con il dramma, la poesia, le cerimonie, la danza, la vita delle classi umili e quant’altro e possono essere suddivise in categorie di stili alti e bassi, in quanto ogni occasione ed ogni luogo, dalla chiesa alla campagna, possono rappresentarne lo spunto. I compositori classici avevano pertanto un vasto apparato di materiali referenziali da cui attingere per le proprie composizioni, proprio come fatto da Malmsteen nel suo Concerto Suite. Il termine topic può riferirsi sia ad un intero 138


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brano che ad una concatenazione di figure e processi all’interno dello stesso brano. Prendendo in esame l’opera di Malmsteen si riscontrano sia brani costituiti da un solo topic che brani in cui si assiste ad un susseguirsi di topic differenti. Analizziamone alcuni, al fine di supportare tale tesi. In Cavalino Rampante, seconda traccia del disco Concerto Suite, un incipit caratterizzato da una veloce sequenza di arpeggi diminuiti, eseguiti sulle prime tre corde, denota lo stile tattico “agitato” e l’utilizzo stesso della struttura accordale della settima diminuita induce ad individuare il sottostile di “tempesta”, suggerendo un trait d’union tra l’opera di Malmsteen e Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi. Il già citato brano Sarabande, settima traccia del disco, è invece un minuetto in pieno stile “galante” francese. Presto vivace e Finale, tracce conclusive del Concerto Suite, sono invece nello stile tattico “brillante” e nel sottostile “virtuoso”. In definitiva, dunque, Concerto Suite è un continuo susseguirsi di reminiscenze di diversi stili della musica colta occidentale, esplicitate in chiave malmsteeniana. Grazie al supporto della sua casa discografica giapponese di allora, la Pony Canyon, lo svedese ha potuto usufruire della magistrale direzione di Yoel Levi, all’epoca direttore dell’Atlanta Symphony Orchestra, e dell’Orchestra Filarmonica di Praga, costituita da novanta elementi, coro compreso. Nella sua autobiografia Malmsteen racconta di come, dopo un’iniziale mattinata di registrazioni disastrosa in cui gli orchestrali ebbero grosse difficoltà nell’eseguire correttamente la sua musica e nell’accettare che un musicista proveniente dal mondo del rock stesse lì a dettare legge, le cose volsero poi per il meglio, al punto che durante il terzo ed ultimo giorno di riprese gli orchestrali decisero di omaggiarlo con il battito sul leggìo in segno di ovazione, accettandolo come uno di loro. Dopo la pubblicazione in Giappone nel 1997, ad opera della Pony Canyon, in Europa la casa discografica Dream Catcher mette in commercio, nell’anno successivo, due versioni del Concerto Suite, con copertine differenti: una per il pubblico rock e l’altra per gli ascoltatori di musica classica, quest’ultima pubblicata appunto dalla divisione Dream Catcher Classics. Esiste anche una versione video live del Concerto Suite, pubblicata in DVD nel 2002, sempre dall’etichetta nipponica Pony Canyon, la quale questa volta mette in condizione lo svedese di usufruire dell’orchestra New Japan Philharmonic, diretta da Taizo Takemoto. Per l’occasione, all’insaputa di Malmsteen stesso, l’etichetta ingaggia un arrangiatore per riarrangiare in chiave orchestrale alcuni vecchi brani di rock neoclassico dello svedese, per l’esattezza: Black star, per sola orchestra, già citata traccia di apertura del primo album solista dello svedese, Rising force; Trilogy Suite Op.5, dal terzo album Trilogy del 1986; Brothers, dal settimo album The Seventh sign del 1994; Icarus Dream Fanfare, dal primo album Rising force, già presente però anche sull’album inciso con l’orchestra di Praga; Blitzkrieg, dall’album Alchemy del 1999; Far beyond the sun, ancora dal primo album Rising force. A tali brani si aggiunge tutta la scaletta eseguita ed incisa per l’album Concerto Suite qualche anno prima ed occorre precisare che anche all’interno di essa lo svedese ha inserito, già sulla versione originale, vari estratti tratti da suoi vecchi brani, distribuendoli qua e là tra le varie tracce dell’opera. Tra questi figurano estratti da: Icarus Dream Suite Op. 4; Evil Eye; Liar; Fire and Ice; Vengeance. Al di là di qualche lieve imperfezione esecutiva e di qual139


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che arrangiamento orchestrale non pienamente convincente nella versione dal vivo, il risultato generale appare essere molto buono. Malmsteen resta il Malmsteen di sempre: impetuoso, istintivo, drammatico, virtuoso e a tratti struggente. Pur non potendosi muovere tanto sul palco com’è solito fare durante i suoi concerti rock, lo svedese non rinuncia alla spettacolarità, facendo ruotare la chitarra attorno al busto, assumendo spesso le sue pose abituali e lanciando, a fine esibizione, il suo strumento fra le braccia di un tecnico. Non è dunque un Malmsteen diverso quello che suona con un’intera orchestra alle sue spalle, è semplicemente un Malmsteen che cambia la cornice di sfondo, in tal modo accentuando ulteriormente i topic della musica colta occidentale di cui si è sempre appropriato nell’arco di tutta la sua carriera. Con la mia tesi su Yngwie J. Malmsteen spero di aver fornito nuovi spunti di riflessione su una delle figure più influenti nell’ambito della chitarra rock/metal, soprattutto riguardo ai reali caratteri innovativi del suo stile ed al suo effettivo legame con alcuni grandi maestri della musica classica. Ho cercato di fornire un’ampia visione dell’artista commentando, a volte anche in maniera critica, le fasi più importanti della sua carriera e della sua vita, fino ad arrivare ad una descrizione dello stile tramite l’analisi di estratti di sue composizioni, ma soprattutto rifacendomi alla topic theory, metodologia analitica mai utilizzata in relazione al virtuoso svedese, che mi ha dato modo di porre sotto una nuova luce il suo legame con il mondo della musica classica.

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Pietro Sgueglia LE MUSICHE DEL POPOLO SHIPIBO DELL’AMAZZONIA CENTRALE DEL PERÙ Il 23 giugno 2015 mi sono recato per la prima volta in Perù con altri componenti di Alas De Esperanza, associazione di beneficenza con cui collaboro da qualche anno. Fin dalla mia infanzia avevo sentito ed immaginato storie su questo paese misterioso: la maggior parte delle storie avevano come protagonista mio zio Carlo, un prete che ha svolto la sua missione dal 1981 al 2015 tra le Ande e la foresta amazzonica peruviana. Proprio grazie a lui, a fine giugno di quell’anno, ero diretto nella selva amazzonica centrale del Perù, precisamente all’Università indigena di “Nopoki”, Atalaya.1 Durante questa permanenza ho avuto modo di conoscere ed ascoltare alcuni canti del popolo Ashàninka, che mi incuriosirono a tal punto da cominciare a farmi porre delle domande, ed a farne a chi, dall’Europa, operava con queste culture e ne condivideva la propria quotidianità. Il risultato immediato è stato la possibilità di venire in contatto con una registrazione realizzata a metà degli anni ’60 del Novecento di racconti, miti e musiche cantate da alcuni sciamani e saggi delle comunità shipibo della regione dell’alto Ucayali, area geografica che più delle altre zone dell’Amazzonia è oggetto di questo studio. Circa 42 famiglie linguistiche popolano il territorio amazzonico peruviano. I più numerosi sono gli Awajun, seguiti dalle etnie derivanti dalla famiglia linguistica Arawak composta dai popoli Ashàninka, Ashèninka, e le etnie derivanti dalla famiglia Pano. Gli Shipibo-Conibo, insieme agli Shetebo, i Cashibo e le etnie con suffisso nahua, come i Yaminahua e i Cashinahua, ed infine gli Amahuaca fanno parte della famiglia Pano. Ci si limiterà in questo ambito a parlare della musica e delle tradizioni del popolo Shipibo-Conibo. Il mondo shipibo è popolato da spiriti maligni e benigni. Tutto è dotato di spirito: il mondo naturale, perfino alcune pietre o fiumi. Gli shipibo concepiscono due dimensioni, quella del cielo e quella della terra, connesse da una scala, che lo sciamano cantando utilizza per contattare gli spiriti della natura, Dio, o i morti. Si disegna così un modello cosmico quadrangolare che serve da paradigma per l’arte shipibo. Le figure geometriche dell’arte del kenè2 sono presenti nella cosmologia ancestrale di questo popolo. Gli spiriti dei morti salgono su questa scala fino ad arrivare ad una croce davanti alla quale cantano per accedere al firmamento.3La certezza di una dimensione 1

La parola Nopoki è una parola di lingua ashàninka, e significa “sono qui, sono arrivato, sono a disposizione”, un significato che in qualche modo un po’ si identifica con la lezione che ho appreso da Don Carlo Iadicicco, soprattutto in questi ultimi anni. 2 Arte figurativa Shipibo. 3 RAFAEL GIRARD, Indios selvaticos de la Amazonia peruana, Ciudad del Mexico, Libro mex editores, 1958, pp. 249-251. 141


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spirituale esteriore alla realtà materiale fa sì che gli shipibo concepiscano l’esistenza di più anime per una sola persona. Queste anime coesistono e vengono rubate, secondo loro, nel momento in cui viene loro scattata una fotografia o viene registrata la loro voce.4 In tutti gli studi consultati sulla musica shipibo il canto e più in generale il concetto di musica vengono sempre associati ai rituali di cura, perlopiù legati al rituale dell’ayahuasca. L’ayahuasca è un decotto dall’effetto psicotropico ricavato dall’ebollizione di una liana, la banisteriopsis caapi, detta anche essa ayahuasca, e conosciuta anche come purga o liana della morte, con foglie di psychotria viridis, chiamata chacruna. L’uso di questo psicotropico è comune in tutte le etnie indigene dell’Amazzonia, ed è utilizzato in tutti i rituali sciamanici. Il termine sciamano è un termine comunemente utilizzato per definire la figura di un guaritore capace di manipolare l’ambiente naturale e sociale attraverso stati di trance, e deriva da una regione russa chiamata Tunguska.5 Their foremost healing tools are ‘Icaros’, specific traditional songs that are nevertheless recreated in the moment of treatment. With the help of these songs they penetrate the energetic pattern of a patient, comparable to a surgery tool, with the intention to clean and purify from harmful dark mist, or níhue.6

Ogni persona possiede un pattern unico, che può essere affetto da uno spirito maligno o dalla maledizione di un brujo. Qualsiasi malattia viene considerata dallo sciamanismo shipibo come una destabilizzazione di questo pattern che avviene a causa di uno sbilanciamento tra la realtà e “l’altra realtà”, quella degli spiriti. Illness always comes from an imbalance between the everyday reality and the world of spirits, the ‘other reality’.7

Compito dello sciamano è quello di individuare il pattern attraverso un icaro, scoprire questo sbilanciamento, e cantare per ristabilizzare l’equilibrio nel pattern del

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Questi aneddoti mi sono stati raccontati in prima persona da Samuèl Visango e Isa Soi, le mie guide al passato e al presente della cultura e della spiritualità Shipibo. 5 BERND BRABEC, “Sinchiruna Mìriko”, Un Canto Medicinal del Ayawaska en la Amazonìa Peruana, «Amazonia peruana», Vol XIV, n. 28-29 Dicembre 2003, Lima, Caaap., p. 148. 6 I loro principali strumenti di cura sono icaros, specifiche canzoni tradizionali che sono tuttavia ricreate durante il trattamento. Con l’aiuto di queste canzoni penetrano nel pattern energetico del paziente, come se utilizzassero chirurgia, con l’intenzione di pulire e purificare il pattern da dannose energie oscure, oppure nihue, SABINE RITTNER, Sound – Trance – Healing - The sound and pattern medicine of the Shipibo in the Amazon lowlands of Peru, Music Therapy Today Vol. VIII (2), p. 205. 7 La malattia viene sempre da uno sbilanciamento tra la realtà quotidiana ed il mondo degli spiriti, l’altra realtà, Ivi, p. 209. 142


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malato. È una vera e propria lotta tra lo sciamano, aiutato dai suoi spiriti alleati, e gli spiriti maligni, chiamati anche Nihué, oppure Yoshin. I rituali si svolgono esclusivamente di notte, nell’oscurità, nella casa dello sciamano. Dopo aver assunto una quantità moderata di ayahuasca, ed atteso un tempo che può variare da 15 minuti ad un’ora intera, lo sciamano inizia a cantare incessantemente per molto tempo. La sessione avvenuta a Tupac Amaru tra il 6 ed il 7 novembre 2016 è stata la prima a cui ho partecipato. É stata registrata nella capanna in cui abitavo, costruita di fianco alla chiesa con lo scopo di ospitare i preti itineranti che si fermano nel villaggio per celebrare e stare con la comunità. Samuel Visango, il saggio guida di questo viaggio che già avevo conosciuto l’anno precedente a Nopoki, si è presentato dopo il tramonto insieme a Guillermo Gallareta, suo cugino. Con noi c’era anche la professoressa Darinka Pacaya Diaz, docente di lingua spagnola presso l’università di Nopoki, che mi ha accompagnato a Tupac Amaru e ha condiviso con me i primi giorni di quell’esperienza. Guillermo conosceva alcune canzoni, e dopo mezz’ora in cui lui e Samuel mi avevano intrattenuto con dei racconti del villaggio mi cantò una canzone, Chomo kepenax iti. Raccontare aneddoti e miti locali è una prassi usuale nelle riunioni in cui è presente il canto, gli Shipibo amano raccontare i loro miti, una volta che si è entrati in confidenza con loro. Che non fosse un caso isolato l’avevo intuito avendo già ascoltato le registrazioni di Curiaca: quasi tutti i canti di quella sessione sono preceduti nelle registrazioni originali da narrazioni che spiegano il contesto delle canzoni. Prima di cantare Guillermo mi aveva indicato che stava per eseguire un bewà. Il Bewà è un canto individuale, intimista, che rappresenta sia la narrazione di una storia, molto spesso la storia di chi canta, oppure è un dialogo con gli spiriti della natura. Si usa a volte per chiedere il loro favore, oppure per mandare i propri pensieri all’esterno della persona, e chiarificare le proprie intenzioni alla selva. Il giorno successivo ci siamo riuniti di nuovo. Guillermo mi aveva confessato che il canto non gli era riuscito bene perché avrebbe avuto bisogno di bere un po’ di trago, termine che indica ogni tipo di bevanda alcolica. Grazie al trago e qualche biscotto Guillermo ed anche Samuel si sono lasciati andare ed hanno eseguito un bewà ed uno shirobewà il primo, ed un mashà il secondo. Il mashà è un canto che si riferisce sempre ad un’azione, un canto di convivialità, legato anche alle ritualità. Una voce, che illustra la storia, ha il compito di guidare il coro che successivamente la ripete. La prassi esecutiva è dunque prevalentemente responsoriale: il solista ha la precisa funzione di guida per riportare alla mente il testo. Non in tutti i mashà si può riconoscere un ritornello, caratterizzato dalla ripetizione di una cellula melodico-ritmica, ribattuta da 2 fino a 5 volte, secondo la prassi. Anche nel mashà è possibile trovare la volontà da parte del cantante di mandare il proprio pensiero fuori di sé. Per cantare un mashà solitamente si fa una ronda, ci si riunisce in cerchio e si accenna una specie di danza.

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Lo shirobewa è un canto la cui funzione è assimilata a quella del più conosciuto huayno peruviano, una canzone indirizzata ad una persona, una specie di canzone d’amore. Viene diretto solitamente ad una donna che spesso la richiede espressamente. Un canto che rappresenta l’intenzione del cantante di mandare un messaggio alla persona in questione. Può anche essere utilizzato come un canto di benvenuto o come un canto di arrivederci. Cantata da una o più persone, generalmente un massimo di tre, con gli stessi criteri del mashà. Tutti i canti, al di là delle funzioni specifiche, hanno una valenza al tempo stesso curativa-evasiva-ricreativa: dall’analisi e dalle osservazioni sui materiali raccolti risulta che certe tipologie utilizzate nei canti rituali sono rispecchiate nei canti di altro tipo. Ad esempio lo shirobewà ha un corrispettivo canto conviviale denominato allo stesso modo, che viene utilizzato nel corteggiamento o in qualsiasi situazione dedicatoria indirizzata ad una persona per affetto o stima; il bewà, che nei rituali serve a richiamare gli spiriti alleati dello sciamano, avvicina l’esecutore al mondo degli spiriti ed in generale è un canto di meditazione; il mashà, che nel rituale serve ad aumentare il potere mentale del paziente, si ritrova in qualsiasi tipo di situazione conviviale e descrive un’azione materiale come il pagaiare, il bere, il ballare grazie al suo forte impulso ritmico. L’11 ed il 12 novembre ho partecipato a due rituali di cura ad opera di Isa Soi, nipote acquisito di Samuèl, nella sua capanna a Tupac Amaru. La sessione dell’11 novembre è stata registrata in audio per intero, compresi i momenti di preparazione. Il 12 novembre, avendo fatto amicizia con la moglie di Isa Soi, Reshìn Sama, ho ascoltato e registrato due canzoni dedicate ed indirizzate specificamente a me. Reshìn Sama, anche conosciuta come Gladis, mi ha confidato di avere due allieve alle quali insegna i canti tradizionali del suo popolo, le sue nipotine Wendy e Susan. Il repertorio degli anni 60 del Novecento, registrato da un’équipe di tecnici nordamericani in seguito a diversi anni di insediamento nel luogo e di conoscenza della popolazione da parte di padre Gastòn Rousseau, sembrerebbe più complesso nelle melodie, autentico nel contesto perché spontaneo e non retribuito come nel caso delle mie registrazioni più recenti. È stato interamente registrato a Curiaca, villaggio della selva profonda, distante più di un giorno di canoa dall’insediamento in cui ho svolto le mie ricerche. La sessione di Curiaca, comunque, ha avuto una grande eco nel tempo, tanto che molte persone ne hanno memoria e Julio, un vecchio saggio della comunità di Santa Clara, adiacente a Tupac Amaru, mi ha detto di aver conosciuto padre Rousseau e di ricordare bene senza però poter confermare una data certa, ascrivendola tuttavia all’epoca che va dal 1963 al 1974.

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Per trascrivere il repertorio mi sono principalmente rifatto al metodo illustrato da Ignazio Macchiarella.8 Bisogna subito considerare, come suggerisce Macchiarella, che: l’idea di scrittura musicale della cultura occidentale, alla quale siamo normalmente abituati, nasce e si sviluppa storicamente in risposta ad esigenze di carattere prescrittivo, che, come tali, sono del tutto diverse da quelle, di carattere descrittivo, richieste in etnomusicologia.9

La necessità di descrivere e analizzare un fenomeno come quello del canto shipibo ha portato un adattamento dei criteri di trascrizione ad alcune specificità di questi canti. A causa della tipicità del ritmo si è valutata in un primo momento la possibilità di non adottare i segni di battuta. Tuttavia confrontando visivamente le due possibilità si è scelto di mantenerli poiché all’ascolto si nota molto bene la netta accentuazione dei tempi forti. In merito alle durate dei suoni, pur adottando i segni di battuta, si è indicato attraverso l’uso di punti coronati le numerose “cadenze”. Per le altezze dei suoni non ci sono stati particolari problemi esclusi alcuni casi di note leggermente calanti o crescenti che non sono state indicate. Un altro principio illustrato da Macchiarella e qui adottato è: di solito nella trascrizione si tende ad evitare una eccessiva presenza di accidenti al fine di facilitare la lettura, e si preferisce trasportare quelle melodie che notate nell’altezze reali risulterebbero ricche di alterazioni.10

Questo principio è stato utilizzato in entrambi i contesti dell’altezza e del ritmo, essendo poco precisa la prima ed eccessivamente vario il secondo. Nonostante la prassi preveda l’uso di cori alternati al solista, i brani registrati nel 2016 sono tutti realizzati da solisti. Le registrazioni della sessione di Curiaca prevedono invece alternanza fra soli e coro. Per quanto riguarda infine i testi mi sono avvalso di traduzioni in spagnolo commissionate al professore di lingua shipibo presso l’università Nopoki Saul Escobàr. Ho avuto la possibilità di partecipare e registrare in audio un intero rituale di cura ad opera dello sciamano Isa Soi.11 Il rituale si è svolto nella notte dell’11 novembre 2016 davanti alla capanna dello sciamano. Paziente un’anziana signora che aveva contratto febbre e forti dolori all’apparato digerente. Il rituale si è svolto in tre fasi.

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IGNAZIO MACCHIARELLA, Introduzione alla trascrizione della musica popolare, Università degli Studi di Bologna, 1989. 9 Ivi, p. 8. 10 Ivi, p. 40. 11 Tradotto in italiano Uccello elegante, nome che egli stesso mi ha dato alla fine di questa sessione. È uso comune dare il proprio nome ad uno straniero nel momento in cui lo si accetta nella comunità. 145


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La prima fase è stata di preparazione, in cui lo sciamano alla luce di una piccola lanterna a petrolio ha soffiato in una bottiglia in cui era presente l’ayahuasca, recitando delle invocazioni. Sul pavimento dell’abitazione c’erano una ciotola con del tabacco, un mazzo di foglie secche, un liquore, che lo sciamano ha usato per purificare la paziente. Nella seconda fase, parte centrale del rituale, sono state spente tutte le luci, e lo sciamano ha assunto il contenuto della bottiglia, dopodiché ha iniziato un canto quasi incessante che è durato due ore. Durante tutto il rituale le donne, compresa Reshìn Sama, sua moglie, hanno fumato la pipa tipica del popolo Shipibo, chiamata cashinbo, soffiandone il fumo sul corpo della paziente al fine di allontanare gli spiriti maligni. Nella terza fase lo sciamano ha finito il rituale e ha provveduto a massaggiare la paziente in alcuni punti accompagnando il movimento con suoni della voce. Il canto che ho scelto di analizzare è un bewà, il canto con il quale Isa Soi ha cominciato il suo rituale.

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Tipologia: bewà Durata: 05:25 Catalogo: canto-21 Sessione: Tupac Amaru, casa dello sciamano Isa Soi. Si è mossa12 verso il cielo|L’hanno mossa verso il cielo|Con il calore del mio corpo|Si è mossa,|scivolando|così sto facendo|nell’acqua|tutto il mio corpo|si è mosso|strisciando, scorrendo|ricamo,13 ricamando|tutto il mio corpo si è mosso|il cielo brillando si muoveva|la splendida giornata|egli portò|ora lo farà il mio corpo|il cielo si è mosso|dovete rimanere nel vostro villaggio|mio Dio14|abbi forza|la bellezza della pietra|il fermento dell’acqua florida15|il ricamo bianco|il ricamo bianco luminoso|io lo porto|il fermento dell’acqua florida|balla col fiore|ballando|ballando|ho fatto|il meraviglioso ricamo|si è mosso, si è mosso|si è mosso, si è mosso|ricamo meraviglioso|l’acqua florida fermentata contamina l’aria|la tenda ricamata|l’acqua florida fermentata contamina l’aria|fragrante, fragranza|il fulmine, far fulminare|io lo porto|si muoveva luminoso,|il mio ricamo, il ricamo|è il mio corpo|muovendo il cielo|io lo faccio|vado a cantare il mashà|sta seduto qui di fronte16|lo farò|benvenuto|al visitatore|mi incontrerai|con lo sballo dell’ayahuasca|tu luminoso, luminosissimo|lo farò|benvenuto giovane|sei venuto |città bianca|[...]|Ora che farai|Ti canterò|Voi pensate|Così io sto|Che sia brillante|Il mio disegno d’acciaio|glielo porrò sulla sta17|ricamiamo|così ho fatto io|nella ultima parte del corpo|così lo dirò|racconterò|sta nello stesso corpo|nello stesso corpo|chiamando al mio corpo.

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Riferimento alla paziente. Il concetto dell’anima come pattern: lo sciamano intende ricamare col canto per curare la paziente. 14 La religione cristiana è stata inglobata nello sciamanesimo, presa in considerazione ma non adottata esclusivamente. 15 Il fermento dell’acqua florida è un riferimento all’ayahuasca. 16 Riferimento a me, seduto su un tavolo, di fronte allo sciamano. 17 Un gesto protettivo che si fa prima del rituale, e che l’indomani lo sciamano ha effettivamente realizzato su di me. 13

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LE MUSICHE DEL POPOLO SHIPIBO

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Melodicamente il brano si muove in un intervallo di ottava, in una scala tetracordale. Nonostante non rispetti una caratteristica tipica del bewà, cioè la libertà e complessità melodica, questo brano è stato etichettato come tale a causa della struttura estremamente variabile e della posizione nel rituale, cioè come canto di apertura. La trascrizione è tuttavia melodicamente imperfetta in quanto l’intonazione dello sciamano tende a variare e ad essere calante o crescente in alcuni casi. Si possono distinguere nel testo tre differenti fasi, ritmiche e testuali: la prima di invocazione, molto lenta, la seconda in cui lo sciamano descrive ciò che farà parlando dei ricami e dell’ayahuasca, fase in cui il ritmo diventa più incalzante, la terza in cui si rivolge a me personalmente arrivando al finale in cui il ritmo rallenta. La metrica è variabile, e per questo motivo la struttura ritmico-melodica del brano subisce delle variazioni. Le note coronate descrivono non solo i rallentamenti nell’andamento ma anche la chiusura delle frasi, in cui la voce dello sciamano risulta flebile, in una specie di falsetto, caratteristica tipica dei bewà. Il tono del brano subisce un crescendo fino alla battuta 98, in cui lo sciamano rallenta ed abbassa i toni poiché il brano volge al termine. L’indicazione metronomica è indicata in maniera approssimativa. Trattandosi di un canto curativo bewà le parole insistono in maniera ossessiva sulla pratica medica e mirano ad invocare gli spiriti e la mia stessa benevolenza. Solo in un caso – indicato con l’omissis – non è stato possibile capire il testo. La cultura shipibo rappresenta un esempio lampante di diversità nella concezione stessa della musica, nonché nel suo ruolo socio-culturale. In principio è stato detto che la pratica musicale nella società shipibo si sta perdendo. La storia di questo popolo, i suoi legami con le culture circostanti, e la mia esperienza personale, lasciano degli spunti che raccontano una storia diversa. Gli Shipibo hanno fatto propria la saggezza delle culture con cui sono entrati in contatto: a cominciare dalla tessitura, rappresentata dal kenè, appresa dai missionari gesuiti, e poi fatta propria ed originale, l’uso della scrittura, la lingua, finanche alcuni aspetti delle religioni. Nonostante ciò comunque hanno conservato gelosamente almeno fino ad oggi la loro profonda connessione con la selva, il loro modo di vivere, le loro usanze. Mi è capitato di conoscere giovani delle comunità che mi hanno parlato di mashà, regalandomi delle registrazioni fatte da voci giovanili. È vero comunque che la definizione del genere di questi canti non può essere univoca, nel senso che non tutti sembrano essere mashà. È inoltre cambiata l’impostazione vocale: la voce non è in falsetto, bensì in voce piena. Ciò dimostra che con la prassi musicale in evoluzione ciò che si sta perdendo è la conoscenza dei principi su cui si fonda la stessa musica shipibo. Si può notare nella composizione estemporanea dei cantori l’evoluzione del tema di uno specifico canto che testimonia la necessità di dire qualcosa, presupposto stesso al canto. Questo elemento è riconoscibile anche dal fatto che spesso prima di cantare, i cantori raccontano una vicenda, presentano il proprio canto agli ascoltatori. Il bewà è il canto più raro da ascoltare essendo un canto intimista. Insieme al testo ciò che contribuisce a rendere tale questo tipo di canzone è il ritmo molto lento, sep151


PIETRO SGUEGLIA

pur variabile. La melodia infine risulta più libera degli altri due generi, nonostante in tutti e tre i generi analizzati la scala utilizzata è sempre semplice, e non supera la pentafonia. Il mashà è il genere ritmicamente più movimentato. Le note ribattute presenti in tutti i generi qui sono la base della costruzione melodica di un brano. Il testo del mashà è sempre breve, poiché i vari incisi vengono ripetuti molte volte, in modo da far cantare gli ascoltatori. Il ritmo è ostinato, anche nei mashà più lenti, e la melodia molto semplice, costretta, quasi bitonale. Lo shirobewà è sicuramente oggi il genere più diffuso tra gli Shipibo. La motivazione profonda che porta un cantore ad intonare uno shirobewà è più superficiale, più adatta a qualsiasi tipo di contesto, e trovare le parole risulta più semplice. Lo shirobewà può essere considerato a metà tra il bewà ed il mashà, in quanto non ha la grande libertà melodica del primo e non è invece ostinato ritmicamente e melodicamente come il mashà. È palese constatare quanto la cultura peruviana e nordamericana abbiano influenzato il gusto musicale shipibo, e ciò è visibile nelle loro celebrazioni odierne. Ciononostante sopravvive ancora una prassi ed una concezione musicale definita. I brani che ho potuto registrare sono custoditi gelosamente e tramandati alle nuove generazioni, che nonostante siano distratte dalle culture dominanti mantengono sempre di più un rapporto con la propria musica ancestrale. In alcuni momenti del mio viaggio ho potuto assistere, con un certo vanto da parte dei miei interlocutori, a descrizioni della loro cultura e della musica, da parte delle vecchie come delle nuove generazioni. La musica shipibo ha una forte componente spirituale, è stato già detto, ma questa componente spirituale è intrinseca in ogni momento della vita delle comunità. Gli Shipibo rispettano così tanto i loro canti che sono spesso reticenti in un primo momento a condividerli. L’attesa e la pazienza sono state le armi più importanti da utilizzare in questo specifico contesto, ma sono state ampiamente ripagate. Il senso ritmico dei cantori non è ascrivibile ad una struttura metrica compatibile con il sistema occidentale, ma ciononostante ha un andamento preciso, dettato sicuramente dallo stato d’animo del cantore. Lo stato d’animo contribuisce anche all’impostazione della tonalità, mentre risulta molto chiaro come l’utilizzo del falsetto sia concepito come l’utilizzo di un’altra voce esterna a quella del cantore, la voce del canto, che è tanto più acuta quanto più si cerca di attirare energie spirituali positive. Le melodie, seppure spesso non intonate secondo i canoni della musica occidentale moderna, presentano scale facilmente riconducibili alle pentatoniche tipiche dei popoli indigeni, per lo più in modo minore. Nei canti esistono strutture, variabili e quasi mai strettamente regolari, che variano in base al testo, molto spesso improvvisato su standard già noti. Sebbene sia basata sull’improvvisazione questa musica ha delle regole di cui si serve per il suo reale scopo: conservare la memoria collettiva e, in una sorta di preghiera, comunicare con la selva. 152


LE MUSICHE DEL POPOLO SHIPIBO

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Un argomento che diventa rilevante dall’analisi dei brani è l’utilizzo della ripetizione di alcuni concetti nel testo, primo fra tutti la frase “lo farò, lo sto facendo”, che apre una piccola parentesi sulla mentalità, il modo di vedere il canto della cultura shipibo. La ripetizione di incisi appartenenti al repertorio, come questo ed altri ancora, è uno strumento della composizione, serve a guadagnare tempo, a ricordare parti del testo, a comporre sulla melodia frasi che esprimano il concetto nato estemporaneamente che i cantori vogliono esprimere, il tema del canto. La necessità di farlo, di cantare e quindi di mandare il proprio canto fuori di sè, lontano, mi è stato spiegato da Samuèl Visango come un’esigenza comune di questi cantori, data dalla considerazione che la loro saggezza musicale è in estinzione, motivo principale che ha spinto quasi tutti i cantori che ho conosciuto a cantare per me, nella speranza che il loro canto arrivasse lontano, che venendo registrato durasse per sempre. Un lavoro di campo così breve, comunque, è sicuramente esiguo per poter trarre delle conclusioni definitive: questa tesi va intesa come un canovaccio che sintetizza ed unisce i tratti comuni delle ricerche già esistenti su questo specifico argomento, aggiungendo materiali inediti in un’area mai indagata, nella speranza di preservare un patrimonio che, al pari del suo luogo di provenienza, corre il rischio di scomparire.

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NOTE D’ARCHIVIO Maria Luisa Donatiello I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO. UNO SGUARDO ALLE ‘CARTE POVERE’ DELL’EDITORIA MUSICALE. Le biblioteche pubbliche dei Conservatori di Musica, custodi privilegiate del patrimonio bibliografico musicale in Italia, riservano spesso gradite sorprese. Tra manoscritti e pubblicazioni di ogni genere e di ogni epoca non si può che rimanere affascinati dalla ricchezza, dalla varietà dei materiali e dalla loro storia. Durante lo svolgimento di un progetto di collaborazione presso la Biblioteca del Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino, mi sono occupata del riordino di un particolare fondo denominato Dono Dell’Angelo. Il piccolo fondo costituisce una donazione del M° Mario Dell’Angelo, docente di musica d’insieme per archi presso lo stesso Istituto. Si tratta di una raccolta di cento fascicoli di Piedigrotta, pubblicati a Napoli da diversi editori negli anni compresi tra il 1899 e il 1926, di notevole interesse per il loro contenuto e la loro storia e contenenti 659 canzoni. I fascicoli di Piedigrotta sono pubblicazioni periodiche fiorite a Napoli a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che hanno rappresentato un fenomeno editoriale di larghissima popolarità per circa un secolo. Tali periodici erano pubblicati dai principali giornali e case editrici napoletane, come allegati o “numeri unici”, e contenevano gli spartiti per canto e pianoforte di nuove canzoni selezionate dagli editori nel corso di pubbliche audizioni per partecipare alla gara canora che si svolgeva in occasione della festa di Piedigrotta, tra il 7 e l’8 settembre di ogni anno. 1 Essi contenevano anche recensioni, articoli, note sugli autori e sugli interpreti, notizie di costume, inserti pubblicitari, fotografie e testi di natura letteraria. Queste singolari pubblicazioni periodiche sono state annoverate tra le carte povere dell’editoria musicale, ovvero tra quei prodotti a stampa destinati ad ampie masse, diffusi fra un pubblico molto eterogeneo, caratterizzati dall’impiego di poche pagine stampate su carta di scadente qualità.2 Esse consentivano, quindi, una diffusione trasversale della canzone a diversi strati della popolazione, offrendo prodotti economicissimi. 1

Una gara canora in occasione dei festeggiamenti per la Piedigrotta è già documentata a partire dalla prima metà dell’Ottocento. Sulla festa di Piedigrotta si veda FRANCO MANCINI, PIETRO GARGANO, Piedigrotta. I luoghi, le feste, le canzoni, Napoli, Guida, 1991. 2 La definizione carte povere è tratta da ROSA VISCARDI, Canta Napoli illustrata: paradigmi iconografici dell’industria culturale partenopea tra Ottocento e Novecento, Napoli, Sigma Libri, 2005, p. 7. 155


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Oggi queste pubblicazioni costituiscono il corpus di fonti superstiti più significativo e organico per la storia dell’epoca d’oro della canzone napoletana (1880-1930). Tra le diverse edizioni di Piedigrotta le più note sono: la Piedigrotta del Monsignor Perelli, la Piedigrotta del Pierrot Artistico Musicale, la Piedigrotta Mario, la Piedigrotta Pierro, la Piedigrotta Marechiaro, la Piedigrotta Mattiello, la Piedigrotta De’Giornalai, la Piedigrotta Morano, la Piedigrotta delle Signorine. Tra tutte, si distingue la Piedigrotta pubblicata dall’editore Ferdinando Bideri come numero unico del periodico napoletano illustrato più popolare, più venduto e più letto in città, La tavola Rotonda, sottotitolata La Cronaca Bizantina e ispirata alla rivista dell’editore romano Angelo Sommaruga Le Cronache Bizantine. A Ferdinando Bideri, il più innovativo e longevo editore di canzoni a Napoli, si deve la pubblicazione del primo fascicolo di Piedigrotta dato alle stampe nel 1880. Fu proprio a partire dal 1880 che, grazie alla collaborazione tra Associazione dei Commercianti napoletani, Banco di Napoli e Comune di Napoli, la festa assunse toni di particolare ricchezza e riuscì a conferire nuovo vigore all’economia della città, proiettandola addirittura sulla scena internazionale.3 Collegate al concorso canoro, le Piedigrotte pubblicavano le canzoni che erano state premiate da una commissione di esperti, capeggiate dagli editori, e che avevano riscosso il maggior successo di pubblico durante le “audizioni” organizzate dalle case editrici nei teatri, nelle piazze, nelle sale da concerto durante tutta l’estate.4 Il regolamento della competizione usciva annualmente in primavera. Ciascun editore reclutava la propria ‘scuderia’ di compositori, parolieri, arrangiatori, strumentisti e interpreti, per dar vita a un certo numero di nuove canzoni con cui partecipare alla gara. Per tutta l’estate le canzoni erano proposte al pubblico in ogni luogo della città. Tra l’ultima settimana di agosto e la prima settimana di settembre gli editori mettevano in vendita le ‘Piedigrotte’ che pubblicavano le canzoni che erano state più applaudite e che avrebbero partecipato al concorso canoro di settembre durante il quale sarebbero state proclamate le canzoni vincitrici. Solo a queste, il mercato editoriale avrebbe destinato, successivamente, vere e proprie edizioni musicali, di bella qualità, riccamente illustrate e notevolmente più costose. I numeri di questo straordinario fenomeno commerciale non sono del tutto noti, anche perché ancora non è stata fatta una catalogazione sistematica di tutte le fonti sopravvissute e, a oggi, non è possibile sapere quante sono le canzoni napoletane scritte nel periodo d’oro compreso tra il 1880 e il 1930. E’ stato stimato che ciascun editore

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La canzone napoletana. Tra memoria e innovazione, a cura di Anita Pesce e Marialuisa Stazio, Napoli, Consiglio Nazionale delle Ricerche-CNR, Istituto di Studi del Mediterraneo-ISSM, 2013. 4 PIETRO GARGANO, Audizioni in Nuova Enciclopedia Illustrata della Canzone Napoletana, vol.1, Napoli, Magmata, 2006, sub voce. 156


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO

portasse al concorso di Piedigrotta tra le 60 e le 300 canzoni ogni anno e che i soli editori musicali iscritti alla Camera di Commercio di Napoli, e attivi ufficialmente come editori di canzoni in quegli anni, furono almeno venti.5 Per valorizzare e continuare a far vivere questi patrimoni serve oggi una decisa volontà di salvaguardia e valorizzazione che parta dalla catalogazione delle fonti per giungere alla ricostruzione storica di percorsi culturali e processi di sviluppo legati a quest’arte. Nel caso della canzone napoletana la volontà di recupero della tradizione in una prospettiva storica risulta più difficile perché il genere della canzone viene considerato un genere minore rispetto a quello dell’opera lirica o della musica vocale da camera e perché i documenti cartacei relativi alla canzone sono spesso trascurati o accantonati in molte delle numerose biblioteche che conservano questi materiali. Per tale motivo si è proceduto alla stesura del catalogo del Dono Dell’Angelo, che consta di cento schede, relativa ognuna a un fascicolo di Piedigrotta. Si è proceduto, naturalmente, anche allo spoglio dei fascicoli: sono stati riportati i titoli delle canzoni nell’ordine in cui si presentano all’interno delle pubblicazioni con i relativi nomi degli autori dei testi e delle musiche, l’anno, il luogo di pubblicazione e il nome dell’editore. Il numero progressivo assegnato a ogni scheda nel catalogo seguente corrisponde anche all’effettiva collocazione del fascicolo all’interno del Dono Dell’Angelo nella biblioteca del Conservatorio di Avellino. CATALOGO 1) Piedigrotta ’99. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 27 agosto 1899 (anno 9 n.28-29) Primo numero dei quattro straordinari. Contiene: 1) 'A serenata d' 'e rrose / musica di E. Di Capua ; versi di V. Russo 2) 'O vizio 'e Teresina / musica di G. de Gregorio ; versi di A. Fiordelisi 3) Rusinella / musica di A. Mangini ; versi di A. Califano 4) 'A spagnola / versi e musica di G. B. De Curtis 5) Solfeggio parlato / versi e musica di E. Galgani 6) 'O zzucchero! / musica di G. Salzano ; versi di G. Andreassi 2) Piedigrotta '99. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 2 settembre 1899 (anno 9 n.32-33) Terzo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) ‘E culimbrine / musica di G. De Crescenzo ; versi di N. Viscillo 2) Fra Bisecolo / musica di D. De Caro ; versi di V. Stoppelli 5

Sul contesto materiale, sociale ed economico del mercato della canzone napoletana si veda: ROSDEL PRETE, La città del loisir. Il sistema produttivo dello spettacolo dal vivo a Napoli tra ‘800 e ‘900, in La canzone napoletana. Tra memoria e innovazione, cit., pp. 121-163. SELLA

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Stornelli napoletani / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano I' penzo sempre a te / musica di E. De Curtis ; versi di A. Genise Catarì…Catarì / musica di L. De Luca ; versi di F. Feola Maria, Marì! / musica di E. Di Capua ; versi di Russo Vincenzo Rindondì…Rindondà!... / musica di A. Montagna ; versi di L. Fragna ‘O cacciatore / musica di V. Valente ; versi di F. Russo Les Parisien : (duetto) / versi e musica di G.F. Buongiovanni

3) Piedigrotta ’99. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 4 settembre 1899 (anno 9 n.34-35) Quarto numero straordinario. Contiene: 1) Tutta core!... / musica di E. di Capua ; versi di P. Cinquegrana 2) Piccerella piccerè / musica di V. di Chiara ; versi di G.B. de Curtis 3) La caccia : (canzonetta sport) / musica di L. De Luca ; versi di F. Feola 4) S. Lucia a mmare / musica di G. De Gregorio ; versi di P. Cinquegrana 5) ‘O surdato / musica di De Crescenzo ; versi di M. Testa 6) ‘O nureco! / musica di A. Mattiacci ; versi di A. Barbieri 7) Fanny / musica di N. Valente ; versi di F.A. Bonenzio 4) Piedigrotta 900. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 1 settembre 1900 (anno 10 n.33-34) Primo dei quattro numeri straordinari Contiene: 1) Nu brutto naturale! (macchietta) / musica di G. De Gregorio ; versi di A. Barbieri 2) La Rosa / musica del M° A. Grandi ; versi di A. Gargano 3) ‘O jettatore (canzonetta di attualità) / musica di V. Valente ; versi di P. Cinquegrana 4) Doppo tre anne… (duettino patetico) / musica di A. Montagna ; versi di V. Stoppelli 5) Serenata nova!... / musica di E. Di Capua ; versi di Vincenzo Russo 6) Mia suocera! (macchietta dal vero) / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 5) Piedigrotta 1901. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 1 settembre 1901 (anno 11 n.33-34) Secondo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) Mattinata! / musica di V. Valente ; versi di M. Della Campa 2) Trezza d'oro! / musica di E. Di Capua ; versi di P. Cinquegrana 3) ‘E ffemmene surdate! / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 4) Mmieze mare / musica di V. De Crescenzo ; versi di R. d'Andrea 5) Dimmelo, Magari! / musica di G. Salzano ; versi di V. Russo 6) Il passaggio d'una banda (marcia cantabile) / musica di A. Montagna ; versi di L. Mattiello 6) Piedigrotta 1901. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7 settembre 1901 (anno 11 n.37-38) Quarto ed ultimo numero straordinario. Contiene: 1) Palomma mia! / musica di V. Di Chiara ; versi di G. Capurro 158


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 2) 3) 4) 5) 6) 7)

Filumè! Filumè! /musica di E. Di Capua ; versi di Vincenzo Russo 'O Permesso / musica di V. Valente ; versi di G. Capurro Jett' 'o bbaleno! / musica di G. De Gregorio ; versi dei signori Lardini e Ruber Nannì, Nannì! / musica di S.Gambardella ; versi di V. F. Guarino Don Ciccillo! (canzone popolare) / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano ‘A Pendenza / musica di V. Valente ; versi di F. Russo

7) Piedigrotta 1902. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 1 settembre 1902 (anno 12 n.34-35-36) Primo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) La Geografia! / musica di A. Calzelli; versi di A. Ariento 2) Pittura, musica e poesia (Bozzetto romanesco) / versi e musica di A. Calzelli 3) Io ve vengo arreto!... (Duetto comico) / musica di G. De Gregorio; versi di L. Mattiello 4) Carmè! Carmè! (Canzone popolare) / musica di E. Di Capua; versi di A. Califano 5) Addio, Cermè!...(canzonetta marcia) / musica di C. Fanti; versi di G. Capurro 6) Serenata a mmare / musica di S. Gambardella; versi di A. Califano 8) Piedigrotta 1902. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 3 settembre 1902 (anno 12 n.37-38-39) Secondo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) ‘A lezzion' 'e Mandulino / musica di V. Valente; versi di F. A. Bonenzio 2) A ssuono 'e chitarra ('A cchiù bella serenata) / musica di G. F. Buongiovanni; versi di G. Capurro 3) Filumè! Filumè! (aria appassionata) /musica di E. Di Capua ; versi di V. Russo 4) ‘Ngiulì! 'Ngiulì! / musica di E. Di Capua; versi di V. Russo 5) Amalia / musica di E. De Curtis; versi di G. B. De Curtis 6) M'ha fatto male / musica di S. Gambardella; versi di F. Guarino 9) Piedigrotta 1902. La tavola rotonda Napoli. Bideri, 5 settembre 1902 (anno 12 n.40-41-42) Terzo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) ‘A staggiona bella / musica di G. Capolongo ; versi di D. Del Gaizo 2) Il sedicente superstite / musica di V. Valente; versi di F. Russo 3) Guì! Guì! (Ouì! Ouì!) / musica di S. Gambardella; versi di V. F. Guarino 4) Povera abbandunata! (Canzone appassiunata) / musica di E. Di Capua; versi di V. Russo 5) La ginnastica! (Duetto eccentrico) / musica di E. Di Capua; versi di L. Mattiello 6) Il Cicerone / musica di A. Calzelli; versi di F. Russo 7) Sabella! / musica di G. De Gregorio; versi di F. A. Bonenzio 10) Piedigrotta 1902. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7 settembre 1902 (anno 12 n.43-44-45) Quarto ed ultimo numero straordinario. 159


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Contiene: 1) Nel cafè chantant (Les Habituès) (marcia cantabile) / musica di A. Montagna; versi di L. Matitello 2) ‘E ccap' 'e 'mbrelle! ( 'E ssurelle Farbalà) / musica di S. Gambardella; versi di A. Califano 3) Marenà, marenà! (Barcarola) / musica di E. Di Capua; versi di Vincenzo Russo 4) Che ffacimmo accussì? ( Canzone tarantella) / musica di E. Di Capua; versi di A. Califano 5) Comme 'a na fronna… / musica di S. Gambardella; versi di V. F. Guarino 6) L'automobilista / musica di G. De Gregorio; versi di Ugo Ricci (Mascarillo) 11) Piedigrotta 1903. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 1 settembre 1903 (anno 13 n.29-30-31) Primo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) Vocca 'e curallo / musica di G. F. Buongiovanni; versi di V. Russo 2) Palummella mia! ( Fantasia 'e notte) / musica di E. Di Capua; versi di V. Russo 3) Sciòsciame, Carulì ('A canzone p'e' bbagne) / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 4) ‘A Canzone guappa ! / musica di R. Segrè ; versi di A. F. Bonenzio 5) Il magistrato / musica del cav. V. Valente ; versi di C. O. Lardini 6) ‘O ritorno d'America doppo diece anne (Duettino sentimentale) / musica di A. Montagna ; versi di D. Del Gaizo 7) Rusinella / musica di A. Mangini ; versi di A. Califano 12) Piedigrotta 1903. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 3 settembre 1903 (anno 13 n.32-33-34) Secondo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) L'enfant terrible! / musica di G. De Gregorio ; versi di U. Ricci (Mascarillo) 2) Vita militare / versi del tenente P. E. Bosi ; traduzione di A. Barbieri 3) L'inventore / musica di V. Valente ; versi di U. Ricci (Mascarillo) 4) Madama Chichierchia (gran successo, primo premio al concorso de la "Tavola Rotonda") / musica di S. Gambardella ; versi di A. Alifano 5) Dolci baci (polka di A. Casolla) 6) ‘O butirro 'e Surriento (premiata al concorso de “La tavola rotonda") / musica di E. Di Capua ; versi di G. Capurro 7) Carmeniè, ppo ppo! / musica di G. F. Buongiovanni ; versi di G. Capurro 13) Piedigrotta 1903. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 5 settembre 1903 (anno 13 n.35-36-37) Terzo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) Numero di centro ! / musica di A. Montagna ; versi di A. Barbieri 2) E stiratrice (canzone premiata al concorso de la " Tavola Rotonda") / musica di A. Mangini ; versi di A. Califano 3) Marenariello mio ! (premiata al concorso de la " Tavola Rotonda") (canzone marinaresca) / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 160


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 4) ‘A dispettosa (canzone premiata al concorso de la "Tavola Rotonda") / musica di G. De Gregorio ; versi di F. Russo 5) Il compositore ! / musica di E. Galgani ; versi di Kosta Von Galged 6) ‘O rilogio (canzone premiata al concorso de "La tavola rotonda") 14) Piedigrotta 1903. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7 settembre 1903 (anno 13 n.38-39-40) Quarto ed ultimo numero straordinario. Contiene: 1) ‘A munacella! / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 2) Il doganiere (canzone di N. Maldacea) / musica di V. Valente ; versi di O. Lardini 3) Tutto è passato ! (primo premio al concorso de la "Tavola Rotonda") / musica di E. Di Capua ; versi di V. Russo 4) ‘A canzone d' 'e guappe! / musica di S. Gambardella ; versi di V. F. Guarino 5) ‘O penziero d' 'o suldato! (canzone marcia) / musica di G. F. Buongiovanni ; versi di V. Russo 6) ‘O cane 'e cumanno! / musica di G. De Gregorio ; versi di G. Capurno 7) Il sarto da donna! (creazione di N. Maldacea) / musica di V. Valente ; versi di E. Nicolardi ( C. O. Lardini) 15) Piedigrotta 1904. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 1 settembre 1904 (anno 14 n. 1-2-3) Primo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) L'urdema canzona mia! (Tutto è fernuto!) / musica di E. Di Capua ; versi di V. Russo 2) La proprietà (canzone dell'artista Emila Persico) / musica di E. Galgani ; versi di A. Fiordelisi 3) Nannina Bella! / musica di Tenente Fusco , versi di A. Califano 4) Margarì! Margarì! / musica di S. Gambardella ; versi di V. Russo 5) ‘A serenata a Masto Achille ( creazione della diva napoletana signorina Antonietta Rispoli ; eseguita con successo dall'Artista Mongelluzzo al Caffè Turco) / musica di G. Giannelli ; versi di A. Federici 6) Il Capotreno / musica di A. Vagnetti ; versi di U. Ricci (Mascarillo) 16) Piedigrotta 1904. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 3 settembre 1904 (anno 14 n.4-5-6) Secondo dei quattro numeri straordinari. Contiene: 1) ‘E Finanziere! / musica di R. Segrè ; versi di N. Viscillo 2) Il prudente / musica di A Vagnetti ; versi di Trilussa 3) Nun durmì! / musica di E. Di Capua ; versi di V. Russo 4) Tarantella c''o sigreto! musica di E. Cannio ; versi di G. Capurro 5) Femmena aggraziata / musica di S. Gambardella ; versi di Ferrara-Correra 6) Il Bernoccolo (creazione di Nicola Maldacea) / musica di L. De Luca ; versi di B. Rossi 7) ‘E doie stagione / musica di S. Gambardella ; versi di V. Gubitosi

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17) Piedigrotta 1905. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 3 settembre 1905 (anno 15 n.12-13-14) Secondo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) ‘E capille 'e Salvatore / musica e versi G. Speciale 2) La Ballerina / musica di V. Avlente (sic per Valente) ; versi di C. O. Lardini 3) ‘A canzone p' 'e Ssignurine! (all'Esimia Artista Emilia Persico; Il più gran successo pei Cafè-chantant) / musica di A. Montagna ; versi di A. Califano 4) Quanno sponta 'o sole! / musica di S. Gambardella ; versi di D. Del Gaizo 5) ‘A capa sciacqua! / musica di A. Montagna ; versi di L. Mattiello 6) Canzona bella / musica di E. Di Capua ; versi di V. Russo 18) Piedigrotta 1905. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 5 settembre 1905 (anno15 n.15-16-17) Terzo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) ‘A munacella / musica di S. Gambardella ; versi di G. Capurro 2) Pensate 'a salute! / musica di A. Montagna ; versi di L. Mattiello 3) Tarantella d' 'e vase! / musica di S. Gambardella ; versi di F. Ferrara-Correra 4) ‘O core mio! / musica di E. Di Capua ; versi di V. Russo 5) So' turnato! / musica di C. Fanti ; versi di L. Mattiello 6) ‘O marito d''a mugliera! / musica di E. di Capua ; versi di L. Mattiello 7) Penzatece / musica di E. Di Capua ; versi di A. Barbieri 19) Piedigrotta 1905. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 5 settembre 1905 (anno 15 n.18-19-20) Quarto dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Margarì! / musica di E. Di Capua ; versi di A. Genise 2) Voce 'e notte! (GRAN SUCCESSO) / musica di E. De Curtis ; versi di C. O. Lardini 3) Core nfame! / musica di E. Di Capua ; versi di Vinc. Russo 4) Sott' 'o barcone / musica di E. De Curtis ; versi di G. B. De Curtis 5) Lilì Cangy ('A stella d''o Cafè-Chantant) / musica di S. Gambardella ; versi di G. Capurro 6) ‘A nfamità d''e ffemmene! / musica di S. Gambardella ; versi di L. Fragna 7) Non faccio per dire! (Macchietta tipica) / musica di V. Valente ; versi di L. Mattiello 20) Piedigrotta 1905. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 6 settembre 1905 (anno 15 n.21-22-23) Quinto e ultimo numero straordinario. Contiene: 1) Nun me guardate cchiù! / musica di S. Gambardella ; versi di F. Russo 2) Il milionario / musica di L. Fragna ; versi di A. Barbieri 3) La Pittrice / musica di A. Montagna ; versi di L. Mattiello 4) Sissignore…e vvoglio! (creazione di N. Maldacea) / musica di E. Di Capua , versi di E. Murolo (Ruber) 5) ‘O mare 'e Napole! (a Ferdinando Russo) / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 162


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 6) 7) 8) 9)

‘O surdato scuntento / musica di E. Cannio ; versi di A. Califano Mariabella (al duca Luigi Dusmet) / versi e musica di G. B. De Curtis Torna a Surriento (gran successo) / musica di E. De Curtis ; versi di G. G. De Curtis Serenata Scucciosa / musica di E. Di Capua e S. Gambardella ; versi di L. Fragna

21) Piedigrotta 1906. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 1 settembre 1906 (anno 16 n.33-34-35) Primo dei cinque numeri straordinari seconda edizione. Contiene: 1) ‘A Vennegna / musica di V. Valente ; versi di G. Capurro 2) Cinematografì, cinematografà (canzonetta d'occasione) / musica di E. Galgani ; versi di G. Capaldo 3) Un ricordo / walzer di Orazio Magaldi 4) ‘A surrentina / musica di E. De Curtis ; versi di G. B. de Curtis 5) Mmiez' 'e rrose / musica di E. di Capua ; versi di G. Irace 6) Mannaggia 'a mugliera / musica di R. Segrè ; versi di A.Califano 7) Tutta bella / musica di V. Di Chiara ; versi A. Barbieri 22) Piedigrotta 1906. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 3 settembre 1906 (anno 16 n.36-37-38) Secondo dei cinque numeri straordinari seconda edizione. Contiene: 1) Signora mia / musica di D. Napoletano ; versi di G. B. De Curtis 2) ‘O munno accussì ba! / musica di S. Gambardella ; versi di P. Cinquegrana 3) ‘O disertore / musica di E. Cannio ; versi di G. B. De Curtis 4) ‘A furastera / musica di E. Di Capua ; versi di Bovio e Murolo 5) Bella straniera / traduzione ritmica di B. Chiara 6) ‘O portafoglio / musica di A. Montagna ; versi di G. Capaldo 7) La spagnola (bolero) / versi e musica di V. Di Chiara 8) Lo spagnolo / traduzione ritmica della Spagnola di A. Genise 9) Matenata d'Abbrile / musica di G. B. De Curtis ; versi di A. Genise 23) Piedigrotta 1906. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 5 settembre 1906 (anno 16 n.39-40-41) Terzo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Nunziatì (gran successo) / musica di E. Cannio , versi di A. Genise 2) Te vene a mmente?.../ musica di Ernesto De Curtis , versi di G. B. De Curtis 3) Serenatella amara (a donna Sofia dei Monasteraci) / creazione dell'artista D. Giannini; musica di F. Caldarelli ; versi di F. Russo 4) Margarì! duorme duo'… / musica di V. Di Chiara ; versi di G. Casilli 5) ‘O Marenare mio! (Barcarola appassiunata) / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 6) Luntano 'a Napole (marcia militare) / musica di R. Segrè ; versi di A. Califano 24) Piedigrotta 1906. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7 settembre 1906 (anno 16 n.45-46-47) 163


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Quinto ed ultimo numero straordinario. Contiene: 1) ‘O core mio… (a Maria) / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 2) Tu sola! / musica di S. Gambardella ; versi di F. Russo 3) ‘O prevete pazzo / musica di S. Gambardella 4) ‘A canzona 'e Piererotta ( canzonetta tipica napoletana con accompagnamento di nacchere, tamburelli, triccaballacche, scetavajasse, caccavelle e putipù) / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 5) ‘O surdato napulitano napule mio! (canzone -marcia ) (Ad Antonietta Rispoli) / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 6) Mana luntana / musica di E. De Curtis , versi di E. Murolo 7) ‘O vasillo (Duettino) / musica di E. Cannio ; versi di A. Califano 8) Ammore! 'Ammore! (da cantarsi sul motivo d' 'O vasillo) / musica di E. Cannio ; versi di A. Califano 25) Piedigrotta 1907. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 1 settembre 1907 (anno17 n.38-39-40) Terzo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Accussì! / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 2) Nun tiene core / musica di Paul Longone ; versi di Aniello Califano 3) Dimme… / musica di S. Gambardella ; versi di E. Murolo 4) Sotto n'albero 'a ulive / versi e musica di G. B. De Curtis 5) Nenna né, ca staie 'mbalcone / musica di E. Di Capua ; versi di E. Murolo 6) ‘E difiette d' 'e ffemmene / musica di E. Cannio ; versi di G. Capaldo 7) La cameriera d'albergo / musica di V. Valente ; versi di Mascarillo 26) Piedigrotta 1907. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 3 settembre 1907 (anno 17 n.41-42-43) Quarto dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) La parigina / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Genise 2) Tarantella malandrina / musica di E. Galgani ; versi di G. Capaldo 3) Sapite…pecchè? / musica di E. Cannio ; versi di G. Irace 4) Faciteme felice! / musica di E. De Curtis ; versi di V. Russo 5) Rusinella / musica di E. Di Capua ; versi di G. Suppa 6) Dint' 'a 'stu core… / musica di E. Cannio ; versi di A. Califano 7) Serenata a Surriento / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 8) Il cavaliere del lavoro / musica di V. Valente ; versi di I. Magnaud 27) Piedigrotta 1908. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 20 agosto 1908 (anno 18 n.30-31-32) Primo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Te si' scurdato? / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Califano 2) La bella Andalusa / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 3) Sola cu mme! (Barcarola) / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 4) Voga luntano… / musica di A. Montagna ; versi di S. Ragosta 164


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 5) Cielo bello! (canzona 'e suldate) / musica di R. Segrè ; versi di E. A. Mario 6) Nun so' cchiù io! / musica di E. Scuotto ; versi di S. Ragosta 28) Piedigrotta 1908. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 2 settembre 1908 (anno 18 n.39-40-41) Quarto dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) L'arte d' 'o sole / musica di S. Gambardella ; versi di G. Capaldo 2) L'andalusa napulitana / musica di E. Cannio ; versi di G. Capurro 3) Nun t'affaccià! (serenata) / musica di E. Di Capua ; versi di L. Fragna 4) Pusilleco e Surriento / musica di E. de Curtis ; versi di G. B. De Curtis 5) ‘A capa quanno 'a miette? / musica di V. Di Capua ; versi di G. Capurro 6) Nun me lassà! (canzone marcia) / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 7) ‘Na Vela (Marenà…) / versi e musica di F. Cangiullo 8) Al confessore…/ versi e musica di R. Segrè 29) Piedigrotta 1908. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 4 settembre 1908 (anno 18 n.42-43-44) Quinto dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) E' partuto! (canzone marcia) / musica di E. Cannio ; versi di A. Califano 2) Nun me vuo'bene! / musica di E. De Curtis ; versi di A. Barbieri 3) Quanno siente 'o mmaretà / musica di S. Gambardella ; versi di G. Irace 4) Mbraccia a me! / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 5) Primm''e partì p'America (Duetto) / musica di E. Di Capua ; versi di G. Capaldo 6) ‘A Panettera nova ("'A sparata d''o pazzariello") / musica di S. Gambardella ; versi di G. Capaldo 7) Rosa 'e Maggio! / musica di E. Di Capua ; versi di G. Irace 30) Piedigrotta 1909. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1909 (anno 19 n.29-30-31) Primo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Umanesimo / musica del Cav. V. Valente ; versi di I. Magnaud 2) Serenatella appaurata / musica di E. Di Capua ; versi di G. Capurro 3) Comm' 'o sole / musica di V. Fassone ; versi di G. Capaldo 4) Bella mia! / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 5) Suonno 'e giuventù! / musica di S. Gambardella , versi di G. Irace 6) ‘A vulesse!... (Canzonetta comica) / musica di E. Cannio ; versi di F. A. Bonenzio 7) La bella di Granata / musica di V. Roessinger ; versi di A. Califano 31) Piedigrotta 1909. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1909 (anno 19 n.32-33-34) Secondo dei numeri straordinari. Contiene: 1) Vi vorrei baciar… / versi e musica di V. Di Chiara 2) ‘O suldato stunato / musica di E. Di Capua ; versi di G. Capurro 165


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3) L'onne d' 'o mare / musica di S. Gambardella ; versi di R. Ferraro-Correra 4) ‘A luntananza d' 'o surdato (Canzone marcia) / musica di E. Cannio ; versi di A. Califano 5) Napulità… / musica di V. Fassone ; versi di G. Irace 6) ‘A caccia (macchietta) / musica di E. Galgani ; versi di F. A. Bonenzio 7) Marì!... (Lèvame) / musica di G. Priore ; versi di L. Recitano 32) Piedigrotta 1909. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1909 (anno 19 n.35-36-37) Terzo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Ngiulinè! (I' vaso a te… tu vase a me) / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 2) Ammore 'e marenare (Barcarola) / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 3) Ammore fridde / musica di E. Cannio ; versi di G. Capaldo 4) Pane e cepolle (vocca 'e cerasa!) / musica di E. De Curtis / versi di G. B. De Curtis 5) ‘O girasole! / musica di S. Gambardella ; versi di G. Irace 6) ‘A serenata d''o suldato (Affàccete, Marì!) / musica di E. Cannio ; versi di F. A. Bonenzio 7) La lettera di Achille / musica di E. Galgani ; versi di F.A. Bonenzio 33) Piedigrotta 1909. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1909 (anno 19 n.41-42-43) Quinto dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Palummella / musica di V. Di Chiara , versi di G. Capurro 2) Canta pe'me… / musica di Ernesto De Curtis ; versi di L. Bovio 3) La suonatrice di "Kamisa" / musica di E. Galgani ; tre sonetti di Theo 4) ‘A cchiù bella 'e Napule! / musica di E. De Curtis ; versi di G. B. De Curtis 5) ‘E Serene 'e Marechiare / musica di S. Gambardella ; versi di A. Cinque 6) Fance spusà! (marcia) / musica di F. S. Cataldo ; versi di F. A. Bonenzio 7) ‘A zarellara / musica di E. Di Capua ; versi di G. Capurro 8) ‘E cappielle d' 'e ffemmene (I cappelli delle donne) / versi e musica di L. Mattiello ; traduzione ritmica italiana di L. Mattiello 34) Piedigrotta 1910. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1910 (anno 20 n.26-27-28) Primo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Dint' 'a nuttata (ammore sperduto ) / musica di G. Spagnolo ; versi di A. Genise 2) ‘A Rossa 'e copp' 'o Vommero / musica di E. De Curtis ; versi di G. B. De Curtis 3) Margaretè! / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 4) Bella ca puorte 'e zuòccole… / musica di F. Pugliese ; versi di E. A. Mario 5) La mia rosa / musica di C. Mirelli ;versi di R. Galdieri (Rambaldo) 6) Stornelli Napolitani / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 35) Piedigrotta 1910. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1910 (anno 20 n.29-30-31) 166


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO Secondo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) ‘A nnammurata d' 'o bersagliere (marcia) / musica di V. Fassone ; versi di G. Irace 2) Nun me vo' bene! / musica di V. Di Chiara ; versi di L. Recitano 3) Stornelli trecenteschi (il menestrello) (canzone della finissima artista Yvonne De Fleuriel) / musica di C. Mirelli ; versi di R. Galdieri 4) ‘E ffemmene d' 'o Vommero (canzonetta popolare) / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 5) Arricamanno… / musica di G. Spagnolo ; versi di E. Milano e A. Caso 6) Ammore vicino / musica di F. Pugliese ; versi di E. A. Mario 36) Piedigrotta 1910. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1910 (anno 20 n.32-33-34) Terzo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Fa chello che dich'i'! / musica di F. Cangiullo ; versi di A. Califano 2) La tirolese (canzone della Yvonne De Fleuriel) / musica di C. Mirelli ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 3) Serenata a Posillipo (al Barone Alfonso Compagno) / musica di S. Gambardella ; versi di G. Pupino-Carbonelli 4) Mia cara Giulietta! (marcia) / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 5) ‘O sfelenza (ammore 'e guaie!) / musica di S. Gambardella ; versi di G. Capurro 6) ‘O sciacquante d' 'a Cantina / musica di E. Cannio ; versi di G. Capaldo 7) Vaco ascianno 'na guagliona 'nzista! / musica di G. Spagnolo ; versi di S. Ragosta 37) Piedigrotta 1910. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1910 (anno 20 n.38-39-40) Quinto dei numeri straordinari. Contiene: 1) L'ingenua! (Gigina) / musica di C. Mirelli ; versi di Mimì Albin 2) Questa non si tocca? / musica di V. di Chiara ; versi di A. Barbieri 3) Mare, mare mio! / musica di S. Gambardella ; versi di A. Panzuti 4) Sora mia! / musica di E. de Curtis ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 5) Vocca bella! / musica di E. Di Capua ; versi di A Barbieri 6) Voce a mare! / musica di G. Spagnolo ; versi di E. A. Mario 7) A chi vuò repassà? / musica di S. Gambardella ; versi di A. Barbieri 38) Piedigrotta 1910. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1910 (anno 20 n.41-42-43) Sesto dei numeri straordinari. Contiene: 1) Balcone 'nchiuso! (serenatella amara) / musica di V. Fassone ; versi di G. Capaldo 2) Canta, oj' Marenà (barcarola) / musica di E. Di Capua ; versi di A. Califano 3) Le strofe del Postino (creazione della valentissima artista Yvonne De Fleuriel) / musica di C. Mirelli ; versi R. Galdieri (Rambaldo) 4) Nfama che si'! / musica di E. De Curtis ; versi di G. B. De Curtis 5) Campaniello d'oro / musica di V. Fassone ; versi di G. Capaldo 6) Hermosa la Bella! (canto spagnuolo) / musica e versi di F. Cangiullo 167


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39) Piedigrotta 1911. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1911 (anno 21 n.26-27-28) Primo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Serenata sperza / musica di V. Di Chiara ; versi di L. Recitano 2) Viato a isso! / versi e musica E. A. Musica 3) La novella (reminiscenze scolastiche) / musica di F. Pugliese ; versi di E. A. Mario 4) Fiore d'arancio… (stornello nuziale) (al comm. Achille Minozzi) / musica di G. E. Gaeta ; versi di G. Spagnolo 5) E' partito! (marcia) / musica di V. Fassone ; versi di A. Genise 6) I peccati capitali / musica di C. Mirelli ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 40) Piedigrotta 1911. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1911 (anno 21 n.32-33-34) Terzo dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Pusìlleco 'e notte ('a canzone 'e Capri) / musica di V. Fassone ; versi di G. Capaldo 2) Fravula 'e ciardino / musica di V. Fassone ; versi di G. Irace 3) Rivista militare / musica di F. Pugliese ; versi di E. A. Mario 4) Acqua passata… / musica di V. Di Chiara ; versi di E. A. Mario 5) Vieneme 'nzuonno / versi e musica di E. A. Mario 6) La bella mandriana / musica di G. Spagnuolo ; versi di A. Genise 41) Piedigrotta 1911. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1911 (anno 21 n.38-39-40) Quinto dei cinque numeri straordinari. Contiene: 1) Novembre! / musica di O. Panza ; versi di L. Postiglione 2) Balcone 'nchiuso! (serenatella amara) / musica di V. Fassone ; versi di G. Capaldo 3) ‘A cosa 'e màmmeta! / musica di C. Fanti ; versi di G. Capaldo 4) Amore (Baston cantabile) / versi e musica di Cecchino Giordano 5) Addò murette 'Ammore! (melodia) / musica di A. Mattiacci ; versi di G. Sgueglia 6) Scendi, Titì!... / musica di E. A. Mario ; versi di F. Vetroni 7) A suonno chino! (serenata) / musica di E. Di Capua ; versi di G. Capaldo 42) Piedigrotta 1912. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1912 (anno 22 n.26-27-28) Primo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) No tu… / versi e musica di Matneer 2) Ammore ambasciatore / versi e musica di E. A. Mario 3) Serenata clandestina / musica di F. Pugliese ; versi di E. A. Mario 4) Rosa the / versi e musica di V. Di Chiara 5) Soltanto tu!... / musica di G. Spagnolo ; versi di A. Genise 6) Ho un ben formato cuore! / musica di E. A. Mario ; versi di S. Di Giacomo 7) Il richiamato / musica di V. Fassone ; versi di A. Genise

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I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 43) Piedigrotta 1912. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1912 (anno 22 n.29-30-31) Secondo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) E mm' 'o diceva mamma! / musica di G. Spagnolo ; versi di L. Giordano 2) ‘O telefono / musica di E. Bellini ; versi di C. Pozzetti 3) Sogni d'or… (barcarola) /musica di V. Di Chiara ; versi di L. Recitano 4) Sentinella nnammurata! / musica di E. A. Mario ; versi di E. Milano 5) Che cuore avete!? / versi e musica di Matneer 6) Ddoje giuventù… / musica di E. A. Mario ; versi di Renato D'Andrea 7) Ecco perché!... (voila pourqui!) / musica di A. Valsien ; versi di Léognan ; versione italiana di E. A. Mario 44) Piedigrotta 1912. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1912 (anno 22 n.32-33-34) Terzo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) Passen' 'e Bersagliere (all'Eroico II Reggimento Bersaglieri) (marcia militare) / musica di A. Marino ; versi di C. Volpe 2) La voce delle cose / musica di G. Spagnolo ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 3) Canzona napulitana / versi e musica di E. A. Mario 4) Statte zitta, nun giurà! / musica di Matneer ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 5) Presso il ruscello… / musica di E. A. Mario ; versi di M. A. D'Alena 6) Aspettanne… / musica di Matneer ; versi di C. de Flaviis 7) Vola, barchetta!... / musica di V. Fassone ; versi di A. Genise 45) Piedigrotta 1912. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1912 (anno 22 n.38-39-40) Quinto dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) Contadina allegra / versi e musica di E. A. Mario 2) Funtana a ll'ombra / versi e musica di E. A. Mario 3) I buoni consigli / musica di G. Spagnolo ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 4) La Bella del bosco / musica di G. Spagnolo ; versi di E. Milano 5) I' cu te, tu cu me… / musica di V. di Chiara ; versi di L. Recitano 6) C'è… / musica di Matneer ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 7) Non è così!... / musica di E. A. Mario ; versi di A. Genise 46) Piedigrotta 1912. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1912 (anno 22 n.41-42-43) Sesto ed ultimo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) I buchi / musica di G. Capocci ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 2) Mare cujeto / versi e musica di E. A. Mario 3) Mio tesoro! / musica di D'Aloé ; versi di A. Genise 4) Non ti bacio! / versi e musica di E. A. Mario 5) Lassa fa a me!... / musica di V. Di Chiara ; versi di L. Recitano 6) Ecco l'amore! / versi e musica di E. A. Mario 7) Serenata a Sisina / musica di Matneer ; versi di G. Bianchi

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47) Piedigrotta 1913. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 10 settembre 1913 (anno 23 n.26-27-28) Primo dei sei numeri straordinari (3 ed.). Contiene: 1) Confidenze di collegio / versi e musica di E. A. Mario 2) Mi vuoi bene… / versi e musica di E. A. Mario 3) Canta la sentinella…/ musica di Carlo Fanti ; versi di E. A. Mario 4) Tu si' tu ca vuò patè! / versi e musica di V. Di Chiara 5) La manolì / versi e musica di E. A. Mario 6) Arietta malinconica / musica di G. Spagnolo ; versi di E. A. Mario 7) Fior di pervinca / versi e musica di G. Giannelli 48) Piedigrotta 1913. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 10 settembre 1913 (anno 23 n.29-30-31) Secondo dei sei numeri straordinari (3 ed.). Contiene: 1) L'appuntamento / musica di E. A. Mario ; versi di S. Di Giacomo 2) Matenata sentimentale / musica di G. Spagnolo ; versi di L. Postiglione 3) Rosa, Rò! / musica di V. Di Chiara , versi di G. Capurro 4) Core e core… / versi e musica di E. A. Mario 5) Caporale… / musica di V. Adamo ; versi di G. Tètamo 6) Tu duorme… / musica di R. Segrè ; versi di S. di Giacomo 7) Penso a te! / versi e musica di G. Giannelli 49) Piedigrotta 1913. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 12 settembre 1913 (anno 23 n.32-33-34) Terzo dei sei numeri straordinari (4 ed.). Contiene: 1) Io, 'na chitarra e 'a luna! / versi e musica di E. A. Mario 2) Mutive 'e gelusia?!... / musica di G. Spagnolo ; versi di G. Tètamo 3) ‘O suspiro 'e Carulina / musica di R. Segrè , versi di E. Murolo 4) Tu si' comm' 'a palomma… / musica di E. A. Mario ; versi di L. Postiglione 5) La serenata del cuoco / versi e musica di E. A. Mario 6) Si vuò venì… / musica di Ida Fanti ; versi di G. Tetamo 7) La grisette / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Genise 8) Amore vagabondo / versi e musica di G. Giannelli 50) Piedigrotta 1913. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 10 settembre 1913 (anno 23 n.35-36-37) Quarto dei sei numeri straordinari (3 ed.). Contiene: 1) A fidanzata / versi e musica di E. A. Mario 2) Uocchie nire… / musica di V. Adamo ; versi di G. Tètamo 3) La gitana / musica di G. Spagnolo ; versi di A. Genise 4) Tammurriata trista / versi e musica di E. A. Mario 5) Le amiche / versi e musica di Giuseppe Giannelli 6) ‘O busto nuovo / musica di V. Di Chiara ; versi di G. Capurro 7) Strofette del paragone / musica di Ida Fanti ; versi di A. Giuliani 8) Gli uccelli (canzonetta ornitologica) / versi e musica di E. A. Mario

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I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 51) Piedigrotta 1913. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 12 settembre 1913 (anno 23 n.38-39-40) Quinto dei sei numeri straordinari (3 ed.). Contiene: 1) La figlia del fattore / musica di E. A. Mario ; versi Renato D'Andrea 2) Serenatella spagnola / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Genise 3) Nun me nn'ammora… / musica di G. Spagnolo ; versi di L. Recitano 4) I cinque sensi / musica di V. Adamo ; versi di G. Bianchi 5) Ammore giovene / musica di E. A. Mario ; versi di E. Milano 6) Serenata a dispetto / versi e musica di G. Giannelli 7) Suspiro ardente / versi e musica di E. A. Mario 8) Cugina! (Cousine!) (idillio provinciale) / musica di A.Valsien ; parole di L. Boyen ; versione italiana di E. A. Mario 52) Piedigrotta 1913. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1913 (anno 23 n.41-42-43) Sesto ed ultimo dei numeri straordinari (2 ed.). Contiene: 1) Stornelli candidi / musica di E. A. Mario ; versi di G. Tètamo 2) L'ammore a Napule / musica di G. Spagnuolo ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 3) Ammore che passa! / musica di V. Di Chiara ; versi di G. Capurro 4) Maggio, sì tu! / versi e musica di E. A. Mario 5) Io cagno vita! (Buono nun so'…) / musica di G. Spagnolo ; versi di E. A. Mario e F. Fiore 6) Addio, gioventù… / musica di E. A. Mario ; versi di D. Furnò 7) ‘A canzona 'e Santa Lucia / versi e musica di E. A. Mario 8) O mia Conchita / versi e musica di G. Giannelli 53) Piedigrotta 1914. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 18 agosto 1914 (anno 24 n.28-29-30) Primo dei sei numeri straordinari (2 ed.). Contiene: 1) Mio dorge Amore! / musica di Vincenzo Di Chiara ; versi di D. Furnò 2) Giocondità / versi e musica di E. A. Mario 3) Su legge mia d'onore! / musica di G. Spagnolo ; versi di G.B. De Curtis 4) Rumanzetta militare / musica di E. Tagliaferri ; versi di E. A. Mario 5) Casa 'e campagna / versi e musica di E. A. Mario 6) Voce d' 'o core / musica di R. Segrè ; versi di E. Milano 54) Piedigrotta 1914. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 18 agosto 1914 (anno 24 n.31-32-33) Secondo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) Mutivo antico / musica di O. Cerino ; versi di A. Rossi 2) Comme so' belle 'e ffemmene! / musica di Carlo Fanti ; versi di F. M. Russo 3) I' te guardo / musica di G. Spagnolo ; versi di G. B. De Curtis 4) T' aggia vasà! / musica di Vincenzo Di Chiara ; versi di G. B. De Curtis 5) Ammore spassuso… / versi e musica di E. A. Mario 171


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6) ‘O Piscatore 'e Mergellina (barcarola) / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 7) Bontà di cuore / versi e musica di E. A. Mario 55) Piedigrotta 1914. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 22 agosto 1914 (anno 24 n.34-35-36) Terzo dei sei numeri straordinari (2 ed.). Contiene: 1) Canzonatura / musica di G. Del Vecchio ; versi di G. Bianchi 2) Eggià! / musica di E. A. Mario ; versi di Domenico Furnò 3) Tarantella nervosa / musica di V. Di Chiara ; versi di G. B. De Curtis 4) Nun t'aggio fatto niente! / musica di G. Spagnolo ; versi di G. B. De Curtis 5) L'amor mio… / versi e musica di E. A. Mario 6) Canti montagnoli / musica di L. De Luca ; versi di A. Genise 7) ‘A canzona d' 'o pittore / musica di E. A. Mario ; versi di G. B. De Curtis 56) Piedigrotta 1914. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 22 agosto 1914 (anno 24 n.37-38-39) Quarto dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) Stornellatuccia / versi e musica di E. A. Mario 2) Tre cose / musica di G. Spagnolo ; versi di G. B. De Curtis 3) ‘A primma sera… (Arietta campagnola) / musica di E. Tagliaferri ; versi di E. A. Mario 4) La villanella ingenua / musica di G. Del Vecchio ; versi di G. Tummolillo 5) Ritornello proibito / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Genise 6) Tarantella a puntiglio / musica di E. A. Mario ; versi di D. Furnò 57) Piedigrotta 1914. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 25 agosto 1914 (anno 24 n.40-41-42) Quinto dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) ‘A gravunara / musica di L. De Luca ; versi di A. Genise 2) Canzona d'ammore / versi e musica di E. A. Mario 3) Vogliamo provar ?... / musica di F. Albano ; versi di A. Federici 4) Tammurriata all'antica (per donna) / musica di E. A. Mario ; versi di E. Murolo 5) Nfama e bella! / musica di G. Spagnolo ; versi di L. Postiglione 6) La canzone del bosco / musica di Cecchino Giordano ; versi di G. Apicella 7) Piccoli baci / versi e musica di E. A. Mario 58) Piedigrotta 1914. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 1 settembre 1914 (anno 24 n.9) Sesto ed ultimo dei numeri straordinari. Contiene: 1) ‘A canzone 'e Santa Lucia / versi e musica di E. A. Mario 2) Niru te! / musica di G. Spagnolo ; versi di G. B. De Curtis 3) Stammatina / musica di E. A. Mario ; versi di L. Postiglione 172


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 4) 5) 6) 7)

‘A vita è nu mumento! ( Barcarola) / musica di V. Di Chiara ; versi di G. B. De Curtis Femmena 'nnammurata / musica di E. A. Mario ; versi di C. O. Lardini Ammore ca torna / musica di F. Pugliese ; versi di E. Milano Stornellino tricolore / versi e musica di E. A. Mario

59) Piedigrotta 1915. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1915 (anno 25. n.28-29-30) Primo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) L'arte pe'nnammurà… / musica di E. A. Mario ; versi di D. Furnò 2) Vocca e vocca / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 3) Canzone di trincea / versi e musica di E. A. Mario 4) Chi canta e chi dorme… / versi e musica di E. A. Mario 5) Cuor di bebè / musica di A. Magnani ; versi di E. A. Mario 6) Il frettoloso / versi e musica di E. A. Mario 60) Piedigrotta 1915. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 14 agosto 1915 (anno 25. n.31-32-33) Secondo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) Mamma carnale! / versi e musiac di E. A. Mario 2) Verso la frontiera / musica di G. Spagnolo ; versi di G. E. Gaeta 3) Torna a cantà! / musica di A. Magliani ; versi di E. A. Mario 4) Nun dì ca no… / musica di Eduardo Di Capua ; versi di A. Barbieri 5) La dolce serenata / musica di G. Bonincontro 6) Vene e va! / musica di Oreste Cerrino ; versi di E. A. Mario 61) Piedigrotta 1915. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 30 agosto 1915 (anno 25. n.34-35-36) Terzo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) Appassiunatamente / versi e musica di E. A. Mario 2) L'America / musica di F. Pugliese ; versi di E. A. Mario 3) La Canzone dell'Adriatico / versi e musica di E. A. Mario 4) Quanno sponta 'a luna! / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 5) Strofette neutro=attive / musica di A. Magliani ; versi di G. Bianchi (Cantalupo) 6) Rumanzetta sentimentale / musica di G. Bonincontro ; versi di E. A. Mario 62) Piedigrotta 1915. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 11 settembre 1915 (anno 25. n.37-38-39) Quarto dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) Il nostro cuore / musica di A. Magliani ; versi di E. A. Mario 2) L'inno dei forti / musica di S. M. D'Amato (Direttore del 39 Fanteria) ; versi di Elena Crisciuolo 3) Rumanzetta 'e spasimante… / musica di E. A. mario ; versi di D. Furnò 4) Senza baci… / versi e musica di E. A. Mario 173


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5) Dare per avere / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 6) Maggio luntano / musica di A. Magliani ; versi di E. A. Mario 7) ‘O ppassato / musica di E. A. Mario ; versi di C. O. Lardini 63) Piedigrotta 1915. La tavola rotonda Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1915 (anno 25. n.43-44-45) Sesto ed ultimo dei sei numeri straordinari. Contiene: 1) Partenza eroica (marcia patriottica) / versi e musica di S. M. D'Amato 2) Comme te l'aggia dì? / musica di E. Di Capua ; versi di A. Barbieri 3) Addio, signorina! (Bonsoir, mam'zelle) (Per uomo) ; musica di D. Berniaux ; versi di E. A. Mario 4) Sottavoce / versi e musica di E. A. Mario 5) Stornelli militari / musica di F. Fortezza ; versi di D. Furnò 6) Ntiempo 'e guerra (duettino) / musica di V. Adamo ; versi di G. Bianchi (Cantalupo) 64) Piedigrotta Morano Napoli, A. Morano, 1903 (anno 5.) Contiene: 1) ‘A figlia 'e donna Carmela / musica di C. Fanti ; versi di E. Cortese 2) Canzone triste! / musica di R Carvaglios ; versi di F. Buffon 3) Tarantella sincera / musica di A. Montagna ; versi di S. Ragosta 4) Donna Rosa / musica di G. F. Buongiovanni ; versi di G. Capurro 5) Carmusina e o ttécchetetté / musica di G. Giannelli ; versi di R. Autorino 6) ‘O fatturino 'e Posta / musica di E. Di Capua ; versi di G. Capurro 7) Sciamma d'ammore / musica di Y. Valente ; versi di G. Capurro 8) Il feto! / musica di E. Cannio ; versi di L. Mattiello 65) Piedigrotta Scarpetta Napoli, A. Morano, settembre 1903 (anno 1. n.1) Contiene: 1) Nun ire tu! / versi e musica di V. Scarpetta 2) Senza core! / versi e musica di E. Scarpetta 3) Che ne sarrà?! / versi e musica di V. Scarpetta 4) Le Unghie!... / versi e musica di E. Scarpetta 66) Piedigrotta delle Signorine Napoli, Capolongo-Feola, 7 settembre 1904 Contiene: 1) A mmezanotte (scenetta drammatica musicale) / musica di V. Adamo ; versi di A. Quadretti T. 2) ‘A capuanella / musica di G. Mauro ; versi di S. Mauro 3) ‘O cannuniere / musica di N. Ricciardiello ; versi di F. A. Bonenzio 4) ‘O friddo e 'o caudo ( duetto comico) / musica di G. Giannelli ; versi di E. Capurro 5) Tarantella 'e sentimento / musica di A. Cavuoto ; versi di E. Capurro 6) ‘O 92 ('O Cundannato) / musica di G. Capolongo ; versi di F. Feola 7) ‘A figlia 'e Rosa (duettino) / musica di G. Giannelli ; versi di P. Cinquegrana 8) Catarì tu che faie / musica del M. G. Giannelli , versi di P. Cinquegrana 174


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 9) Che sarrà?! / musica di G. Capolongo ; versi di F. S. Tuzzoli 10) ‘A 'mpagliaseggia / musica di G. Giannelli , versi di E. Capurro 11) Il re di piripinè / versi e musica di L. De Luca 12) ‘A leva / musica di E. Mauro ; versi di P. Vento 13) ‘E bellizze d' 'o sole / musica di G. Capolongo ; versi di A. Federici 14) Nun turna cchiù! / musica di G. Capolongo ; versi di F. S. Tuzzoli 15) Addio Cuncè! / versi e musica di G. Ingenito 67) Piedigrotta Giornalai Napoli, Vito Morano, settembre 1906 Contiene: 1) Destine… / musica del barone D. De Felice ; versi di E. Murolo 2) Acqua 'e Maggio / musica di R. Segrè ; versi di E. A. Mario 3) Suonno d'ammore! / musica di D. Napoletano ; versi di A. Genise 4) Tarantella / musica di V. Valente ; versi di C. O. Lardini 5) Matalè! / musica di F. G. Buongiovanni , versi di L. Bovio 6) ‘O ddebbole.. / musica di E. Bellini ; versi di T. Rovito (Theo) 7) Ve voglio amà!... / musica di E. Nardella ; versi di F. Buffon 68) Piedigrotta Album R. Calace Napoli, Raffaele Calace, 1906 Contiene: 1) Suonno d' ‘a vita mia / musica di R. D'Atri ; versi di C. Berardelli 2) Marciano / musica di R. Caravaglios ; versi di Ciullo 3) Guarda 'na vota amme! / musica di A. Castaldi ; versi di C. Veneziani 4) Voce antica / musica di A. Cerchia ; versi di G. Minieri 5) Chello ca voglio / musica di C. De Crescenzo ; versi di C. Roberti 6) Lontan da te / musica del M. G. Napoli ; versi di V. D'Ambra 7) Lirica / musica di R. Casalaina ; versi di Heine 8) I rosai / musica di D. Savino ; versi di Ausiello 9) Addio del marinar / musica di V. Fiorillo ; versi di E. Scala 10) Comm' 'a n'angelo / musica di L. De Luca ; versi di G. Rainone 11) A partita a pizzeco / musica di E. Nardella ; versi di E. Milano 12) L'automobbele / musica di V. Roessinger ; versi di C. Veneziani 13) Serenatella / musica di V. De Vivo ; versi di A. Alonge 69) Vita Mondana. Giornale settimanale dell'aristocrazia Napoli, Giuseppe Grieco, 2 settembre 1906 (anno 1. n.6-7) Contiene: 1) Nunn'e ttrov'a mmaretà! (Macchietta) / musica di Franc. Amoroso ; versi di Giov. Attanasio 2) Serenata 'nfama! / musica di E. Bellini ; versi di Pio de Flaviis 3) Femmena 'ngrata / musica di E. Cannio ; versi di G. F. Buongiovanni 4) Bruna e bionda / musica di G. Chiarolanza 5) Il "Figurino" / musica di G. Chiarolanza ; versi di Alfredo Ciofi 6) Tarantella / musica di Carlo Fanti ; versi di Ardo 7) Il conte malatesta / musica di Edoardo Galgani ; versi di P. Cinquegrana 8) Il bastone del capo tamburo 9) La vita del soldato / musica di R. Segrè ; versi di A. Barbieri 175


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70) Piedigrotta Moderna Napoli, s.n. (tip. Novecento), 8 settembre 1906 (anno 3) Contiene: 1) Penzanno a tte! (romanza appucundrosa) / musica di G. Visciola , versi di R. Mazzola 2) Ncampagna / musica di A. Flocco ; versi di A. Lania 3) T'aggia lassà!.. (Canzone Marcia) / musica di E. Barraja ; versi di A. Lania 4) Serenata perduta / musica di F. Maurelli ; versi di A. Lania 5) Spaseme / musica di E. Barraja ; versi di R. Mazzola 6) Margarì!.. / musica di E. Bellini ; versi di G. De Luca 71) Piedigrotta Aliotti Napoli, Gennaro Tavassi, settembre 1907 Contiene: 1) Voglio fa 'o signore / musica di G. Capolongo ; versi di G. Tavassi 2) O si, o no!.. (Canzonetta popolare con coro) / musica di G. Giannelli ; versi di A. Califano 3) Un bacio ancor (romanza) / musica di R. Parisi , versi di G. Tavassi 4) Mazurka Aliotti / musica del Maestro F. Fasano 72) Piedigrotta Napoli Napoli, tipografia Gennaro Tavassi, 1915 Contiene: 1) Non so capir perché / musica di G. Del Vecchio ; versi di G. Tavassi 2) Forse…. / musica di R. Parisi ; versi di G. Tavassi 3) Ammore d''o marenare / musica di C. Fanti , versi di G. Tavassi 4) Marenarella / musica di E. Lepre ; versi di G. Tavassi 73) Piedigrotta Morano Napoli, Vito Morano, 1906 (anno 8) Contiene: 1) Mo' va mo' vene / musica di M. Costa ; versi di S. Di Giacomo 2) Ammore annascuso / musica di L. Mugnone ; versi di Cinquegrana 3) Aspetta e nun venì / di G. B. De Curtis 4) Carulì, Carulì…! (A Ernesto Murolo) / musica di E. Nardella ; versi di L. Bovio 5) Palomma 'e notte / musica di G. F. Buongiovanni ; versi di S. Di Giacomo 6) Suonno passato / musica di V. Valente ; versi di G. Capurro 7) Si tenesse… / musica di C. Fanti ; versi di F. Buffon 8) Tarantella / musica di V. Valente ; versi di C. O. Lardini 9) Mimì / musica di D. Napoletano ; versi di G. B. De Curtis 10) Serenata 'a gnora / musica di R. Falvo ; versi di C. O. Lardini 11) Arricamanno (alla gentile signore Giulia Terzi) / di G. De Curtis 12) Margarita / musica di Gayetanus ; versi di E. N. 13) ‘E rrose / musica di E. Bellini ; versi di T. Rovito 14) Suonno d'ammore! / musica di D. Napoletano ; versi di A. Genise

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I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 74) Piedigrotta Novissima Napoli, Tipografia Melfi & Joele, 1906 Contiene: 1) Tu m' 'e lassato! / musica di V. De Vito ; versi di F. Russo 2) A primmavera / musica di E. Bellini ; versi di V. D'Ambra (Ciullo) 3) Serenata 'e sentimento (Proprietà dell'editore B. Caporicci) / musica di R. Segrè ; versi di V. Volino 4) Suspire… / versi e musica E. Erre 5) Diciteme ched' è / musica di C. Gargiuolo ; versi di M. Polizy 6) Ve voglio bene (proprietà dell'editore B. Caporicci) / musica di E. Galgani ; versi di A. Barbieri 7) L'urdema serenata / musica di G. Napoli ; versi di S. Ragosta 8) Tutto dipende 'a te / musica di G. Costa ; versi di M. Spada 75) Piedigrotta Falvo 1906 Napoli, Tipografia Melfi & Joele, 1906 Contiene: 1) ‘O sole / musica di R. Falvo ; versi di Libero Bovio 2) ‘A vita mia / musica di R. Falvo ; versi di L. Chiarelli 3) Famme scurda! : barcarola / musica di R. Falvo ; versi di A. Cassese 4) Site malamente!... / musica di R. Falvo ; versi di A. Barbieri 5) ‘O bbene è cchiù d' 'o bbene! / musica di R. Falvo ; versi di Falcone-Fieni 6) Napulitana! / musica di R. Falvo ; versi di L. Bovio 7) Na cammarella! / musica di R. Falvo ; versi di L. Bovio 76) Piedigrotta Pierrot 1905 Napoli, s.n. (cromo-tip. "Don Chisciotte"), 1905 Contiene: 1) Ma chi sa / musica di M. Costa ; versi di S. Di Giacomo 2) Sciuldezza bella / musica di A. Montagna ; versi di C. O. Lardini 3) ‘O sfizio / musica di V. Ricciardi ; versi di A. Barbieri 4) A serenata 'e bebè / musica di V. Di Chiara ; versi di V. F. Guarino 5) ‘Sposa nuvella / musica di E. Cannio ; versi di L. Bovio 6) A muntanara / musica di E. De Curtis ; versi di L. Bovio 7) E gira gì… / musica di V. Di Chiara ; versi di G. Capurro 8) Yes! / musica di V. Ricciardi ; versi di V. F. Guarino 9) Nce steva na vota / musica di E. Nardella ; versi di D. Carli 10) ‘A surrentina / musica di E. De Curtis ; versi di G. B. De Curtis 77) Piedigrotta Pierrot 1906 s.l. [Napoli], s.n., 1906 Contiene: 1) Matalè! / musica di V. Ricciardi ; versi di T. Rovito 2) For 'o cunvento / musica di A. Montagna ; versi di D. Del Gaizo 3) Fronn 'e viola / musica di S. Gambardella ; versi di A. Califano 4) A chi penzate? / musica di E. Bellini ; versi di G. Polge 5) O penziero d' 'o suldato / musica di G. Giannelli ; versi di A. Barbieri 6) ‘A patria mia / musica di E. Di Capua ; versi di G. Suppu 177


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78) Piedigrotta Pierrot 1905 Napoli, Casa Editrice Partenopea, 17 agosto 1905 (anno1 n.18) Secondo dei quattro numeri straordinari Contiene: 1) ‘O ritorno d’ ‘o Cungedato / musica di E. Cannio , versi di D. del Gaizo 2) Birbantella / musica di V. di Chiara , versi di A. Barbieri 3) Nun da’ retta Margarì! / musica di G. F. Buongiovanni , versi di G. Capurro 4) ‘O sfizio / musica di V.Ricciardi ; versi di A. Barbieri 5) Canzon’ ‘e Maggio / musica di A. Montagna ; versi di V. F. Guarino 6) L’acquaiola nova / musica di R. Segrè ; versi di E. A. Mario 79) Piedigrotta Pierrot 1905 Napoli, Casa Editrice Partenopea, 31 agosto 1905 (anno 1 n.20) Quarto dei quattro numeri straordinari Contiene: 1) ‘A festa ‘o paese / musica di G.Giannelli , versi di E. Capurro 2) ‘O svenimento / musica di E. Cannio ; versi di T. Rovito 3) Nanninella! muisca di F. S. Cataldo , versi di L. Mattiello 4) Mariulì, Mariulà! / musica di F. G. Buongiovanni ; versi di A. Barbieri 80) Piedigrotta Pierrot 1905 Napoli, Casa Editrice Partenopea, 10 settembre 1905 (anno1 n.21) Quinto numero doppio speciale Contiene: 1) Sciuldezza bella! / musica di A. Montagna ; versi di C.O. Lardini 2) ‘O ntussecoso / musica s. n. ; versi di C.O. Lardini 3) Yes! / musica di V. Ricciardi ; versi di V. F. Guarino 4) ‘A Surrentina / musica di E. De Curtis ; versi di G. B. De Curtis 81) Piedigrotta De' Giornalai Napoli, G. Cerasuolo e O.Ceccoli editori proprietari, (R. Tipografia De Angelis & Bellisario), s.d., (mutilo) 82) Pierrot Artistico Musicale Napoli, Casa editrice Partenopea, 23 aprile 1905 (anno1 n.1) Numero doppio Contiene: 1) Canzon' 'e maggio / musica di A. Montagna ; versi di V. F. Guarino 2) Nun durmì... / musica di V. Ricciardi ; versi di C. O. Lardini 3) Tutta bella! / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 4) Serenata gelosa... / musica di E. De Curtis ; versi di G. B. de Curtis 83) Pierrot Artistico Musicale Napoli, Casa editrice Partenopea, 14 maggio 1905 (anno1 n.4) Contiene: 1) Cuncettì! / musica di D. Napoletano ; versi di A. Genise

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I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 84) Pierrot Artistico Musicale Napoli, Casa editrice Partenopea, 21 maggio1905 (anno1 n.5) Contiene: 1) Chitarrata sulitaria / versi di S. Ragosta ; musica di E. Nardella 85) Pierrot Artistico Musicale Napoli, Casa editrice Partenopea, 27 maggio 1905 (anno1 n.6) (mutilo) Contiene: 1) ‘O svenimento / musica di E. Cannio ; versi di T. Rovito 2) Passione nova / musica di E. Coletti ; versi di A. Barbieri 86) Pierrot Artistico Musicale Napoli, Casa editrice Partenopea, 4 giugno 1905 (anno1 n.7) Numero doppio (mutilo) 87) Pierrot Artistico Musicale Napoli, Casa editrice Partenopea, 11 giugno 1905 (anno 1 n.8) Numero doppio straordinario (mutilo) 88) Pierrot Artistico Musicale Napoli, Casa editrice Partenopea, 2 luglio 1905 (anno 1 n.11) Contiene: 1) Il servitore : macchietta / versi di A.Barbieri ; musica di E. Galgani 89) Pierrot Artistico Musicale Napoli, Casa editrice Partenopea, 1 ottobre 1905 (anno1 n.24) Contiene: 1) ‘A serenata 'e bebè / musica di V. Di Chiara ; versi di V. F. Guarino 90) Eldorado : rivista dei teatri di varietà e cinema-concert Napoli, s.n. ; 24 agosto - 8 settembre 1910 (anno 8 n.16-17) Contiene: 1) ‘O Napulitano/ musica di R. Falvo , versi di L. Bovio 2) Carmela bella…/ musica di A. Magliani ; versi di G. Rainone 3) Uocchie lucente! (a Rodolfo Giglio) / musica di A. Garaldi , versi di E. Moretti 4) Oj Sartulè…/ musica di G. Capolongo , versi di A. Genise 5) ‘Stu core ‘o vvò sapè…/ musica di G. Lama ; versi di P. Vento 6) Ci debbo penzà/ musica di G. Chiarolanza , versi di A. Lania 91) La canzonetta : rivista artistica, musicale, letteraria Napoli, Casa editrice musicale Capolongo-Feola, agosto 1910 (anno 3 n. 17-18) Contiene: 1) Chist' è 'o munno / musica di R. Falvo ; versi di C. O. Lardini 2) E tu, Margaratè... / musica di R. Falvo ; versi di A. Cassese 179


MARIA LUISA DONATIELLO

3) 4) 5) 6) 7)

Nterra Santa Lucia / musica di R. Falvo ; versi di C. De Flaviis ‘O napulitano / musica di R. Falvo ; versi di L. Bovio La più bella del villaggio / musica di R. Falvo ; versi di A. Genise Lasciami sognar! : bolero / musica di R. Falvo ; versi di A. Genise Tu, cuntenta nun sì! / musica di R. Falvo ; versi di F. Feola

92) Monsignor Perrelli. Prediche napoletane Napoli, s.n. ; 6 settembre 1902 (anno 5 n.107) Numero doppio Contiene: 1) Palmetella / musica di E. Di Capua ; versi di Mascarillo 2) Tombolà / musica di V. Ricciardi ; versi di C. O. L. & R 93) Piedigrotta 1902: canzone napoletana Napoli, G. Santojanni ; 1902 Contiene: 1) Pecchè? : melodia / versi e musica di L. Criscuolo 2) Nun torna pe' mo / musica di V. Di Chiara ; versi di G. Capurro 3) ‘O mistero : canzone a duetto / musica di F. Finamore ; versi di Ferraro Correra 4) Sposa nuvella / musica di E. Nutile ; versi di R. Ferraro Correra 5) Tarantella pusitiva / musica di E. P. Fonzo ; versi di R. Ferraro Correra 6) O cunziglio : canzone / musica di V. Ricciardi ; versi di T. Rovito 7) L'acquaiola 'e Santa Lucia / musica di A. Siragusa ; versi di A. Fiordelisi 8) Sciure, sciurè! : melodia / musica di V. Valente ; versi di Ferd. Russo 94) Teniteme presente (canzonetta) / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri Napoli, G. Santojanni ; 1903 95) Piedigrotta Giuseppe Capaldo Napoli, Bideri ; anno VI, 1910 Contiene: 1) Margarì Margarì : serenata / musica di G. Capaldo ; versi di G. Irace 2) Margaretè! / musica di G. Capaldo ; versi di G. Andinolfi 3) Chello che voglio… : tarantella stuzzicante / musica di G. Capaldo ; versi di G. Riccardi 4) Nunziatì / musica di R. Segrè ; versi di N. Viscillo 5) Bella crudele! : stornelli / musica di G. Capaldo ; versi di B. Rossi 6) Core 'e marenare : duetto sentimentale / musica di G. Capaldo ; versi di V. Stoppelli 7) Serata triste (serenata) / musica di G. Capaldo ; versi di V. Stoppelli 8) Gigetto babà (macchietta) / musica di G. Capaldo , versi di E. Capurro 96) La Tavola Rotonda. Piedigrotta 1910 Napoli, Bideri, 7-8 settembre 1910 (anno19, n. 35-36-37) Quarto dei cinque numeri straordinari Contiene: 1) Si' bella!... / musica di G. Spagnolo ; versi di G. Danzi 180


I FASCICOLI DI ‘PIEDIGROTTA’ CONSERVATI NELLA BIBLIOTECA DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO 2) 3) 4) 5)

Vò turnà!... / musica di E. De Curtis ; versi di C. O. Lardini Mad'muazel Fru-Fru / musica di S. Gambardella ; versi di G. Capurro A sta fenesta suspiranno!... / musica di E. Di Capua ; versi di C. Pozzetti Peckì : la moglie del mandarino / musica di C. Mirelli ; versi di R. Galdieri (Rambaldo) 6) E pure l'è così!... / musica di V. Di Chiara ; versi di A. Barbieri 97) Uocchie c'arraggiunate / musica di R. Falvo ; versi di A. Falcone-Fieni Napoli, Raffaele Izzo, 1909 98) Quanto sì bella? / musica di E. Trovatini ; versi di G. Suppa Estratto dal periodico Monsignor Perrelli, [Napoli], s.d. 99) Piedigrotta Gennarelli 1919 Napoli, Emilio Gennarelli, 1919 Contiene: 1) Quanta carnalità…/ musica di V. Medina ; versi di A. Barbieri 2) ‘A canzona si’ ttu! / musica di E. De Curtis ; versi di E. Murolo 3) Per te! / versi e musica di Americo Giuliani 4) Pe’ mamma mia! / musica di R. Bossi ; versi di E. Scala 5) Napule / musica di E. Tagliaferri ; versi di E. Murolo 6) Italia Nova / musica di E. Cannio ; versi di R. Ferraro-Correra 7) Signorina… / di Americo Giuliani 8) Ma chi lo sa! / musica di V. Medina ; versi di M.A. Mancini 9) Primma ‘e ce lassà / musica di G. E. Pennino ; versi di D. Petriccione 10) Bellezza / musica di P. Fonzo ; versi di R. Ferraro-Correra 11) Passione ‘e marenaro / musica di F. Buongiovanni ; versi di Tullio Gentili 12) ‘Ncantesemo / musica di Evemero Nardella ; versi di E. Murolo 13) Colei che uccise…/ musica di F. Buongiovanni ; versi di M.A. Mancini 14) Povera mamma! / musica e versi di Americo Giuliani 15) Campagnata napulitana / musica di E. Tagliaferri ; versi di E. Murolo 16) Perfida! / musica di F. Buongiovanni ; versi di T. Gentili 17) Chi ti perdonerà? / musica di E. Tagliaferri ; versi di M.A. Mancini 18) Rondini / musica di E. Tagliaferri ; versi di T. Gentili 19) Ammore ‘e mamma! / musica di G. Del Vecchio ; versi di F. Cuonzo 20) Sunate manduline! / musica di Tony Procida ; versi di Ugo Veri 21) ‘O munno sott’e ‘ncoppa / musica di V. De Chiara ; versi di E. Murolo 22) Chitarrata ‘e femmena / musica di E. Cannio ; versi di D. Furnò 100) Piedigrotta Mario 1926 Napoli, Casa Editrice E.A.Mario, 1926 Contiene: 1) Ll’Italia / musica di E. A. Mario ; versi di R. Lo Martire 2) Napoli d’Italia / versi e musica di E.A. Mario 3) Accussì…Accullì…/ musica di A. Mazzucchi ; versi di F Romano 4) Sirena d’ammore / musica di E. Ceryno ; versi di Nello di Lutio 5) Squarciunata / musica di E.A. Mario ; versi di V. Jannuzzi 181


MARIA LUISA DONATIELLO

6) Lacrime amate / musica di F. Criscuolo Doria ; versi di E.A. Mario 7) Scimmi napulitano / musica di E.A. Mario ; versi di F. Romano 8) Nammurato cuntento / musica di E.A. Mario ; versi di A. De Gregorio 9) Notte addurosa / musica di G. Ciaravolo ; versi di E.A. Mario 10) ‘E balle furastiere / musica di G. Ciaravolo ; versi di V. Jannuzzi 11) Ombre a mare / versi e musica di E.A. Mario 12) Guappo signore / versi e musica di E.A. Mario 13) Ll’ata Maria / musica di E.A. Mario ; versi di E. Jantropelli 14) Promessi Sposi / musica di R. Prisco ; versi di G. E. Pasqualotto 15) Albero ‘e cerase / musica di E. Cerino ; versi di E. A. Mario 16) ‘A dama ‘e tutte quante / musica di E.A. Mario ; versi di O. Mario Pepino 17) Tre fiche nove rotole (L’esagerazione) / musica di E. A. Mario ; versi di F. M. Russo 18) Sole e ammore / musica di E. A. Mario ; versi di G. E. Pasqualotto 19) La signorina Capriccio / musica di E. A. Mario ; versi di A. Greco 20) Antimalthusiana / musica di E. A. Mario ; versi di R. Ricciardi 21) Pattuglie di cuori / musica di A. Mazzucchi ; versi di F. M. Russo 22) Yes Pommarola / musica di E. A. Mario ; versi di A. Melina 23) Giava del mare / musica di E. A. Mario ; versi di N. De Lutio 24) Attenti al disco / musica di E. A. Mario ; versi di P. Buonanno 25) Venditrice d’amore / musica di Paul De Barbet ; versi di S. Glorioso 26) Davanti ai magazzini / musica di G. Bonincontro ; versi di E. Jatropelli 27) Color cioccolato / musica di Charles Borrelli ; versi di E. A. Mario 28) Donna perduta / musica di A. Mazzucchi ; versi di E. A. Mario 29) Mamma straniera (Giava della tenerezza) / musica di A. Irace ; versi di Coty 30) Addio caserma / versi e musica di E. A. Mario 31) Il più forte. Canzone-tango / musica di G. F. Donati ; versi di A. L. Fiorita 32) Nidi di baci / versi e musica di E. A. Mario 33) Fox Trot dell’anima / musica di R. Remi ; versi di A. De Vito 34) Stornello degli italiani / musica di P. E. Fonzo ; versi di E. A. Mario 35) Quando si bacia… / musica di G. Rossetti ; versi di E. A. Mario

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INTERVENTI Maria Pia Cellerino UN PROGETTO D’ISTITUTO DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO: “COROLLARIO ITALIANO” Presso il Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino si sono tenuti negli ultimi tre anni alcuni concerti che hanno portato alla ribalta i compositori italiani. Il “Cimarosa” ha visto esibirsi solisti di ogni disciplina, gruppi da camera e studenti di canto accompagnati dai loro colleghi pianisti, in una carrellata di brani che avevano un unico comune denominatore: quello di essere stati composti da musicisti italiani. Sono state rappresentate molte epoche e innumerevoli stili che, nel corso dei secoli, hanno determinato l’evoluzione della scrittura musicale fino ai giorni nostri. Il Progetto d’Istituto “Corollario italiano” da me ideato e curato si è avvalso della collaborazione di molte classi del Conservatorio: da quelle di Pianoforte a quelle di Canto, da quelle di Storia della Musica a quelle di Composizione, da quelle di Musica d’insieme a quelle di Esercitazioni Corali. Il pubblico, numeroso e attento, ha potuto ascoltare il suono della chitarra, quello della fisarmonica, quello del clavicembalo, quello del flauto e del clarinetto, tutto questo in completa armonia di collaborazione tra le cattedre di questo Istituto di Alta Cultura Musicale. I concerti, che hanno avuto appuntamenti primaverili e autunnali (escluso l’A.A. 2016/2017 per cui la rassegna si è svolta in un’unica sessione) spesso sono stati introdotti da conferenze tenute da docenti interni ed esterni esperti del settore. Si è parlato di cinema, di teatro, della grande Scuola pianistica napoletana della quale il “Cimarosa” è valido rappresentante. Ecco gli appuntamenti dell’A.A. 2014/2015, preceduti da una Tavola Rotonda il 31 marzo nella quale tutti i docenti hanno presentato, in sintesi, il loro argomento. Giovedì 30 aprile – Tiziana Grande-Marina Marino: L’approccio alle fonti nella formazione del musicista. Martedì 19 maggio – Raffaella Palumbo: Rossini e la Ville Lumierè – Pomeriggio: Concerto degli allievi. Martedì 26 maggio – Antonio Caroccia: L’aurora della Musicologia italiana. Pomeriggio: Concerto degli allievi. Mercoledì 3 giugno – Pomeriggio: Concerto degli allievi. Lunedì 5 ottobre – Tiziana Grande- Marina Marino: Carta Canta. Lunedì 12 ottobre – Francesca Menchelli: L’Olimpiade di Pergolesi e la ripresa neoclassica. Pomeriggio: Concerto degli allievi. Venerdì 16 ottobre – Paologiovanni Maione: Malipiero e la riscoperta dei repertori e delle forme barocche. Pomeriggio: Concerto degli allievi.

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MARIA PIA CELLERINO

Gli appuntamenti dell’A.A. 2015/2016, anch’essi preceduti da una Tavola Rotonda il 21 Marzo, sono stati numerosissimi e con notevole affluenza di pubblico e di allievi. Martedì 12 aprile – Antonio Caroccia: La Scuola Pianistica Napoletana da Thalberg a Vitale. Pomeriggio: Concerto degli allievi. Mercoledì 4 Maggio – Maria Gabriella Della Sala: Patetismo e drammaticità nelle Sonate di Muzio Clementi. Pomeriggio: Concerto degli allievi. Martedì 17 maggio – Enrico Baiano: La tastiera si fa Teatro. Lunedì 23 Maggio – Pomeriggio: Concerto degli allievi. Martedì 27 Settembre – Raffaella Palumbo: Domenico Cimarosa, spirito rivoluzionario. Pomeriggio: Concerto degli allievi. Martedì 4 Ottobre – Antonio Smaldone: Muzio Clementi e il Concerto per Pianoforte e Orchestra. Pomeriggio: Concerto degli allievi. Martedì 11 Ottobre – Paologiovanni Maione: Nino Rota, Napoli Milionaria. Pomeriggio: Concerto degli allievi. Martedì 18 Ottobre – Renato Colella: Muzio Clementi e la drammaturgia in Forma Sonata. Pomeriggio: Concerto degli allievi.

Figura 1: Gruppo che ha partecipato al Concerto a seguito della lectio di Enrico Baiano.

Gli appuntamenti dell’A.A. 2016/2017 per esigenze istituzionali hanno avuto appuntamenti esclusivamente primaverili. Uno degli appuntamenti (30 maggio) dedicato ai Maestri del “Corollario” ha ospitato in un concerto solistico il famoso pianista Dario Candela che, a titolo gratuito, nella prima parte del Concerto ha eseguito una scelta di Sonate di Domenico Cimarosa tratte dal I e II volume nella revisione critica di Andrea Coen. Gli altri appuntamenti (3 maggio e 24 maggio) hanno visto l’esclusiva partecipazione degli allievi del Conservatorio con esecuzioni alla chitarra, saxofono, fisarmo184


UN PROGETTO D’ISTITUTO DEL CONSERVATORIO DI AVELLINO: “COROLLARIO ITALIANO”

nica, clarinetto, insieme di fiati, canto e pianoforte. Un momento emozionante è stato quello regalato dalla Classe di Direzione di Coro del M° Antonio Borriello che ha proposto l’Inno al Re Ferdinando di Giovanni Paisiello e quello di Cimarosa dedicato alla Repubblica Partenopea. Un Progetto, questo, molto articolato che è stato pensato per dar modo agli allievi di questa Istituzione Musicale di fare esperienza esecutiva all’interno dell’Istituzione stessa. In questo modo, forti del fatto di potersi esibire in un ambiente favorevole e familiare, hanno dato il meglio di sé e hanno interagito in un clima di collaborazione fattiva e serena tra le svariate discipline musicali che il “Cimarosa” mette a disposizione dell’utenza giovanile; inoltre il Progetto ha inteso divulgare brani musicali noti e meno noti di molti compositori italiani che, nel corso di molti secoli, hanno contribuito a influenzare il gusto musicale europeo e mondiale. Fortunatamente per noi italiani non è possibile cancellare, in ambito musicale, la memoria storica e non si può impunemente passare la spugna sul contributo importantissimo che i nostri grandi capiscuola italiani hanno regalato alle menti musicali di ogni Nazione. Con la convinzione che i compositori italiani hanno fatto scuola sin dai tempi più remoti della Storia della Musica - l’idea di “Corollario italiano” è nata proprio grazie a questa convinzione - col 2017 si chiude il Progetto triennale dedicato ai nostri grandi musicisti. Tuttavia è viva la speranza che questi appuntamenti diventino di routine così da consentire sempre più la conoscenza del nostro patrimonio musicale.

Figura 2: al termine di un concerto, da sinistra Francesco Di Giacomo (violino), Maria Pia Cellerino (pianoforte), Roberta Di Giacomo (violoncello).

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Eleonora Davide LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016 Il 2016 si presenta subito ricco di novità. Non troviamo più, almeno per quest’anno, alcune rassegne che si erano guadagnate nel tempo l’affetto del pubblico come All’Ombra del Castello, Contaminazioni Jazz e Autunno in Musica. In compenso ne compaiono altre, cui ci si potrà affezionare col tempo, apprezzandone le caratteristiche. Ma non sono solo le rassegne a segnare il passo di quest’anno: anche il Conservatorio cambia d’abito e, dopo trent’anni dalla costruzione, cede alla vanità di un Auditorium nuovo di zecca. LE RASSEGNE I Maestri della Musica (29 settembre-21 ottobre) I Maestri della Musica è una nuova rassegna dedicata a coloro che hanno fatto la Storia, partendo dai protagonisti del Jazz, passando per il genio di Mozart e Beethoven, Clementi, Händel e Vivaldi, per giungere a Domenico Cimarosa e tornare al Novecento con Prokof’ev e Roberto De Simone. Il volo, apparentemente azzardato, sembra scelto per descrivere l’evoluzione delle tecniche compositive, ma forse anche il gusto di un pubblico della musica che nel tempo evolve e si allarga ai diversi strati sociali, assumendo sempre maggiore importanza agli occhi dei compositori. Tale punto di vista ci costringe a una riflessione lenta, attenta, oltre che sul significato della musica in se, sul senso profondo della sensibilità musicale che risiede in ognuno di noi in misura diversa. Partire da Ellington per giungere a De Simone non è una passeggiata, considerando quanto abbia sempre significato e significhi tutt’oggi in musica il legame con il folclore, con la tradizione territoriale. Jazz e ritmi popolari del sud Italia hanno la stessa origine, anche se a separarli c’è l’Oceano, il massimo comun divisore si basa su presupposti comuni e, in fondo, parlano la stessa lingua. De Simone, che abbiamo incontrato al Conservatorio nel 2015, viene interpretato in questa rassegna da un Peppe Barra, sempre vulcanico in ossequio delle origini partenopee, che si concede agli allievi con grande generosità, mostrando grande rispetto per il luogo, per chi ha di fronte e per la Musica. La sua lezione lascia il segno, perché maestro non è solo chi crea, se chi interpreta regala l’anima alla composizione e le dà vita.

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ELEONORA DAVIDE

Foto 1- Peppe Barra incontra gli allievi del Cimarosa.

La settimana della musica contemporanea - Le scritture (5 settembre-26 ottobre) Compare quest’anno la rassegna “La settimana di musica contemporanea” con dieci appuntamenti distribuiti tra settembre e ottobre, che ci presentano esperti come: Gianpaolo Antongirolami, Gian Luca Baldi, Antonio Caroccia, Luigi Ceccarelli, Francesco D’Orazio, Maria Gabriella Della Sala, Agostino Di Scipio, Ciro Longobardi, Patrizio Marrone, Alessandro Solbiati e Massimo Testa. Il progetto, intitolato «Le scritture» coinvolge le classi di Composizione e Musica Elettronica nell’incontro con la musica contemporanea e i suoi attori più significativi. L’enorme successo dell’iniziativa è stato testimoniato dalla grande partecipazione di allievi e docenti, dimostrando ancora una volta come il nostro Istituto sia sempre più proiettato verso l’innovazione del linguaggio e il proficuo scambio di esperienze che è proprio della contemporaneità. La sinergia delle classi di Composizione e Musica Elettronica ha dato vita ad una serie di lavori compositivi eseguiti in prima assoluta grazie alla collaborazione con la classe di Musica da Camera. Il progetto nella sua complessità di eventi – seminari, workshop, concerti – ha riconosciuto prestigio e lungimiranza al Cimarosa, consolidando la sua immagine, il suo innegabile valore e il suo rilievo tra gli Istituti di Alta Formazione italiani. Il comitato artistico – scientifico era formato da: Alba Battista, Antonio Caroccia, Gian-

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LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016

vincenzo Cresta, Maria Gabriella Della Sala, Vincenzo Gualtieri, Maria Pia Sepe, Giacomo Vitale. Il Cimarosa suona bene (18 novembre 2016 - 20 gennaio 2017) Il titolo che il Conservatorio ha dato al ciclo di concerti appare subito supponente, ma l’intenzione del Conservatorio è quella di presentare con orgoglio i frutti del proprio lavoro ad una città spesso assopita dal tran tran quotidiano che non lascia spazio alle istanze dello spirito. Affermare che il Cimarosa suona bene rappresenta un’altra sfida che richiede il giudizio del pubblico e, soprattutto, la sua attenzione. E tale ne ha ricevuta la rassegna appena nata, raccogliendo i consensi degli affezionati e anche dei nuovi arrivati in platea. Ho riportato in tabella solo gli spettacoli tenutisi nell’anno che descrivo, riservando quelli che non vi ricadono al resoconto del prossimo anno, per lasciare aperto un discorso per il quale non credo ci sia fretta di tracciare la conclusione. I generi qui cambiano molto da serata a serata e, più che un filo conduttore, bisogna seguire la varietà di offerta musicale che scende in parata proprio per mostrare quanto sono bravi gli allievi e i maestri del Cimarosa. Da Piazzolla a Tchaikovsky il salto è alto già nella prima serata della kermesse il 18 novembre, perché non è la storia ad essere protagonista, ma le mani di Fausto Trucillo e Dora Dorti, i cui pianoforti si fronteggiano sul palco quasi a gareggiare. Anche uno sguardo alla solidarietà non manca nella rassegna. I giovani di 12 conservatori italiani si uniscono il 22 novembre per la settima edizione del progetto “Ismez Relazioni Music Live: I Giovani X I Giovani” e ad Avellino giungono per la serata la “Jazz Ensemble Martucci” da Salerno, la “Giordano Jazz Collective” da Foggia, e la “Hocus Pocus Explab” da Monopoli. Gradita e commovente anche la visita, per il concerto di Natale, del Coro di Voci Bianche del Teatro San Carlo, diretto da Stefania Rinaldi che, giunta ad Avellino, ha fortunatamente attivato un Coro di Voci Bianche anche da noi. Non è escluso da questa rassegna il maestro dei maestri, Johann Sebastian Bach, con il suo Clavicembalo ben temperato, sublimato dalla bravura di Enrico Baiano, né lo è l’opera del Settecento, di Händel e Pergolesi, proposta dall’Orchestra da Camera diretta da Massimo Testa. Torna “Parole di Musica” (2 febbraio – 24 maggio) Dopo l’anno di rodaggio, viene riproposta una rassegna avviata con successo nel 2015, pensata e realizzata dai docenti del corso Accademico di II livello in Discipline storiche critiche e analitiche della musica, coordinati da Antonio Caroccia. La rassegna letteraria-musicale del Conservatorio apre il secondo anno di attività proponendo un ricco corollario di autori di grande interesse per i percorsi di studio teorici avviati e consolidati da alcuni anni in questa Università della musica. L’interazione con i corsi ha arricchito, come l’anno precedente, le presentazioni che sono risultate tutte interessanti. L’incontro con testi e autori che godono di chiara 189


ELEONORA DAVIDE

fama nel panorama dell’editoria musicale stimola lo studio e la ricerca, permettendo un confronto e un dialogo con esperienze provenienti da contesti simili a quello del Conservatorio “Cimarosa”. La progettazione della rassegna si deve alle attività del corso accademico di secondo livello in Discipline storiche critiche e analitiche della musica e al docente Antonio Caroccia, che si è occupato dell’organizzazione in accordo con i suoi colleghi. Ospiti di questa rassegna nomi del calibro di Bianca Maria Antolini, socio della SidM e scrittrice di saggi musicologici; di Francesco Canessa, già sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli e giornalista, saggista e scrittore; di Federico Maria Sardelli, direttore d'orchestra, compositore e anche disegnatore, nonché membro del comitato scientifico dell'Istituto Italiano Antonio Vivaldi presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia; di Patrizia Di Maggio, direttrice della Certosa di San Giacomo di Capri; di Paologiovanni Maione, già docente del Cimarosa, oggi del Conservatorio di Napoli San Pietro a Majella, ricercatore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, consulente per le attività musicologiche del Centro di Musica Antica “Pietà de’ Turchini” di Napoli, socio della SidM e membro dell’Accademia Bizantina e del Da Ponte Research Center di Vienna; di Patrizia Veroli, coreografa; di Gianfranco Vinay, critico musicale; di Nicola Campogrande, compositore e giornalista musicale. Alcuni autori sono stati materialmente presenti alle giornate loro dedicate, Campogrande ha potuto esserlo solo via Skype, rispondendo alle domande degli allievi del corso di Letteratura italiana tenuto dalla professoressa Francesca Galluccio. A interloquire con gli autori i docenti del Corso DISCAMUS: Marina Marino, Tiziana Grande, Raffaella Palumbo, Pierfrancesco Borrelli, Antonio Caroccia, Maria Gabriella Della Sala, Gianvincenzo Cresta, Francesca Galluccio, Marta Columbro e Francesco Pareti. GLI EVENTI I tre eventi che hanno segnato questo 2016 sono stati: la visita di Nuria Schönberg Nono al Conservatorio, il 31 maggio, la celebrazione del trentennale della consegna dell’edificio del Conservatorio da parte del governo americano, svoltasi il 26 e 27 ottobre e il convegno “Commedia e musica al tramonto dell’ancien régime: Cimarosa, Paisiello e i maestri europei”, dal 24 al 26 novembre. Ma anche altre occasioni hanno arricchito l’offerta formativa e culturale del Cimarosa nel 2016. L’incontro con Nuria Schönberg Nono La presenza di una donna, matura, forte, portatrice di memorie che hanno avuto un peso nella storia del Novecento e che oggi guida due Fondazioni intitolate ad Arnold Schönberg e a Luigi Nono, è stato un assoluto privilegio per la nostra istituzione e per gli allievi che hanno udito con le loro orecchie una testimonianza vera, toccante, serena e concreta di una persona che ha vissuto in uno dei periodi più bui dei nostri tempi. Il racconto di Nuria percorre un arco temporale ampio e denso di avvenimenti: 190


LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016

dalle persecuzioni naziste, alla fuga negli Stati Uniti del padre Arnold Schönberg, alla sua vita al fianco del marito Luigi Nono, alle sfide di una Italia giovane e speranzosa, alle visite ad Avellino. Fu in queste occasioni che Nono partecipò a un movimento di idee nel fermento ideologico e culturale che caratterizzò la fine degli anni ’70 lasciando immaginare un grande futuro per il piccolo centro irpino. Alla discussione sul tema hanno partecipato Gianvincenzo Cresta, il giornalista Generoso Picone e Mario Cesa. L’occasione è nata dalla stipula di un accordo di collaborazione siglato dal direttore Carmine Santaniello, in rappresentanza del Conservatorio, con la Fondazione Archivio Luigi Nono di Venezia di cui Nuria Schönberg è presidente.

Foto 2 - Nuria Schönberg Nono con (da sinistra) Mario Cesa e Generoso Picone.

Il trentennale della consegna della struttura del Conservatorio Un altro evento riguarda la consegna della struttura del Conservatorio Cimarosa da parte del governo americano che la donò nel 1986 ad Avellino privata dal terremoto dell’80 del vecchio stabile di piazza Duomo, dove risiedeva il Conservatorio fondato nel 1971. L’edificio, composto da più corpi di fabbrica, ampio parcheggio e spazi verdi, fu progettato dall’architetto Raffaele Troncone, allora referente italiano della progettazione degli interventi e uomo di fiducia del governo USA. «Nonostante il suolo messo a disposizione dal comune di Avellino creasse qualche problema – spie191


ELEONORA DAVIDE

ga Troncone - si riuscì a costruire una delle strutture che ha creato maggiore visibilità alla cittadina irpina nel mondo». Le celebrazioni del Cimarosa, in omaggio alla donazione del Governo Usa, hanno avuto luogo a partire da mercoledì 26 ottobre, con il convegno «Un accordo di musica: storia di una donazione» con la partecipazione del presidente della Provincia di Avellino Domenico Gambacorta, dell’ex sindaco di Avellino Enzo Venezia, di un familiare di Ettore Maggio, primo presidente del «Cimarosa», del rappresentante della U.S. Agency for international development Tullio Biagini, dell’ex direttore del Conservatorio Filippo Zigante e del progettista e direttore dei lavori architetto Raffaele Troncone, dal presidente Luca Cipriano e dal direttore Carmine Santaniello. Nel giorno del trentennale dell’inaugurazione, giovedì 27 è stata la volta del concerto della U.S. Naval Forces Europe/Allied Forces Band, organizzazione musicale multi-nazionale con sede a Napoli Capodichino, band ufficiale della Marina americana in Europa.

Foto 3 – La U.S. Naval Forces Europe/Allied Forces Band in concerto al Conservatorio.

Il convegno “Commedia e musica al tramonto dell’ancien régime: Cimarosa, Paisiello e i maestri europei” il titolo del convegno di studi internazionali pensato per rendere omaggio a Domenico Cimarosa, uno dei grandi rappresentanti della Scuola musicale napoletana e figura centrale dell’opera, in particolare di quella buffa, del tardo Settecento. 192


LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016

La tre giorni di convegno, reso possibile grazie al lavoro del comitato scientifico composto da Antonio Caroccia, Francesco Cotticelli, Friedrich Lippmann, Paologiovanni Maione, Marina Marino e Agostino Ziino, ha portato ad Avellino il gotha del mondo accademico e musicale, con illustri relatori provenienti da prestigiose Università italiane e straniere, tra questi: Anna Laura Bellina, Daniel Brandenburg, Michele Calella, Marta Columbro, Francesco Cotticelli, Anthony Del Donna, Paola De Simone, Friedrich Lippmann, Paologiovanni Maione, Lorenzo Mattei, John Rice, Anna Scannapieco, Ingrid Schraffl, Francesca Seller, Claudio Toscani, Lucio Tufano, Piermario Vescovo, Agostino Ziino. Tra le produzioni interne al Conservatorio segnaliamo il lavoro svolto dagli allievi del corso di Discipline storiche critiche e analitiche della musica guidati da Maria Gabriella Della Sala e da Antonio Caroccia, gruppo composto da: Eleonora Davide, Antonio De Fazio, Giovanni De Simone, Rossella Gaglione, Giovanni Molinaro, Domenico Prebenna, Luca Sellitto e Pietro Sgueglia. Lo studio presentato, dal titolo “Per un primo catalogo tematico delle commedie per musica di Domenico Cimarosa” ha comportato l’analisi dei manoscritti autografi delle partiture e dei libretti delle opere di Cimarosa e della letteratura esistente sull’argomento, per dare vita a una prima stesura di un catalogo tematico delle commedie musicali del compositore aversano. L’incontro con Marcello Abbado (10 maggio) Il maestro Marcello Abbado, grande pianista, fratello del noto direttore d’orchestra scomparso tre anni fa, è stato ospite del Conservatorio Cimarosa di Avellino – che ha organizzato in suo onore un concerto dell’Orchestra Giovanile diretta da Carmine Santaniello – dove ha incontrato allievi e docenti e ha visitato la struttura, trovando notevoli le dotazioni strumentali sia della classe di clavicembalo di Enrico Baiano, che della sezione percussioni, veramente molto fornita e apprezzando anche l’Auditorium, allora in via di restyling.

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ELEONORA DAVIDE

Foto 4 – Il maestro Marcello Abbado con i docenti del Cimarosa.

La masterclass di Vinicio Capossela (24 novembre) L’incontro del popolare polistrumentista, che è coincisa con la comunicazione del direttore Carmine Santaniello che al Conservatorio è stata concessa dal Miur l’autorizzazione ad attivare l’insegnamento della Popular Music, è stato moderato da Antonio Caroccia. Capossela ha spiegato il suo legame con l’Irpinia e con la “zolla di terra” che è cresciuta dentro di lui attraverso il racconto dei nonni e dei genitori, originari di Calitri ed Andretta. Le suddivisioni non vanno fatte, secondo il musicista, in Nord e Sud: più giusta la divisione in Italia delle terre dell’osso, interne, legate all’Appennino e ai fenomeni sismici e Italia delle città e delle coste, l’Italia del mare. Il Sud è stato per lui il luogo cui attingere certe radici comuni che sono di molti luoghi. Nelle sue canzoni e nei suoi libri, infatti, la contaminazione del dialetto va oltre il luogo e gli stessi calitrani non lo riconoscono come il loro. Il suo sguardo ai Balcani e alla musica orientale, poi, lo ha portato a scoprire altre culture, altri miti che ci avvicinano di più a quelle sensibilità. Sono seguite le domande degli allievi, cui il musicista si è concesso con generosità.

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LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016

Foto 5 – Vinicio Capossela assediato dai giornalisti prima della masterclass al Cimarosa.

L’inaugurazione dell’Auditorium (24 settembre) Il 24 settembre il Cimarosa apre con una nuova veste al pubblico. L’Auditorium, oggetto di un accurato restyling che lo ha sottratto al pubblico per alcuni mesi, si presenta sfavillante per una serata d’onore. L’apertura del sipario in questo giorno speciale viene affidata al soprano Carmen Giannattasio che, in un abito viola intenso, in barba a tutte le convenzioni che vietano quel colore sul palcoscenico, decreta l’inizio di un nuovo corso per quella che viene battezzata la Casa della Musica dal presidente Luca Cipriano, pronto ad annunciare l’apertura della sala alle associazioni e agli enti del territorio. La serata, che vede il sold out per l’esibizione della cantante, che ha studiato proprio in questo istituto, è una vera festa della lirica, lasciando a Puccini e a Verdi l’onore di fare da testimoni, mentre le note della Bohème e della Traviata entusiasmano il pubblico eccitato.

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ATTIVITA’ SVOLTE DAL CONSERVATORIO NEL 2016 a cura di Eleonora Davide

22 Gennaio

26 Gennaio 2 Febbraio Parole di Musica II edizione

13 Febbraio 16 Febbraio Parole di Musica II edizione

20 Febbraio

3 Marzo Parole di Musica II edizione

14-17 Marzo 21 Marzo 21 Marzo Corollario Italiano II edizione

1 Aprile

5 Aprile Parole di Musica

Seminario-concerto “Clavicembalo e flauto dolce fra passato e presente: quali prospettive?” a cura di Enrico Baiano e Tommaso Rossi. Musiche di W. Leigh, Y. Bowen, M. Arnold, G. Ligeti, A. Bellino, J. S. Bach. Incontro con Moni Ovadia. Aula 41. Primo appuntamento di “Parole di Musica, novità editoriali nel mondo musicale e musicologico” II edizione a cura del Corso accademico di II livello in Discipline storiche critiche e analitiche della musica, coordinatore Antonio Caroccia. Italia 1911. Musica e società alla fine della Belle Époque, a cura di Bianca Maria Antolini, Milano, Guerrini e Associati, 2014, presentato da Marina Marino. Aula 41. Giornata nazionale dell’Alta Formazione. Aldo Farias Quartett in “Different ways”, con P.Bardaro, Angelo Farias, G. La Pusata. Auditorium “V.Vitale”. Secondo appuntamento di “Parole di Musica”. Ridi, Pagliaccio. Vita, morte e Miracoli di Enrico Caruso di Francesco Canessa, Capri, Edizioni la Conchiglia, 2015. Presentato da Tiziana Grande. Aula 41. Concerto della classe di esercitazioni orchestrali del M° Francesco Ivan Ciampa. Direttore Pedro Bartolomé Arce. Musiche di L.V. Beethoven, F. Schubert, M. Ravel. Auditorium “V.Vitale”. Terzo appuntamento di “Parole di Musica”. L’affare Vivaldi di Federico Maria Sardelli, Palermo, Sellerio, 2015. Presentato da Raffaella Palumbo. Aula 41. Masterclass di canto. Mezzosoprano Dora Kutschi. Aula 41. “Quando finisce la notte?” Progetto di Giacomo Vitale su testi di Anna Frank e Primo Levi, Regia Giuseppe Sollazzo. Auditorium “V. Vitale”. Tavola rotonda di presentazione con Maria Pia Cellerino, ideatrice e organizzatrice della manifestazione, Paologiovanni Maione, Maria Gabriella Della Sala, Antonio Caroccia , Enrico Baiano, Raffaella Palumbo, Renato Colella, Antonio Smaldone, Moderatore Antonio Caroccia. Aula 41. Concerto con musiche di Beethoven e Mozart. Orchestra Giovanile del Conservatorio di Musica di Avellino e University of Columbia, Missouri (USA). Soprano Carmen Osato. Direttore Paul Crabb. Teatro “C. Gesualdo”, Avellino. Quarto appuntamento di “Parole di Musica”. La scena del Re. Il Teatro di Corte del Palazzo Reale di Napoli a cura di 196


LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016 A CURA DI ELEONORA DAVIDE II edizione

9 Aprile 12 Aprile Corollario Italiano II edizione

12 Aprile Settimana della musica da camera V edizione

13 Aprile Settimana della musica da camera V edizione

14 Aprile Settimana della musica da camera V edizione

15 Aprile Settimana della musica da camera V edizione

20 Aprile Parole di Musica

Patrizia Di Maggio e Paologiovanni Maione, Napoli, Clean Edizioni, 2014. Presentato da Maria Gabriella Della Sala. Aula 41. Concerto per la “Primavera di concerti del FAI”. Classi di fisarmonica dei maestri M. Signorini e M. Scigliano. Palazzo Abbaziale di Loreto, Mercogliano (AV). Antonio Caroccia “La Scuola Pianistica Napoletana da Thalberg a Vitale”. Concerto degli allievi. Aula 41. “Il grande repertorio tedesco e l’evoluzione della forma” con: Emanuela Adinolfi, pianoforte; Antonella Censullo, pianoforte; Roberto Fusco, violoncello; Antonio Izzo, percussioni; Manuela Lorenzo, pianoforte; Maria Manna, sax; Gabriella Maria Marchese, violino; Francesca Montella, violoncello; Camillo Montuori, clarinetto; Antonella Nappi, violino; Monica Pezzano, violino; Guido Picariello, pianoforte; Simone Rescigno, violino; Alessandra Rigliari, violino; Sara Salsano, pianoforte; Liu Yang, pianoforte. Chiesa di San Generoso, Avellino. “Reinecke…Prokofiev, stili a confronto” con: Sara Brandi, flauto; Antonella Censullo, pianoforte; Giuseppe Palmiero, flauto; Daniela Penna, violino; Guido Picariello, pianoforte; Luca Pontone, clarinetto; Noemi Ricciardi, pianoforte; Carmine Ruizzo, viola. Chiesa di San Generoso, Avellino. “Omaggio a Francesco Paolo Tosti” con: Fiorenza Barsanti, soprano; Sonia Baussano, soprano; Silvia D’Errico, soprano; Francesco Domenico Doto, tenore; Gianfranco Pelosi, baritono; Marilena Ruta, soprano; Annarita Terrazzano, soprano; Daniele Albano, clarinetto; Silvio Antropoli, pianoforte; Maria Michela Maffei, pianoforte; Carlo Martiniello, pianoforte; Giuseppe Santomartino, pianoforte; Melania Spagnuolo, pianoforte. Chiesa di San Generoso, Avellino. “Il repertorio da camera nell’era moderna” con: Jole Barbarini, pianoforte; Claudio Boccia, pianoforte; Giuseppe Bozzo, fisarmonica; Fausto Credidio, fisarmonica; Eugenio De Rose, fisarmonica; Angela Del Prete, sax; Roberto De Marinis, chitarra; Gabriella Fasulo, tromba; Anna Fiore, pianoforte; Domenico Fusco, pianoforte; Mariangela Montone, pianoforte; Alessandra Orlando, flauto; Francesco Orlando, sax; Giuseppe Palmiero, flauto; Chiara Passaro, pianoforte; Giuseppe Petrillo, tuba; Elisa Zona, trombone. Chiesa di San Generoso, Avellino. Quinto appuntamento di “Parole di Musica”. I Ballets Russes di Diaghilev tra storia e mito a cura di Patrizia Veroli e 197


LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016 A CURA DI ELEONORA DAVIDE II edizione

Gianfranco Vinay, Roma, Edizioni dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 2013. Presentato da Gianvincenzo Cresta. Aula 41. 22 Aprile Concerto folk contro la guerra, le discriminazioni… per la liConcerti di Primave- bertà “Oh Freedom” a cura di Susanna Canessa e Giacomo ra Vitale, con Monica Doglione, Luca Guida, Giuseppe GriIII edizione maldi e Domenico Coppola. Aula 41. 3 Maggio Sesto appuntamento di “Parole di Musica”. Occhio alle orecParole di Musica chie: come ascoltare musica classica e essere felici di Nicola II edizione Campogrande, Milano, Ponte alle Grazie, 2015. Presentato da Francesca Galluccio e Antonio Caroccia. Aula 41. 4 Maggio Maria Gabriella Della Sala “Patetismo e drammaticità nelle Corollario Italiano Sonate di Muzio Clementi”. Concerto degli allievi. Aula 41. II edizione

10 Maggio

12 Maggio

17 Maggio Corollario Italiano

Incontro di Marcello Abbado con gli allievi del Conservatorio. Concerto in suo onore dell’Orchestra giovanile del Cimarosa diretta da Carmine Santaniello. Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, Avellino. Concerto dell’Orchestra giovanile del Cimarosa diretta da Carmine Santaniello, per Maggio dei monumenti 2016-XXII edizione ”Il ballo delle debuttanti” Maschio Angioino, Napoli. Enrico Baiano “La tastiera si fa Teatro”. Aula 41.

II edizione

18 Maggio 19 Maggio 22 Maggio 23 Maggio Corollario Italiano

Carmela Palumbo “Cominciamo dal pianoforte”, Sperimentazioni-elaborazioni su “Tierkreis” di Karlheinz Stockhausen con Annarita Lippi e Alba Battista. Aula 41. Seminario di improvvisazione con il violino a cura di Michele Marmo. Aula 41. Concerto dell’Orchestra di Fiati del Cimarosa per Maggio dei monumenti 2016-XXII edizione. Maschio Angioino, Napoli. Concerto degli allievi. Aula 41.

II edizione

24 Maggio Parole di Musica II edizione

Settimo appuntamento di “Parole di Musica”. The Neapolitan Canzone in the Early Nineteenth Century as Cultivated in the “Passatempi musicali of Guillaume Cottrau”, edited by Pasquale Scialò, Francesca Seller, Anthony R. DelDonna, Lanham, Lexington Books, 2015. Presentato da Marta Columbro e Francesco Pareti. Aula 41.

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LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016 A CURA DI ELEONORA DAVIDE

26 Maggio Le ultime sonate per pianoforte e violino di Beethoven, a cuConcerti di Primave- ra di Marco Fiorini e Simonetta Tancredi. Aula 41. ra III edizione

31 Maggio

Incontro con Nuria Schönberg Nono, sul tema «Conservare la memoria: Arnold Schoenberg e Luigi Nono». Con Luca Cipriano, Carmine Santaniello, Antonio Caroccia, Gianvincenzo Cresta e il musicista avellinese Mario Cesa, moderati da Generoso Picone, capo redattore del Mattino di Avellino. Atrio al primo piano dell’Istituto. 31 Maggio Omaggio a Sibelius. Concerti di Primave- Mario Dell’Angelo, Antonella Forino, Simone Basso, Antora nio Colonna Amedeo Francesco Aurilio. Aula 41. III edizione

3 Giugno Musica pro Salvatore di Gesualdo per la fisarmonica di MasConcerti di Primave- simo Signorini. Musiche di W. Byrd, C. Merulo. J. S. Bach, ra J. Brahms, S. Di Gesualdo. Aula 41. III edizione

9 Giugno Accordion Project. Concerti di Primave- Giuseppe Scigliano, Eugenio De Rose, Fausto Credidio, Giura seppe Bozzo, Nadia Testa. Musiche di B. Molique, J. WojtaIII edizione rowcz, E. Blatti, A. Piazzolla. Aula 41. 10 Giugno Omaggio a G. Gershwin e M. Davis a cura delle classi di A. Concerti di Primave- Farias, R. Bentivoglio, P. Pozzi, A. Avena. Aula 41. ra III edizione

14 Giugno

Omaggio a Francesco Paolo Tosti. Paola Francesca Natale, soprano; Simonetta Tancredi, pianoforte. Auditorium “V.Vitale”. 16 Giugno Compositori a confronto. Concerti di Primave- Shady Mucciolo, Danilo Squitieri, Giudo Picariello. ra Musiche di A. Piazzolla e D. Shostakovich. Aula 41. III edizione

21 Giugno Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione X edizione

21 Giugno 30 Giugno Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione

Alcina di Handel, selezione dal dramma per musica in 3 atti. Ensemble strumentale del laboratorio di musica antica del Conservatorio Cimarosa. Maestri Pierfrancesco Borrelli, Enrico Baiano, Vincenzo Corrado e Rosario Totaro. Regia Giuseppe Sollazzo. Auditorium “V.Vitale”. Festa della musica. Tutto il Conservatorio coinvolto in spettacoli e concerti per tutta la giornata. Contaminazioni parafrasi e trascrizioni dall’Ottocento chitarristico. Mario Dell’Angelo, violino e Stefano Magliaro, chitarra. Auditorium “V.Vitale”.

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LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016 A CURA DI ELEONORA DAVIDE X edizione

5 Luglio

8 Luglio Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione

C H E Z Satyricon. Divertimento scenico, dal libretto di Bruno Maderna, tratto dalla Cena Trimalchionis in Satyricon di Petronio. Musica di Bruno Maderna. Direzione Musicale Massimo Testa; Regia e adattamento scenico: Giuseppe Sollazzo. Avellino, Casina del Principe. Antonio Vivaldi “Furor sacro e passion profana” a cura dell’Ensemble strumentale del laboratorio di musica antica del Conservatorio Cimarosa. Maestri Pierfrancesco Borrelli, Enrico Baiano e Vincenzo Corrado. Auditorium “V.Vitale”.

X edizione

14 e 15 Luglio 5 Settembre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 6 Settembre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 24 Settembre

27 Settembre Corollario Italiano II edizione

Seminario di approfondimento pianistico a cura di Massimo Severino. Aula 41. Masterclass di Francesco D’Orazio – Il violino nel XX secolo, con Workshop di concertazione e di esercitazione del repertorio per archi del ‘900, a cura di Massimo Testa. Aula 41. Sessione di lavoro con gli studenti. Concerto con musiche di Solbiati, Chessa, Sciarrino, Arvo Pärt, Berio. Auditorium “V.Vitale”. Inaugurazione Auditorium “Vincenzo Vitale”. La Bohème e La Traviata, arie eseguite da Carmen Giannattasio, Raffaele Abete, Raffaele Raffio, Paola Francesca Natale. Orchestra del Conservatorio Domenico Cimarosa. Direttore Francesco Ivan Ciampa. Auditorium “V.Vitale”. Raffaella Palumbo “Domenico Cimarosa, spirito rivoluzionario”. Concerto degli allievi. Aula 41.

29 Settembre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 29 Settembre I Maestri della Musica

Patrizio Marrone, presentazione del Cd Conversazione con le cose senza nome. Moderatore Giacomo Vitale. Ciro Longobardi “Il pianoforte contemporaneo, sviluppi e nuove tendenze”. Aula 41. Incontro degli allievi con Javier Girotto. Concerto degli allievi. Concerto Jazz di Javier Girotto, Rosalba Bentivoglio e AnI edizione drea Avena. Auditorium “V.Vitale”. 30 Settembre Incontro degli allievi con Michael Rosen. I Maestri della Musi- Concerto degli allievi ca Concerto Jazz Quartet di Michael Rosen, Aldo Farias, TomI edizione maso Scannapieco e Pierpaolo Pozzi. Auditorium “V. Vitale”. 1 Ottobre Tribute to Duke Ellington and Count Basie. 200


LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016 A CURA DI ELEONORA DAVIDE

I Maestri della Musi- Concerto della Young Jazz Orchestra Campana. Direttore e ca arrangiamento Matteo Franza. Auditorium “V.Vitale”. I edizione

3 e 4 Ottobre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 7 Ottobre I Maestri della Musica I edizione

7 Ottobre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 11 Ottobre Corollario Italiano

Alessandro Solbiati “Comporre oggi, con le radici nel passato e le braccia aperte nel futuro”. Aula 41. Wolfgang Amadeus Mozart-Ludwig van Beethoven. Orchestra del Conservatorio Domenico Cimarosa. Pianisti Jole Barbarini, Carol Gasparri, Luigi Gagliardi, Angelo Gala. Direttore Luigi Gagliardi. Auditorium “V. Vitale”. Luigi Ceccarelli “Musica elettroacustica nello spazio temporale della visione”. Concerto “Voci dallo spazio acustico”. Auditorium “V. Vitale”. Concerto degli allievi. Aula 41.

II edizione

12 Ottobre 12 Ottobre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 13 e 16 Ottobre

Antonio Smaldone “Muzio Clementi, Il Concerto per Pianoforte e orchestra”. Aula 41. Gian Luca Baldi “Nuovi vocabolari armonici, nuove sintassi – Proposte per il XXI secolo”. Aula 41.

Piano City. Napoli. Partecipazione al concerto inaugurale sotto la direzione di Mariano Patti e concerto di chiusura con il Lodron-Konzert, concerto per 3 pianoforti e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart – rielaborazione per 4 pianoforti – con i pianisti Iole Barbarini, Carol Gasparri, Lina Tufano e Luigi Gagliardi (riduzione orchestrale). Basilica di San Paolo Maggiore, Napoli. 14 Ottobre Visita del Ministro dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini. 14 Ottobre Muzio Clementi, Georg Friedrich Händel, Edvard Grieg, AnI Maestri della Musi- tonio Vivaldi, Ferenc Farkas. Orchestra del Conservatorio ca Domenico Cimarosa. Pianista Antonio Smaldone. Direttore I edizione Carmine Santaniello. Auditorium “V. Vitale”. 17 Ottobre Agostino Di Scipio “Una prospettiva ecosistemica della Settimana della mu- composizione”. Aula 41. sica contemporaneaLe scritture 18 Ottobre Di Scipio – Antigirolami in concerto. Musiche di Viggioni, Settimana della mu- Tenney, Di Scipio. Auditorium “V. Vitale”. sica contemporanea201


LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016 A CURA DI ELEONORA DAVIDE

Le scritture 18 Ottobre Corollario Italiano

Renato Colella “Muzio Clementi e la drammaturgia in Forma Sonata”. Aula 47.

II edizione

19 Ottobre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 21 Ottobre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 21 Ottobre I Maestri della Musica I edizione

25 Ottobre Corollario Italiano

Gianpaolo Antongirolami “Il sassofono del XX secolo. Alcune esperienze con la Musica Elettronica”. Aula 41. Maria Gabriella Della Sala “Il pensiero di Adorno nelle scelte dei compositori del ‘900”. Aula 41. Concerto degli allievi di Composizione e Musica Elettronica. Auditorium “V. Vitale”. Incontro degli allievi con Peppe Barra. Domenico Cimarosa, Leonardo Vinci, Roberto De Simone, Lino Cannavacciuolo, Sergej Prokof’ev. Orchestra del Conservatorio “Domenico Cimarosa”. Solista e voce recitante Peppe Barra. Direttore Carmelo Columbro. Paologiovanni Maione “Nino Rota, Napoli Milionaria”. Concerto degli allievi. Aula 41.

II edizione

26 Ottobre Settimana della musica contemporaneaLe scritture 26 Ottobre Celebrazioni in omaggio alla donazione del Cimarosa dal Governo USA

27 Ottobre Celebrazioni in omaggio alla donazione del Cimarosa dal Governo USA 18 Novembre Il Cimarosa suona bene 22 Novembre Il Cimarosa suona bene

Antonio Caroccia "Scrittura e scritture ai Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt”. Concerto degli allievi di composizione e musica elettronica. Auditorium “V. Vitale”. Incontro “Un accordo in musica: storia di una donazione” con: Enzo Venezia, ex sindaco di Avellino; Raffaele Troncone, progettista e direttore dei lavori; Domenico Gambacorta, presidente amministrazione provinciale Avellino; Tullio Biagini, U.S. Agency For International development representative assistent; Filippo Zigante, ex direttore Conservatorio Cimarosa; Carmine Santaniello, direttore Conservatorio Cimarosa; Luca Cipriano, presidente Conservatorio Cimarosa. Foyer dell’Auditorium “V. Vitale”. Concerto Us Naval Forces Brass Ensemble. Auditorium “V. Vitale”.

Piazzolla incontra Tchaikovsky. Concerto per due pianoforti. Fausto Trucillo e Dora Dorti. Auditorium “V. Vitale”. I giovani per i giovani Tour Sud. Concerto per ensemble Jazz con Andrea Avana. Auditorium “V. Vitale”. 202


LE ATTIVITÀ DEL CONSERVATORIO “DOMENICO CIMAROSA” NEL 2016 A CURA DI ELEONORA DAVIDE

24 Novembre 24-26 Novembre 25 Novembre Il Cimarosa suona bene 2 Dicembre Il Cimarosa suona bene 9 Dicembre Il Cimarosa suona bene 10 Dicembre

16 Dicembre Il Cimarosa suona bene 22 Dicembre Il Cimarosa suona bene

Masterclass di Vinicio Capossela. Auditorium “V. Vitale”. Convegno “Commedia e musica al tramonto dell’ancien régime: Cimarosa, Paisiello e i maestri europei”. Aula 41. Il clavicembalo ben temperato. Enrico Baiano. Auditorium “V. Vitale”. Pluck & Pulse. Concerto per chitarra e percusioni di Emanuele Segre e Gianluca Severi. Auditorium “V. Vitale”. XMas songs. Concerto del Coro di voci bianche del Teatro San Carlo di Napoli. Pianista Luigi del Prete. Direttore Stefania Rinaldi. Auditorium “V. Vitale”. Concerto della serata finale della manifestazione «Fabula Ignis – Il falò alla corte dei Tocco» con l’Orchestra da Camera e i solisti vocali del Conservatorio Cimarosa. Musiche di F. Händel e G.B. Pergolesi. Chiesa di Santissima Maria Assunta di Montemiletto (Av). L’opera nel Settecento. Orchestra da camera del Conservatorio Cimarosa. Direttore Massimo Testa. Auditorium “V. Vitale”. Gran concerto di Natale. Orchestra di fiati del Conservatorio Cimarosa. Direttore Carmine Santaniello. Auditorium “V. Vitale”.

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RECENSIONI

Mille e una Callas. Voci e Studi, a cura di Luca Aversano e Jacopo Pellegrini, Roma, Quodlibet Studio Musica e Spettacolo, 2016, I Ristampa 2017, 640 pp. Mille e una Callas, pubblicato nel 2016 per i tipi di Quodlibet Studio e ristampato quest’anno dallo stesso editore in versione riveduta, è una ricca e coerente raccolta di saggi che intendono interrogare arte e vicende della cantante nelle loro plurime stratificazioni. Maria Callas è argomento complesso, perfino sfuggente. Per un verso è la diva consapevole, talvolta scaltra, dalle coraggiose scelte di carriera, dalla spiccata vocazione a cimentarsi sulle sponde del nuovo, che conosce i meccanismi dello spettacolo, a volte ne viene strumentalizzata e spesso li utilizza a proprio vantaggio, che s’immette nelle contingenze della cronaca e ne fa opportunità di vita e di lavoro. D’altro canto e più nel profondo, ella è l’artista che s’impone con la forza numinosa del simbolo, che dà alla sua presenza sulla scena il potere di un’apparizione archetipica. Per dirla con le parole di Elio Matassi: è un mito che «irrompe nel tempo storico come rievocato dalle profondità del tragico» (p. 35). Ancora, ella è privilegiato oggetto d’interesse e fonte d’ispirazione, sia che venga irretita sulla ribalta del pettegolezzo mediatico, sia che diventi musa di artisti come Bejart, nel balletto Casta Diva, o che presti la sua icona a registi quali Franco Zeffirelli, che sul suo tramonto costruisce un film postumo, Callas Forever. Aggirandosi nel fitto catalogo degli esempi adducibili, bisogna comunque considerare che tante e tali rifrazioni di immagine le sono consentite non solo da una straordinaria personalità, ma anche da una particolare, decisiva svolta della storia, al cui appuntamento ella si presenta con perfetta puntualità. La sua carriera decolla tra l’ultimo scorcio degli anni ’40 e gli anni ’50, quando il progressivo potenziamento dei media nella società di massa modifica i meccanismi di produzione e di diffusione dello spettacolo, anche di quello teatrale, e crea inedite intersezioni fra ambiti contigui seppur distinti: teatro d’opera e teatro di parola, cinema, rotocalchi glamour e riviste specializzate, mondo culturale più o meno appartato o espressamente disponibile alla mondanità, tutto può rifluire coagulandosi intorno a quelle che Roland Barthes chiama ‘mitologie’. Una di esse è senz’altro lei, Maria Callas, rivoluzionaria protagonista sulle scene operistiche del dopoguerra, ma anche icona culturale e mediatica in grado di ispirare elitari artisti e, insieme, capace di attrarre, raccontare e moltiplicare desideri, idiosincrasie e ambivalenze di un onnivoro immaginario collettivo. In altri termini, con Maria Callas la cantante d’opera resta – almeno nei periodi d’oro – la virtuosa dal maniacale perfezionismo tecnico, ma diviene anche una colta, avvertita interprete tesa ad assecondare al meglio le innovative scelte di direttori d’orchestra come Tullio Serafin, si trasforma in attrice coinvolta nel teatro di regia dai progetti di intellettuali del calibro di Luchino Visconti, è la professionista sempre attenta ad associare al canto l’icasticità del gesto e perfino l’espressività del volto e, dopo la 205


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drastica cura dimagrante, diventa la diva che presta un credibile phisique du rôle alle eroine che è chiamata a impersonare. Si dimostra, infine, disposta anche a sconfinare nei territori del cinema, a suggello di un profondo sodalizio con Pier Paolo Pasolini. In aggiunta, quasi a involontario eppur emblematico corollario, la voracità con cui la sua figura pubblica e privata viene ‘consumata’ negli anni dello splendore e – ancor più – in quelli del declino, la rende quasi ‘oggetto’ da pop art, ne fa lo specchio al tempo stesso torbido e fedele delle tumultuose dinamiche della società post-bellica. Questo volume tiene conto della natura complessa, per così dire polimorfica del fenomeno e, in tal senso, accoglie e soddisfa l’esigenza di indagare su un ampio, composito spettro il ‘caso’ Callas, scorrendo lungo la linea che trapassa – spesso senza soluzione di continuità – dai campi squisitamente tecnici della musicologia alle aree contigue del cinema, delle arti figurative e della storia, fino agli ambiti solo in apparenza eccentrici dell’antropologia, della sociologia e del costume. La raccolta è inizialmente nata per accogliere gli atti di un convegno interdisciplinare promosso nel 2007 dall’Università Roma Tre e in seguito si è accresciuta di ulteriori contributi che, pur differendone la pubblicazione, ne hanno arricchito il profilo scientifico e documentale. Né per la più grande interprete del dopoguerra poteva probabilmente ipotizzarsi un lavoro meno ponderoso di questo volume di oltre 600 pagine, corredato da una meticolosa bibliografia curata da Jacopo Pellegrino. Eppure, a dare ascolto a Tullio Serafin, il suo primo grande direttore, Maria Callas aveva una “vociaccia”. In quella voce un registro grave e potente coesiste con la limpidezza di un’acrobatica zona acuta: uno strumento duttile, in grado di aderire a tutti gli stili e le epoche, facendo di ogni repertorio il proprio campo d’elezione. Nel suo intervento Marcello Conati ricorda il repentino, stupefacente passaggio degli esordi, quando Maria Callas vola dalle pagine wagneriane del Tristano, del Parsifal e della Walchiria al canto “sfogato” della terza fase verdiana. A tale proposito puntualizza Marco Beghelli: «Nella sua mutevolezza, la nostra cantante riusciva infatti a trovare una “grana” diversa per ogni personaggio: con un’iperbole esibì tante voci diverse quante furono le opere interpretate» (pp. 40-41). È una stupefacente plasticità che costella la sua carriera di continue metamorfosi e le consente di affrontare in rapida successione opere distantissime, pressoché incompatibili per stile di vocalità. Così ella recupera da un lungo silenzio la Medea di Cherubini, l’Armida e Il Turco di Rossini, il Poliuto di Donizetti. Al tempo stesso, rigenera in inedita (o forse antica) versione il consacrato repertorio di Norma, Sonnambula o Macbeth. Sono solo alcuni titoli di una ben più lunga sequenza, posta sempre e comunque sotto il segno dell’innovatività. La sua voce è diversissima rispetto a quella di tutte le contemporanee e sembra provenire da un remoto passato, dagli inizi dell’Ottocento, con sé porta la reincarnazione di un modello ormai solo favoleggiato, attualizza nell’estensione e nella duttilità il mito di Giuditta Pasta e Maria Malibran. Si tratta di una tecnica azzerata nella seconda metà dell’Ottocento da un’assillante ricerca dell’uniformità, che aveva indotto alla divaricazione dei ruoli fra il soprano lirico e quello leggero.

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E, tuttavia, l’ossimoro del “soprano lirico d’agilità”, espressamente coniato per lei, non riscuote certo unanimi consensi di pubblico e critica. Come ricorda Marco Beghelli, c’è chi, abituato all’omogeneità di Renata Tebaldi, le rimprovera questa timbrica fatta di salti, di bruschi dislivelli, sottolineando l’asprezza delle note gravi, cogliendo un che di metallico nei sovracuti, lamentando una certa afonia nel registro intermedio. Presunti o reali che siano, tali difetti, però, si mutano in pregi alla prova dell’interpretazione. Fin dal 1948, la sua Norma ha il merito di liberare il canto della protagonista dalle incrostazioni tardo-ottocentesche, che ne schiacciavano il profilo vocale su una tinta scura, in un’emissione tutta e solo di potenza. La flessibilità timbrica della Callas, invece, archivia definitivamente quella prassi e riscopre l’espressività e la portata drammaturgica delle colorature belliniane, sia nella rappresentazione dell’ira, sia nell’evocazione dell’estasi. Scrive Fedele D’Amico: «Mentre spedì il soprano leggero al museo, [Maria Callas] riqualificò automaticamente il mondo pre-verdiano, dimostrando che vocalizzi e belcanto possono essere persino veicoli di dramma» (p. 43). Proprio sull’interpretazione della Norma riflette Luca Aversano, notando come tutte le numerose esecuzioni, a partire dalla prima esperienza con Serafin, non siano comunque riconducibili a una misura di acribia filologica né quanto all’ossequio letterale delle indicazioni in partitura, né rispetto alle più accreditate tradizioni del belcantismo. Si rivela, dunque, illusoria l’immagine di una Callas musicologa. Se di fedeltà si tratta, essa è da collocarsi in un ambito più ampio e generale, consiste nell’ostinazione professionale dello studio, ma soprattutto nella capacità di snidare dalla profondità della musica e di riconsegnare al pubblico nella piena, immediata evidenza della performance il sostrato simbolico, quel nocciolo di verità riposto in ogni opera d’arte. Anche per la riscoperta del repertorio rossiniano la prospettiva non muta di molto. Riconsiderando la storica ripresa del Turco in Italia al teatro Eliseo nel 1950, Jacopo Pellegrini nota che la Callas esegue in la bemolle maggiore la cavatina di Fiorilla, l’unico brano di cui si serbi registrazione, abbassandola di un semitono rispetto all’autografo. Una scelta ponderata o una svista materiale? Sembrerebbe far propendere per la seconda ipotesi il fatto che la partitura usata in quell'occasione provenga dalla biblioteca di Santa Cecilia e non sia conforme all'edizione di casa Ricordi, che prescrive un la maggiore secondo l’autentica scrittura rossiniana. Il rigore filologico non sembra, dunque, preoccupazione prioritaria, tanto più che la successiva incisione del 1955 ripristina per la cavatina la tonalità originale. Malgrado tutto, per la Callas l’errore si trasforma in risorsa: nella prima edizione del ’50, infatti, l’abbassamento in la bemolle maggiore consente alla cantante di concordare col direttore splendide soluzioni nella cadenza, fino al mi bemolle sovracuto, emesso senza alcuna forzatura. Maria Callas, però, non è solo voce, è anche prepotente presenza scenica, è un nuovo modo d’intendere la cantante nelle vesti dell’attrice. Il suo talento le propizia l’incontro con i migliori intellettuali e registi dell’epoca, primi fra tutti Luchino Visconti e Pier Paolo Pasolini.

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Con Visconti Maria dimostra uno spiccato intuito da prima donna, l’attitudine a modellarsi a intenzioni e scopi del regista, cogliendone il senso riposto e, tuttavia, immettendo in quel calco assegnato la forza originale, primigenia della sua personalità. Nel 1953, con la memorabile Sonnambula scaligera, il teatro di regia s’impone al mondo dell’opera. Per quell’edizione il costumista Piero Tosi riprende le litografie di Maria Taglioni, la ballerina ottocentesca che inaugura nella Sylphide un nuovo femminino, un ideale evanescente, quasi smaterializzato che anche l’opera belliniana s’occupa di incarnare. La scelta di Visconti è chiara: collegare in filigrana di suggestioni visive la Sonnambula del 1831 e la Sylphide del 1832. Come ricorda Concetta Lo Iacono l’operazione riesce sia perché la Callas presta alla protagonista Amina un corpo etereo, rimodellato dalla cura dimagrante, sia perché le fornisce il suo rigore di professionista, attenta a studiare e riprodurre nei dettagli le pose e le movenze dell’epoca. Né, a questo riguardo, si può omettere la Traviata scaligera del 1955. Qui la regia di Visconti è destinata a modificare per sempre la lettura e la fruizione dell’opera. Emilio Sala ripercorre il nevralgico passaggio del pertichino tenorile ‘fuori campo’ sulla cabaletta della protagonista alla fine del I atto. In quel punto il movimento di Maria che s’accosta appena alla finestra e un riverbero di luce che il regista fa proiettare sulla sua persona avviano per la prima volta la trasformazione di quella voce fuori scena da reale accenno di serenata ad eco immaginaria del desiderio. Uno slittamento di senso che diverrà stabile interpretazione nelle successive versioni dell’opera. E, ancora una volta, Callas è lì a suggellarlo. A proposito di quella storica edizione del ‘55, Concetta Lo Iacono ricorda anche lo scandaloso lancio della scarpetta alla fine del I atto, probabilmente una proposta di Maria accolta da Visconti. Nella calcolata disinvoltura del gesto in apparenza negligé, nella sua esattezza millimetrica che si riproduce sera dopo sera, c’è tutta la consapevolezza dell’attrice-cantante per il valore di frattura di quell’atto, che archivia l’affettazione delle tradizionali movenze a favore di una ben calibrata impressione di spontaneità. Tutto è ottenuto a forza di studio. Come ricorda ancora Concetta Lo Iacono, la cantante presta il suo corpo da trasformista all’inedita iconografia di una Violetta che sembra staccarsi dai dipinti di Renoir, in sintonia con le atmosfere naturaliste in cui il regista immette la vicenda, postecipandola di circa un trentennio. E, come già notato per Il Turco in Italia, la disponibilità di Maria Callas alla sperimentazione la spinge alla riscoperta di opere pressocché sconosciute. È questo il caso della Medea di Cherubini, fino ad allora quasi ignota alle scene italiane, dove peraltro era arrivata solo nel 1909, in significativo ritardo rispetto al debutto parigino del 1797. L’intervento di Franco Serpa opera una ricognizione delle esecuzioni che ne dà la Callas, partendo dalla prima interpretazione nel maggio fiorentino del ’53 e concentrandosi sulla fatidica edizione romana del ’55. Un’edizione che ha il pregio di svincolare il teatro in musica dall’angusto recinto dei melomani e degli addetti ai lavori, imponendolo, sebbene per breve tempo, sull’orizzonte aperto del dibattito intellettuale. Ancora una volta è Maria Callas il punto d’innesco della polemica: in particolare la sua generosità nel canto e sulla scena, una supposta mancanza di misura, un modo abnorme di corrispondere al personaggio. Presto, però, la controversia montata 208


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sui giornali dell’epoca travalica i limiti della rappresentazione romana, supera il giudizio sul gesto e sulla voce di Maria per inoltrarsi in un ben più accidentato terreno, sul discrimine fra dionisiaco e apollineo, fra classicità, classicismo e neoclassicismo, nel tentativo di attribuire o negare più o meno inconsapevoli pulsioni espressionistiche alla musica tardo-settecentesca di Cherubini. Nella sua recensione allo spettacolo, il musicologo Pannain lamenta l’esasperazione dei gesti e gli eccessi della vocalità dell’interprete, che travalicherebbero il segno neoclassico dello stile del compositore, distruggendone l’equilibrio. Per converso, l’anglista Mario Praz ne esalta l’icastica violenza espressiva quale capacità di evocare il mito riportandone in luce l’oscuro fondo archetipico, un nucleo originario perfino più antico di quello richiamato dal modello di Euripide. Anche il filologo Paratore difende la cultura e l’intuito della Callas, ma da una prospettiva capovolta rispetto a quella di Mario Praz: il parossismo interpretativo della cantante non rimanderebbe all’austera severità del mondo ellenico, ma all’esasperazione barocca, espressionistica della latina tragedia di Seneca. Probabilmente tanta divergenza di giudizi e tale accanimento polemico sono ascrivibili alla suggestione polisemica che la Callas è capace di attivare, al fatto che sul mito antico si sovrappone il suo perturbante profilo, l’ombra ancestrale che la sua stessa presenza proietta. Questo sapore arcaico deve aver persuaso Pier Paolo Pasolini ad assegnarle il ruolo principale nel suo film su Medea. Il regista studia a lungo il progetto e, in quella sorta di sinopia intitolata Visioni di Medea, un brogliaccio antecedente alla sceneggiatura vera e propria, immagina ancora la protagonista quale idolo selvaggio, barbarica sacerdotessa religiosamente coperta di sangue. Come riferisce Marco Ruffini nel suo contributo, il regista spiega al produttore Marco Rossellini: «l’uccisione del fratello è “un fatto rituale, che elimina l’orrore dell’assassinio. Medea infatti lo prepara, lo prefigura, lo codifica” nel sacrificio umano d’apertura» (p. 275). Eppure, di tanto sangue non resta traccia. Nel film alla Medea cruenta subentra una donna purificata, pressoché asettica nelle sue vesti raffinate e soprattutto estatica nell’immobilità del volto, nella sospensione del gesto, nella contenuta ritmica dei movimenti. Ripensamento registico o necessità delle riprese? Marco Ruffini sembra suggerire la seconda ipotesi. Alla prova dei fatti, l’attrice cinematografica non sarebbe stata all’altezza delle aspettative ingenerate dalla cantante. Egli scrive: «nel film Callas avrebbe dovuto recitare. Agire. Il punto è questo: il rapporto tra presenza e azione. […] la presenza è come un doppio del corpo naturale. Può essere un dono della natura, o un marchio. […] Ma la differenza decisiva è che gli attori sono generalmente capaci di mettere in moto la propria presenza […] al contrario dei non attori». (p. 277) In altri termini, Callas, sublime attrice sui palcoscenici d’opera, in cui è la forza motrice della musica ad azionarne mimica e gestualità, diventerebbe qui una sorta di ieratico totem da tragedia. Fiorella Taglialatela

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Musica e Spettacolo a Napoli durante il decennio francese (1806-1815), a cura di Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini edizioni, 2016, 598 pp. Il volume raccoglie gli Atti del Convegno Internazionale di Studi tenutosi a Napoli dal 4 al 6 ottobre 2012. Attraverso le vicende degli artisti, delle loro opere e dei fruitori, la lettura e l'analisi delle fonti musicali e archivistiche, gli autori hanno contribuito a delineare l’originalità della musica napoletana di quel decennio in una forzata convivenza di due culture completamente diverse tra loro: quella francese imposta al popolo napoletano per ragioni politiche e l'altra (quella del popolo, appunto) ancora figlia di tradizioni e retaggi latini. Numerosi sono stati gli spunti per lo studio dei vicendevoli comportamenti tra potere e obbedienza, animando tutti i profili interdisciplinari di indagine che sono stati esposti durante il Convegno Internazionale. Indubbiamente lo spirito riformistico della sovranità francese ha agito prevalentemente sui circuiti amministrativi; attraverso questo canale, le collaborazioni con personaggi di rilievo (vicini alla corte), seppur non sempre gradite alle maestranze locali, hanno apportato nuova linfa sulle scene napoletane. MELANIE TRAVERSIER, I Napoleonidi al servizio della musica napoletana. Lo studio riguarda i napoleonidi e l' influenza francese sulle scene teatrali, mezzo ideale per usufruire di una politica di crescita e affermazione della cultura locale. Contemporaneamente fu istituita la riforma della polizia a tutela delle regolamentazioni teatrali e delle censure. Il progetto era quello di alimentare il fermento musicale con corrispondenze, gazzette, concorsi per i festeggiamenti degli anniversari di nascita di Carolina e Murat, i rapporti diplomatici (che ancora necessitano di ulteriori studi e approfondimenti) tra la Francia e Napoli grazie alla figura di Matteo Galdi. Infine, a coronamento del tutto, fu indetta la riforma dei Conservatori di musica e si provvide alle opere di restauro dei teatri. Con l'insediamento di Giuseppe Bonaparte la crisi incombeva a Napoli proprio nel settore musicale e teatrale, per cui non mancarono dissensi e delusioni tra gli intellettuali del tempo come Burney, Stendhal, A. Creuzé de Lesser. Di tutta risposta Bonaparte favorì una riforma del teatro che eliminò Metastasio ed i virtuosismi del secolo passato ed esaltò le differenze delle dinamiche tra opera buffa e opera seria ed inoltre avallò i soggiorni di artisti francesi a Napoli, con conseguente aumento e diffusione di spartiti strumentali stranieri che l’allora bibliotecario del Conservatorio Giuseppe Sigismondo, per mancanza di fondi, non riuscì a procurarsi. Ma la sovranità francese sostenne e favorì anche talenti napoletani come Pergolesi, Cimarosa e Paisiello, definiti appunto immortali, capisaldi della cosiddetta ‘scuola napoletana’. PIER LUIGI CIAPPARELLI, Alle origini del sistema teatrale preunitario nel Regno di Napoli: progetti e realizzazioni tra il decennio francese e la Restaurazione. Il contributo è un omaggio all'architettura dei teatri e alla generosità degli investimenti urbani voluti dalla sovranità francese. Murat volle istituire allo scopo il Corpo di Ponti e Strade per la qualità architettonica degli interventi. I viaggi in Calabria ed in Puglia lo convinsero quindi ad un arricchimento dell'edilizia che invase soprattutto i suoli 210


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sconsacrati e gli antichi conventi, a discapito dei Gesuiti; ma alla chiusura del periodo di Murat, il clero cercò comunque di riscattare le proprietà sottratte. Ad ogni modo, con interventi innovativi e altre volte conservativi, con progetti vincenti e talvolta fallimentari, l' attenzione di Murat si rivolse in particolar modo alla scelta dei tecnici per una fedele realizzazione delle decorazioni, delle sale, ma anche per la costruzione delle scale di accesso ai palchi e dei portici carrozzabili. Si cita, non ultimo, anche l' intervento conservativo ad Avellino attraverso Domenico Chelli (suo fidato collaboratore) per la realizzazione di un teatro sui perimetri del monastero soppresso di S. Giovanni di Dio. PAOLOGIOVANNI MAIONE, Propaganda pubblica e repertori privati della corte murattiana. Vengono qui descritte le dinamiche degli impegni di corte. Si rende nota l'accoglienza della sovranità francese da parte della città, con un allestimento scenico – teatrale: riassetti urbani e celebrazioni spettacolari con macchine illuminate e sculture, parti integranti delle coreografie impiegate per l'evento. Viene fatta menzione anche dei faticosi preparativi per le sortite reali che prevedevano accompagnamenti, inviti a corte, e impegni serrati (distribuiti tra i molteplici eventi); lo scopo di organizzare il tutto in modo impeccabile, si muoveva nella direzione di illustrare un'immagine reale di alta qualità rappresentativa. Ma nel frattempo a Palazzo le attività non potevano perdere prestigio, per cui l'attenzione nelle sale della corte si rivolse anche al teatrino privato, dove vennero invitati ad esibirsi personaggi di rilievo come Paisiello con gli allievi del Real Conservatorio. In questo specifico caso, l'iniziativa venne presa però proprio per incoraggiare le giovani leve, così come in seguito fu fatto per i ballerini ed i cantanti del S. Carlo. Le composizioni di Mozart inoltre ebbero largo spazio grazie a Maria Carolina che ne promuoveva l'ascolto e le rappresentazioni. Da qui nacque l'esigenza di un impegnativo allestimento che fece adeguare quindi le sale del Palazzo ai variegati intrattenimenti richiesti da Maria Carolina che comprendevano anche feste da ballo, con gran dispendio in accademie settimanali per ospitare le "migliori scelte" nella rosa teatrale. LUCIO TUFANO, Costruire la regalità. Feste teatrali e cerimonie con musica a Napoli tra Giuseppe e Gioacchino (1806-1815). L'intervento descrive i generi celebrativi durante il decennio, con particolare attenzione ai componimenti drammatici ed ai loro messaggi criptati. Con l'ascesa al trono di Giuseppe Bonaparte il festeggiamento che gli riservò il popolo napoletano consistette in un Inno apparentemente entusiasta e festante ma con un testo dai chiari e feroci riferimenti alla sanguinaria rivoluzione. Il teatro S. Carlo invece, per volontà reale, da questo momento divenne tempio di opere di vario carattere (balli, intermezzi, ecc..), in contrasto con l'impronta borbonica che fino a quel momento lo avevano visto come teatro di riferimento per l'opera seria. Inevitabilmente si ebbe una maggiore varietà anche nel pubblico, attratto soprattutto dagli eventi festivi e sempre meno esperto delle performance teatrali. Il contributo mette in luce anche la figura di Murat, sovrano accolto addirittura con sculture celebrative, balli allegorici e pantomime. I festeggiamenti delle ricorrenze e delle solennità legate a questo monarca furono sfarzosi e appariscenti. Arrivando all'ultimo triennio del regno però questa vivacità di partecipazione del popolo cominciò a venir

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meno, accompagnando il tragico epilogo di Murat, il quale dopo la sua sconfitta in campo trovò la morte a Pizzo. FRANCESCA MENCHELLI–BUTTINI, Edipo a Colono fra Parigi (1786), Venezia (1802) e Napoli (1808). L'autrice propone un interessante confronto tra generi, trascrizioni, ambiti e strutture nei libretti del Coloneo e dell' Edipo Re, nella versione francese e in quella veneziana con i loro rispettivi epiloghi. Vengono poi esposti i metodi di scrittura di Ducis, la descrizione delle partiture di Zingarelli, e si evidenzia lo spessore della figura di Sofocle nella produzione del Sacchini. Proseguendo si analizza il comportamento compositivo con i personaggi di Edipo, Polinice e Antigone nella versione del libretto francese, con particolare cura all'evoluzione della trama e del rapporto padre–figlia. Uno sguardo anche all'ambientazione arida nei paesaggi di contesto e alle spettacolari dinamiche drammaturgiche che coinvolgevano i momenti più drammatici. Nella versione dell' Edipo di Sografi–Zingarelli, invece, viene evidenziata la funzione diegetica di Sofocle ed i conflitti di Edipo diviso tra la patria ed i suoi tormenti personali. LORENZO MATTEI, «Certi informi, impropri centoni né italiani, né francesi»: il caso Capotorti. Nel suo saggio è descritta l'accoglienza ma anche la diffidenza nei confronti di una contaminazione di genere, per l'appunto il melodramma francese sulle scene napoletane; è interessante menzionare il caso del Piccinni, primo importatore dello stile francese, che, non mutuandone balli e cori con i recitativi accompagnati, compose opere considerate ibride. In una Napoli che animava il teatro solo per inerzia operistica e drammaturgica, le novità degli autori nostrani potevano far vantare aggiornamenti e innovazioni sulle scene senza la necessità di dover attingere dai tratti stilistici francesi; in questo modo, si favoriva quindi il consenso del pubblico e si ricalcavano modelli patriottici in accordo con la committenza borbonica. Ovviamente il fenomeno cominciò ad affievolirsi con Murat, ma non senza delle decise contrapposizioni delle strutture melodrammatiche francesi e napoletane. FRANCESCO IZZO, Un califfo francese a Napoli: alcune osservazioni su Il califfo di Bagdad (1813). Il contributo di questo autore tratta dell'opera Il Califfo di Bagdad di Tottola – Garçia, dove proprio Manuel Garçia (nonostante le sue origini iberiche) aveva incontrato consensi come operista sulle scene francesi. A Napoli, invece, dovette operare numerosi riadattamenti per ragioni legate ai gradimenti della critica e del pubblico, ragioni che vennero poi espresse dal librettista Tottola nella descrizione delle sue modifiche al testo. Nonostante tutto quest'opera per la critica fu un giusto compromesso tra le innovazioni francesi e le esigenze stilistiche partenopee del tempo. Il successo fu garantito dall’indiscussa bravura della Colbran che ebbe l’omaggio di un verso da interpretare nella sua lingua su tempo di Bolero, ma che con estrema disinvoltura sapeva passare con rapida scioltezza all'articolazione francese. RAHUL MARKOVITS, Da Vienna a Napoli: la tournée italiana della compagnia teatrale del cancelliere Kaunitz (1772-1773). Protagonista è il Galiani, illuminista del tempo, che attraverso le sue corrispondenze con Madame d'Epinay ci fa riconoscere una Napoli tradizionalista che ospitava suo malgrado compagnie francesi. Un ampio spazio epistolare fu da egli dedicato anche alla descrizione del carattere di queste compagnie che si avvicendarono sulle scene; il caso di una di queste in particolare 212


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destò la sua attenzione in quanto fu costituita dal cancelliere francese Kaunitz che ne curò le sorti. FRANCESCO COTTICELLI, Lombardi, Francesi, Napoletani. I nuovi scenari del teatro nella capitale. L'autore delinea la commedia nella sua evoluzione all'adattamento stilistico del tempo, tra linguaggio e drammaturgia, nel corso del Settecento. Le fonti di cui si è servito gli hanno permesso di delineare un'interessante narrazione tra corrispondenze, resoconti dei viaggiatori e il confronto della città di Napoli con la compagnia francese del già citato Kaunitz. Di conseguenza si evince chiaramente la ‘forzata’ coesistenza di culture e generi nei documenti prodotti dai tribunali e nelle corrispondenze private dei regnanti. Il risultato di questa indagine rivela che ciò che verrà associato al gusto e all'impronta napoletana avrà a che fare con le prerogative drammaturgiche, comiche e parodistiche, oltre che con le tecniche recitative. Ma la duttilità di tali elementi ha permesso comunque una sana fusione con pubblici altri, che si mostravano inclini a lasciare un'ormai obsoleta immagine del teatro settecentesco napoletano. MARINA MARINO, Una Messa di Zingarelli da Parigi a Napoli. Il saggio consiste nell'analisi di una Messa di Zingarelli. La composizione nasce durante l’esilio parigino, in un periodo di vicissitudini legate alla vita dell'autore in contrasto con il regime, e non fa altro che confermare la disinvoltura compositiva nelle opere sacre. Traccia di questa considerevole abilità viene attestata anche da Florimo attraverso le parole ammirate di Paisiello e dello stesso Napoleone Bonaparte. La durata della Messa era stata stabilita a priori per volere della committenza imperiale. Tra contrappunti, timbri vocali strategici e suggestioni madrigalistiche, la Messa di Zingarelli incantò con profonda compiacenza dei committenti e convincendo anche il Paisiello a richiederne una copia per la Cappella di Napoli. SIMONE CAPUTO, La messa per i defunti a Napoli tra Settecento e Decennio francese. L’intervento tratta dei Requiem a Napoli nel Settecento e della riforma cimiteriale (con il suo aspetto archetipico e tanatologico), grazie all'idea di una rinnovata considerazione della dignità dei defunti e di una più appropriata ‘sistemazione’ urbanistica e musicale. Grazie quindi all'assetto riformistico dell'impero napoleonico, la tradizione napoletana degli uffici di sepoltura si è andata via via modificando a favore di una vera e propria prassi accompagnatoria dei tragici eventi. Da altre indagini condotte presso l'Archivio del Banco di Napoli emerge che i riti funerari erano previsti anche per gli associati alle confraternite ma con modalità più modeste, e vissute come forma di osservanza verso le famiglie e i cari defunti. Con largo impiego delle giovani leve dei conservatori, degli allievi dei Maestri compositori e degli esecutori ufficiali delle Messe, si provvedeva quindi ad ottemperare al penoso ufficio, nel rispetto della celebrazione e dell'accompagnamento del doloroso evento. Il tutto fin quando con la riforma napoleonica vi fu un risanamento dei conti ed un nuovo riassetto amministrativo degli organi competenti che provocò un inevitabile divario tra le classi sociali e la strumentalizzazione del clero fino a far diventare il rito solo un mezzo celebrativo ‘dei più’, svuotando di ogni significato la solennizzazione delle funzioni funerarie.

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ANTHONY DEL DONNA, An Overview of Niccolò Zingarelli’s last works during the French Decade (1806-1815). L'autore si sofferma sulla situazione storico– spettacolare della città di Napoli, e conduce un'analisi dei miti di Ero e Saffo nei due monologhi di Zingarelli del 1814 promossi dalla regina Carolina Murat. Grazie a lei vi era stata una rivivacizzazione delle risorse musicali con conseguente dispendio per gli eventi serali e anche Zingarelli era rientrato nel fortunato circuito. Dalle osservazioni di Lord Chamberlain si evince che nel personaggio di Saffo, ispirato ad Ovidio, si fa spesso riferimento al mare, alle coste rocciose ed agli altri elementi paesaggistici del panorama greco. Forti sono le similitudini tra Saffo e Carolina in termini di emotività amorosa. L'autore poi passa alla descrizione della caduta dell'impero di Napoleone, della rottura tra Napoleone e Murat ed il suo schieramento con gli alleati a favore di Napoli. ROSA CAFIERO, Il mito delle «écoles d’Italie» fra Napoli e Parigi nel decennio francese: il collegio di musica e il Conservatoire. Nel suo lungo contributo ritroviamo un’interessante indagine nello scambio delle conoscenze musicali tra Napoli e Parigi attraverso le testimonianze documentali. Viene descritto il prezioso operato di personaggi del tempo come Honoré–François–Marie Langlé, Nicola Sala, e Piccinni, il quale si divise tra le due capitali con incarichi di prestigioso rilievo. Non sono da trascurare anche le figure dei governatori Cuffari e Mirelli che si occuparono di una radicale riorganizzazione dei conservatori e dell'istituzione di scuole pubbliche specializzate, affinché potessero preparare i giovani all'ingresso nei conservatori. Inoltre si fa largo cenno ai passaggi di donazioni tra Napoli e Parigi in materia di metodologia e brani musicali, grazie alle testimonianze di Florimo, Sigismondo e Mattei. Proseguendo si fa menzione delle lunghe vicissitudini di Paisiello e Zingarelli legate alla loro vita artistica in relazione alle committenze e alle condizioni da esse dettate. Infine l'autrice allega una corposa Appendice con i dettagli dell'operato di Cuffari e Mirelli per le istituzioni da essi curate ed a chiudere c'è una memoria autografa di Tritto. FRANCESCA SELLER – ANTONIO CAROCCIA, Il Collegio di musica negli anni francesi. Il contenuto dello studio narra la genesi del Collegio Musicale durante questo periodo e la relativa riorganizzazione interna in materia di modernizzazione amministrativa ed economica. Da qui le conseguenze sulla gestione del ruolo di Direzione ed i privilegi agli alunni che soggiornavano in Collegio, in ragione di un assetto gerachico dei ruoli svolti e che differenziavano gli stessi tra loro. In conclusione si fa riferimento anche alla Biblioteca annessa che già ospitava donazioni e materiali di indescrivibile importanza culturale, ma che era destinata a crescere ancora nelle sue preziose collezioni. In Appendice sono poi elencati gli articoli di economia interna, i ruoli degli alloggiatori e gli avvisi di ordine amministrativo per le attività quotidiane e le Accademie. PAOLO SULLO, L’impostazione didattica di Nicola Sala, maestro di Gaspare Spontini. Si esaminano qui le linee didattiche di Nicola Sala che già da studente mostrava spiccate abilità analitiche e compositive, come dalle parole dello storiografo Villarosa. Secondo il Florimo queste pronunciate capacità erano però a discapito della melodia e dell'armonia, in quanto troppo incentrate sulle complessità contrappuntistiche. Per cui il Villarosa evidenzia invece che la didattica richiama molto quella di Leo nei 214


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suoi solfeggi, anche sul piano degli schemi formali. Dalle tabelle riportate nel contributo è facilmente comparabile il contenuto strutturale delle impostazioni date dai due autori (Sala e Leo); un ulteriore punto di osservazione è vedere come vengono elaborate a loro volta le partiture anche di altri autori della scuola napoletana del Settecento come Spontini, Scarlatti, Leone, ecc. RENATO RICCO, La scuola violinistica napoletana nel primo ventennio del XIX secolo. Il saggio illustra nuove fonti sui violinisti De Vita, Grasso, D' Anna, Festa e Puppo, attivi nei primi anni '20 dell'Ottocento, con lo scopo di ricostruire le dinamiche legate alla scuola violinistica napoletana di inizio secolo. Il tutto passando attraverso la ricerca nei repertori biografici più autorevoli. L'analisi di alcuni esempi in partitura inoltre lascia intravedere le evoluzioni di determinate articolazioni. Infine particolare attenzione va alla prassi esecutiva: più didattica, tecnica o virtuosistica a seconda della destinazione. FRANCESCO NOCERINO, Strumenti e strumentai per il Real Collegio di San Sebastiano a Napoli. Il contributo di Nocerino si articola sul piano strettamente organologico, sull'analisi degli assetti strumentali e dei relativi requisiti tecnici a favore o meno delle nuove tipologie di costruzione. Con un lavoro di confronto dei documenti visionati si evidenziano i rapporti che intercorrevano tra artigiani ed esecutori, e le loro esigenze in materia di pratica musicale. Si passa poi attraverso autorevoli figure come quelle di Panormo e Custode, entrambi reclutati a servizio del Real Collegio di S. Sebastiano. Si fa menzione anche dell'operato di Piccolo, altro artigiano coevo dei due. La loro opera costruttoria consisteva (e viene poi descritta in Appendice) soprattutto sulla realizzazione di strumenti a fiato tra cui: oboi, corni da caccia, flauti. Inoltre il contributo evidenzia anche gli acquisti di altre tipologie di strumenti come spinette e pianoforti per il Real Collegio di Musica. In conclusione l'autore si esprime sulla scuola liutaia napoletana reputandola più all'avanguardia rispetto alle altre, soprattutto nella costruzione delle chitarre a 6 corde, contemporanee a quelle barocche. In coda all'intervento Nocerino inserisce la già citata Appendice (A), affiancandola con un'altra (Appendice B) dove riporta in lingua originale il capitolo sui costruttori napoletani trattato da F. S. Kandler, corredandola della traduzione in italiano. CETTINA LENZA, Teatro e musica a Napoli durante il decennio francese nell’opera di Pietro Napoli Signorelli. Rileggendo le opere di Pietro Napoli Signorelli la Lenza vuole illustrare la posizione dei contemporanei nei confronti della novità politica e sociale che stava avvenendo nel decennio francese a Napoli rispetto alla fase storica appena trascorsa, specialmente in termini di gusti ed estetica. Da qui le considerazioni del Signorelli il quale vedeva ormai il teatro e il melodramma come terreni di brutture e corruzioni verso un ostentato declino. Di diverso avviso Arteaga che, a favore del melodramma, ne citava tutte le qualità artistiche asserendo che il poeta in questo ambito aveva il potere di sottoporre la musica al testo per esaltarne i contenuti. Il Signorelli sosteneva l'esatto contrario servendosi ad esempio di capolavori come quelli realizzati da Zeno e Metastasio con le musiche di Pergolesi e Jommelli. La proposta poi di istituire concorsi annuali sulla composizione di melodrammi, tragedie e commedie, aveva lo scopo di elevare il livello tecnico ed esecutivo delle opere, con ampio consenso della regina Carolina. Ma in conclusione l'autrice sottolinea che è necessa215


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rio non perdere di vista la posizione del Signorelli che sembrava comunque d'accordo con una innovazione nelle performance, a patto che fosse celebrativa dei maestri passati. VINCENZO TROMBETTA, L’editoria musicale nel decennio francese. A coronamento di questo testo sul decennio francese a Napoli era quasi d'obbligo un panorama anche sull'editoria musicale. La stampa dei libretti mantiene ancora una tradizione settecentesca e quindi i requisiti di texture, impaginazione, decorazione e tipologia del supporto cartaceo sono ancora tutti presenti, compreso l'immancabile spazio riservato all’elencazione degli artisti e delle maestranze coinvolte. Aspetto fondamentale della dinamica dell'editoria era la gestione amministrativa delle censure che venivano applicate da una specifica sezione del Ministero della Polizia Generale, grazie anche al Decreto emanato il 29/8/1807 in materia di disposizioni teatrali. Da qui un lungo elenco di provvedimenti giudiziari nella direzione di una più giusta gestione delle revisioni sulle opere nostrane e non, nonché sui libretti da depositare e relative partiture. Ciò riguardava chiaramente spettacoli ed esibizioni di ogni contesto e destinazione. Il contributo prosegue poi con un'interessante lettura di casi particolari legati principalmente ad opere teatrali, con dettagli sugli avvisi, le recensioni e gli elogi profusi verso la sovranità francese, tanto attenta a che venisse evidenziato l'aspetto patriottico ed il prestigio della sua autorità. L'editoria più privilegiata in ogni caso fu quella dei Flauto e dei Masi ma ben presto molti altri nomi del firmamento editoriale ne cagionarono la supremazia. GAETANO DAMIANO, Le fonti nell’Archivio di Stato di Napoli. A chiudere l'excursus della Napoli napoleonica in tutti i suoi aspetti, troviamo il contributo di Gaetano Damiano che come rappresentante di una delle istituzioni più importanti – l’Archivio di Stato di Napoli - ne ha voluto descrivere le interconnessioni tra ricerca archivistica e ricerca delle fonti. Damiano prosegue ricostruendo le modalità di deposito e conservazione dei documenti, secondo le norme emanate al tempo, a favore di una responsabilità amministrativa relegata al Ministero di Polizia. Di conseguenza, la necessità di prevedere poi altre figure di autorità commissariale per definire gli ambiti di censura e revisione delle attività musicali. La descrizione dei fondi, degli inventari e degli archivi prodotti in età napoleonica non sono stati scevri di imprevisti e inadempienze, in quanto dispersioni volontarie (e non) di testimonianze cartacee, hanno contribuito ad un impoverimento documentale di talune sezioni del Ministero. Solo per citarne uno, l'esempio narra che sul finire del Regno fu proprio Carolina Murat a dare l'ordine di eliminare tutte le documentazioni fino ad allora conservate, allo scopo di proteggere alcuni personaggi compromettenti che avevano agito nell'ombra. A questo va accompagnato anche l'aspetto più curioso che ricostruisce la vita dei regnanti, come gli allestimenti, le donazioni e la traccia dei pagamenti agli artisti di Palazzo e della Cappella, con particolare attenzione al S. Carlo. Non ultimo, l'autore cita ancora il caso delle epistole di Murat alla famiglia tutta, scritte prima della sua esecuzione capitale, e mai arrivate a destinazione. Le indagini e gli aspetti trattati dai relatori del Convegno hanno illustrato quindi molteplici prospettive di osservazione della città di Napoli sotto il dominio francese, e tutte si sono rivelate molto interessanti e innovative. Grazie al lavoro di ricerca e 216


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studio sono emersi particolari finora non approfonditi che hanno dipinto i tratti comportamentali del popolo partenopeo alle riforme francesi in materia musicale e istituzionale. Lo spirito riformistico napoleonico quindi aveva l'esigenza di promuovere novità in ogni settore ed aggiustare a proprio piacimento la città ospitante, spesso a discapito di equilibri a loro modo già precostituiti. Napoli si è dimostrata in ogni caso reattiva alle imposizioni politiche cercando di difendere, per quanto possibile, le sue tradizioni. Marina Cotrufo

GIUSEPPE SIGISMONDO, Apoteosi della musica del Regno di Napoli, a cura di Claudio Bacciagaluppi, Giulia Giovani e Raffaele Mellace, con un saggio introduttivo di Rosa Cafiero, Roma, Società Editrice di Musicologia, 2016, 334 pp. Il manoscritto di Giuseppe Sigismondo in quattro volumi, intitolato Apoteosi della musica del regno di Napoli in tre ultimi transundati secoli datato 1820 e oggi conservato presso la Staatsbibliothek di Berlino viene trascritto interamente per la prima volta in questa edizione. Nella prefazione dei curatori si ripercorre il travagliato viaggio che fece giungere nella città tedesca un lavoro che, nelle intenzioni dell’autore, doveva certamente essere destinato alla stampa. Alla morte del padre, nel 1826, Rocco Sigismondo aveva sottoposto il manoscritto all’autorevole parere del marchese di Villarosa che aveva liquidato il lavoro giudicandolo un intralciatissimo autografo, pieno di cassature e chiamate: il manoscritto, rimasto in possesso del marchese, fu tuttavia per lui il pozzo da cui attinse a piene mani per le sue Memorie dei compositori di musica del Regno di Napoli (1840). Quello berlinese è dunque una copia rilegata da uno dei possessori collezionisti, Aloys Fuchs. Il precedente possessore, Franz Sales Kandler, era entrato in stretto contatto con Sigismondo diventandone amico nonostante la differenza di età, era infatti un giovane militare austriaco giunto a Napoli per conoscere quella scuola musicale e arricchire la sua collezione di autografi. Proprio durante quella frequentazione il lavoro di Sigismondo stava prendendo corpo e proseguì anche dopo la partenza di Kandler da Napoli come testimoniato da un fitto epistolario. Del proficuo rapporto Kandler-Sigismondo, delle tante biografie di uomini illustri che vennero pubblicate prima e dopo la stesura dell’Apoteosi, del colto e raffinato ambiente napoletano frequentato da Sigismondo, dell’amicizia di quest’ultimo con Saverio Mattei, promotore della Biblioteca musica del Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini di cui Sigismondo era stato il primo bibliotecario, scrive dettagliatamente Rosa Cafiero nell’ampio saggio introduttivo (pp. XXI-LXXII) che si chiude con la trascrizione delle lettere scritte da Sigismondo a Kandler, dei suoi appunti su Zingarelli conservati presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna e della breve biografia di Zingarelli di Kandler pubblicata nella «Allgemeine musikalische Zeitung». 217


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Il primo tomo inizia con la biografia dell’autore: Sigismondo aveva studiato canto e composizione con Nicolò Porpora e Francesco Durante e aveva anche svolto studi giuridici, inoltre in gioventù si era dedicato alla recitazione pubblicando anche alcune commedie. Insegnante di canto presso numerose famiglie della buona società napoletana, Sigismondo narra numerosi episodi accaduti in quegli ambienti descrivendo anche importanti dettagli su cantanti e compositori di sua conoscenza: del cantante Ferdinando Mazzanti, del suo primo incontro con Porpora, delle sue allieve di canto e soprattutto dell’amicizia che lo legò a Niccolò Jommelli. Nel secondo tomo Sigismondo descrive la lunga e travagliata vicenda che aveva portato alla fondazione della Biblioteca musicale del Conservatorio della Pietà dei Turchini e la storia degli antichi quattro Conservatori napoletani. La ricchissima collezione di autografi di Sigismondo poteva già diventare, nelle sue intenzioni, una pubblica libreria musicale per comodo di coloro che volessero consultare i capi d’opera dell’arte e a tale scopo aveva stilato un indice di quanto da lui posseduto. Qui il nostro si addossa gran parte del merito della fondazione della Biblioteca che, proprio per la ricchezza della sua collezione che aveva sbalordito il Delegato del Real Conservatorio della Pietà dei Turchini Saverio Mattei, sarebbe stata approvata dal Re nel 1794 con la nomina dello stesso Sigismondo ad ‘archivario’, carica che avrebbe mantenuto fino alla morte (1826). Sulla nascita della Biblioteca Sigismondo fornisce anche numerose testimonianze di prima mano come l’intero documento del 22 marzo 1794 firmato dal Delegato Saverio Mattei e da tutti i Governatori del Conservatorio della Pietà dei Turchini conservato nel Libro delle conclusioni dello stesso Conservatorio; descrive poi tutte le mansioni a lui affidate e le successive donazioni che servirono ad incrementare il patrimonio librario, come quella della Regina Maria Carolina che portò alla necessità di stilare un nuovo Indice, stampato nel 1801; si dà ancora il merito di aver suggerito al Mattei di proporre al Re un dispaccio che costringesse gli impresari teatrali a depositare presso la Biblioteca le partiture delle opere rappresentate, dispaccio che sarebbe stato promulgato il 13 maggio 1795, e successivamente molte volte ribadito, che avrebbe garantito l’accrescimento esponenziale del posseduto; dà conto della fama internazionale ben presto raggiunta da questa Biblioteca tanto da spingere a Napoli due incaricati dall’appena nato Liceo musicale parigino, Kreutzer e Isouard, a venire ad acquistare il più raro e ‘l più virtuoso della nostra raccolta, ed acquistarlo per completare il nascente archivio francese, acquisti ricambiati da Metodi donati dall’Accademia reale di Francia. In merito alla storia degli antichi Conservatori, per quanto riguarda quello dei Poveri di Gesù Cristo Sigismondo attinge poche notizie tratte da Napoli sacra di D’Engenio. Su Sant’Onofrio a Capuana si sofferma a lamentare la decadenza della scuola di canto e non perde occasione per riferire del giovane Salvatore Rispoli raccomandato come eccellente maestro di canto da Saverio Mattei, incantato per aver messo in musica un di lui salmo e diventato dunque il maestro del secolo. Per quanto riguarda Santa Maria di Loreto Sigismondo, dimostrando un metodo storiografico avveniristico per quei tempi, lamenta la confusione in cui si erano ridotte le antiche carte nella translocazione di codesto Conservatorio in questo di Sant’Onofrio, e di tutte due poi in quello della Pietà. Infine dal Conservatorio della Pietà dei Turchini 218


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Sigismondo prosegue con l’inesorabile riduzione riportando l’intero Nuovo Piano di regolamento pe’ due conservatori di musica Santa Maria della Pietà, e Santa Maria di Loreto del 1797 passando poi alla trasformazione nel Liceo musicale avvenuta nel 1807 considerato da lui un deterioramento a causa della mancanza di confronto ed emulazione fra gli allievi e pur avendo preannunciato di chiudere discorrendo del Conservatorio nel Monastero soppresso di San Sebastiano, non ne fa menzione. Nel terzo tomo prende in esame diversi compositori antichi analizzando alcune loro composizioni possedute dalla Biblioteca, molte delle quali appartenenti alla sua personale collezione: l’Euridice di Rinuccini/Caccini che giudica in vari punti cosa veramente noiosissima, un informe ammasso di note, La Catena d’Adone di Domenico Mazzocchi e alcuni libri di madrigali del 500 e 600. Nell’introdurre la scheda biografica di Tommaso Carapella Sigismondo afferma con orgoglio di avere tolta la sua musica all’obblio, col collocarla fra le carte musicali di tanti nostri autori di musica nella Biblioteca da me formata. I successivi elogi raccolgono spesso notizie di prima mano, inseriscono gustosi aneddoti, come quello dello sfregio sul viso di Leonardo Vinci, e descrivono a volte minuziosamente le composizioni negli aspetti tecnici. Nell’elogio di Pergolesi Sigismondo non manca, come in altri punti dell’Apoteosi, di esprimere il suo giudizio su Francesco Durante (maestro di Pergolesi) stimatissimo esperto di contrappunto ma carente nell’estro melodico - le sue ariette riuscivano languide e snervate, le modulazioni o cantilene aspre e senza gusto, l’accompagnamento di semplici consonanze e quasi sempre pedantesco -contestando a Rousseau il suo inserimento fra i maestri di genio. Nel successivo Elogio di Durante prosegue con altri giudizi negativi: Egli imitò e seguì le vestigia del suo maestro Scarlatti, ma assai più arido e secco, sempre osservando le più strette leggi del contropunto, sicché le sue musiche essendo sempre d’una tinta, a lungo andare divenivano noiosissime per coloro ch’erano avvezzi alle musiche di teatro e da ballo. Sulla composizione dello Stabat Mater di Pergolesi Sigismondo riferisce un aneddoto raccontatogli personalmente da Francesco Feo e critica aspramente l’orchestrazione realizzata da Paisiello: Taluni del basso popolo sen compiacquero, senza capire che tal sorta di componimento non vuol chiasso, ma un accompagnamento flebile e pietoso. E ciò che fa più vergogna a Paesiello si è che permise di stamparsi col suo nome in fronte. Su Nicola Porpora, tranne i dati sbagliati sugli studi, Sigismondo riporta moltissime informazioni essendo stato il Porpora suo maestro. Di un’aria del Germanico in Germania scritta da Porpora per Caffarelli Sigismondo analizza con acume lo stile grave e posato, proprio di un dramma eroico adatto ad un’aria di sortita che non doveva sforzare l’attore nel bel principio dell’opera per farlo poi rimaner mutolo e rauco nel prosieguo. Il quarto tomo è dedicato agli elogi di Francesco Mancini, Pasquale Cafaro, Antonio Sacchini, Leonardo Leo, Francesco Durante, Tommaso Traetta, Nicola Sala, Nicolò Piccinni. Rispetto alle “biografie sfigurate” che circolavano allora (Domenico Martuscelli, Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, 1817), Sigismondo si ripromette: mi applicherò delle sere sulle Biografie sfigurate fatte non da persone sciocche, ma presuntuose che voglion parlare di ciò, che non sanno (lettera a Kand219


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ler, 8 agosto 1821). Insomma vuole portare notizie certe da sostituire alle approssimazioni e agli errori che circolavano in quelli che definiva “ridicoli Santilli pe’ ragazzi”. Proprio di Jommelli, di cui era stato un amico e fanatico ammiratore, manca l’elogio che tuttavia era confluito certamente in quello di Saverio Mattei (pubblicato per la prima volta nel 1785) al quale Sigismondo aveva raccontato informazioni di prima mano. Nelle biografie dei compositori Sigismondo di tanto in tanto si sofferma a fare considerazioni di tipo metodologico come la perdita delle composizioni sacre di Francesco Mancini o le false attribuzioni. Nella biografia di Pasquale Cafaro Sigismondo dà un giudizio sulla differenza fra lo stile teatrale e quello sacro. A questo proposito, nel commentare un Miserere di Leonardo Leo, Sigismondo, oltre a lodarne la fattura scrive ciò ch’è il più, che tutto il salmo con tanta espressione e precisione non giungeva ad un terzo d’ora considerando la brevità della musica sacra richiesta a più riprese dalle encicliche papali; e più avanti Ma oggi come goderla più, se non vi sono più soprani né contralti? a proposito del ritorno degli eunuchi, dopo il 1815, per i registri di soprano e contralto. Ormai gli eunuchi, a cominciare da quelli dell’organico della Cappella Reale severamente criticato da Kandler nel 1822, erano in una evidente fase discendente. In conclusione due appendici, l’elogio di Pasquale Cafaro di Giovanni De Silva e un saggio sui musicisti napoletani di Jean-Claude Richard de Saint-Non in cui spicca una lunga considerazione sui castrati. Numerosi studiosi hanno a più riprese attinto informazioni dall’Apoteosi per quelle singole parti che interessavano le loro ricerche, ma l’opera nella sua integrità come appare oggi restituisce al lettore e allo studioso un prezioso e dettagliato quadro della Napoli musicale del tempo di cui Sigismondo è stato certamente una figura centrale. Marina Marino

ENRICA DONISI, La Scuola violoncellistica di Gaetano Ciandelli, Lucca, Lim, 2016, 293 pp. Allorché una fonte diffonde una notizia mal interpretata o peggio senza un rigoroso metodo di ricerca, sovente sorgono equivoci e la storia di un evento o di un fatto viene deformata. Ancora più grave è se le successive generazioni di studiosi si attengono senza spirito critico, o senza verificarne l’attendibilità, a questa fonte assumendola come un dato inconfutabile, alimentando in tal modo la falsa verità dell’evento. La falsità si propaga. Se poi anche da altre fonti - le più disparate - sorgono equivoci, dovuti allo scarso rigore scientifico di taluni, si contribuisce a manipolare la realtà. Si veda il caso Ciandelli.

Scorrendo le pagine di questo libro, si avverte che tale monito storiografico [pp. 7 e 8] è il punto fondamentale sul quale Enrica Donisi, con l’acribia dello studioso, fa 220


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ruotare l’apprezzabile e chiara trattazione delle fonti documentarie relative alla Scuola violoncellistica di Gaetano Ciandelli, «figura complessa sia da un punto di vista storiografico sia come persona e professionista [p. XV], che ha istruito intere generazioni di musicisti» [p. 12]. Innanzitutto per distinguerne l’attività artistica e didattica da quella di un suo «omonimo - anch’egli violoncellista - quasi certamente suo ascendente, vissuto fra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento» [p. 8]. Donisi traccia così una rassegna metodica non solo dei diretti allievi della scuola violoncellistica di Ciandelli (Gaetano Braga, Salvatore Pappalardo, Paolo Rotondo, Domenico Laboccetta, Alberto Boubée, Ferdinando Forino ed altri), ma anche dei tanti strumentisti, valenti professionisti o abili dilettanti, e non necessariamente di strumenti ad arco, che per ragioni diverse, via via analiticamente illustrate, vi possono essere ascritti o vi hanno gravitato intorno (tra questi, Giovanni Bottesini, del quale Donisi riporta un fitto e inedito scambio epistolare intrecciato con Paolo Rotondo). Senza tralasciarvi neppure l’attiva partecipazione delle donne, musiciste, cantanti, mecenati, nonché familiari dei musicisti scaturiti da tale scuola violoncellistica (come la pianista Lisa Ciccodicola, allieva di Beniamino Cesi, che raccolse i consensi di Thalberg, la cantante Claudia Fiorentini, sposa di Bottesini, nonché Teresa Oneto Maglione, fervida ed illuminata sostenitrice della musica e dei musicisti). All’occorrenza, l’autrice accortamente avverte che, sia per una ordinata esposizione, sia «per facilitare la lettura del volume, le biografie degli esponenti più importanti della Scuola violoncellistica sono illustrate contemporaneamente agli argomenti che li riguardano; quelle dei musicisti ai margini della Scuola suddetta si riportano nell’Appendice I» [p. XVII]. Tali schede biografiche, infatti, guidano il lettore al termine di questo libro, che si conclude con quattro Appendici [pp. 215-228], oltremodo utili per l’avvio di ulteriori indagini e approfondimenti. Enrica Donisi, sin dall’apertura del volume, sulla scia di suoi precedenti lavori oltreché spronata dall’acquisizione di nuovi elementi [p. XV], con l’intento di disegnare i meriti di Ciandelli e l’importanza della scuola violoncellistica che da lui prende vigore a partire dagli anni quaranta dell’Ottocento in Italia, in Europa e, in particolare, nell’America Latina (segnatamente, Argentina e Cile), mette subito in evidenza come la valentia e il talento di questo prolifico «caposcuola delle scuole violoncellistiche di Roma, Milano, Padova e di altre fiorite in Italia, in Europa e nei paesi extraeuropei» [p. XV e passim] abbiano conquistato le attenzioni di Niccolò Paganini. E tale doveva essere la vera natura di questo «giovane di rarissimo ingegno se il celebre violinista presenta Ciandelli come unico suo allievo» [p. 3]. Apprezzando dunque Gaetano Ciandelli, «già membro di una famiglia di musicisti napoletani, o meglio, come avrebbe detto Paganini, di mediocri violoncellisti» [p. 8], il Genovese arriva a considerarlo «depositario del suo segreto». In proposito, superando gli aloni di leggenda alimentati astutamente dal mito Paganini, utili dovettero rivelarsi le idee innovative del celebre violinista, certo concepite da esperienze vive e dirette. Di sicuro la sua educazione per musicisti, fondata su collegamenti che altri non vedono, era destinata a una maniera di progredire adatta ai più studiosi e valenti strumentisti per ottenere un «radicale cambiamento d’immagine» con una «regolare pratica di cinque o sei ore di studio serio al giorno», ovviamente, là dove vi fosse un sicuro talento ini221


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ziale. Dimodoché i più talentosi - come Paganini asseriva - sarebbero addirittura diventati capaci di «compiere un miracolo» preparando un concerto nel tempo brevissimo di soli quindici giorni. In pratica, così come - a suo dire - egli aveva istruito Gaetano Ciandelli, da lui considerato «artista di gran calibro» e perciò in grado di divenire, con le sue lezioni e con lo studio del contrappunto, «il primo violoncello d’Europa». Sotto gli aspetti tecnico-strumentistici pare ammissibile che l’eredità di Paganini può essere appurata nelle vaste applicazioni violoncellistiche dello stile brillante e delle conquiste tecniche conseguenti ai virtuosismi del geniale violinista genovese, dalla cavata dell’arco per i disegni melodici all’arricchimento dei colpi d’arco tradizionali, dallo sfruttamento di tutta la gamma dei suoni armonici alle doppie corde come indicazioni di polifonia. Tanto da mettere lo strumento-violoncello in condizione di esaltare le proprie caratteristiche organologiche e timbriche negli usi solistici, dacché oramai affrancato dal ruolo di mero sostegno armonico, spesso col solo raddoppio della linea del basso. In buona sostanza è verisimile che, per un verso, Paganini sembra conformarsi a ciò che il suo amico Hector Berlioz attesta nel Grand Traité d’Instrumentation et d’Orchestration Modernes (1843): «Ce que nous avons dit pour les double cordes, les arpéges, les trilles, les coups d’archet du violon est intièrement applicable au violoncelle» (corsivo nel testo). Per altro verso tali innovazioni vanno pure a testimonianza dell’origine della musica di genere strumentale da quella di genere vocale, come emerge chiaramente dai formulari adottati dalle peculiari didattiche strumentistiche, dove le distinte notazioni scorrono su gradi congiunti e «in prevalenza sulle Scale, ‘anima’ di ogni cantore nonché ‘palestra’ dei suoi vocalizzi» (come ho già indicato in altro luogo). Gaetano Ciandelli, dunque, nasce come violoncellista (in questo lavoro, la data di nascita è segnata due volte: 1801 in 3n e 1805 a p. 9, per un evidente refuso), «ma, per esigenze professionali, si dedica anche al violino, alla viola ed al contrabbasso». Per la verità, egli, da primo violoncello del Teatro S. Carlo, «rinuncia alle brillanti prospettive di carriera offertegli da Paganini», promotore di iniziative concertistiche tali da mettere in valore l’eccellente livello artistico raggiunto dal musicista partenopeo, «per rifugiarsi nell’insegnamento pubblico e privato ed esibirsi solo per un pubblico scelto di musicisti dilettanti e professionisti» [p. 4]. Sicché, fondamentale si rileva la sua nomina a insegnante di violoncello nel Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli, incarico da lui ricoperto per un trentennio a partire dal 1830. Quando, per una di quelle fortunate coincidenze storiche, la corrispondente cattedra di pianoforte viene affidata a Francesco Lanza, «primo, vero maestro di pianoforte in Napoli» (VINCENZO VITALE, Il Pianoforte, 1983), che vi rimane per un analogo periodo di tempo. E, come il pianista Lanza (invero, autore della corposa Scuola di Pianoforte in sei libri), anche il violoncellista Ciandelli si dedica alla stesura di pagine didattiche, molto succinte ma assai significative, da lui intitolate Lezioni per violoncello. A mio parere, tenendo conto che gli insegnamenti musicali (strumentistici e vocali) sono da sempre affidati alla oralità, meglio, alle istruzioni impartite dalla viva 222


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voce dei maestri, pure i pochi fogli del manoscritto recanti le due Lezioni (la prima in Mi min. e la seconda in Do magg.) rivelano aspetti affatto interessanti, al punto da accostare i due autorevoli didatti ai più moderni concetti di pedagogia strumentistica. Con le sue Lezioni per violoncello, Ciandelli mostra di voler avviare lo studente-strumentista alla più rapida comprensione di composizioni di tipo omofonicoritmico-armonico, abituandolo ad afferrarne all'istante il sotteso pensiero compositivo, per una più immediata riproduzione fonetico-espressiva dei peculiari disegni notazionali (come concezione, questa, che egli aveva potuto altresì attingere dagli insegnamenti paganiniani). Per cui, benché tali Lezioni somiglino a prima vista ad una sorta di «basso continuo» nello stile del Fenaroli, vi si rileva che l’autore intende offrire alle possibilità strumentali talune sequenze di sviluppo di pensieri musicali, al di là dei semplici effetti timbrici e quindi oltre i possibili ornamenti armonici forniti dal violoncello. In concreto, ciascuna Lezione, come una «Piccola forma ternaria» [A B A], a guisa di una concisa Romanza senza parole, si presenta sia con la tipica struttura in frasi, scandite volta a volta da correlate liquidazioni, sia con la immissione tanto di materiale di sviluppo quanto di una sezione contrastante [B] di tipo modulante. Tale adozione di ben definiti periodi musicali consente al didatta Ciandelli da un lato di schivare le successioni di «cadenze» tipiche del basso continuo barocco, dall’altro di scacciare da ogni apprendista-violoncellista la perniciosa idea di emettere note badando unicamente agli aspetti tecnico-strumentistici, per meglio conformarsi ad una sorta di ‘pensiero sonatistico’, vale a dire ad una concezione musicale di tipo schiettamente strumentale. Per converso, ne consegue verisimilmente che Ciandelli abbia potuto condividere l’idea che, per un giovane strumentista, come l’esecuzione di una Fuga completa sarebbe stata impresa ardua (data la compresenza di due parti, ossia, di due corde, al minimo), così pure il suonare una sola delle parti fugali avrebbe prodotto soltanto note inconcludenti: per cui, in ambedue i casi, l’allievo sarebbe stato costretto ad emettere note prive di senso musicale (tra l’altro, si sa che anche nei coevi trattati pianistici, le indicazioni esecutive inerenti alle fughe occupano generalmente le ultime sezioni, a testimonianza di raggiunte abilità musicali e strumentali). Metodologicamente, quindi, Ciandelli compone tali Lezioni per violoncello come brani strumentali strutturati in frasi e periodi, similmente alle fraseologie sonatistiche beethoveniane. In più, mostrando che il suonare ‘a solo’ del violoncello non è assimilabile né agli effetti sonori propri di un calascione, né alle realizzazioni esecutive di una linea di basso continuo. Ad esaminare dunque più da vicino codesti brevi fogli didattici, si può ben asserire che Ciandelli, scansando entrambi i pericoli, ad un esecutore non chiede di suonare note che non gli appartengono, ma intende renderlo cultore analitico della pagina musicale, con la padronanza di quel patrimonio di qualità compositive che gli possano favorire la esecuzione di musiche di altri. Viepiù, in considerazione del fatto che cosiffatte esecuzioni proprie degli strumentisti ad arco possono offrirsi a più rapide prontezze esecutive, coniugandosi con migliori risultati ai pensieri musicali dei compositori, dacché gli studi che ne contraddistinguono le rispettive ascesi non sono 223


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necessariamente frammiste a conoscenze, per così dire, collaterali, quelle stesse che rendono senza altro più complicate le imprese tastieristiche dei pianisti – il pianoforte impone le conoscenze armoniche, per dinamiche esecutive certo più articolate. Sta di fatto che, più in generale, ogni esecutore deve suonare come se componesse, intendendo da subito la dialettica sottesa al pensiero musicale che deve essere mandato ad effetto. E in particolare, i violoncellisti destinatari delle Lezioni di Ciandelli dovevano abituarsi parimenti ad emettere suoni in compagini orchestrali, dialogando con altri strumenti. Ciò soprattutto in opere di tipo omofonico-armonico, come dettavano gli aneliti della nuova temperie romantica, quando la scia bachiana si allontanava sempre più dagli orizzonti compositivi ed esecutivi - è noto che Liszt considerava J. Sebastian Bach come il «San Tommaso d’Aquino della Musica: da venerare, ma non da imitare». In tal caso, i violoncellisti sono tenuti a sottolineare ogni volta gli specifici momenti ritmico-armonici, in specie, stando ai precetti della dialettica propria delle composizioni in forma-sonata (per contro, si rifletta come, nella polifonia contrappuntistica, ogni strumento assume il ruolo di ‘personaggio’, come parte dialogante dall’inizio alla fine di un ordito fugale). Orbene, è ammissibile che, nel corso della loro attività artistica e didattica, una puntuale coscienza professionale accomuna Lanza e Ciandelli, vantando l'uno e l'altro una folta schiera di allievi, lista che sarebbe «ben lunga a contare» (come scrisse per Lanza il suo biografo Giuseppe Mascia, a due anni dalla sua morte). In realtà, i medaglioni tracciati da Enrica Donisi indicano che sono molti i nomi di compositori, di strumentisti e di cantanti che si intrecciano nei proficui scambi e collaborazioni dentro quei sodalizi culturali che, all’epoca, animarono il culto della musica strumentale in Italia e a Napoli in particolare. Anzi, annotando pure che qualcuno di essi è perfino allievo di entrambi i maestri, come Raffaele Giannetti [p. 16], questo considerevole numero di musicisti diviene la principale fonte educatrice della sensibilità borghese napoletana. Di fatto, si sa che siffatti simposi culturali fiorirono in circoli aristocratici e dell’alta borghesia chiusi e raffinati, oltre che in analogia ai gusti già similmente perseguiti nell’Europa settecentesca dominata dal teatro musicale (segnatamente, di tali movimenti, l’autrice dà ampia e precisa contezza di nomi, fatti e date). Nondimeno, di tali manifestazioni si nutrirà l’opera meritoria di quei musicisti attivi a cavallo tra Otto e Novecento, per raccogliere il pregio del rinnovamento della cultura musicale napoletana (e non solo), avendo contribuito «al progredire d’una cultura che avrebbe, in seguito, condotto l’Italia ad allinearsi con le altre nazioni nel rinnovato interesse per la musica strumentale» (V. VITALE, cit.). «La musicalità del mezzogiorno d’Italia non si smentisce - assicurava pure Alessandro Longo, altro illustre didatta del pianoforte del San Pietro a Majella -, come non si smentisce l’opera degl’insegnanti del nostro glorioso istituto. È lecito affermare che finché il Conservatorio avrà ottimi insegnanti - quanto a gli alunni, la statistica assicura che le province meridionali daranno sempre il loro prezioso contributo d’intelligenze musicali – l’arte nostra sarà sempre in prima linea» (da A. LONGO, L’Arte pianistica nella Vita e nella Coltura musicale, I, 14,15 luglio 1914). Pertanto, offrendo un’interessante disamina storica della scuola violoncellistica di Gaetano Ciandelli, Donisi fa emergere la vocazione d’insegnante del prolifico ca224


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poscuola, il quale, ragionevolmente, vi appare come vero maestro, che vive l’insegnamento come trasmissione di un determinato corredo di risorse tecnicostrumentali, specifiche e sicure, ma che non si ferma a queste. Tant’è vero che, onde contribuire in maniera determinante alla formazione di future generazioni di musicisti, l’esperto didatta, sul piano pratico, non tralascia la elaborazione del comune patrimonio culturale relativo alla canzone napoletana, «fiorita in una città ricca di tradizioni musicali plurisecolari». Ed effettivamente, come illustra bene Donisi, sin dagli anni Quaranta, durante i concerti da camera, i musicisti del tempo, tra cui pure alcuni esponenti della Scuola violoncellistica di Ciandelli, erano soliti inserire, «come intermezzi, le canzoni napoletane, spesso interpretate in case private ed alternate a pezzi da camera offerte ad ospiti stranieri» [da p. 193]. Come consuetudine - precisa l’autrice appena oltre - che dalle residenze private si estese ai teatri, per favorire la fruizione della musica da camera ad un pubblico sempre più numeroso. Con ciò, ancora una volta, pare avvalorato quell’orientamento di spirito romantico, per il quale «il patrimonio di musica popolare europea e anche la musica colta ad esso ispirata è essenzialmente un arrangiamento e una variazione su temi tradizionali di un determinato modo folklorico […]. E non solo le composizioni dei musicisti classici sono basate su melodie e motivi che i compositori hanno preso a prestito volutamente dalla musica popolare, ma essi stessi sono stati influenzati inconsciamente dal patrimonio popolare della propria gente» (così ABRAHAM ZVI IDELSOHN, Storia della musica ebraica, trad. it. 1994). Relativamente alle manifestazioni musicali di scuola nei Paesi dell’America Latina, poi, l’autrice si sofferma dapprima su quella argentina, con Luigi Forino, che a Buenos Aires istituisce la succursale del romano Liceo Musicale di Santa Cecilia, al contempo, invitandovi, come direttore, altri musicisti italiani in qualità di docenti [da p. 140]. E, tra siffatte presenze di pianisti, didatti e compositori, spiccano Vincenzo Scaramuzza (calabrese napoletanizzato, trapiantato in Argentina, già allievo di Florestano Rossomandi), Vincenzo e Luigi Romaniello (quest’ultimo alunno pure del Cesi ed entrambi autori di apprezzati metodi pianistici: rispettivamente, Il Pianista moderno e Gran metodo completo pianistico), Costantino Gaito (al quale l’autrice riconosce il merito di una sorta di contaminazione tra elementi di musica europea e motivi del folclore sudamericano). A seguire, Enrica Donisi segnala la Scuola cilena con Stefano Luigi Giarda, altro allievo di Ciandelli, che rappresenterà «la base della musica cilena per la sua attività didattica, compositiva e artistica e a cui spetta il merito di aver rivoluzionato anche in Cile la cultura e l’istruzione musicale, ottenendo anche effetti positivi sull’economia, sul progresso sociale, sull’occupazione e sull’alfabetizzazione di alcune categorie sociali meno abbienti» [pagg. 150 e 152]. L’autrice conclude il suo apprezzabile scritto con l’auspicio, senz’altro condivisibile, «che presto le musiche citate nel presente studio siano inserite nei repertori attuali» [p. 214]. A ciò mi pare che si possa aggiungere che si deve certamente a figure esemplari di musicisti come quella di Gaetano Ciandelli e di quanti hanno respirato storia e cultura nei Conservatori della nostra tradizione italiana se, ancora oggi, dalle radici 225


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antiche delle nostre scuole strumentistiche e vocali possono fiorire i molti giovani musicisti ai cui talenti spetta la diffusione della magia della musica. Infine, a commento dell’attento percorso storico-artistico esposto da Enrica Donisi, penso che possa valere, importante ed efficace, una considerazione sul termine ‘scuola’, com’è intesa nel libro e ancora oggi valida negli insegnamenti musicali. Nelle Considerazioni conclusive, ribadendo il valore dei concetti di fondo della pedagogia strumentistica di Gaetano Ciandelli, trasmessi poi ai suoi allievi per giungere fino alle generazioni più vicine a noi, Enrica Donisi acutamente annota: «La Scuola violoncellistica, più che una ‘scuola’, è un modo d’interpretare la musica ed un metodo, un modo di trattare la materia musicale che stimola la composizione e tenta nuove strade» [p. 212]. Ciro Raimo

ANITA PESCE, Adolphe Nourrit. Dall’Opéra al san Carlo: comme le ciel de Naples, Napoli, Arte’m, 2016, 83 pp. Adolphe Nourrit. Dall’Opéra al san Carlo. Comme le ciel de Naples di Anita Pesce non è solo un libro su uno dei più grandi interpreti del melodramma dell’800 ma si propone come una «biografia affettiva». Una biografia che diventa un atto d’amore non solo nei confronti del personaggio di Adolphe Nourrit ma anche per Napoli, la città dell’autrice e la città in cui il celebre tenore francese, oggi quasi dimenticato, visse la sua ultima stagione artistica e dove, a seguito di delusioni forse troppo forti per l’evidente fragilità del tenore, trovò la morte da suicida all’alba dell’8 marzo 1839. Nel libro si intrecciano continuamente la realtà esterna e quella interna al protagonista: la città-capitale, che viveva in quegli anni il fermento rivoluzionario che dilagò in tutta Europa dopo i moti parigini del 1830, fa da sfondo alle vicende del talentuoso artista dai grandi ideali, il quale proprio nel contesto napoletano comprende la fine della propria parabola artistica e creativa, di pari passo con la disillusione nella speranza politica in cui aveva fortemente creduto e a cui aveva convintamente aderito. Nel corso del libro veniamo a conoscenza delle vicende vissute da questo importantissimo personaggio: figlio d’arte, si avvicina al canto in età già adulta per una dote personale che era quasi impossibile da ignorare. Conosce gli onori e la gloria sin da subito ma a sue spese deve imparare la volubilità del pubblico. E così, all’apice della sua carriera all’Opéra, Nourrit comprende che nella società “moderna” la curiosità verso la novità riduce il vecchio ad obsolescenza. Con uno stratagemma poco sottile, al cantante viene affiancato come primo tenore l’italianizzato Louis-Gilbert Duprez, «l’inventore del dodipetto», che andava incontro, con la sua potenza vocale, ai gusti mutati e mutevoli di un pubblico già dimentico della grazia e dell’eleganza dello stile canoro francese del Maestro. La scuola francese di canto, infatti, utilizzava la voce di 226


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testa, il falsetto e le sfumature, mentre l’opera italiana, in quegli anni, esigeva l’emissione di petto, virile e potente. Il peso della competizione finisce per logorare l’animo sensibile di Nourrit, che per l’onta, dopo aver fallito a causa di un arrochimento in scena, si fa coraggio e decide di partire per tentare il suo riscatto artistico e apprendere lo “stile italiano”. Ed è proprio qui che entra in scena Napoli, la città in cui Nourrit comincia la sua collaborazione con Donizetti, il maestro a cui il tenore si affida con estrema umiltà per raggiungere la perfezione artistica che sarebbe dovuta culminare nella messa in scena del Polyeucte di Corneille. Ma quando la città del Vesuvio appare, volutamente, l’obiettività si dissolve: la Napoli qui ritratta non è quella in posa plastica da cartolina ma è una Napoli più vera, fuori da cliché, che può essere raccontata solo da chi l’ha vissuta intensamente. Questa Napoli diventa un buco nero che inghiotte le aspettative di Nourrit: lui non riesce a ricreare la sua carriera e dopo mesi di studio ferreo, nel tentativo di operare un’impossibile trasformazione di un apparato vocale stilisticamente e forse anche fisiologicamente predisposto a “cantare nel naso”, l’impresario del San Carlo Barbaja e tutto il pubblico cominciano ad accorgersi che il più famoso tenore di grazia di Francia non solo aveva perso quelle emissioni morbide e quell’eleganza che al suo arrivo avevano incantato Napoli ma, allo stesso tempo, non aveva acquisito lo stile canoro dell’opera italiana, nella quale risultava goffo e fuori luogo. Gli insuccessi arrivano uno dopo l’altro, mettendo a dura prova il fragile equilibrio psichico dell’artista, il quale non riesce a convivere con il suo personale fallimento, nonostante l’affetto del quale fosse circondato. Il dramma della sua morte prematura è un dramma tutto interiore, conseguenza (almeno così se ne deduce) di una sensibilità troppo spiccata per rapportarsi con gli opportunisti del mondo teatrale. La tragedia di questo cantante è quella di una persona corretta, dall’animo nobile, che rinnega continuamente il proprio io e che nulla riesce a perdonarsi, che sogna «una perfezione che non è concessa all’uomo». La sua morte è raccontata en passant, come un evento del quale forse ci si vorrebbe dimenticare, quasi a significare che l’importante, in fondo, è la memoria di ciò che si è stati in vita. Nonostante la tragica fine di Nourrit, verso la quale inevitabilmente il libro ci avrebbe portato, non è questa una storia di morte ma è soprattutto una bellissima storia d’amore. In effetti, l’autrice riesce nel suo intento, riesce a farci amare Nourrit, forse perché lei stessa viene irretita a tal punto dal personaggio, quasi lo avesse conosciuto di persona, permettendo anche «agli altri di leggerlo con affetto e indulgenza». Questo libro trae spunto da un’unica fonte, l’imponente biografia che Louis Quicherat scrisse nel 1867 con l’intento di riabilitare la figura del suo vecchio amico e compagno di studi. Quindi l’autrice osserva la storia attraverso gli occhi di chi, in vita, aveva conosciuto e stimato questo grandissimo personaggio e ne ritrasmette nel suo libro quella vibrazione emotiva che solo i veri artisti riescono a sollecitare. Questo libro si legge come un romanzo, sembra quasi spiacevole conoscerne già la fine, come se ci si potesse aspettare che la storia si sarebbe potuta concludere diversamente. Un libro anomalo, nel filone sempre più battuto delle biografie di celebri cantanti del passato, che merita sicuramente di essere letto. Antonella D’Argenio 227


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Cimarosa Complete Piano Sonatas, Vol. I e II, pianoforte Dario Candela, 3 CD, «Dynamic», CDS7720 – CDS7790.02 Sicuramente più conosciuto per la sua produzione operistica, Domenico Cimarosa scrisse anche eccellente musica strumentale come queste ottantotto sonate per strumento da tasto proposte in due interessantissimi volumi dall’etichetta discografica «Dynamic» e affidate alle sapienti mani del pianista Dario Candela. Nella carta 1r del manoscritto B.1881, conservato nella Biblioteca del Conservatorio di Firenze, si legge: «Raccolta di Varie Sonate/Per il Fortepiano/Composte/Dal Sig.or Cimarosa»; ottantotto movimenti singoli, ai quali in modo generico si attribuisce il termine Sonate che, come prevede in alcuni casi lo stesso Cimarosa, vengono ordinate e proposte in questa “integrale” secondo criteri di affinità tonale che alternano, ad esempio, tempi allegri e vivaci a tempi più lenti e intimistici. Andrea Coen, curatore dell’edizione moderna di riferimento «Sonate per Clavicembalo o Fortepiano» edita da Zanibon, scrive nell’introduzione: «Ognuna delle sonate rifugge da una schematizzazione assoluta: pertanto, i modelli formali che si potranno facilmente individuare, dovranno essere intesi solamente come una traccia relativa, da seguire con cautela e da adattare elasticamente in ogni sonata». Nell’annoso dilemma sull’utilizzo di strumenti storici (clavicembalo e fortepiano) o del pianoforte per eseguire repertorio tastieristico barocco, le incisioni delle sonate cimarosiane di Dario Candela si inseriscono con una naturalezza ed una grazia che vanno al di là di ogni disquisizione sull’approccio filologico a questa musica. Intanto va sottolineato che, pur servendosi di un moderno pianoforte Yamaha CF3, Candela tiene conto della prassi esecutiva barocca che nel caso delle Sonate di Cimarosa strizzano l’occhio ai nuovi principi estetici dello stile galante. Nelle note del booklet firmate da Sandro Cappelletto e disponibili in lingua italiana e inglese, è lo stesso interprete napoletano che ci introduce alle sue esecuzioni: «Ho prediletto due aspetti in assoluto: il contrasto e la cantabilità. A mio avviso, le Sonate di Cimarosa rappresentano uno scrigno di idee melodiche dove la verticalità, ridotta al minimo, è solo una stampella che regge la voce sovrana, il canto». Candela propone un percorso ricco nelle dinamiche, variegato nella condotta agogica e nelle soluzioni dinamiche; il fraseggio si dipana quieto ma allo stesso tempo chiaro, facendo risaltare sonorità calibrate con la precisione di un orafo. Dove serve sfodera un tocco più deciso e sonorità più robuste come in alcuni Allegri (vedi quelli in re maggiore e in fa maggiore) ma sempre mantenendo un’esecuzione limpida che porta l’ascoltatore ad attendere la traccia seguente con curiosità, come avviene quando si legge un buon libro e si è impazienti di sapere cosa accade nel paragrafo successivo. In queste registrazioni traspare tutta la teatralità di questa musica: le alzate di sipario in taluni Allegri, la pacata tristezza di un’aria introspettiva come nella struggente Sonata in re minore n°9 seguita da una frizzante e fulminea cabaletta come nell’Allegro in re maggiore n°12. Merita di essere evidenziato l’uso mai spropositato degli abbellimenti e in 228


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particolar modo la gestione della tavolozza timbrica del pianoforte moderno che Dario Candela sfrutta appieno evidenziando quei contrasti tipici della cultura napoletana, ieri come oggi. In definitiva, un’incisione di pregevolissima fattura merito dell’assoluta maestria dell’interprete e merito anche di un’impeccabile ripresa sonora che rende ancor più godibile questo prodotto discografico. Domenico Prebenna

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