davide conti - Vivere La Storia Invisibile - Sei Istruzioni D'Uso Per Sei Racconti Brevi

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VIVERE LA STORIA INVISIBILE ++++++ sei istruzioni d’uso per sei racconti brevi



Ugo La Pietra



POLITECNICO DI MILANO FacoltĂ di Architettura e SocietĂ Corso in Architettura degli Interni e Allestimento Anno Accademico 2012/2013 relatore prof. Pierluigi Salvadeo correlatore prof. Lorenzo De Stefani studenti Davide Conti 766791 Riccardo Ferrari 766735


Giunti a questo punto, non possiamo esimerci dall’esprimere una sentita serie di ringraziamenti a tutte quelle persone, di straordinaria importanza, che hanno fatto si che questo lavoro iniziasse, maturasse e si concludesse nel miglior modo possibile. Un formale ringraziamento va al professor Salvadeo, docente, ci sentiamo di dire per la nostra esperienza, unico nel suo genere. Il suo animo mite e i suoi settori di ricerca didattica hanno sempre fatto si che ci fosse tanto entusiasmo da parte nostra e un ottimo clima interpersonale in cui svolgere lezioni e revisioni. La sua passione per l’insegnamento e le anticonvenzionali tematiche di progetto, ci hanno spinto a seguire diversi suoi corsi, fino ad arrivare all’idea di volerlo, senza opzione alcuna, come relatore per la nostra tesi del quint’anno. Le sue lezioni visionarie e i suoi progetti fuori dagli schemi ci hanno rivelato un nuovo mondo architettonico, parecchio lontano da quello visto e sperimentato fino ad allora, fu lui stesso due anni fa a dirci <<…dobbiamo farvi dimenticare quattro anni di Politecnico…>>. Per noi fu un’assoluta rivoluzione, se altri docenti, come la professoressa Forino, ci avevano fatto innamorare dell’architettura, lui ci ha aperto la mente, rivelandoci l’esistenza di nuove forme d’architettura, ben più complesse, per le quali noi non eravamo minimamente pronti. Il suo approccio didattico di porre punti di partenza teorici su cui fondare un’avventura progettuale, di cui non si conoscono a priori i caratteri finali del progetto, è stata la cosa che in questi anni più ci ha fatto sentire convinti di essere aspiranti progettisti. Ci ha stimolato alla libertà creativa più assoluta, facendoci sperimentare la freschezza, l’ironia, la provocazione progettuale e tutti quei caratteri meno formali che l’architettura contemporanea ora vediamo contenere. Abbiamo impiegato quasi due anni per capire a fondo ciò che le sue prime lezioni volevano davvero insegnarci, ed è proprio questo stimolo alla passione per la ricerca di nuove forme di cultura architettonica, uno degli aspetti accademici di cui siamo più riconoscenti, l’idea che per migliorarsi e crescere si debba guardare il mondo senza pregiudizi, esattamente ciò che è accaduto in questa tesi. Il professionale e stimato docente ed architetto Salvadeo, lascia spesso il posto a Pigi, uomo brillante e disinvolto, sempre pronto a mettersi al pari degli studenti, per irriverenti ed ironici discorsi, ma soprattutto per un confronto didattico sereno, sempre dialettico e stimolante. Possiamo dire che noi, nello specifico, abbiamo avuto l’opportunità di conoscerlo professionalmente oltre che accademicamente, opportunità per la quale noi siamo davvero grati. Ci ha permesso di fare esclusive esperienze professionalizzanti non solo tra le mura dell’Università, e anche in tali occasioni Pigi si è rivelata una persona sui generis, contraddistinto da un umorismo contagioso e dissacrante, ma sempre etico e professionale con collaboratori, studenti e clienti. Quest’anno di ricerca non è stato sicuramente privo di rimproveri, fraintendimenti e faticosi momenti in cui tutto era da rimettere in gioco, ma di certo, ogni volta, l’atmosfera era propositiva ed ottimistica sempre colorata da ilarità. Una serie di grazie li dobbiamo spendere anche per la sua disponibilità e gentilezza, infatti, ci ha sempre garantito un occhio di riguardo, senza contare tutte le volte che lo abbiamo importunato in qualsiasi occasione e con i mezzi meno istituzionali. Speriamo, quindi, sinceramente, che sia soddisfatto di questo lavoro di ricerca e dei risultati raggiunti, proprio come lo siamo noi, in virtù del fatto che tutto ciò che è stato compiuto è merito suo. Un doveroso ringraziamento va al professor De Stefani, docente che purtroppo non abbiamo avuto l’occasione di conoscere durante i nostri corsi, ma abbiamo avuto la possibilità di incontrare durante quest’esperienza di tesi. Persona di straordinaria cultura e, soprattutto, di estrema sensibilità culturale, benché, ci abbia seguiti a lavoro avviato, ha sempre dimostrato interesse per questo percorso di ricerca. Profondo conoscitore della storia architettonica di Milano, ha contribuito con consigli mirati e preziosi. Fedele al suo ruolo di critico ed esperto di restauro, ha cercato con entusiasmo di trasmetterci parte delle sue esperienze e conoscenze in merito ai rapporti che intercorrono tra architettura, città, storia, burocrazia e cultura del restauro. Il suo grande merito è stato quello di darci un occhio esperto nel campo degli interventi sui siti archeologici, non tanto dal punto di vista pratico, ma quanto più di approccio culturale, il tutto svolto non in maniera categorica e bigotta, ma quanto più insospettabilmente aperta alle nostre provocazioni, sempre giustificata ed appassionata. Sappiamo che, probabilmente, avessimo avuto più tempo, avremmo potuto approfondire e redarre specifici elaborati ben più di settore, avvalorando e dando spessore alle


nostre idee. Purtroppo, però, l’imprinting principale che questa tesi ha non è assolutamente tipico di una tesi del campo del restauro, per questo, speriamo che, nonostante i caratteri dominanti di questo lavoro, sia soddisfatto dei risultati ottenuti. Un grazie particolare va a Davide Colaci, inguaribile perfezionista dal sadico scetticismo, ma, soprattutto, persona di grandissima cultura architettonica, infinita fonte di idee, riferimenti e opinioni, sempre provocatorie e spregiudicate. A lui, infatti, dobbiamo parecchio, è stato il primo che ci ha catapultati in un nuovo mondo architettonico, è colui che ancora oggi ci fa sentire come matricole, ignoranti di un mondo contemporaneo che noi stiamo appena iniziando a traguardare con lo sguardo. Il suo inconfondibile atteggiamento ci ha sempre spinti a dare il massimo, ma soprattutto ci ha insegnato a sperimentare senza sosta, ci ha mostrato come più conosci più ti senti piccolo, ma allo stesso tempo entusiasta di nutrirti solo di novità. In realtà a lui dobbiamo anche un’inaspettata fiducia per le esperienze compiute assieme e una ragguardevole gentilezza e disponibilità, condita sempre con una buona dose d’insulti. In realtà, ad essere sinceri, scriviamo a lui nella vana speranza che questa tesi, almeno un po’, gli piaccia. Guardando il risultato fisico dei materiali disposti per questo lavoro di tesi, la qualità degli elaborati e delle maquette riteniamo essere non solo merito nostro, ma anche merito del costante impegno professionale di diverse persone che, con dedizione, passione e molta leggerezza dei modi, essi perseguono. Ringraziamo il buon Mirko e la gentilissima Viviana, per i quali negli ultimi tempi siamo diventati un incubo. Ci hanno sempre riservato un trattamento di tutto rispetto che univa una straordinaria professionalità ad un travolgente umorismo, facendoci passare le ore nello “scantinato” sempre all’insegna del buon umore e dell’ottimo risultato. E come non ringraziare i ragazzi di Protoshop, la loro passione per ciò che fanno ha sempre fatto in modo che fossero da anni i nostri rivenditori di fiducia, nonostante la loro scomoda distanza. Flavio e Leo ci hanno sempre garantito una straordinaria qualità dei materiali, senza la quale, di sicuro, noi non avremmo mai raggiunto i risultati avuti in questa tesi ed in molte altre occasioni. La loro esperienza e inconfondibile disponibilità nell’aiutarci, inoltre, ci hanno portato ad essere sempre innovativi per raggiungere risultati che mai avremmo immaginato. Non ultimi, anzi, vogliamo ringraziare i nostri compagni di università, persone fantastiche di mondi diversi che abbiamo imparato a conoscere e con i quali abbiamo condiviso fatiche accademiche, birre, notti in bianco e un’innumerevole serie di esperienze che saremmo pronti a ripetere anche domani (forse non tutte). Siamo grati a coloro che negli anni abbiamo incontrato e poi perso per mille motivi vari, ma che, ancora oggi, abbiamo piacere di sentire, incontrare o ricordare, perché anche loro hanno contribuito a farci crescere e a dimostrarci quanto un’esperienza come quella della Facoltà di Architettura al PoliMi, anche dal punto di vista umano, sia ben di più di una semplice esperienza didattica. Una grazie in particolare, poi, ovviamente, va a quei pochi compagni universitari che, nel tempo, dopo le più disparate esperienze vissute assieme, con estremo affetto, oggi, non possiamo che chiamare Amici. E dunque, insomma, un ultimo omaggio va reso anche a Lui, al Politecnico, luogo che per 5 anni, anzi quasi 6, è stata la nostra prima casa (nel vero senso della parola), di sicuro non molto accogliente, ma come ci insegna Catullo, come accade in una relazione d’amore, c’è sempre l’inestrinsecabile odi et amo. Via Ampere n.2 è stata per noi, infatti, come una perdurante condanna, prigione dai lavori forzati e allo stesso tempo inestinguibile fonte di passione ed entusiasmo per la materia. Si può parlar male di molti aspetti di questa facoltà a partire dalle strutturate carenze dei servizi, ma, giunti dove siamo ora, non possiamo negare che sia stata un’ottima scelta che entrambi noi, se dovessimo tornare indietro, ripercorreremmo ancora. In virtù di molte esperienze e racconti in merito ad altre Università, alcune ben più prestigiose di questa, la cosa che ci ha sempre lasciati rammaricati, oltre ad alcune pessime e spiacevoli esperienze con la docenza, è che, nonostante le poche risorse, basterebbe veramente poco per rendere il Politecnico una scuola di grado nettamente superiore, cosa che noi le auguriamo di diventare con tutto il cuore.


davide conti

Grazie. Nient’altro da aggiungere. Semplicemente grazie a chi mi ha fatto arrivare fin qui. A loro che hanno conosciuto questo bellissimo mondo nuovo, scoprendolo passo dopo passo insieme a me. A loro che non mi sento di dare consigli architettonici a casa mia, anche perché fino a prova contraria è casa loro. Grazie perché hanno sempre esultato per un 18 e a volte pianto per un 30. A loro che appoggiano le mie scelte universitarie ma che si oppongono ai miei pantaloni così “giù’”. A loro che le telefonate non sono mai abbastanza e che i “dai, stasera stai con noi” sono d’obbligo. A loro, perché voglio renderli sempre fieri di me. Grazie anche a chi mi ha sempre supportato e a chi invece non mi ha mai sopportato. A chi ha sempre creduto che ce l’avrei fatta e a chi invece non ha mai pensato a me in questa situazione. A chi conosce questa facoltà e sa a cosa si va incontro e a chi immagina siano 5 anni di pastelli e di pennarelli. A chi mi ha ascoltato con interesse e a chi annuiva ai miei discorsi percependo solo tanti “bla, bla, bla”. A chi ama la “mia” campagna e a chi odia la “mia” città. A chi mi vede paesano e a chi mi vede cittadino. A chi ha conosciuto l’“io” bambino, l’”io” giovanotto e l’“io” quasi adulto. A chi non smette di crescere al mio fianco. A chi mi vede tutto l’anno e a chi, forse, una volta all’anno. A chi mi ha visto solo nelle migliori condizioni e a chi solo nelle peggiori. A chi si rispecchia in questi Ringraziamenti e a chi insospettito sostiene “a me non ha ringraziato!” Infine grazie a lei, arrivata come un fulmine a ciel sereno, la quale prova ogni giorno a migliorarmi e a rendermi più sensibile: ma forse, in fondo in fondo, gli vado bene anche così. A lei, perché con lei ho condiviso attimi indimenticabili e altri meno . A lei, perchè “ha preso la mia vita e ne ha fatto molto di più”. ps: ringrazio, poi, colui che ha spartito con me quattro anni di vittorie e di sconfitte, di “ok, bell’idea” e di “no, non si può fare così”. Di mattine e di pomeriggi, di pranzi e di cene, di serate al pc e di notti k.o.. Di tante parole al vento e di tanti fogli accartocciati. Di canzoni a memoria e di versi mugugnati. Grazie all’altra metà di questa coppia, perché -non posso negarlo- siamo riusciti a creare proprio una bella coppia.


riccardo ferrari

Al termine di questa avventura universitaria, è finalmente arrivato il momento di restituire, anche se superficialmente, tutto l’affetto e la fiducia che le persone a me vicine mi hanno sempre trasmesso in questi anni. Mai nessun ringraziamento sarà mai abbastanza per colmare tutti i sacrifici, non solo economici, che la mia famiglia ha fatto fin qui. Grazie papà e grazie mamma, siete e sarete sempre il mio punto di riferimento nella vita. Grazie nonna per il tuo incondizionato amore, grazie nonno per tutti gli insegnamenti che mi hanno reso una persona migliore. A voi famiglia devo tutto e spero, quindi, di avervi resi orgogliosi di me, almeno quanto lo sono io di voi. Un grazie va anche a Paolo, Fede, Dani, Francesca e Gloria, insostituibili amici di una vita a cui mai avrei potuto rinunciare in questi anni. Grazie per aver sopportato il mio essere continuamente distratto e fuori dal mondo, grazie per aver retto ai miei noiosi monologhi sull’architettura a cui non fregava nulla a nessuno, grazie e le serate più improbabili e per gli insulti gratuiti. Ribadisco un grazie anche a voi, ormai ex compagni di università, perché mai prima, avrei pensato di incontrare persone come voi, persone con cui condividere cosi tanto e con cosi tanto affetto ed entusiasmo. Dulcis infundo, un grazie va alla persona qui accanto, grazie Da per aver sopportato i miei congeniti ritardi, la mia fastidiosa arroganza e le mie continue voglie di cibo. Grazie per aver condiviso notti in bianco, sconfortanti post-revisione, successi e moleste ubriacature. Sono ormai più di tre anni che stiamo gomito a gomito lavorando su idee e forme, potrei dire insomma, che non avrei mai potuto immaginare una persona cosi opposta a me con cui trovare una sintonia cosi efficace, ormai ben collaudata.





sommario PROLOGO

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ATTO I - L’IDEA Ri-funzionalizzare i resti archeologici Nuove pratiche d’uso Come passare dal <<dalla città al cucchiaio>> al <<l’i-cucchiaio è la nostra città>> ATTO II - IL PERCORSO PROGETTUALE Criteri di progetto Scenografie ludiche, mutabilità reversibile e adattamento continuo Il Manifesto

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INTERLUDIO - Scoprendo Mediolanum Immagini di Mediolanum Caratteri di Mediolanum La matrice ATTO III - L’APP

31 70 71 76

ATTO IV - IL PROGETTO L’Anfiteatro Le Colonne di San Lorenzo Il Circo Il Palazzo Imperiale Le Terme Erculee San Giovanni in Conca

79 84 88 92 96 100

EPILOGO

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BIBLIOGRAFIA

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DIETRO LE QUINTE

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PROLOGO

<<...la qualità delle persone determinerà la qualità dello spazio...>> Andrea Branzi, conferenza Fuorisalone, 2013


Come prima cosa vogliamo spiegare questo insolito titolo che domina tutta la trattazione. Nato a lavoro progettuale e teorico concluso, il titolo prende in prestito un enfasi ed un’espressività lontana da quelle di settore. Abbiamo deciso di lavorare in chiave più letteraria dalla criptica volontà espressiva. L’intento era di racchiudere in una breve asserzione tutti i temi affrontati nella tesi e di sottolineare velatamente quali fossero stati gli atteggiamenti e i risultati. Troviamo, infatti, un primo tono <<drammatico>> ed enigmatico, smorzato da una più formulazione più positiva e agile, in un insieme di termini del tutto estranei all’architettura, accademicamente intesa. Vivere la storia invisibile è l’illusoria risoluzione di un anagramma di elementi di progetto, filtrati da un critico carattere provocatorio. Vivere, infatti, potrebbe essere tradotto come <<ri-contemporaneizzare>>, dove la storia, altro non è che l’insieme dei siti archeologici in esame e invisibile è il loro carattere dominate. Se non utilizziamo linguaggi architettonici è perché crediamo fortemente che le nostre <<non>> siano architetture accademiche, e se non usiamo termini da restauratori è perche non lo siamo e perché pensiamo che queste entità fisiche non siano sassi da conservare con ostinazione, ma reali memorie parlanti, le quali potrebbero anche raccontare altro, oltre a loro stesse, se solo non fossero invisibili, perché lontane dagli occhi dalle menti e dai cuori. Quindi, se scriviamo Vivere è perché crediamo sia l’unico modo che esse hanno per tornare da noi e noi per andare da loro, esse, infatti, sono nate per la vita di un’antica civiltà, ma muoiono nella contemplazione della società di oggi. Il sottotitolo, invece, rivela quello che è effettivamente il risultato della nostra comunicazione grafica. Perché noi, altro, non abbiamo prodotto che piccole situazioni dove mettere in scena storie di vita quotidiana, il tutto coordinato da brevi manuali d’istruzione per noi che viviamo in un presente troppo poco proiettato in avanti. 17


ATTO I L’IDEA

<<...la sperimentazione è un mezzo necessario per conoscere la sorgente e il fine delle nostre aspirazioni, le loro possibilità, i loro limiti. […] Parlare di desiderio significa parlare dello sconosciuto, del desiderio di liberà. […] La liberazione della nostra vita sociale, che proponiamo come impegno elementare, ci aprirà le porte di un mondo nuovo. […] E’ impossibile conoscere un desiderio se non soddisfacendolo, e la soddisfazione del nostro desiderio elementare è la rivoluzione. […] Noi non abbiamo altro da perdere che le nostre catene, noi non possiamo che tentare l’avventura!>> Constant Nieuenhuys, manifesto CoBrA, 1949


Per comprendere a pieno ciò che verrà illustrato in seguito, troviamo necessario inserire poche righe su quale sia stata la genesi di questo lavoro. Il progetto di ricerca nasce, come spesso accade in questi casi, dall’insieme di diversi fattori, più o meno coerenti tra loro, che, nel nostro caso, sorprendentemente, ci hanno portato ad uno stimolante percorso di tesi. Noi tesisti, fin dai nostri primi pour parler, abbiamo sempre sentito il desiderio di rivolgere questo nostro ultimo sforzo progettuale alla città di Milano, luogo, che per motivi diversi, lega entrambi noi, al quale vogliamo rendere omaggio con un virtuale ma benevolente gesto di miglioramento. Inoltre, nello specifico, sappiamo che, in virtù di un corso di laurea specialistica in architettura degli interni, vogliamo rivolgere la nostra creatività progettuale a siti urbani difficili, degradati, insomma piccole emergenze urbane da risolvere con interventi a scala umana. L’esempio che forse più di tutti ha fatto nascere in noi tale interesse è stato il progetto di Italo Rota per il sottopasso pedonale a Misano Adriatico. Il sottopasso, architettura tipologicamente infrastrutturale, priva di una vera e propria visione architettonica degna di nota, viene trattato dall’architetto Rota secondo una vera e propria reinterpretazione del tema, nei modi e nelle forme tipiche del suo linguaggio. Ed è proprio l’atto di creare questa nuova idea di uno spazio idealmente consolidato, ma in fin dei conti fallimentare, che ha realmente suscitato in noi la volontà di intraprendere un’esperienza simile. E così, è iniziata la ricerca di luoghi urbani da riscattare. Dall’altro lato del tavolo, il nostro relatore, il professor Salvadeo, ha subito accettato con interesse l’idea di fondo che pervadeva le nostre scelte, ma ha bocciato tutte le nostre proposte d’intervento. Fino a quando, con nostra sorpresa, ci ha chiesto di lavorare con architetture storiche e nello specifico, siti archeologici. Il primo istintivo rifiuto da parte nostra ha lasciato presto il posto a una crescente ed entusiasmante passione per il tema. E i motivi sono stati fondamentalmente due: primo, l’idea di lavorare senza pregiudizi progettuali, dimenticando le teorie conservative del restauro e dimenticando quella cultura moderna e contemporanea delle <<architetture archeologiche>>. Secondo, l’idea che di questa tesi sapevamo solo il punto di partenza teorico, ignorando quale sarebbe stato l’esito di tale ricerca, ovvero l’idea di un percorso per nulla definito del tutto <<sperimentale>>, insomma un lungo viaggio di cui non si conosce la meta.

Ri-funzionalizzare i resti archeologici Una volta deciso di lavorare con la <<storia>>, dovevamo trovare le ragioni su cui fondare il nostro processo progettuale, ovvero, avevamo la necessità di ricercare i motivi del nostro intervento e in seguito l’atteggiamento che il nostro intervento avrebbe dovuto avere. A seguito di preliminari indagini storiche sulla città di Milano, abbiamo iniziato ad identificare diversi siti e soglie temporali di svariata natura ed interesse. Per ragioni didascalità della ricerca, ma soprattutto per fascino e criticità dei luoghi, la nostra indagine si è concentrata definitivamente sui siti archeologici di età romana. La scelta, peraltro, si è rivelata del tutto coerente con quella volontà iniziale di lavorare su luoghi urbani dal difficile rapporto con la città consolidata. Nello svolgersi delle doverose analisi documentaristiche, ancora compiute senza sapere quale sarebbe stato il passo successivo, è nato quello che si può definire il tema della tesi, ovvero, la volontà di ri-vitalizzare i resti archeologici di epoca romana a Milano. Tale indefinita prospettiva, non nasceva da una modaiola corrente progettuale o da una curiosa teoria critica, ma dalla semplice osservazione di questi brani di città, la cui ontologia, paradossalmente, li portava ad essere del tutto dimenticati. Essi, infatti, sono lontani dagli occhi, dalle menti e dai cuori della cittadinanza, e non solo. Immediatamente dopo questa istintiva riflessione abbiamo cercato di capire le ragioni di tale condizione e abbiamo concluso che i motivi di tale degrado fisico e culturale sono attribuibili alla loro condizione di museo archeologico. La maggior parte di tali siti, e quelli che non lo sono subiscono le medesime sorti, sono luoghi cintati, non accessibili o ancor peggio inglobati o tombati. Il solo ed unico rapporto che si può avere con loro è un rapporto di tipo puramente visivo. Ma quando la relazione visiva si esaurisce, anche in virtù di un successivo approfondimento storico-culturale? Come fanno ad ottenere una dignità, slegata dal loro valore storico se essi non sono nemmeno accessibili e quindi vivibili anche solo musealmente? E se fosse davvero cosi, se il <<museo>> fosse la loro causa di morte? Assumendo questo come punto di partenza critico, il consequenziale 19


rimedio a tale emergenza, non è altro che attribuire ai siti archeologici un’altra funzione, un altro uso. In realtà, questa discutibile idea, non è poi neanche così provocatoria e scandalosa culturalmente: tutte queste testimonianze storiche, infatti, ci dicono che essi non nascono con l’intento di essere musei o contemplativi fondali, anzi questi manufatti, o ciò che ne resta, nascono con specifici usi. Senza contare la tendenza alla <<riconversione d’uso>> pratica ormai da anni in atto su manufatti storici. Ma allora perché non si agisce su un frammento di età tardo romana come si interviene su di una fabbrica dell’inizio del secolo. Ecco entrare qui in gioco la questione del restauro conservativo, esso è un vincolo al progresso architettonico e urbano? O è un doveroso atteggiamento? Il dibattito critico attorno alle teorie contemporanee del restauro è assai complesso e vasto, quindi, lungi da noi addentrarci nell’esprimere giudizi in merito a tali pratiche, tuttavia, ciò che però possiamo confutare è sicuramente il risultato dell’applicazione di tali teorie. Ci chiediamo dunque, nel rispetto di tali guide critiche, che peraltro governano tutte le leggi in materia di conservazione dei beni culturali, è possibile dare a questi siti una nuova identità? E’ possibile assegnare a loro una realtà che non sia solo quella museale? Insomma è possibile ri-contemporaneizzarli? Lo stesso Nicolin, in un saggio su gli interventi compiuti sulla città di Urbino, si pone sulla nostra stessa lunghezza d’onda: <<Oggi, per De Carlo, la modernità corrisponde alla necessità di includere tutte le materie che si incontrano nella definizione di progetto. […] Probabilmente l’insegnamento di Urbino sta nella dimostrazione dell’agibilità, da parte dell’architettura moderna, delle strutture storiche anche le più qualificate e nella constatazione che, se l’architettura moderna trova dei giovamenti dallo scontro con le complessità degli ambienti già costruiti per uscire dallo schematismo di molte formulazioni, le antiche città possono essere recuperate soltanto rimettendole nel circuito dei modi d’uso moderni>> 7.

Nuove pratiche d’uso E’ possibile dunque rendere d’uso contemporaneo un manufatto del I secolo a.C.? Incalzati da De Carlo, la nostra risposta non può che essere si: è possibile rendere vivo un sito archeologico tramite le pratiche d’uso del contemporaneo. Ma se cosi fosse, si apre un ulteriore interrogativo, cosa si intende per uso contemporaneo e quindi per città contemporanea? La risposta come è evidente non è univoca ma tantomeno la si può definire soggettiva. La nostra è frutto di una ricerca su più settori. Tale ricerca ha avuto per noi un impatto culturale sconvolgente. Con nostro grande entusiasmo, durante quest’anno di studio, è cambiato profondamente il modo di vivere e vedere l’architettura e non solo. Non sappiamo dire se consciamente o inconsciamente, abbiamo interiorizzato tali insegnamenti i quali ci hanno consentito di creare una strutturata risposta di quello che secondo noi dovrebbe essere l’ <<universo della contemporaneità>>. Per elaborare il contemporaneo abbiamo sentito il bisogno di mettere in discussione le nostre idee architettoniche sul presente ed il passato. Una prima possibile alternativa ci viene offerta da Andrea Branzi, del quale vogliamo riportare alcune teorie. <<L’orizzonte che abbiamo davanti è costituito di tanti futuri diversi, risultanti da tanti diversi progetti, quante sono le diverse culture in azione: la modernità, che ha proposto l’unificazione delle tecniche e dei linguaggi, ha lasciato il posto a un “paesaggio ibrido”, dove il moderno e l’antico non sono né in alternativa ne in conflitto, ma piuttosto convivono come canali diversi, mescolando i propri miti in un contesto di sincretismo incontrollato. […] Questa realtà ibrida, frutto di una progettualità debole e di una identità forte somiglia sempre più al mondo che ci aspetta. […]Del resto, il problema di una città diversa non si pone; si pone semmai quello di impossessarsi della città che già esiste. […] Nella Metropoli Ibrida il progetto non è più qualcosa che tende a modificare il mondo, ma piuttosto un atto che realizza una nuova realtà che si aggiunge a quella esistente, per renderla più ricca, più complessa, per aumentare le possibili scelte>>8 .

Dopo aver indagato nuove opinioni critiche, in merito ad analisi urbane e sociali anticonvenzionali, ma molto dialettiche con 7 8 20

P. Nicolin, “Architettura nella città storica”, in Lotus, n.18, 1978 A. Branzi, Scritti presocratici : Andrea Branzi: visioni del progetto design, 1972-2009, Franco Angeli, Milano 2010.


la nostra tesi, ci siamo lasciati trascinare da utopiche prospettive sociali e culturali che mai avremmo creduto effettivamente così preditive sull’oggi. E’ il caso della creazione ideologica situazionista di New Babylon. <<Constant è il primo a vedere la città contemporanea come un fenomeno del tutto originale, che non ha più nessuna continuità né strutturale né funzionale con la città storica. La città è diventata un organismo unitario del tutto ingovernabile, formalmente dissociato, in continua evoluzione a causa delle spinte imprevedibili di ciò che Constant chiamava creatività di massa. […] New Babylon descrive, infatti, una società dove la logica della produzione ha lasciato il posto alla logica del tempo creativo, dove la monocultura industriale è stata sostituita dalla stessa complessità di una società liberalizzata [...] L’Homo Faber si trasformerà in quell’Homo Ludens descritto dall’olandese Huizinga. L’utile farà posto all’attività creativa per eccellenza, il gioco. Tutte le arti andranno a collaborare in un grande gioco che verrà; in quell’unità di trasformazione dello spazio che si chiamerà urbanismo unitario. New Babylon sarà dunque una grande opera collettiva, sarà il frutto della creatività dei neobabilonesi, di una nuova società multietnica che comincerà a costruire e ricostruire all’infinito il proprio spazio>>9 .

Se New Babylon teorizza utopiche prospettive, le prime concrete visioni della città contemporanea ci arrivano da un altro radical, produttivo, questo, in territorio milanese: stiamo parlando di Ugo La Pietra con le sue attrezzature urbane per la collettività. <<Ugo La Pietra parte dall’osservazione della realtà del luogo e nel caso in questione dai paletti e catenelle che affollavano il luogo

città di Milano, concludendo che questi oggetti non solo sono esteticamente inconsistenti, ma anche segnali di divisione, separazione, segni di confino, di limitazioni, di divieti che vanno liberati da questa condizione di architettura guardiana di conflitto e riconvertiti in altri prodotti che ci fanno sentire che abitare è essere a casa propria che è, a mio avviso, uno dei pensieri dell’architettura più potenti degli ultimi cinquant’anni [ma non solo, egli va oltre e sostiene che] abitare, e non semplicemente usare la città, vuol dire poter espandere la personalità di chi vi abita, connotare e dare identità al luogo, possederlo mentalmente ma qualche volta anche fisicamente. Riallacciandomi al concetto per cui abitare non è solo una pratica riferibile allo spazio privato, ma anche allo spazio pubblico, mi sono convinto che si possa pensare che come l’individuo, da solo o nel gruppo familiare, è riuscito ad organizzare il proprio spazio privato arredandolo ed attrezzandolo, garantendosi spesso la possibilità di intervento d’uso, sviluppate nel privato, nel cosiddetto spazio pubblico. Concettualità e spettacolarità sono componenti che troviamo continuamente presenti nello spazio privato, dove affetti, memorie, passioni sono emozioni quotidiane che governano il nostro spazio mentale e dove tutti gli oggetti domestici assurgono a sistema grazie alla continua ricerca dell’individuo o del gruppo alla ricostruzione di un proprio mondo. Ogni oggetto, come disse nel lontano 1962 Baudrillard, ha due funzioni: la prima l’essere pratico, la seconda l’essere posseduto. Ed è proprio in questa direzione che vanno orientati gli sforzi progettuali: consentire all’individuo urbanizzato, oltre che di usare spazi e strumenti, anche di possederli, e per possedere mentalmente e psicologicamente qualcosa, questo qualcosa deve essere fonte di soddisfazione. Per raggiungere questi effetti, un primo passo potrebbe essere quello di garantire la presenza di tutti i sistemi: come nello spazio privato, in cui ambiente ed oggetti sono definiti per sviluppare attività legate alla comunicazione, alle pratiche di sopravvivenza e d’igiene, ad attività ludiche e culturali, anche lo spazio pubblico dovrebbe contenere a pari merito tutte queste funzioni. […] Il processo di riappropriazione dell’ambiente deve passare necessariamente attraverso la radicale trasformazione: delle situazioni repressive del nostro sistema, delle attrezzature urbane collettive che esprimono solo separatezza ed emarginazione>>10.

Insomma, nulla di più vicino alle nostra analisi e ai nostri obiettivi. Ugo La Pietra agisce come Duchamp e Magritte che vedono nelle cose prodotte dalla civiltà industriale altre cose che hanno in potenza altre funzioni, ma soprattutto, quello che a noi interessa, è l’idea che queste attrezzature urbane non creino altro che dinamiche definibili come interni urbani. <<Ecco quindi che s’impone di meglio definire i caratteri propri degli interni dell’architettura che possano essere trasferiti all’esterno di un singolo edifici, fuori da uno spazio confinato, e divenire caratteri costitutivi di un luogo nella città che risponda nella sua configurazione ai principi progettuali dell’architettura degli interni e che in questo senso possa essere definito interno urbano. La città per poter essere abitata e vissuta ha la necessità di individuare al suo interno spazi che si prestino ad essere attrezzati, arredati, allestiti in vario modo; si tratta di spazi interni all’urbano, ma assumiamo di definirli interni urbani solo laddove si consideri non tanto e solo uno spazio confinato, ma uno spazio che si qualifica per essere il prodotto di 9 10

F. Careri, Constant : New Babylon, una città nomade, Testo & immagine, Torino 2001. U. La Pietra, Attrezzature urbane per la collettività, cinquantasette disegni di riconversione progettuale 1977-1979, Corriani Edizioni, Mantova 2013. 21


una progettualità che nasce dal profondo di ogni uomo e che sollecita una riflessione sull’ambiente che ci sta intorno in rapporto con ciò che è dentro di noi, che gioca su componenti emozionali e su dimensioni psicologiche più che fisiche, che non intende soddisfare esigenze esclusivamente o principalmente funzionali. […] E’ banale, infatti, pensare che la città offra ai sui abitanti condizioni di abitabilità in spazi conformati per rispondere alle più diverse funzioni e coerenti con il sistema di relazioni di cui la città vive. E’ quello che le città fanno da sempre e con successo. […] Uno spazio che è “destinato a” una funzione è infatti profondamente diverso da uno spazio che si “sprigiona da”. Solo dopo aver acquisito questa fondamentale diversità ci si può interrogare sul se e come può essere trasferita agli spazi esterni l’esperienza più autentica del progetto di architettura degli interni, vista come esperienza di concepimento di uno spazio originario estesa ai luoghi aperti della città. Il progetto che si prefigge di esprimere il concetto di interno urbano dovrebbe essere infatti in grado di andare oltre alla pratica di arredi studiati per rendere più confortevole la vita cittadina e spingersi decisamente nella direzione di un mondo di emozioni che coinvolgono livelli percettivi e sensoriali, fisici e psichici non solo a livello dell’individuo , ma della collettività nel suo insieme. […] L’urbano può essere visto come l’espressione estrema di un rapporto tra la cultura del costruire e la natura: natura naturata, quindi, e rapportata a una scala umana; controllabile nelle sue manifestazioni, a volte anche di notevole aggressività. La città è il segno della conquista di condizioni di libertà e di sicurezza operando sulla natura e i suoi spazi apparentemente illimitati. Lo spazio interno, invece, si costruisce innanzitutto come ciò che è in grado di esprimere anche ciò che sta nel nostro subconscio ed è il risultato di un processo progressivo di liberazione attraverso l’estraneazione. [Questo presupposto, però, apre una nuova frontiera interpretativa su quale sia la città contemporanea di cui appropriarsi e come essa debba essere pensata.] Se nella sfera privata la residenza ha risentito in modo forte di nuove tendenze ed influenze culturalmente opposte, portando il progetto a confrontarsi con elementi fino ad oggi estranei e a proporre ambienti che rispondano a nuove esigenze, nella sfera collettiva, più debole e quasi estinta, questa evoluzione dello spazio ha incontrato molte difficoltà. Lo spazio urbano, sede d’incontro e scambio reciproco, è andato via via dissolvendo il suo carattere sociale e la sua identità di luogo, perdendo la forza espressiva che lo portava ad essere vissuto dal singolo con un sentimento di condivisione e appartenenza al gruppo. La mancanza di qualità degli spazi aperti, ormai da anni universalmente riconosciuta e sostenuta dalla critica, è almeno in parte conseguenza di questo processo. Ciò che più fa riflettere è la prolungata assenza di qualsivoglia volontà di connessione. Parola efficace e familiare nel suono, connessione ci spinge subito verso gli orizzonti immateriali e lo spazio sconfinato del web, dei social networks, dei blogs, della comunicazione istantanea. Quel mondo che abitiamo ormai da tempo, dove cerchiamo in modo quasi convulsivo risposte ai nostri bisogni e, a volte, le troviamo; dove comunichiamo e ci scambiamo opinioni, cerchiamo informazioni, studiamo, lavoriamo, compriamo, sentendo di appartenere ad una comunità. Connettersi significa accedere ed essere accolti in quella comunità e, nella vastità senza limiti di possibilità e offerte, trovare un posto per noi stessi. Se dunque è reale la necessità di spazi di connessione, come il presente sembra suggerirci, allora è il momento di fermarsi a riflettere su quali siano i modi in cui il progetto possa e debba rispondere a tale bisogno, confrontandosi con la contemporaneità e cercando di trasporre in chiave moderna i caratteri che hanno reso questi luoghi fondamentali all’interno delle città del passato. [Ma non solo, se] il gioco è un’attività libera e volontaria, che esercita un fortissimo potere di coinvolgimento, soprattutto perché accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e di coscienza di essere diversi dalla vita ordinaria al di fuori della vita consueta: l’azione del giocare consente di costruire l’illusione di vivere in un mondo parallelo a quello reale, dove vigono regole differenti. Con l’aumento di quantità di stimoli e di informazioni a cui l’uomo è sottoposto nella vita di tutti i giorni, l’accelerazione delle dinamiche di mutazione e la conseguente dilatazione incide anche sulla vita dei luoghi pubblici. Nella città contemporanea ciò che fa grande un luogo è la sua capacità di renderci diversi nell’attraversarlo e di produrre un’esperienza dopo la quale non siamo più gli stessi. Con queste argomentazioni, il tentativo di riattivare il rapporto tra uomo e spazio urbano si esprime spesso nella ricerca dell’effetto di sorpresa e straniamento. Attraverso un processo di manipolazione del repertorio dimensionale e materico che ha storicamente caratterizzato l’identità di strade, piazze e parchi, i progetti che operano sulla conformazione e attrezzatura dello spazio urbano agiscono sulla dimensione fisica, che rappresenta il significante, cioè i caratteri formali e funzionali di corpi e superfici, alterandone l’aspetto tradizionale per intervenire sul loro significato espressivo, simbolico, sociale. La spettacolarizzazione dei fenomeni che interagiscono con la struttura dello spazio urbano inizia con l’alterazione dei caratteri consolidati nell’immaginario collettivo. […] Quando si parla di interni urbani, dunque, si parla di città, ma non di città in generale, di città banalmente da vivere, bensì di città da riconoscere, da esplorare, da abitare. Città che nascono e si strutturano su un intenso pullulare di persone che si interfacciano una con l’altra, instaurando di volta in volta relazioni immateriali che, al pari di quelle fisiche, contribuiscono a definire l’organismo urbano. Pur nella molteplicità di approcci riscontrabili, è comunque possibile 22


individuare almeno cinque strategie progettuali ricorrenti, utili per leggere quegli interventi che agiscono sull’urbano per valorizzarlo come luogo dell’incontro: in sintesi, sono progetti dal carattere domestico, oppure interattivo, ludico, performativo o programmatico. Le categorie, così schematizzate per semplicità, non vogliono essere rigide ed univoche perché, ovviamente, spesso si sovrappongono e sfumano una sull’altra, ma possono dare una traccia utile per muoversi con consapevolezza nell’ampio panorama progettuale di riferimento. Serve dunque, da parte dei progettisti contemporanei, una maggior presa di coscienza della complessità del quadro sociale in cui ci muoviamo e rispetto al quale la questione metrico-formale, pur rilevante e comunque centrale in architettura, non può però essere esaustiva>>11

Dopo aver indagato il <<contemporaneo>> possiamo servirci delle parole di Baricco per riassumerlo in una ancor’diversa prospettiva: <<Abbiamo capito che tutto ciò che registravamo come distruzione, era in realtà una sorta di ristrutturazione mentale e architettonica. Quando il barbaro arriva lì tende a ricostruire, l’unico habitat che gli interessa, un sistema passante. In pratica svuota, alleggerisce, velocizza il gesto a cui si sta applicando, fino a quando non ottiene una struttura sufficientemente aperta da assicurare il transito di un qualsiasi movimento. Adesso sappiamo perché lo fa. La sua idea di esperienza è una traiettoria che tiene insieme tessere differenti del reale. […] un’innovazione tecnologica che rompe i privilegi della casta, aprendo la possibilità di un gesto ad una popolazione nuova. […] Il valore della spettacolarità come unico valore intoccabile. L’adozione di una lingua moderna come lingua di base di ogni esperienza, come la velocità, la medietà. […] Quell’istinto al laicismo che polverizza il sacro in una miriade di intensità più leggere e prosaiche. La stupefacente idea che qualcosa, qualsiasi cosa, abbia senso e importanza solo se riesce ad inserirsi in una più ampia sequenza di esperienze>>12 .

Come passare dal “dalla città al cucchiaio” al “l’i-cucchiaio è la nostra città” Se per un attimo accettiamo di immaginare così il nostro mondo, non possiamo che vedere come soggetto planetario per antonomasia, noi abitanti. Noi Barbari Surfisti di Baricco, recenti figli dell’Homo Ludens di Huizinga e dell’Homo Oeconomicus di Latouche. Oggi, siamo esseri tangenti all’informazione, identificabili solo nelle nostre libertà creative: indiscutibile mezzo di realizzazione dell’io inconscio, vero motore di cultura e di progresso contemporaneo. La nostra evoluzione sociale è contemplabile solo attraverso il soddisfacimento di tali libertà, istinto esplicabile per mezzo della tecnologia, universale e storicamente trasversale indice d’identificazione sociale e culturale. E il progresso, di conseguenza, non può che tradursi in una questione materica, ovvero, oggetti, che più o meno eticamente e coscientemente determinano la nostra realtà. La realtà, infatti, è l’unico e vero input generatore delle nostre esperienze: scopo ultimo a cui la natura umana tende sempre con curiosità e brama. Non resta, quindi, a noi progettisti, che rispondere al nostro dovere sociale di alimentare tali antropiche necessità nel modo più consono possibile, ovvero, la creazione di situazioni. Per giungere ad un’agile formulazione sintetica di ciò che è stato formulato, anche in maniera piuttosto irriverente e provocatoria, ci siamo spinti alla ristrutturazione e riformulazione di alcuni aforismi di grandi maestri. <<...dalla città al cucchiaio...>> W. Gropius <<…dal cucchiaio alla città…>> E. N. Rogers <<…la città è una somma di cucchiai…>> A. Branzi l’ i-cucchiaio è la nostra città

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AA.VV., Città come : sguardi interni sui territori dello spazio aperto, Maggioli, Rimini 2011. A. Baricco, I barbari: saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano 2008. 23


ATTO II IL PERCORSO PROGETTUALE

<<Abitare è essere ovunque a casa propria>> Ugo La Pietra, 1979


Seguiranno ora tutta quella serie di riflessioni che costituiscono la base teorica su cui sono fondati i progetti. Con l’intento di condurvi all’interno della tesi, abbiamo fatto convergere tutte le teorie analizzate e assimilate, rielaborandole e offrendo al lettore una visione sequenziale di quello che è stato il nostro iter pre-progettuale.

Criteri di progetto Senza alcun dubbio, quello che può essere definito il tema della tesi è la dichiarazione d’intenti, <<ri-contemporaneizzare>> i resti archeologici di età romana a Milano. Essa racchiude in se tutti i temi da noi analizzati e affrontati. In primis il tema della ri-contemporaneizzazione, con tutte le implicazioni teoriche e critiche affrontate precedentemente, in seguito, i veri protagonisti di questa sperimentazione, i resti archeologici di età romana, frammenti di storia e civiltà deplorevolmente inseriti nel tessuto di Milano, ultima fondamentale attrice di questo processo progettuale. Da ciò, derivano quelle che noi riteniamo essere la scintilla di tutto questo lavoro, ovvero, le considerazioni preliminari: l’indiscutibile presa di coscienza che la museificazione dei reperti archeologici presi in esame , cosi come perseguita, come la quotidianità inesorabilmente ci mostra, porta alla loro morte. L’obiettivo diventa quindi quello di dare un’alternativa praticabile alla cittadinanza. Infatti, ci troviamo di fronte ad <<un’idea di realtà possibile>>, che se viene ignorata, sotto la spinta irrefrenabile delle pratiche d’uso spontanee, più o meno legali e socialmente condivise, diventa una vera e propria <<realtà diventata possibile>>. Esemplare è il caso, delle Colonne di San Lorenzo. Luogo che custodisce presenze archeologiche, che, inconsciamente lasciato programmabile, date le condizioni specifiche del contesto urbano e sociale dei giorni d’oggi, viene preso in ostaggio da pratiche d’uso del tutto contemporanee (provvisorietà, ludicità, domesticità,..), ben lontane dall’essere unicamente contemplative e museali. Ma ciò, non inaspettatamente, lo rendono vivo. Doveroso e necessario risulta, quindi, un intervento da parte nostra, aspiranti specialisti in via di professionalizzazione, non solo come stimolo morale e culturale, ma come, quanto mai reale emergenza sociale-urbana. Riportando pocanzi il caso delle Colonne di San Lorenzo, abbiamo timidamente toccato quelli che sono i grandi settori di sviluppo di questo lavoro, ovvero, la reinterpretazione ontologica di un luogo pubblico dove giacciono resti archeologici, le cui dinamiche urbane di attuale realtà (nel caso specifico l’essere spazio vuoto programmabile) in rapporto al contesto, sia da un punto di vista morfologico sia dal punto di vista degli attrattori sociali, potrebbe determinarne un nuovo uso in maniera primordiale ed istintiva, ma non per questo illegittima, anzi. Jurgen Joedike, nel suo manuale di storia dell’architettura, trattando il tema delle proposte utopiche degli anni Sessanta, parlando dei Metabolisti giapponesi, riflette in merito al fallimento delle loro teorie. Il professore tedesco, infatti, identifica nella causa del fallimento di tali pratiche architettoniche la distanza che correva tra gli utenti immaginati dagli architetti per le loro architetture e gli utenti che la popolazione giapponese dell’epoca realmente costituiva. Per noi, questo problema quasi non si pone, dal momento che è l’insieme degli utenti che già da soli pongono rimedi a determinate soluzioni di disagio urbano con mezzi provvisori e spontanei. Quello che per noi è fondamentale, quindi, è pensare a progetti che non portino esclusivamente nuove attrattività ma che implementino quelle che già insistono sul luogo amplificandole, e determinando strutture urbane aperte e riprogrammabili per futuri usi. Insomma, un progetto tanto più adattabile, anche negli anni a venire, per questa società che muta sempre più velocemente al passo con la tecnologia multimediale. Ed è il parametro del multimediale, del digitale, della rete che più inconsapevolmente e insistentemente diventa la vera e propria chiave di volta per interfacciarsi con questo contemporaneo. 25


Scenografie ludiche, mutabilità reversibile e adattamento continuo Si fa largo, ora, in noi, l’esigenza di quella fase, prettamente procedurale, che va ad identificare quali sono le previsioni progettuali che tracceranno poi i limiti teorici del nostro lavoro. Il punto di partenza è un accademico lavoro di basilare conoscenza storica e una conseguente mappatura urbana. Questa messa in discussione di un <<reale>> fallimentare, infatti, non può che avere inizio dall’osservazione del resto archeologico nella sua condizione attuale, attraverso una mappatura urbana delle preesistenze storiche, e di conseguenza una valutazione di sistema eseguita su i suoi caratteri di <<cosa è oggi>>. Creato, così, un substrato culturale, e più che altro una mappatura della qualità urbana dei siti, le variabili di progetto che entrano in gioco sono fondamentalmente tre, le quali, come spesso accade sono strettamente dipendenti tra di loro e auto influenzate reciprocamente. Come prima variabile, troviamo ancora le idee di usi contemporanei, di cui tanto abbiamo discusso precedentemente, indiscutibile ancora culturale della tesi da cui tutto ha avuto origine. Le analisi del capitolo precedente ci hanno consentito di chiarire cosa intendiamo per utenti, per società e per tecnologia. La seconda variabile che ne consegue, è un insieme di riflessioni più specifiche per le nostre competenze di progettisti che noi definiamo idee contemporanee di progetto o idee di progetto contemporaneo. In esse convergono tutte le nostre congetture progressivamente maturate riguardo alla città, all’architettura e al restauro, fenomeni compenetrabili e doverosamente rapportabili. Riconsiderando il tutto, siamo tornati ad analizzare l’essenza architettonica stessa dei resti archeologici in esame e abbiamo capito fondamentalmente che essi non hanno alcun legame storico, a livello d’uso, con la città e nemmeno un legame morfologico, a livello urbano. Abbiamo quindi ottenuto brani di città consolidata, senza un uso compiuto, del tutto integrati con il tessuto della città (ciò ne rafforza significativamente l’aspetto di abbandono civile). Scaturiscono ora due differenti valutazioni riguardo ai resti archeologici. Essi sono spazi incompleti: non hanno connotazione tipologica o quanto meno mancano di senso, non hanno più alcuna dignità o memoria, per questo rivendicano nuovi significati. Vediamo per loro prospettarsi una realtà di spazi urbani che da simboli diventeranno cultura tramite la comunicazione e le immagini. Essi sono anche architetture incomplete. Ma se consideriamo l’incompleto come non determinato, il non determinato come provvisorio, il provvisorio come programmabile e il programmabile come aperto a nuove frontiere d’uso dello spazio, i resti archeologici sono considerabili come scenografie urbane: spazi ibridi e trasversali aperti all’uso definito da programmi. Slegato, in parte, al soggetto “resto archeologico”, abbiamo sentito profondamente il tema dello stress sociale di adattamento alla tecnologia, unica e vera risposta al contemporaneo. La società d’oggi, infatti, si muove nella rete e viaggia alla velocità di internet, per questo, anche, è riluttante a interfacciarsi con la città lenta. Problematica facilmente risolvibile se immaginiamo, un’architettura che muti con un <<clik>>. Se per gli Archigram e gli Archizoom, la città si fonda sulla macchina e sul nastro trasportatore, noi useremo l’App e l’ <<i-tecnology>>, non più utopie ma autentiche rappresentazioni delle istanze più contraddittorie della città contemporanea. Terza ed ultima variabile sono gli atteggiamenti di progetto, vero e proprio paradigma morale ed etico che, programmaticamente, abbiamo scelto di strutturare e perseguire. L’approccio iniziale è sicuramente definibile come quello di una provocazione critico-creativa: mettere in discussione un’esigenza tangibile del reale cercando di porre rimedio nei modi e con i mezzi che ci competono. Ma se, come più volte detto, la tesi si fonda sull’idea di essere un progetto di ricerca, quindi senza <<segnaletica>> e limiti, ci siamo imposti un lavoro di sperimentazione a più gradi, ovvero, la tendenza a non avere mai lo stesso approccio progettuale. Più modalità di approccio per una maggiore sperimentazione del rapporto di ri-contestualizzazione del resto archeologico, spaziando da un grado <<zero>> ad un grado <<infinito>>. Tuttavia, indipendentemente dal grado di <<aggressione>> dello spazio ci siamo autoimposti una ben specifica visione dell’architettura. La nostra sarà un’architettura reversibile, del tutto in accordo con le teorie del restauro conservativo, crediamo nella dimensione di un progetto che nasca e che muoia senza andare a modificare la formalità del reperto in quanto, per dirla alla Riegl, testimo26


nianza storica unica nei suoi valori di memoria. La nostra sarà un’architettura ludica, dove, in sintonia con i situazionisti e Huizinga, desideriamo che l’utente si smarrisca volontariamente con la stessa innocenza e leggerezza di un bambino trascinato dai propri istinti. La nostra sarà un’architettura programmabile, perché in essa leggiamo il più solido ed irrinunciabile valore della contemporaneità. La nostra sarà un’architettura digitale, nuova realtà dell’agire umano, unica perseguibile soluzione al paradosso della lumaca di Latouche, visto che il presente non ci rivela i limiti della rete, essa può davvero essere il luogo della crescita continua, non più fisica ma cibernetica. La nostra sarà un’architettura parassitaria, essa ovviamente trarrà, come in natura accade spontaneamente, linfa vitale d’immagine e di fisica spazialità, dal mutuale rapporto con il resto archeologico che lo ospita, andando una ad inficiare sull’altra. Dovendo anche noi, ora, cercare di fare chiarezza sui nostri stessi intenti, abbiamo deciso di coniare una sintesi comportamentale, sentendo la necessità di dire che i nostri progetti saranno scenografie ludiche che vivranno di mutabilità reversibile in un clima di adattamento continuo. Ovvero, spazi che vivono e si manifestano come immagine di se stessi in una continua rappresentazione del contemporaneo, avendo un carattere fisico di cambiamento del tutto ripristinabile all’originale, ma, soprattutto, immaginiamo luoghi mai uguali a se stessi, che mutino al mutare delle tendenze sociali e della rete.

Il Manifesto Prima di iniziare a esplorare i progetti, nella loro narrazione grafica, come Marx, Marinetti e tanti altri prima di noi, abbiamo fin da subito espresso l’esigenza di produrre un documento programmatico che esponesse regole e principi da sottoporre a giudizio del pubblico e che lo facesse senza pudore con passione e carattere pubblicitario. Quello che seguirà trova sue ragioni logiche, creative e culturali in tutta la trattazione svolta fino ad ora in questo volume. 27


I L M U S E O E’ M O R T E

vogliamo rendere vivi i dimenticati siti archeologici della città è necessario superare il fallimentare sistema museale moderno per ricongiungerci alle tendenze della contemporaneità dobbiamo scavalcare l’architettura tradizionale progettando spazi aperti liberi all’intuizione di ciascun utente siamo costretti ad evitare momenti scenici di un vecchio concetto teatrale di città con i quali è impossibile stabilire un rapporto se non quello visivo possediamo brani di città consolidata senza un uso compiuto che sono del tutto integrati nel tessuto della città

i siti archeologici sono spazi incompleti

i siti archeologici sono architetture incomplete

non hanno connotazione tipologica o quanto meno mancano di realizzazione quindi mancano di senso

incompleto come non determinato

necessitano di nuovi significati

provvisorio come programmabile

non possiedono identità o memoria

programmabile come aperto a nuove frontiere d’uso dello spazio

rinascerano spazi urbani da simboli i siti archeologici diverranno cultura contemporanea

non determinato come provvisorio

rinasceranno scenografie urbane spazi ibridi e trasversali aperti all’uso definito da programmi


VISIONE PROGETTUALE diritto assoluto, per un soggetto planetario, di autodeterminare il proprio habitat in uno spazio che vive di strutture d’uso non di allegorie culturali noi siamo Barbari Surfisti figli dell’Homo Ludens di Huizinga e dell’Homo Oeconomicus di Latouche coltiviamo libertà creative la teconologia ci scorre nelle vene gli oggetti ci saturano le stanze per questo ci nutriamo di esperienze e viviamo di situazioni non vi promettiamo altro che scenografiche ludiche in un mondo di mutabilità reversibile e in adattamento continuo

ARCHEOLOGIA ON LINE la società di oggi si muove nella rete e viaggia alla velocità di 100Mb/s pensiamo un’architettura 2.0. e allora perchè non utilizzare tecnologie di vita contemporanea involucri provvisori, opus caementicium, spots pubblicitari, mosaici, social networks, opere di Cattelan,colonne tortili, hashtag e capitelli romani

A P P sintesi della totalità tecnologica che governa e autodetermina le pratiche d’uso del mondo contemporaneo passpartout per ogni luogo reale virtuale o sonoro Vaso di Pandora per tutte le ossessioni della nostra società macrocosmo tattile trasversale dai ludici attegiamenti unica e sola Stele di Rosetta per poter leggere i nostri progetti cosi come il futuro


INTERLUDIO Scoprendo Mediolanum

<<Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario>> Primo Levi, Se questo è un uomo, 1976


Dovendo principalmente applicare e fondere questo lavoro progettuale e di ricerca sull’interessante tema dei resti archeologici, abbiamo deciso a priori di creare un substrato culturale su cui fondere ogni nostra scelta formale e ideologia ad essi ascrivibile. Il lavoro, quindi è stato quello di un’indagine storica sui testi di specifica trattazione a noi accessibili, ovvero, una raccolta di tutte le informazioni storiche e interpretative attribuite negli anni sia nello specifico a ogni singolo sito, sia all’insieme di reperti della rete archeologica di memorie di epoca romana che costituiscono la città di Mediolanum. Ma solo dopo la presa in considerazione di queste nozionistiche conoscenze, di tipo storico e descrittivo, abbiamo deciso come rielaborarle e come interiorizzarle nel nostro percorso critico-progettuale. Ciò che tuttavia avevamo già fin da subito concepito, è stato l’atteggiamento di non volerne replicare le formalità e i caratteri, anzi, volevamo quanto più esserne difformi, e per far ciò, ovviamente, non potevamo che doverne conoscere la loro realtà storica.

Immagini di Mediolanum Non essendo noi né storici, né restauratori, e volendo comunque, per completezza della trattazione, riportare al lettore una panoramica quanto mai esaustiva di questo lavoro, abbiamo deciso di trascrivere alcuni brani tratti da una delle più recenti pubblicazioni in merito alla città storica romana di Milano e ai suoi siti ancora oggi esistenti. Verranno quindi riportati in maniera analitica, estratti specifici delle maggiori preesistenze archeologiche di qualitativa rilevanza oggi note nella città di Milano. 31


Porta Ticinensis <<Le mura, erette dopo l’ottenimento della cittadinanza romana nel 49 a.C., racchiudevano un’area di quasi 80 ettari con un perimetro di circa 3500 metri ed erano circondate da un fossato alimentato principalmente dalle acque del Seveso. Costruite in tempo di pace, incarnarono a lungo l’orgoglio civico, svolgendo una funzione simbolica fino alla seconda metà del III secolo d.C., quando servirono a proteggere la città in momenti di grave instabilità politica e durante le invasioni barbariche. Dell’intera cerchia resta attualmente una delle torri appartenenti alla Porta Ticinensis, visibile in Largo Carrobbio, il cui nome deriva dal latino quadrivium, incrocio di quattro vie. L’unico scrittore che ricorda la cerchia trdo repubblicana è Tacito, che, nel 69 d.C., annovera Milano tra i firmissima municipia dell’Italia settentrionale, cioè tra le città più salde, in quanto difese da mura, attribuendo alla cinta milanese una funzione di protezione allora non necessaria, come si deduce dalla presenza di quartieri extraurbani dalla fine del I secolo a.C. Il perimetro, riemerso lentamente con le scoperte archeologiche che si sono susseguite dal 1921 al 1969, è stato ricostruito, benché rimangano alcuni dubbi, soprattutto per il lato occidentale della città, oggetto dei radicali interventi urbanistici attuati alla fine del III secolo d.C. dall’Imperatore Massimiano. Le mura presentano una base larga 2,10m, composta da quattro file di mattoni uniti da sottili strati di malta; l’elevato è costituito da due paramenti contenenti un nucleo di conglomerato di ciottoli e malta livellato a intervalli da due filari di mattoni. Il paramento esterno presentava un basamento in blocchi parallelepipedi di pietra alto 1,5m, sormontato da laterizi; quello interno era composto da spezzoni di pietra legati da malta. Per motivi di stabilità le mura erano più sottili verso l’alto e rinforzate, verso la città, da un terrapieno. Nella cerchia muraria, in corrispondenza degli assi viari più importanti, si aprivano porte e pusterle, la cui esistenza è spesso indiziata dalla presenza, nel tracciato viario, di un bivio posto appena al di fuori delle mura e dai resti di un ponte che valicava il fossato. Rara testimonianza archeologica è offerta dalle murature di una porta rinvenuta tra via Mercato e via Pontaccio, della quale resta ignota la denominazione più antica. Grandi incertezze rimangono infatti per i nomi delle porte, noti dalle fonti medievali che tendono ad attribuire alle porte rimane i nomi di quelle successive. Tra le scarse testimonianze antiche è un’epigrafe che cita le porte Vercellina e Iovia, la prima delle quali doveva sorgere all’imbocco dell’attuale via Santa Maria alla Porta, la seconda lungo l’odierna via San Giovanni sul Muro, che sbocca in largo Cairoli, non lontano dal Castello Sforzesco, noto anche come Castello di Porta Giovia. La Porta Romana è invece ricordata da Paolino, biografo di Sant’Ambrogio, mentre il nome della Porta Ticinensis, l’unica parzialmente conservatasi, compare solamente in un documento del VIII secolo. La torre superstite, nota nella tradizione storiografica come “torre dei malsani” perché annessa a un lebbrosario, è attualmente alta 9 metri di cui 2,50 sotto il piano stradale; è stata alterata da innumerevoli interventi ed è inglobata in un edificio moderno. Non considerata romana dalle prime indagini svolte negli anni 1875-1876, fu poi riconosciuta tale dalle nuove ricerche del 1946, le quali chiarirono che la torre era la parte destra, per chi esce dalla città, della Porta Ticinensis, presumibilmente composta di due fornici e di due torri laterali poligonali. Si vede anche che la torre poggiava su un basamento quadrato di 7,50m di lato, nuovamente indagato nel 1983 e riconosciuto di età cesariano-augustea. La porta sorgeva alla biforcazione delle due strade che conducevano ad Abbiategrasso e Pavia. Davanti alla porta sono stati rinvenuti, nel 1875 e nel 1991-1992, i resti di un ponte a tre arcate che consentiva di attraversare il fossato delle mura>>. 32


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1-localizzazione urbana 2-immagine di dettaglio 3-localizzazione ortofoto 33


Il Foro <<Il foro, sede delle funzioni politiche, religiose, amministrative della città e fulcro delle sue attività commerciali, sorgeva nel centro di Milano, nel punto di incontro tra gli assi viari principali, in una zona abitata almeno dal V secolo a.C. La grande piazza rettangolare, pavimentata e monumentalizzata in età augustea, era fiancheggiata sui lati lunghi da taberne ed era ornata da statue. Mancano dati relativi agli edifici principali, quali la sede del senato municipale, l’edificio per le attività amministrativo-giuridiche e il tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva, che si pensa affacciato su uno dei lati brevi; non si hanno elementi per attribuite una funzione precisa ai due edifici rinvenuti ai lati del foro e interpretabili come zecca e mercato o, secondo un’altra ipotesi, come edifici di culto. Parte della pavimentazione del foro è visibile, nella su collocazione originaria, nei sotterranei della Biblioteca Ambrosiana e, reimpiegata, nella cripta della chiesa del Santo Sepolcro. La dove ora sono la Biblioteca Ambrosiana e la chiesa del Santo Sepolcro sorgeva il foro di Milano, la cui realizzazione, avvenuta nello stesso periodo della lastricatura della via per Roma, indica l’adesione della classe dirigente locale agli ideali politici della capitale. La piazza rappresentò il punto di arrivo dei un programma di trasformazione urbanistica intrapreso dall’èlite milanese a partire dal I secolo a.C. in sintonica con la volontà di Augusto, che caldeggiava nelle città della Penisola interventi di monumentalizzazione. Fin dal 1898 molti ritrovamenti hanno interessato quest’area. Tra i più significativi si annoverano un grande edificio rettangolare, interpretabile come la zecca, riemerso nel 1908 durante la costruzione della Banca d’Italia, e un’altra costruzione, rettangolare con cortile centrale, identificabile come mercato, venuta alla luce nel 1938-1939. Da queste strutture provengono rispettivamente un torso marmoreo di Venere databile al I-II secolo d.C. e un torso marmoreo maschile. A questi rinvenimenti si aggiungono vari frammenti architettonici, pertinenti a edifici monumentali databili tra il I e il III secolo d.C., e tratti del reticolato stradale e del sistema fognario, che hanno consentito di delimitare l’area occupata dal foro e di constatare la continuità tra l’impianto viario rimano e quello attuale. Indagini sistematiche hanno esplorato la zona dal 1986 al 1995, con scavi di ampie proporzioni soprattutto in via Moneta e presso la Biblioteca Ambrosiana. I materiali e i resti venuti alla luce indicano la continuità di occupazione dell’area almeno dal V secolo a.C. e che l’orientamento delle strutture lignee del II-I secolo a.C. è stato mantenuto dagli impianti stradali e fognari romani. Il foro di Milano, di 55X160m, doveva essere simile a quelli di Verona, Brescia, Pompei e corrispondere alla tipologia descritta da Vitruvio, attestata in Italia e nelle Gallie. I limiti a Nord e a Sud del foro milanese si possono rintracciare negli assi corrispondenti alle attuali via Armorari-Spadari e alla via del Bollo, quelli orientali sono delineabili in via ipotetica, mentre quelli occidentali sono segnati dalla canaletta di scarico delle acque pluviali rinvenuta nei sotterranei della Biblioteca Ambrosiana. Qui è emerso anche un ampio tratto del lastricato ancora nella sua collocazione orginaria, con alcuni gradini in mattoni della scalinata di accesso alle botteghe sui lati lunghi della piazza, probabilmente forniti anche di porticati. La pavimentazione, in lastre irregolari di pietra di Verona, è stata datata all’età augustea, periodo in cui inizia lo sfruttamento delle cave veronesi. Monumenti onorari, dei quali si riavvisano le impronte su alcune lastre, ornavano la piazza: Plutarco e Svetonio ricordano una statua bronzea di Bruto, nel foro già in età augustea. A Nord, sull’attuale via Cantu, doveva trovarsi il Capitolinum, nei pressi dei lati lunghi erano il presunto macellum, da una parte, e dall’altra, l’ipotetica zecca ed edifici a destinazione artigianale e residenziale rinvenuti in via Moneta, mentre una grande costruzione, forse termale, era a Sud. Il ritrovamento di un canale di fognatura ha rivelato che a ridosso delle tabernae correva una strada parallela all’asse longitudinale della piazza>>. 34


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Il Teatro <<Il teatro, il più antico edificio pubblico noto della città augustea, testimonia l’importante momento storico in cui Milano, municipium romano dal 49 a.C., si dota di strutture pubbliche , sacre e profane. A pianta semicircolare, l’edificio poteva ospitare circa ottomila spettatori, che prendevano posto sulle gradinate sostenute da arcate e gallerie. Utilizzato per rappresentazioni teatrali, giochi, feste e riunioni, continuò a ospitare assemblee popolari fino al XII secolo, quando, in seguito alle distruzioni compiute dall’imperatore Federico Barbarossa nel 1162, se ne perse memoria. Il teatro è costruito dopo il 49 a.C., quando anche Roma vede nascere fastosi edifici da spettacolo in muratura, in precedenza fabbricati in legno. Anche in alcune città dell’Italia Settentrionale, come Aosta, Torino, Brescia e Verona, sorgono teatri, adagiati suoi fianchi dei pendii in zone collinari, completamente sorretti da arcate in pianura. Quest’ultimo sistema, una delle innovazioni che differenziano gli edifici romani da quelli greci, consente agli spettatori di accedere alla cavea, lo spazio a gradinate loro riservato, mediante aperture collegate all’esterno da un sistema di gallerie coperte e rampe. Altri cambiamenti si verificano nell’orchestra, che, da circolare e destinata al coro, è ridotta a un semicerchio riservato ai personaggi di riguardo, e nella scena, che diventa una struttura monumentale, quasi una facciata di palazzo, proceduta da un palcoscenico, dotata di tre porte e di un sipario in tessuto e ornata da statue e scenografie dipinte. Inoltre la cavea può essere fornita di tendoni per proteggere il pubblico dal sole e di un ambulacro coperto o di un portico. Le indagini archeologiche sul teatro di Milano sono iniziate nel 1880 e si sono protratte a più riprese fino al 2005. Il recente intervento di scavi a cura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ne ha precisato la planimetria e la datazione e la Camera di Commercio ne ha valorizzato i resti con un nuovo allestimento. La memoria dell’ubicazione dell’edificio non era mai andata perduta nel tempo e si era conservata nel nome della chiesa di San Vittore al Teatro, citata fin dal Medioevo nei documenti d’archivio e nelle opere degli storici, nonché ricordata, dopo il suo abbattimento dall’omonima via. La pesante mole del teatro poggiava su una piattaforma in conglomerato di ciottoli, ghiaia e malta, a sua volta sorretta da centinaia di pali di rovere infissi fittamente nel terreno, lunghi 0,80-1,20m. La cavea, semicircolare e alta circa 20m, aveva un diametro di 95m ed era sorretta da fondazioni a cuneo. Le gradinate erano divise orizzontalmente in due o tre ordini da corridoi, mentre la scena, della quale restano tratti delle fonazioni, era forse fornita di un portico posteriore. All’esterno l’edificio presentava un porticato a due ordini di arcate sorrette da pilastri in pietra, concluso forse superiormente da un attico>>. 36


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L’Anfiteatro <<All’esterno delle mura, non lontano dall’antica Porta Ticinensis, sorse nel I secolo d.C. l’anfiteatro milanese, uno dei più grandi e noti in Italia settentrionale. In questo edificio tipicamente romano, con arena centrale ellittica circondata da gradinate per gli spettatori, si svolgevano duelli tra gladiatori, lotte tra uomini e animali feroci, pubbliche esecuzioni di condannati ad bestias e forse addirittura battaglie navali. L’imponente edificio, che poteva ospitare ventimila spettatori, nel corso del V secolo d.C. venne spoglato dei materiali edilizi dell’anello esterno, reimpiegati per nuove costruzioni, come la vicina basilica di San Lorenzo, o per rinforzare alcuni tratti della cinta muraria urbana. In seguito a recenti indagini archeologiche, alcuni studiosi ipotizzano l’utilizzo dell’anfiteatro ancora in epoca longobarda, forse come sede della guarnigione militare per le sue caratteristiche di luogo protetto e fortificato. I munera gladiatoria si svolgevano nel grandioso edificio a pianta ellittica di 155X125m, con arena di 75X41m e gradinate sorrette da arcate; il muro esterno, alto più di 38m, era a tre ordini dorico-ionico-corinzio, sormontati da un attico con lesene corinzie e mensole forate sorreggenti i pali del velario che proteggeva gli spettatori dal sole. La ricostruzione dell’alzato dell’edificio si basa sull’esame dei materiali architettonici reimpiegati nella platea di fondazione della basilica di San Lorenzo, mentre la pianta, con due muri esterni concentrici collegati a muri radiali a un anello interno, è nota dai resti di fondazione in opus cementicium rinvenuti nel corso di numerosi scavi archeologici e attualmente visitabili nel Parco dell’Anfiteatro Romano. Nulla si sa invece dell’articolazione degli ambienti di servizio sottostanti all’arena, che ospitavano uomini e animali e consentivano rapidi spostamenti, anche con l’aiuto di attrezzature quali montacarichi e argani>>. 38


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Le Colonne di San Lorenzo <<Il colonnato o marmoreo davanti alla facciata di San Lorenzo è il monumento romano meglio conservato e più famoso di Milano. Fu eretto in epoca tardo antica come prospetto scenografico dell’atro antistante la chiesa, ma è costituito da colonne, basi, capitelli e frammenti di architrave assai più antichi, recuperati da un ignoto edificio pubblico della seconda metà del II secolo d.C. Sempre nel complesso laurenziano è reimpiegato un altro eccezionale elemento architettonico in marmo, anch’esso di provenienza sconosciuta ma appartenente in origine a un edificio pubblico della fine del I secolo d.C.: il portale che introduce al corpo ottagonale della cappella di Sant’Aquilino. L’aspetto attuale del colonnato di San Lorenzo è il risultato di numerosi interventi di rimaneggiamento, sostituzione e di parti danneggiate e restauro succedutisi dall’età medievale a tempi recentissimi. Quando fu messo in opera sulla fronte dell’atrio quadriportico della chiesa, con avancorpi in laterizi ai lati, le basi delle colonne scanalate poggiavano su singoli plinti rivestiti da lastre di marmo, successivamente uniti in un unico podio continuo, e i capitelli corinzi reggevano un architrave pure di marmo, di cui oggi rimangono soltanto nove blocchi; esso era interrotto al centro da un arco, in corrispondenza di un intercolumnio più largo degli altri, e sormontato da un muratura continua conclusa da una cornice, in origine marmorea, poi sostituita da laterizi. Tutti gli elementi architettonici in marmo provenivano dallo spoglio di un sconosciuto edificio monumentale del II secolo d.C. A quell’epoca risale anche un’inscrizione reimpiegata nel basamento del colonnato, rinvenuta nel 1605 e oggi murata sul fianco settentrionale del monumento; si tratta di un’epigrafe onoraria dedicata dai decurioni milanesi all’Imperatore Lucio Vero. La storia millenaria del colonnato lo ha visto oggetto ora di ammirazione da parte di storici e visitatori, ora, dal Cinquecento fino agli anni Trenta del Novecento, di tentativi di demolizione o spostamento per motivi di viabilità, ora di lavori volti alla ristrutturazione dell’area, come l’abbattimento negli anni 1036-1940 del quartiere medievale sviluppatosi tra la facciata di San Lorenzo e le colonne. Non sono mancati interventi di consolidamento, valorizzazione e restauro, già dalla metà del Cinquecento e fino ai gironi nostri>>. 40


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La Cinta Muraria e la Torre di Ansperto <<Il rinnovamento edilizio legato alla presenza in città dell’imperatore Massimiano e della sua corte modificò profondamente l’assetto della città. Infatti la costruzione della residenza imperiale e del circo determinò la riorganizzazione di alcune aree centrali della città e di conseguenza l’ampliamento dell’abitato ben oltre la cinta muraria trardorepubblicana nel settore Est, che venne circondato di nuove mura. La cerchia, che raggiunse così un perimetro di 4500m, incluse a Ovest il circo di recente costruzione, che sul lato curvilineo, destinato anche a funzione difensiva, enne dotato di feritoie. Grandiosa testimonianza di questo intervento urbanistico resta, ben visibile nel secondo chiostro delle Civiche Raccolte Archeologiche, una torre a ventiquattro lati collegata ad un’imponente tratto di mura. Che continua, a livello di fondazioni, nei sotterranei del Museo, dove si conservano anche i resti di una seconda torre angolare. Delle mura massimianee sono riemersi vari tratti, grazie alle indagini archeologiche che si sono susseguite dalla fine dell’Ottocento. Di questo circuito murario danno testimonianza anche le fonti antiche, la tradizione storiografica e i nomi delle chiese o delle vie. Tra gli scrittori della tarda antichità, Aurelio Vittone attribuisce l’opera a Massimiano, mentre Ausonio, parla di una duplice cerchia di mura, da interpretare non come una nuova cinta ma come ampliamento del circuito nel settore orientale della città, dove già esistevano le più antiche mura tardorepubblicane. L’ampliamento delle mura ad Est seguì il tracciato del fossato già esistente dal I secolo d.C., come hanno dimostrato scavi archeologici in via Croce Rossa, e inglobò il quartiere formatosi nell’area compresa tra la cinta tardo repubblicana e il fossato. Nel settore occidentale della città il circo fu inserito in un complesso sistema di fortificazioni, anche se parte della curva ebbe probabilmente funzione difensiva; un muro interno, forse con camminamento di guardia, collegava una torre della cerchia urbana a una delle torri dei carceres del circo, mentre un’altra fortificazione congiungeva la sua curva con l’antica Porta Ticinensis. La torre poligonale delle Civiche ricerche Archeolgiche è l’unica della cerchia massimianea conservatasi integralmente, our con rifacimenti in epoche successive. E’ nota anche come torre di “Ansperto”, poiché la tradizione milanese indicava il vescovo di Milano Ansperto da Biassono (869-881) come il costruttore o il restauratore della struttura. Riconosciuta come romana solamente negli anni Trenta del Novecento, la torre, alta 16.60m, è a ventiquattro lati all’esterno e circolare all’interno. Spoglia in antico per il recupero di materiale edilizi in parte rifatta nel paramento laterizio nell’Ottocento, poggia su fondazioni circolari in conglomerato di malta, ciottoli e frammenti di laterizi. Analoghe fondazioni si ritrovano nell’annesso tratto di cinta conservatosi, anch’esso scarnito, nei sotterranei del Museo Archeologico, nei resti di torre rinvenuta poco più a Nord, sempre nell’area del Museo, e nei tratti di mura riemersi in varie parti della città, che nell’alzato mostrano un nucleo in conglomerato rivestito da mattoni interi e spezzati e rivelano la presenza di materiale di reimpiego, principalmente lapidi funerarie e frammenti architettonici in pietra. Le mura massimianee erano fornite di torri quadrangolari e poligonali, di pusterle e porte, aperte lungo l’ampliamento orientale della cerchia, in asse con le precedenti porte tardorepubblicane e in corrispondenza degli assi viari principali, quali l’attuale via Manzoni l’odierno corso Vittorio Emanuele II, alla fine del quale era una porta cintata nel IX secolo come Porta Argentea. Nell’attuale Piazza Fontana era una pusterla, nota nel medioevo come pusterla di Santo Stefano, un basamento della quale era ancora visibile negli anni Venti del Novecento. Delle porte della cerchia più antica, la Ticinese fu forse rivestita con due Vittorie alate a bassorilievo, come fa supporre un frammento scultoreo rinvenuto nel 1937>>. 42


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Il Circo <<Voluto alla fine del III secolo d.C. da Massimiano Erculeo il circo sorge nella parte occidentale della città, incluso nell’ampliamento della cerchia muraria e in stretta relazione con la residenza imperiale, secondo il modello palazzo-circo inaugurato negli stessi anni da Diocleziano in Oriente. Il circo infatti è il luogo privilegiato in cui l’imperatore i mostra solennemente ai sudditi e la vittoria nelle corse diviene simbolo di quella imperiale. Sede di corse di carri molto amate dal popolo fino al VI secolo d.C., ancora nel 604 d.C. il circo milanese è teatro della proclamazione di Adalorardo re dei Longobardi mentre nei secoli successivi viene progressivamente spogliato e demolito, fino alla definitiva distruzione, probabilmente nel 1162 ad opera di Federico Barbarossa o dei Milanesi stessi, per impedirne agli assedianti l’utilizzo come roccaforte contro la città. Prima della riscoperta del monumento a partire dal 1939, si perde addirittura memoria della sua ubicazione, ricordata soltanto dai nomi di via Circo e delle chiese Santa Maria ad Circulum e Santa Maddalena ad Circulum, sorte presso il lato curvo dell’antico edificio e demolite nel 1789. Principalmente destinato a ospitare corse di carri e di cavalli, ma anche spettacoli gladiatori, il circo romano, derivato forse dell’ippodromo greco, è costituito da una pista stretta e allungata circondata sui due lati lunghi e sul lato breve di fondo, curvilineo, dalle gradinate per gli spettatori, suddivise in settori da balaustre e scalette e accessibili attraverso passaggi collegati all’esterno. Ai piedi della cavea è una piattaforma riservata agli spettatori di riguardo. Il quarto lato del circo, rettilineo, è occupato dall’oppidum, una struttura costituita da carceres, recinti da cui partono i carri, disposti ai lati dell’ingresso all’arena e fiancheggiati da due torri. Al di sopra dell’ingresso sono generalmente la tribuno d’onore, per gli organizzatori dello spettacolo e quella de giudici di gara, mentre l’imperatore si mostra al popolo in una loggia speciale direttamente collegata ala palazzo imperiale. L’rena è suddivisa in due corsie dalla spina, un lungo basamento sul quale possono trovarsi statue, fontane, edicole e colonne o altre decorazioni; alle sue estremità sono due elementi semicircolari, sette uova di pietra e sette delfini, che ruotando segnalano durante la gara il numero dei giri compiuti dai concorrenti attorno alla spina e il numero dei giri mancanti al traguardo, indicato da una linea tracciata sull’arena con la calce. Dopo le cerimonie di inizio dello spettacolo e la partenza dai carceres, allineati obliquamente perché la lunghezza del precorso sia la medesima per tutti i concorrenti, i carri percorrono la pista fino al termine della spina sul lato curvo del circo girando attorno alla meta prima, per poi tornare ai carceres e concludere cosi il giro della pista raggiungendo la meta secunda all’estremità opposta della spina; il percorso di gara prevede sette giri, al termine dei quali i giudici premiano il vincitore, che esce trionfalmente dal circo attraverso la porta triunphalis o principalis, in genere collocata al centro della curva>>. 44


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Il Palazzo Imperiale <<Le trasformazioni urbanistiche che caratterizzano Milano quale sede ufficiale di Massimiano interessano soprattutto la parte occidentale dell’impianto urbano, dove si sviluppa l’imponente complesso del palazzo imperiale. Settori residenziali e di rappresentanza, terme private e circo occupano un intero settore della città, presso la cerchia muraria qui ampliata dallo stesso Massiminao. Di questo vasto quartiere polifunzionale, rimasto almeno parzialmente in uso forse fino al X secolo si conservano oggi a vista soltanto alcune murature di un edificio di rappresentanza, dotato di impianto di riscaldamento, in via Brisa; probabilmente molti resti archeologici sono ancora conservarti sotto gli edifici circostanti. Mediolanense palatium, regia paltii, palatinae arces sono alcuni dei termini riferiti al palazzo imperiale da autori antichi dell’epoca, quali Claudio Mamertino, biografo di Massimiano, il vescovo Ambrogio, il poeta Ausonio. Non si trattava infatti di un edificio unitario, ma di un sistema esteso e complesso di strutture edificate anche in momenti diversi e con differenti funzioni: quartieri di abitazione per l’imperatore e la sua corte, impianti di servizio e di svago come quelli termali, aree aperte quali cortili e porticati, settori ufficiali e di rappresentanza in cui l’imperatore e i suoi dignitari esercitavano le loro funzioni pubbliche. Il palazzo, nel suo complesso era la residenza ufficiale dell’imperatore e quindi la sede rappresentativa del suo potere. Questo valore simbolico sembrava conservarsi per secoli, anche dopo il definitivo trasferimento della corte imperiale a Ravenna nel 402 d.C. e il progressivo abbandono delle strutture del complesso. Ancora nel 452 d.C., secondo una recente rilettura di un passo del lessico enciclopedico bizantino Suida, il re degli Unni, Attila, conquistata Milano, avrebbe fatto dipingere all’interno del palazzo, ancora agibile e non particolarmente danneggiato dall’assedio, un affresco celebrativo della sua vittoria sugli imperatori romani. E’ soltato alla fine del X secolo che si perde memoria della reale ubicazione del complesso, suggerita però dalla toponomastica, dalle sua pur vaghe indicazioni degli autori antichi e da sporadici rinvenimenti archeologici, che hanno riportato in luce sparsi resti di edifici, talora di controversa interpretazione, riconducibili alla residenza imperiale. Tra questi sono le imponenti fondazioni di un grande impianto in piazza Mentana e i resti rinvenuti in via Santa Maria della Valle, attribuiti a strutture termali, cui forse si deve il nome della vicina via Bagnera. Di particolare interesse sono i resti di un edificio costituito da gruppi di vani absidati disposti simmetricamente attorno a un ambiente centrale circolare con colonnato interno, preceduto da un atrio, pure absidato; la struttura, che aveva un impianto di riscaldamento e certamente svolgeva anche funzioni di rappresentanza, è oggi visibile in via Brisa. Anche il considerevole numero di pavimenti a mosaico rinvenuti in questa zona di Milano si può ricondurre a edifici signorili in qualche modo collegati al palazzo imperiale>>. 46


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Le Terme Erculee <<Uno dei più importanti monumenti di Milano tardo-antica è il grandioso complesso delle terme, dette Erculee perché fatte costruire da Massimiano Erculeo all’interno dell’ampliamento della cinta muraria da lui realizzato nella zona orientale della città. L’impianto termale, che occupava un’area di circa 14500 metri quadrati, era alimentato da un corso d’acqua ricordato da fonti medievali, l’Acqualunga, che probabilmente determinò la scelta del luogo. Il complesso era costituito da un vasto spazio aperto porticato, la palestra, dal quale si accedeva alle imponenti strutture destinate alle diverse fasi dell’elaborato rituale del bagno. Tale abitudine sociale divenne irrinunciabile nel mondo romano sin dai primi secoli dell’impero e si conservò fino alla tarda antichità. Il complesso, gravemente danneggiato da un incendio, fu probabilmente abbandonato nel V secolo d.C. Gli edifici termali rappresentano una delle realizzazioni più caratteristiche, complesse e grandiose dell’architettura romana e la loro frequentazione occupa buona parte del tempo libero di individui di ogni ceto e livello sociale già dal I secolo a.C., quando, accanto alle terme private delle ville più ricche, sorgono i primi impianti pubblici, accessibili a tutti con poca spesa. Sempre più grandi e articolati, decorati da mosaici, marmi, statue e fontane, donati alla comunità da magistrati e mecenati locali o addirittura dagli imperatori a scopo propagandistico, gli stabilimenti termali offrono piacevoli occasioni di svago e di incontro, oltre a soddisfare l’esigenza quotidiana della cura del corpo. L’impianto termale tipo prevede un percorso anulare che dagli spogliatoi conduce al calidarium, la sala del bagni caldo, e , attraverso un ambiente minore riscaldato, alla vasta aula con vasche per il bagno freddo, da cui si può tornare agli spogliatoi. Nei complessi più estesi e articolati, come quello di Milano, il percorso è spesso doppio, con vani disposti simmetricamente ai lati dell’asse centrale (calidarium-tepidarium-frigidarium). A questi si aggiungono la palestra, vasto spazio aperto circondato da portici per gli esercizi fisici e i giochi sportivi, la natatio, ambiente scoperto con grande piscina per i tuffi e il nuoto, e una serie di vani secondari, quali latrine e stanze per la sauna o vapori caldi, i massaggi, le frizioni con oli profumati o la depilazione. Il vero e proprio impianto termale può trovarsi inoltre all’interno di un ampio recinto in cui sono gradini per il passeggio e la conversazione, biblioteche, auditori per la pubblica lettura o per la musica e addirittura edifici per spettacoli scenici. Il funzionamento delle terme è garantito da grandi cisterne e sistemi di condutture in piombo e terracotta per l’approvvigionamento idrico., mentre al riscaldamento provvedono forni a legna, caldaie per l’acqua e sistemi basati sulla circolazione di aria calda all’interno di pareti cave e sotto i pavimenti, sospesi su pilastrini o colonnette. Il grandioso complesso che il poeta Ausonio chiama Herculeum lavacrum presenta lo schema tipico delle monumentali terme imperiali, ricostruito in base ai resti conservati di fondazioni in conglomerato di ciottoli, frammenti di laterizi e materiali di reimpiego legati da malta tenace. La pianta presenta notevoli somiglianze con quella delle coeve terme imperiali di Treviri, altra residenza imperiale. Dall’ingresso, preceduto da un colonnato, a Nord, si passava alla palestra porticata, con pianta rettangolare mossa da esedre agli angoli e sui lati corti. Da qui, attraverso grandi vani laterali, si arriva al calidarium, un vasto ambiente a Sud, caratterizzato da absidi in cui erano inserite vasche per l’acqua calda. Un corridoio riscaldato permetteva di poi il passaggio al tepidarium, a pianta rettangolare. Infine da qui si giungeva al frigidarium, ampio locale quadrangolare chiusa da una grande abside aggettante a Nord sulla palestra, in cui era collocata la vasca per i bagni freddi. I due ambienti ai lati del frigidarium erano decorati da mosaici policromi, uno dei quali ornato agli angoli da tondi con i busti delle Stagioni. In altri vani secondari, ai lati del tepidarium, si sono rinvenuti resti di canalette per l’adduzione dell’acqua, di sistemi di riscaldamento con colonnette e di pavimenti in lastre di marmo o a mosaico con motivi geometrici e vegetali. Della ricca decorazione architettonica del complesso facevano probabilmente parte i rocchi di colonne e i capitelli in marmo già ricordati alla fine del Cinquecento, mentre al sontuoso arredo del frigidarium apparteneva la statua colossale di Ercole il cui torso è stato recuperato nel 1827>>. 48


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L’Horreum <<Per sostentare le truppe stanziate in Milano e dintorni, tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. viene costruito un grande magazzino destinato alla conservazione delle derrate alimentari. Si sceglie una zona decentrata, a Nord della città, non lontana dalle vie di comunicazione e dalla cerchia muraria urbana, circondata dal fossato che facilita gli approvvigionamenti dall’estero. L’horreum milanese è una delle rare testimonianze archeologiche della vasta rete di infrastrutture sorte per rifornire gli eserciti dislocati nei punti strategici dell’impero. Il grande Horreum Sorgeva non lontano dall’asse stradale diretto verso Como, collegamento tra Milano e le regioni dell’alto Reno e dell’alto Danubio, divenute militarmente importanti nel III secolo d.C. per la difesa dei confini. Il percorso iniziale di questa strada, che superava il fossato delle mura cittadine, è rintracciabile nelle abituali via Broletto, Ponte Vetero e corso Garibaldi. Scavato negli anni 1958 e 1964-1965, il magazzino era un’amplia aula rettangolare larga 18m e lunga 68, suddivisa internamente da tre file di sedici pilastri ciascuna, sorreggenti probabilmente volte a crociera e un secondo piano ligneo. Sulle fondazioni in ciottoli e malta sorgevano le pareti rivestite in mattoni, all’esterno probabilmente decorate da arcate cieche che inquadravano le finestre, come negli horrea di Treviri e di Aquileia e nella basilica milanese di San Simpliciano. Un cortile, nel quale era un pozzo, doveva collegare l’edificio a un’aula identica, parallela e simmetrica alla prima , secondo una pianta conosciuta a Treviri e Aquileia. Tali città, insieme a Milano, documentano l’esistenza di un’articolata rete di rifornimenti per le truppe, organizzata mediante la costruzione di horrea diretti primipilares e sostentati dall’annona militaris, la tassa regolare imposta alle provincie per il mantenimento dell’esercito>>. 50


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Il Complesso Episcopale <<L’attuale piazza del Duomo, sede della cattedrale cittadina fin dai primi secoli della cristianità, ha ospitato un complesso episcopale formato da battisteri e basiliche le cui strutture, collocazione e datazione sono ancora oggetto di discussione. Sono documentati due battisteri, Santo Stefano e San Giovanni alle Fonti, e tre basiliche, la vetus, la minor e la nova, l’unica indagata dagli scavi archeologici, intitolata in età tardo medievale a Santa Tecla e rimasta cattedrale di Milano fino al 1461, anno della sua demolizione. Polo religioso della città, il complesso episcopale ci viene restituito, nella sua conformazione del IV secolo, dalla lettera di Ambrogio alla sorella Marcellina in cui sono citate una basilica vetus, una basilica minor, una basilica nova, la basilica baptisterii e la domus del vescovo. In occasione di opere di manutenzione alle fognature nel 1870 e dalla costruzione di un rifugio antiaereo nel 1943, sono stati effettuati scavi archeologici tesi a individuare gli edifici citati nella lettera. Tali interventi hanno evidenziato aspetti interessanti, ma si sono rivelati devastanti per l sopravvivenza delle antiche strutture. Infatti, a eccezione del battistero di San Giovanni alle Fonti, conosciamo del complesso episcopale solamente la pianta della basilica nova e la vasca del battistero di Santo Stefano, mentre niente rimane della basilica vetus, che probabilmente, insieme alla basilica minor, costituiva una cattedrale doppia risalente presumibilmente all’età dell’imperatore Costantino>>. 52


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Il Battistero di San Giovanni alle Fonti <<Collocato nei pressi della zona absidata della basilica nova, il battistero di San Giovanni alle Fonti è un edificio ottagonale con strutture, completamente messe in luce dagli scavi archeologici del 1961-1962, sono oggi accessibili dal Duomo. Probabilmente costruito ai tempi del vescovo Ambrogio nel 386, ristrutturato all’interno sotto il vescovo Lorenzo I agli inizi del VI secolo e sacrificato per costruire il Duomo in età viscontea, il sacro edificio, modello per molte costruzioni successive, è stato scenario nel 387 del battesimo di Agostino per mano di Ambrogio. L’edificio, indipendente e a pianta ottagonale con lato di 7,40m, era largo circa 19,30m e articolato all’interno in quattro nicchie semicircolari e quattro rettangolari, scandite presso i pilastri angolari da colonne sorrette da basi. Quattro ingressi si aprivano in corrispondenza delle nicchie rettangolari. Sorto su edifici preesistenti, il battistero si data non prima del regno dell’imperatore Valente, in base al ritrovamento nei livelli della fondazione di una moneta di quell’epoca. Ed è citato da Ambrogio in un celebre epigramma, che ne esalta la forma di ottagono, simbolo di rigenerazione e restaurazione. Sebbene la critica non sia unanime sulla datazione delle strutture, da alcuni considerate preambrosiane, studi recenti attribuisco la costruzione del battistero all’iniziativa di Ambrogio. Concordano invece gli archeologi sulla ristrutturazione dell’interno ai tempi del vescovo Lorenzo I, agli inizi del VI secolo. Di quegli anni è certamente la vasca ottagona centrale, che sostituì quella precedente di forma analoga; profonda 80cm e larga 5,50m, era provvista di gradini in mattoni e rivestita in marmo bianco. Nella vasca, alimentata sul lato occidentale da un condotto di laterizi posto intorno al parapetto, si apriva un canale di scarico, in cui defluiva anche l’acqua raccolta da due canalette destinate a mantenere costante il livello dell’acqua. Da oriente, mediante due grandini di accesso, il battezzando entrava nella vasca, portandosi poi sul lato opposto ove avveniva molto probabilmente la cerimonia, come sembrerebbero indicare i resti di due incassi, forse traccia di transenne destinate a recingere il posto occupato dal vescovo. L’edificio era splendidamente decorato da un pavimento in opus sectile ampliamente conservato, con losanghe nere e parallelogrammi bianchi intorno alla vasca, mentre le nicchie avevano decorazioni a scacchiera e a esagoni. Le pareti erano rivestite da tarsie marmoree geometriche che utilizzavano marmi pregiati policromi e da decorazioni pittoriche, mentre mosaici dorati ricoprivano il soffitto. Resta irrisolta la questione dell’alzato e dalla volta del battistero, che pare avesse una copertura cementizia. Annesso al battistero, sul lato Sud, vi è un edificio con tre absidi di funzione incerta, sorto in età altomedioevale. Inizialmente considerato struttura i catecumeni, è stato più recentemente interpretato come basilica funeraria, in seguito al ritrovamento di sepolture al suo interno>>. 54


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San Nazaro <<La basilica è eretta dal 382 per volere del vescovo Ambrogio sull’area di una preesistente necropoli e viene consacrata nel giugno 386 con le reliquie dei Santi Apostoli, dai quali deriva la prima intitolazione. Affacciata probabilmente con un atrio, sulla via porticata da poco ultimata, la chiesa ha pianta a forma di croce, simbolo della vittoria di Cristo sulla morte e di quella della Chiesa di Ambrogio sull’eresia ariana e sul paganesimo. Modificato pochi anni dopo per accogliere le reliquie di San Nazaro, l’edifico paleocristiano, oggetto di indagini archeologiche tra il 1947 e il 1974, è ancora riconoscibile nella pianta dell’attuale chiesa, che si data all’XI secolo. La nascita della basilica si lega al culto dei Santi e dei Martiri promosso da Ambrogio. Gli studiosi non sono concorsi su quali fossero le reliquie usate per la consacrazione della chiesa: se alcuni pensano a quelle dei Santi Giovanni Evangelista, Giovanni Battista, Andrea e Tommaso, giunte dall’Oriente a concordia e ad Aquileia e, di qui a Milano, altro credono invece che fossero quelle dei Santi Pietro e Paolo, cioè brandelli di stoffa che erano stati in contatto con il corpo dei Santi sepolti a Roma. Il ritrovamento all’interno dell’altare, nel 1578, da parte di Carlo Borromeo, di due reliquiari uno nell’altro, la celebre capsella argentea e la sferica teca di Manila Dedalia, fece pensare a due deposizioni, senza però poterne chiarire tempi e modi. Dedicata ai Santi Apostoli, la chiesa, sorta lungo la via per Roma monumentalizzata per volere imperiale, rivela il desiderio vescovile di contrassegnare questa zona, posta al di fuori del circuito murario ma sulla somma direttrice verso la capitale, con un evidente simbolo cristiano. La forma a croce della Pianta, non nota fino a quel momento in Occidente, riprendendo quella della chiesa degli Apostoli di Costantinopoli voluta dall’imperatore Costantino, sottolinea il legame con quella città, definitivamente purificata dall’arianesimo ai tempi di Teodosio, e costituisce per i fedeli il simbolo concreto del trionfo di Cristo: “ il tempio ha la forma della croce, il tempio rappresenta la vittoria di Cristo, come detta da Ambrogio stesso in un’iscrizione della quale si conservano frammenti, trascritta sulla parete sinistra del presbiterio>>. 56


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Sant’Ambrogio <<Sorta al centro di una vasta area riservata a sepolture cristiane e caratterizzata dalla presenza di piccole celle in memoria dei Martiri, la basilica viene costruita per volere di Ambrogio fra il 379 e il 386. Inizialmente destinata ad accogliere la tomba del fondatore, è poi dedicata ai Martiri Gervasio e Protasio, i corpi dei quali vengono miracolosamente ritrovati dal vescovo nel 386. L’antico edifico, di cui conosciamo solo l’antica pianta, è stato ampiamente modificato a partire dal IX secolo. Era costituito da una grande aula rettangolare con copertura lignea, suddivisa in tre navate da colonne e terminate con un’abside semicircolare. Eccezionalmente si sono conservati due pannelli in legno scolpito della porta d’ingesso commissionata da Ambrogio. La basilica di Sant’Ambrogio, costruita presso il Cimitero dei Martiri, si presenta attualmente nell’affascinante aspetto che le hanno conferito la ricostruzione della zona absidale, avvenuta tra il IX e X secolo, e il rifacimento delle navate, compiuto nell’ XI secolo. Se l’alzato non conserva quasi niente del tempio paleocristiano, riconoscibile è invece la pianta, indagata durante i restauri ottocenteschi e riesaminata nel secolo successivo. La prima chiesa aveva un impianto basilicale di dimensioni analoghe a quello attuale (26X53,40m), con una vasta aula a tre navate divise da due file di tredici colonne e una sola abside. Assai probabilmente la copertura era lignea, a doppio spiovente per la navata centrale e a spiovente singolo per le navate laterali. Come la basilica Apostolorum, anche la basilica Martyrum viene eretta in tempi relativamente brevi, con molto materiale di reimpiego, in uno sforzo di risparmio e razionalizzazione delle risorse. L’impianto ad aula unica divisa in navate è assai somigliante, per pianta e misure, alla romana Santa Sabina. Come sappiamo da una lettera di Ambrogio alla sorella, la scelta inconsueta del vescovo, che intende collocare la propria tomba sotto l’altare della chiesa, suscita perplessità presso i fedeli; così, quando giunge il momento della consacrazione, l’esplicita richiesta popolare di reliquie convince i vescovo, che, molto opportunamente, ritrova le spoglie dei Martiri massiemianei Gervasio e Protasio. Il 19 giugno del 386 la solenne traslazione dei Santi dalla basilica Martyrum risolve la questione: i corpi vengono deposti nel loculo destro, vicino a quello predisposto per Ambrogio, sotto l’altare maggiore. Probabilmente nel IX secolo il vescovo Angilberto II trasla i resti dei Santi in un sarcofago di porfido, poi ricoperto dal prezioso altare d’oro di Vuolvinio. Anche questa trasformazione tuttavia non è definitiva, poiché la successiva costruzione della cripta nel X secolo, con il rialzo pavimentale del coro, porta altri cambiamenti. Attualmente i resti di Gervasio. Protasio e Ambrogio sono collocati in un’urna d’argento posta sotto l’altare. Naturalmente tutte le modifiche di questa parte della chiesa hanno causato la perdita dei dati archeologici in questo settore. Con ogni probabilità intorno all’altare hanno trovato sepolture i vescovi milanesi tra il VII e il IX secolo>>. 58


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San Simpliciano <<San Simpliciano, in età tardo antica basilica Virginum, conserva straordinariamente gran parte dell’originario alzato, che si eleva ancora fino a 22m di altezza. Collocata sull’importante arteria stradale per Como, che conduceva attraverso lo Spluga verso la Renania e Treviri, la chiesa cruciforme nascerebbe negli ultimi tempi dell’episcopato di Ambrogio o agli inizi del mandato del suo successore Simplicano. L’edificio, pur modificato nel corso del tempo, consente ancora oggi di apprezzare l’armoniosa e rigorosa architettura dei primi secoli del cristianesimo. La chiesa antica è ancora ben riconoscibile in quella attuale, se si escludono l’abside dell’XI-XII secolo, la facciata in gran parte ottocentesca e la zona meridionale del transetto. Ha pianta a croce latina, con unica navata lunga 65,30m e lunga 21,70 e tetto a capriate lignee. Il braccio corto della croce è formato da due vani laterali di 16,50X16m, più bassi del corpo centrale e anch’essi a copertura lignea. L’esterno dell’edificio presenta gradi arcature cieche, in cui si aprono ampie finestre che rendono l’interno straordinariamente luminoso. Gli scavi archeologici hanno inoltre rivelato la presenza di un portico a U, largo 7,20m davanti alla facciata e ai fianchi della costruzione, ancora ricordato come esistente nel 1650 da un monaco del convento di San Simpliciano. La chiesa paleocristiana aveva un’abside più ampia dell’attuale, di cui gli scavi archeologici hanno individuato la fondazione; era probabilmente dotata di due aperture laterali e priva del portale centrale. Il pavimento antico, in opus sectile, era di circa 1,80m più basso dell’attuale, accentuando quindi l’altezza dell’edificio, che ha fondazioni in conglomerato e alzato in opus vittatum, alternato a opus spicatum. A Nord dell’abside si trova un sacello absidato e coperto da volta a botte, degli inizi del V secolo. Probabile cappella funeraria, destinata anche alla conservazione di reliquie, il vano sembra ora completamente separato dalla basilica, ma la questione richiede ulteriori indagini. Assai interessante si rivela la volta del sacello, in cui sono state trovate anfore integre, annegate nella malta, a sostegno della struttura del tetto, secondo una tecnica costruttiva che ritroviamo nelle cappelle di Sant’Ippolito e Sant’Aquilino in San Lorenzo a Milano, in edifici ravennati e nel battistero paleocristiano di Albenga>>. 60


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L’edificio sotto Sant’Eustorgio <<Scavi ottocenteschi nella chiesa di Sant’Eustorgio hanno rivelato l’esistenza di un più antico edificio, la cui abside, unica testimonianza paleocristiana giunta fino a noi, è conservata sotto il coro dell’attuale basilica. Costruito nell’area di una necropoli suburbana di cui restano tracce significative, l’edificio paleocristiano è addossato a un più antico muro rettilineo, apparentemente a una struttura la cui forma originaria e la cui destinazione sono ancora oggi sconosciute. Secondo una tradizione cittadina basata sui cataloghi episcopali dei secoli IX e X, il vescovo Eustorgio I, di cui si ha notizia fra il 345 e il 348, sarebbe il fondatore della basilica sorta lungo la via per Pavia, nella quale avrebbe poi trovato sepoltura. Un’altra ipotesi attribuisce invece la costruzione della chiesa a Eustorgio II, vescovo di Milano dal 512 al 518. Scavi ottocenteschi e indagini condotte tra il 1959 e il 1966, che hanno interessato anche il cimitero, hanno portato alla luce un muro rettilineo e una più tarda abside paleocristiana. Questa, costruita in ciottoli e mattoni, ha un diametro di 5,20m e un spessore di 1,40. La mancanza di altri ritrovamenti rende assai complessa la ricostruzione e la datazione degli edifici sorti nell’area cimiteriale. E’ infatti impossibile stabilire se la costruzione più antica fosse un sacello funerario, una recinzione di area sepolcrale o un’aula di culto. Non è neanche chiaro se tal costruzione sia sorta sopra le sepolture cristiane del IV e del V secolo o se queste siano state aperte nel pavimento di una chiesa già esistente. Sicuramente la basilica ebbe grande rilievo nella vita religiosa della città, come provano la diffusione della leggenda di San Barnaba Apostolo che avrebbe qui battezzato i primi cristiani, la sepoltura del vescovo Eugenio e la memoria delle reliquie dei re Magi, secondo la tradizione deposti in un sarcofago di donazione imperiale>>. 62


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San Lorenzo <<Nonostante i danni subiti nel corso del tempo, il superbo edificio paleocristiano, sorto fuori dalle mura, lungo la via per Pavia e presso le acque della Vepra, si conserva in gran parte. La pianta, corpo centrale quadrato su cui si aprono quattro esedre affiancate da quattro torri laterali e tre cappelle ottagonali, è la più antica testimonianza conosciuta di chiesa “tetraconca” (con quattro pareti ricurve). Preceduto da un atrio oggi perduto con fronte decorata da un colonnato di reimpiego, l’edificio è stato variamente datato tra il IV e il V secolo. Studi recenti, sostenuti anche da indagini archeometriche combinate con rilievi stratigrafici delle murature, ipotizzano che la costruzione sia avvenuta nel periodo compreso fra il 390 e il 410. Le cappelle di Sant’Aquilino, Sant’Ippolito e San Sisto, che contribuiscono a creare la complessa pianta di San Lorenzo, non erano tutte previste nel progetto iniziale, come rivelano recenti indagini relative alle murature e alle diverse fondazioni delle strutture. Il nucleo più antico della basilica comprendeva il corpo centrale di San Lorenzo e il sacello di Sant’Ippolito, edificati insieme alle torri angolari, mentre la cappella di Sant’Aquilino, già prevista nel disegno originario, venne eretta in un momento di poco successivo e quella di San Sisto è un’aggiunta risalente al VI secolo. L’ampio corpo centrale, probabilmente in origine coperto da una pesante volta a padiglione poggiante sui quattro pilastri interni, aveva un diametro di ben 47,90m; su di esso affacciavano le esedre a semicupola, con colonnati a due piani. Le quattro torri angolari, oltre a contraffortare gli angoli del corpo centrale, erano la via di accesso alle gallerie. La struttura originaria doveva essere più leggera dell’attuale: un drammatico incendio nel 1071, probabili lavori a seguito degli incendi dell’XI e del XII secolo e un restauro avvenuto tra 1577 e 1595, dopo il crollo della cupola romanica nel 1573, hanno apportato significative modifiche all’insieme, come la trasformazione in ottagono del corpo centrale. Sempre cinquecenteschi sono i possenti pilastri e gli archi in pietra grigia delle esedre. Anche l’esterno ha mutato aspetto per la costruzione di un altro tamburo sotto la cupo la centrale. L’edificio paleocristiano rivela pilastri di conci di pietra e un paramento murario esterno accurato, con letti di malta bianca di raffinata esecuzione. Luminosissimo all’interno, prendeva luce dalle finestre del deambulatorio e della galleria. Le pareti erano rivestite da lastre di pietre colorate e la volta splendeva ricoperta di tessere dorate. L’ingresso, affacciato sulla via per il Ticinum, era caratterizzato da tre portali aperti nell’esedra occidentale e preceduto da un grande atrio quadriportico, di cui oggi rimangono solo le colonne marmoree della fronte e le fondazioni. Sul lato opposto, verso Est, si aprivano altri quattro portali, due nell’esedra orientale e due sotto le torri angolari. Il sacello di Sant’Ippolito a Est, con pianta a croce greca entro il perimetro ottagonale, aveva fin dall’origine copertura a cupola al centro e coperture a volta sui bracci della croce. Della struttura originale si conservano quattro splendide colonne di marmo numidico con capitelli in marmo bianco. La cappella di San Sisto a Nord, preceduta da un piccolo atrio quadrato, fu edificata in un secondo momento. Come indicano i tagli delle murature in alzato dell’esedra Nord del corpo centrale e le fondazioni in masselli di ceppo. Il sacello, molto rimaneggiato, conserva oggi soltanto pochi tratti di murature originali, due capitelli e parte della pavimentazione in opus sectile a esagoni neri e triangoli bianchi>>. 64


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San Vittore e il Mausoleo <<Lungo l’attuale via San Vittore, antico asse stradale sul quale prospettava fin dal I secolo una vasta necropoli, venne eretto, in epoca tardo antica, un’imponente recinto a forma di ottagono schiacciato, con torri semicircolari agli angoli. Tale struttura incluse nel suo perimetro una preesistente area cimiteriale, in prevalenza cristiana, e un sontuoso mausoleo imperiale ottagonale, continuando a ospitare tombe cristiane e divenendo un luogo di sepoltura privilegiato. Trasformato in cappella di San Gregorio nel IX-X secolo e annesso a San Vittore al Corpo, il mausoleo fu abbattuto negli ultimi decenni del XVI secolo, in occasione del rifacimento della chiesa. Le indagini archeologiche iniziate nel 1950 e continuate fino al 1977 hanno riportato alla luce la struttura fortificata, un quarto del mausoleo e circa novanta sepolture a inumazione, alcune in case di laterizi o litiche, coperte alla cappuccina o da lastroni di pietra, nella maggior parte dei casi cristiane. Il recinto poligonale, lungo internamente 132m e largo 100 aveva lati lunghi 42-44m e un ingesso monumentale, fiancheggiato da torri, al centro del lato rivolto rivolto a Sud-Est. L’alzato , con paramenti laterizi e nucleo in mattoni e ciottoli alternati a strati, era sorretto da fondazioni in conglomerato di malta e ciottoli. Un tratto di muro recuperato presentava all’interno nicchie affiancate da semicolonne, motivo forse presente anche negli altri lati della struttura. L’imponente recinto fu costruito attorno a una necropoli cristiana con sacelli quadrangolari e tombe, , molte delle quali protette, in segno di rispetto e comunanza di fede, al momento dell’intervento edilizio. Purtroppo, sia per le sepolture anteriori alla fortificazione sia quel quelle posteriori, mancano dati che aiutino a definire la situazione cronologica. Tra il materiale epigrafico si distingue la più antica epigrafe cristiana data di Milano, l’epitaffio dell’ottantenne Probus, rinvenuto sulla sua tomba accanto al mausoleo imperiale, in una posizione di prestigio. Sposato per trent’anni e sepolto nel 368, come si deduce dall’indicazione del consolato, egli si qualifica presbyter, una carica ecclesiastica appena inferiore a quella di vescovo. Commovente è l’epitaffio della rimpianta Adica Lea, morta a ventiquattro anni, paragonata a una pianta che cade lasciando frutti immaturi. Si è interpretato l’intero complesso in una nuova prospettiva, ipotizzando la presenza in quest’area della basilica Portiana di cui parla Ambrogio. Nella necropoli cristianizzata sarebbe sorto quindi un complesso funerario composto da basilica e mausoleo, secondo già noto a Roma; a ciò sarebbero seguite la riorganizzazione del sepolcreto, la costruzione del recinto poligonale e l’ulteriore utilizzazione dell’area interna come necropoli. Il recinto dovette avere lunga vita: in una pianta del 1814 tre suoi lati costituiscono ancora confini di proprietà. Del grandioso mausoleo restano le descrizioni Giacomo Filippo Besta del XVI secolo e di Bonaventura Castiglioni del 1553 e un disegno anonimo del 1570 circa conservato alla Staasgalerie di Stoccarda, che completano i dati ricavati dalle ricerche archeologiche. Risulta che l’edificio, molto simile al sacello di Sant’Aquilino, doveva essere dotato di una galleria ricavata nello spessore delle murature, in corrispondenza delle finestre. I pavimenti erano a esagoni e triangoli marmorei, la parte inferiore delle pareti era rivestita di uno zoccolo in marmo grigio probabilmente sormontato da tarsie marmoree, mentre la parte superiore era a mosaico. Tale forse l’aspetto dell’edifico al momento della demolizione, quando uno dei progetti di Vincenzo Seregni, che prevedeva di costruire sulla nuova facciata della chiesa una struttura analoga e simmetrica alla prima, venne scartato a favore di quello di Galeazzo Alessi, che comportò un intervento radicale. Databile nel IV secolo avanzato, il mausoleo probabilmente accolse le tombe della famiglia dei Valentiniani, da Graziano a Valentiniano II. Quest’ultimo, morto prematuramente a Vienne in Gallia nel maggio del 392 e trasportato a Milano, avrebbe avuto qui sepoltura, in un sarcofago di porfido. Il vescovo di Milano Ambrogio, nel discorso funebre pronunciato per il giovane imperatore, ricorda che la salma restò in una chiesa in attesa delle esequie celebrate solamente in settembre>>. 66


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San Giovanni in Conca <<In piazza Missori si conservano parte dell’abside e la cripta della basilica di San Giovanni in Conca, ricostruita in forme romaniche tra il XI e il XIII secolo su uno dei più importanti edifici di culto paleocristiani milanesi, sorto tra il V e il VI secolo in un avvallamento del terreno da cui deriverebbe l’appellativo “in conca”. Sconsacrata alla fine del Settecento e successivamente spogliata e mutilata, la chiesa viene definitivamente sacrificata nel secondo dopoguerra alle esigenze del traffico cittadino, che impongono la sua quasi completa demolizione per l’apertura di via Albricci. Dopo un recente restauro conservativo la cripta è oggi spazio espositivo. Le indagini archeologiche condotte nel 1881 sotto la navata centrale, in concomitanza con la riduzione della lunghezza della chiesa per l’apertura di via Carlo Alberto (attuale via Mazzini), hanno riportato in luce resti di un’abitazione del quartiere residenziale, costituito da eleganti edifici con pareti affrescate, pavimenti mosaicati e impianti di servizio, che occupava l’area sudorientale della città prima dell’edificazione della chiesa paleocristiana. Documenta l’elevato livello della domus un mosaico policromo del III secolo uno dei pochissimi esempi milanesi con motivi figurati: entro uno schema geometrico a meandro sono riquadri con animali, tra i quali è interamente conservata la figura di un felino. Allo stesso edificio doveva appartenere una cisterna in laterizi rivestita da coccio pesto impermeabilizzante e alimentata da condutture in piombo, visibile nella cripta. Tra il V e il VI secolo l’area acquista nuove funzioni religiose e funerarie; sulle precedenti abitazioni sorge una chiesa ad aula unica absidata, stretta e allungata (17X53m), con pareti scandite esternamente da paraste, di cui si sono rinvenuti resti durante le indagini archeologiche condotte tra il 1948 e il 1952 in occasione della demolizione dell’edificio. Della basilica paleocristiana, dedicata a San Giovanni Evangelista, si conserva una porzione del pavimento in piastrelle di marmo bianco e basalto, recuperata negli scavi del 1881. Attorno alla chiesa si estendeva una necropoli di cui si sono rinvenute diverse tombe, una delle quali interamente affrescata con immagini allusive alla morte e alla resurrezione dell’anima: su un lato lungo della cassa in pietra sono due cervi affrontati in un giardino, ai lati della croce, su un lato breve due pernici rivolte verso una palma. L’affresco, di V-VI secolo, è uno dei pochissimi esempi di pittura paleocristiana conservati a Milano. Nell’XI secolo la chiesa fu completamente riedificata in forme romaniche e dotata di una cripta che, insieme a quella della chiesa del Santo Sepolcro nell’omonima piazza, costituisce una rarissima testimonianza dell’epoca a Milano; la cripta è oggi l’unica parte superstite della basilica, nuovamente ricostruita nel XII secolo e demolita dopo la Seconda Guerra Mondiale>>7. 7 68

D. Caporusso, Immagini di Mediolanum : archeologia e storia di Milano dal 5. secolo a.C. al 5. secolo d.C., ET, Milano 2007.


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Caratteri di Mediolanum Come già annunciato in precedenza, lo scopo di questa analisi è primariamente culturale, e successivamente, in base a scelte di tipo <<comportamentale>>, essa è stata un fondamentale lavoro di mappatura dei siti, delle loro collocazioni urbane, delle estensioni fisiche e delle loro caratteristiche contestuali, considerando esclusivamente la loro condizione attuale. Infatti, volendo lavorare sullo studio delle dinamiche sociali dell’approccio alla spazialità ibrida urbana, interfacciandoci con le utenze e le emergenze di contesto ai siti, non potevamo che elaborare i caratteri esistenti nell’ <<oggi>>, e non di certo quelli mancanti depauperati nel tempo. Le nostre analisi a priori, che guidano i concept progettuali, nascono da considerazioni circostanziali del sito archeologico. Non a caso, sono state prese in analisi, in primis, la tipologia d’utenza, soggetto unico della progettazione antropica, poi le condizioni di attrattività che legano tale utenza al sito. Solo dopo, sono stati inseriti nelle considerazioni di progetto tutte quelle multiple letture spaziali riconosciute alle singole entità archeologiche legando le emergenze di contesto, che insistono nell’area, ad un possibile sviluppo ex novo del <<perimetro museale>>. Questo lavoro di mappatura dei siti ha comportato anche la elaborazione di una serie di caratteri specifici per ogni luogo, i quali sono stati strutturati per un confronto analitico, atto a favorire nuove letture di questi spazi. Come primo, troviamo il carattere di condizione spaziale, descritto in tre categorie: autonoma, quando il sito archeologico ha una propria lettura spaziale indipendente da altre formalità contestuali, inserita, quando le preesistenze storiche sono fisicamente collocate all’interno di un altro manufatto architettonico, integrata, quando la fisicità dei reperti è un tutt’uno con la fisicità di un’altra struttura ad esso legata per forma o <<memoria>>. Troviamo, poi, il carattere descritto come qualifica del proprietario, che, divisa semplicemente in pubblico o privato, non è indifferente elemento prescindibile per una riconversione all’urbano che, anche in una dinamica di virtualità progettuale, vogliamo sempre considerare. Successivamente, teniamo conto del carattere fondamentale di accessibilità, a sua volta suddiviso in accessibile, quando è possibile attraversare e permanere in un luogo senza particolari qualifiche, fruibile, quando è possibile godere di quel luogo solo in modo visivo, inaccessibile, quando è impossibile accedere all’area, se non per esclusivi casi di manutenzione per soggetti con deleghe specifiche. Poi, la condizione ambientale, nello specifico: aperta, quando i resti archeologici sono en plein air, coperta, quando la formalità di un sito viene racchiusa dalla formalità di un altro edificio, chiusa, quando la formalità stessa dei resti mantiene i caratteri di internità che le erano stati conferiti in origine. Molto importante, il carattere di funzionalità: programmata, quando il sito svolge già una funzione specifica, programmabile, quando il sito, senza uno specifico uso, ha caratteristiche che ne consentono uno ipotetico, non programmabile, quando le condizioni ambientali e spaziali del luogo non consentono più alcun tipo di ri-uso urbano-collettivo. 70


La matrice A conclusione di questo processo analito-descrittivo, abbiamo deciso di redigere una tabella sinottica contenente i dati storci di ogni sito e le loro caratteristiche di contemporanea definizione. 71






ATTO III L’APP

<<...abbiamo il compito di inventare nuove tecniche e di utilizzare [‌] in generale tutte le invenzione che possono influenzare gli ambienti...>> Internazionale Situazionista, Internazionale Situazionista n.2, 1958


Come anticipato nella nostra introduzione teorica, non potevamo esimerci dal ripensare questi siti archeologici senza l’impiego delle nuove tecnologie e della rete, ma soprattutto dell’App. Considerando la rete, oggi come oggi, luogo di infinite possibilità conoscitive, ludiche e comunicative, l’unica mancanza, se così si può definire, è la dimensione reale, non tanto a livello ontologico, ma a livello di possesso di un oggetto per soddisfare una necessità fisica. Se prendiamo in considerazione una famosa conferenza che l’architetto Carlo Ratti compie sul palco esclusivo del TED, egli mostra un slide dove compaiono tre layer sovrapposti, dall’alto, il livello della rete, il livello delle interazioni umane ed il livello della città fisica. Capiamo quindi, come Ratti interpreti la rete alla stregua della città fisica, ovvero, le due realtà effettive in cui si compiono le attività sociali. Manipolando tale grafico, però, ponendo il layer del web nel mezzo, potremmo avere una restituzione grafica di quelli che sono i nostri intenti progettuali, ovvero, l’idea che la dominante necessità d’interazione sociale, passando necessariamente per la rete, si rivolga all’interno della città in maniera fisica. Crediamo, infatti, che i Barbari, pur surfando l’onda del web, necessitino di situazioni dove compiere esperienze extradigitali, o meglio, interdigitali. Nella virtualità della nostra progettazione, infatti, abbiamo pensato ad un modo con cui la rete possa interfacciarsi al reale, e abbiamo visto che oggi la tendenza più usata e spontanea è quella dell’App. Immaginiamo, infatti, ad una specifica App. Essa, in partnership con il comune di Milano, del tutto gratuita, contenendo dati anagrafici, interessi e abitudini (questi ultimi inseriti a discrezione dell’utente), è pensata non tanto come portale culturale, ma come vero e proprio telecomando per accedere ad una realtà oggettuale a libero uso e consumo attraverso la rete. Così come le tessere magnetiche del BikeMi e del GuidaMi, l’APP, con un solo tocco, ti permette di aprire, accendere, staccare, gonfiare, illuminare, climatizzare, ecc, ovvero, ti permette di avere accesso a tutta una serie di facilities fisiche per usi estemporanei, e, allo stesso tempo, tracciando l’utente, permette un grado di controllo qualitativo del servizio, disincentivando furti e danneggiamenti. 77


ATTO IV IL PROGETTO

<<L’architetto, come gli altri lavoratori nella nostra impresa, si trova di fronte alla necessità di cambiare mestiere: non sarà più costruttore di forme isolate, ma costruttore di ambienti completi…>> Internazionale Situazionista, Internazionale Situazionista n.3, 1959


Prima di introdurre analiticamente i progetti proposti, ci teniamo a specificare che la scelta dei siti, selezionati tra quelli precedentemente introdotti nelle loro vicende storiche, segue una ben precisa volontà di individuare luoghi diversi tra loro. Se, infatti, una delle precedenti premesse era quella di sperimentare diversi atteggiamenti con cui <<toccare>> i resti archeologici, si sono selezionati spazi urbani con preesistenze storiche piuttosto diverse tra loro. Tali progetti che seguiranno interessano spazi dalle diverse caratteristiche di contesto urbano ma soprattutto posseggono dimensioni e rilevanza archeologica piuttosto variegata. Abbiamo preso in considerazione siti dall’alto <<valore storico>> e piccoli frammenti dimenticati in un angolo di città, e ciò è stato fatto per lavorare su una gamma quanto più fitta di alternative d’approccio progettuale. A seguire, i siti, sono stati riportati in ordine di datazione storica.

L’Anfiteatro Oggi, i resti archeologici dell’Anfiteatro romano si trovano inserti in un parco urbano di recente istituzione, annesso all’edificio della sopraintendenza dei beni archeologici, che ne tutela anche l’accessibilità. Tuttavia, oltre ai frammenti murari, che si trovano ad una quota ipogea notevole, cintati e inaccessibili , lo stesso parco che gli inscrive, per altro di discrete dimensioni, è racchiuso nell’ alta e serrata cortina edilizia della zona, privando cosi l’intera area di attrattività distratta. In oltre, il parco stesso, si mostra come un’area pressoché indifferenziata di curato verde a tratti alberato. Non a caso, infatti, gli unici utenti sono i residenti dell’intorno, che trovano un tranquillo e isolato angolo di verde lontano dal caos del quartiere, e le poche scolaresche che, terminata la visita all’area museale della soprintendenza, concludono il tur nel parco con uno sguardo al <<pezzo forte della collezione>>. Nella nostra visione del futuro di questo luogo, si è voluto mantenere l’esclusivo carattere di parco urbano, ma con la volontà di renderlo più attrattivo e soprattutto più <<usato>> andando ad inserire nuove tematizzazioni, nasce cosi il nostro concept progettuale di parco giochi archeologico. Il provocatorio gioco di parole è stato in realtà fedelmente applicato al progetto. Esso è una trasposizione tematica delle teorie sull’Homo Ludens di Huizinga, dove il tempo libero della società, lontano dalla programmaticità del lavoro, trova un luogo dove essere speso nella più spontanea espressione possibile. La formalità progettuale porta ad una tripartizione tematica dello spazio, che è stato diviso in aree formalmente e spazialmente distinte, ognuna delle quali incarna un tema. Troviamo lo spazio ludico per eccellenza, il parco giochi, destinato canonicamente ai più piccoli, ma non solo, perché bisogna avere un luogo dove essere eterni peter pan e sfogare senza alcun timore i propri istinti fanciulleschi. E ora, il parco verde, una densa macchia arborea con l’intensità emotiva di un bosco, un luogo fiabesco, alieno alla città, insomma, un labirintico luogo dove perdersi, nascondersi e appartarsi o semplicemente correre e fare pic nic. Infine, il parco archeologico, un’area dal carattere minimal, nata per la contemplazione delle preesistenze storiche e dei piccoli oggetti archeologici disseminati oggi nel parco. Null’altro che uno spazio etereo dove è possibile conoscere la storia perduta di Milano, dove è possibile porsi all’ombra delle mura romane per leggere un libro e dove è possibile sdraiarsi a prendere il sole su pietre del I secolo a.C. La radicale tematizzazione formale e funzionale, in realtà, altro non è che uno spazio di assoluta trasversalità d’uso, purché ludico e en plein air, l’idea di fondo è, infatti, che si debba giocare su apposite strutture proprio come si gioca tra i cespugli e i tronchi di un bosco o su un reperto archeologico. Perché cercare il proprio spazio personale in un luogo di millenaria memoria o sotto le fronde di alberi o, ancora, tra gli schiamazzi di bambini deve essere un’opzione possibile per l’uomo contemporaneo. Insomma, diversi suggerimenti d’uso, figli di ricercate soluzioni formali, ma un’unica predisposizione mentale, quella di vivere spontaneamente lo spazio. L’isolamento che questo luogo appartato ha nei confronti della città, viene risolto con metafisici inviti formali che, come astratte passerelle, ci guidano, in un percorso pressoché lineare, in una mutevole e bilaterale esperienza fisica e percettiva, per poi restituirci alla città. 79


La tematizzazione, essenzialmente, nasce dalla formalità del lotto. Esso spiccatamente longitudinale, dal perimetro illeggibile, e con tre dissociati accessi, è stato ridisegnato da noi da un unico percorso interno dalla dimensione di un sentiero di 2,5m, il quale si snoda con morbide forme in una <<y>>. Tale tracciato, realizzato in cemento e rialzato di 15cm da terra, esce dal perimetro del parco di 2,5m con piccoli tratti di prosecuzione che lambiscono e invadono la città. La passerella, matrice delle suddivisioni spaziali, per complementarietà con i bordi, disegna tre aree mai tangenti tra loro, che rispettivamente, giacendo sul percorso, s’interfacciano due a due, fatta eccezione per l’incrocio dei <<bracci>>. In oltre, la dove oggi il parco giace pressoché complanare al piano stradale, e il reperto ben al di sotto di esso, nel nostro futuro contemporaneo, l’area sarà caratterizzata da una dimensione orografica epicentrica, dove gli accessi a quota della città condurranno progressivamente, in discesa, ad una quota comune ascrivibile all’area subito interessata dal resto archeologico. Ogni area tematica affaccia a sua volta su due differenti accessi pedonali, e ognuno di essi, cosi come l’interno è interpretato da specifiche soluzioni materico-formali. Il parco giochi, infatti, all’esterno accoglie i visitatori con la sua metà di bordo, con un muro di calcestruzzo bianco di 4m, dove sono incassate all’interno piccole cassette di sicurezza (50X50x70cm) le cui serrature sono attivabili dalla rete con la nostra app. Esse, presenti anche dal lato interno del muro, sono pensate per tutti i visitatori ma soprattutto per gli zaini e gli effetti personali dei bambini. L’interno, sporadicamente alberato, ha una pavimentazione continua senza fughe, in materiale antitrauma di colorazione bianca, dove, incassati a terra, ci sono due strutture di gioco esclusive dell’area, rispettivamente ispirate ai lavori di Costant e Aldo Van Eyck. Un’ultima struttura ludica, un tappeto elastico posto complanare al terreno di gioco, si trova ortogonale al percorso pedonale, e, interrotto da tale presenza, riparte in esatta prosecuzione nell’area del parco verde. Questo, è fittamente alberato con specie arboree autoctone tipiche del panorama lombardo, e il suolo, invece, segue le teorie progettuali del terzo paesaggio di Gilles Clément, dove una fitta vegetazione rende il parterre di una paradossale eccezionalità, ma soprattutto dove i percorsi interni, nascosti dai 30-40cm di vegetazione si disegnano e scompaiono al progressivo passaggio degli utenti. L’area è dotata di una piccola radura che si fa spazio nella vegetazione, essa, realizzata come una piattaforma circolare di calcestruzzo bianco di 20cm di altezza e 10m di diametro, ed è pensata per piccole attività di massa. Troviamo poi, a cavallo del percorso e del parco archeologico, una voliera percorribile, ovvero, una struttura di 15m di altezza e 12m di diametro, che costituita da tensori e rete metallica ingloba parte della vegetazione e mantiene al suo interno volatili autoctoni non urbani, lasciando una manica attraversabile senza paramenti in prossimità della passerella. All’esterno invece, il parco verde è identificato da un muro di 4m di altezza in cemento armato bianco con all’interno una vetrina panoramica. L’ultimo, il parco archeologico, si connota all’esterno con un muto muro bianco che nasconde le porte d’accesso al parco nel suo spessore, mentre, all’interno, diventa un <<texturizzato>> paesaggio fatto di ciottoli di ghiaia bianca, dove, non solo spiccano per cromie ed elevazione i resti archeologici, ma l’incedere dell’utente diviene più lento e contemplativo, sempre praticabile. Ogni pavimentazione è matericamente differente non solo per connotare visivamente le porzioni dello spazio ma per sottolineare e attribuire velatamente un’interpretazione più profonda di quel luogo. L’area archeologica, inoltre, è dotata di alcune travi-passerelle che consentono come piccoli ponti o podi, di accedere a parti inedite dei reperti.

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PARCO GIOCHI

PARCO ARCHEOLOGICO

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PARCO VERDE

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Le Colonne di San Lorenzo Questo luogo è già stato preso in analisi precedentemente per la sua straordinaria peculiarità di caso studio compiuto della nostra tesi, ciò nonostante, abbiamo comunque voluto intervenire su di esso, per rafforzarne la dimensione d’uso in una maniera più compiuta con un implemento dei servizi. Si è già detto, infatti, che questa è un’area delle più rappresentative di Milano, dove le preesistenze archeologiche e la loro spazialità viene già vissuta in maniera spontanea e molteplice nelle varie ore del giorno e a seconda dei periodi stagionali. Le colonne sono già da anni luogo cult della città dove si alternano attività profane e sacre più o meno legali ma senza dubbio necessarie alla cittadinanza, tanto da violarne ogni tentativo di allontanamento da parte di politiche attuative. Questo è un luogo di diversa utenza, troviamo, infatti, passanti di varia natura lambire questo spazio, ma anche turisti, attratti dalle architetture dell’area e dalle vetrine, ma soprattutto quelli che potremmo definire i <<movider>>, coloro che già oggi sfruttano questo luogo come realtà di permanenza ed esperienza sociale. Se, infatti, leggiamo questo luogo come già compiuto, ma carente, dal punto di vista dei sevizi, come le manifestazioni di adattamento spontaneo ci mostrano, esso va solo potenziato con strutture fisiche oggettuali che sopperiscano a tali <<selvaggi>> adattamenti. Le colonne per una serie di fattori diversi hanno una posizione e un’entità strategica. Esse sono facili da raggiungere con i mezzi pubblici, sono inserite nella città storica, sono costellate da locali di piccole dimensioni ma di numero notevole e con prezzi accessibili, ma soprattutto, la loro dimensione è sufficientemente ampia da contenere un gran numero di persone, ma mai abbastanza grande da farlo risultare uno spazio dispersivo. E’ così che gli utenti molteplici, usufruendo dei servizi dell’intorno, si aggregano nello spazio e se ne impossessano per farne un luogo di ritrovo e dialogo. Questa ultima riflessione, ha fatto nascere in noi l’istintiva idea di vedere questo spazio come un grande salotto domestico, o meglio, una sequenza mutevole di salotti urbani. Vediamo, infatti, questo, come uno spazio dai netti bordi, benché citati, che può contenere una serie di servizi all’uso che ne mutino in continuazione le caratteristiche formali, insomma un paesaggio oggettuale in continua variazione, al variare dei flussi, mai uguale a se stesso, sempre riadattato, ma soprattutto, vediamo questo come un luogo di urbana domesticità. Per fare ciò, quindi, dobbiamo mettere a proprio agio l’utente, liberandolo dagli intralci dell’urbano, consentendogli da assemblare a proprio uso e consumo una situazione a lui favorevole. Se Ugo La Pietra riconvertiva oggetti urbani in <<oggetti domestici>> di uso specifico, noi pensiamo ad oggetti domestici da prestare al paesaggio e all’arredo urbano per un uso ed un assemblaggio spontaneo. Tutti gli oggetti progettati, sono pensati con finiture cromatiche in bianco, proprio per andare a rafforzare quell’idea di nuovo paesaggio domestico la cui leggibilità deve essere forte rispetto al contesto urbano. Lo spazio antistante alle Colonne di San Lorenzo va così a riempirsi in maniera del tutto casuale di agglomerati di macro oggetti o di <<mazzi di oggetti>> da disperdere a loro volta sul territorio. Una delle strutture permanenti è un macro guardaroba di 2,1X3m, al cui interno è possibile riporre qualsiasi oggetto, in uno spazio di 50X50X80cm. L’accesso a tale struttura è consentito dall’app, la quale va a identificare i vani liberi e multimedialmente va ad aprire e chiudere la serratura. Troviamo poi, incassato a terra, un porta bici, il cui metodo di fissaggio della due ruote è pensato per risparmiare superficie utile sulla piazza, consentendo al sempre più crescente numero di ciclisti in città di poter, in tutta sicurezza, lasciare il proprio mezzo senza creare intralcio. Irremovibile è anche il totem di sedie, palo metallico con piattelli divisori, dove è possibile prendere e riporre fino a 5 sgabelli di 30X50X30cm, il cui uso è possibile solo tramite l’app, che, come il BikeMi, libera su richiesta e nominalmente la seduta. Ultimo oggetto non gravitante è il porta tappeti, cilindro alto 1,1m dal diametro di 1,5m che dispensa, come il totem, attraverso l’app, tappeti di gomma. Il resto degli oggetti, oltre a cestini per la raccolta differenziata collocati su ruote, sono una serie di gravitanti vasi, che si trovano addensati in piccole rastrelliere da 4 moduli i quali, per via telematica, distribuiscono all’utente o una piccola lucciola, ovvero una piccola lampadina montata su un tubolare metallico malleabile, o una pianta di ficus benjamina, tipica essenza domestica, da liberare e collocare a piacimento nello spazio e oltre. 84


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Il Circo Questo può essere considerato, nell’ambito della sperimentazione d’intervento, il progetto a grado zero. Quest’area, infatti, un apparente vuoto urbano nella cortina edilizia, è, in realtà, un piccolo perimetro ipogeo che conserva tracce murarie archeologiche, per nulla valorizzate. Esso è un luogo del tutto indifferente, non solo non è accessibile, ma non ha neanche un ben che minimo segno di discutibile musealizzazione o intervento, è banalmente cintato e decorato con del verde di discutibile qualità. Tuttavia, analizzando il sito, e l’utenza, solo qualche distratto residente e qualche sfuggente studente dell’Università Cattolica, abbiamo notato come quest’area non necessitasse di fisiche attrattività o interventi di tipo architettonico-oggettuale. Quest’area, infatti, è talmente caratteristica, nella sua antica ed estrema densità, nel suo carattere quasi esclusivamente residenziale di lusso, che sarebbe stato pretestuoso inserire un uso che l’utenza mai avrebbe sfruttato. Se l’interazione fisica avesse portato incongruenti interventi, abbiamo considerato, in maniera radicale, un’interazione del tutto virtuale, il cui carattere sarebbe dovuto essere la più estrema distrazione, nulla di forviante, nulla che creasse coercizzata permanenza, in piena sintonia con i costumi e le modalità d’approccio all’area da parte degli utenti. L’intervento, così facendo, va a definire la preesistenza archeologica non più come entità fisica ma come soggetto virtuale, al pari della californiana Siri, ovvero, non più oggetto d’interazione passivo ma vero soggetto attivo. Abbiamo quindi, pensando a caratteri di distrazione tangente e curiosità specifiche, rielaborato il titolo del libro di Francesco Piccolo, momenti di trascurabile felicità, visto il sito come uno spazio fisico d’interazione virtuale per momenti di trascurabile curiosità. Per la prima volta, non sei tu che ti avvicini alla storia ma la storia che si avvicina a te e lo fa di persona con i mezzi di oggi e di domani. Se il piano di interazione, come già detto, non è quello fisico ma è quello digitale, come per gli altri progetti, l’accesso al circo, avviene tramite la nostra app, o meglio, è lei che accede attivamente a noi. Quello che immaginiamo, quindi, è l’alternarsi di tre soglie virtuali che interagiscono con tre gradi di curiosità diversi con l’utente in base alla sua prossimità all’epicentro digitale, cuore fisico del sito. Ogni soglia è pensata per fare in modo che un quotidiano attraversamento della città si arricchisca di una molteplice ed inattesa distrazione. Il reperto archeologico può, infatti, strapparti un sorriso, farti storcere il naso o del tutto rapirti, lasciamo al tuo umore la spontanea scelta. Il progressivo avvicinamento all’area, più o meno volontario, comporta una progressiva specificità dei messaggi che pervengono all’utente sulla propria interfaccia della nostra app. Giunti, poi, al cospetto del resto archeologico, il ponte comunicativo virtuale dello smarphone finisce, poiché una volta vis a vis, ci si può parlare direttamente. Nello specifico, siamo andati a creare una prima soglia virtuale, posta a 50m dal sito, denominata come <<un saluto distratto>> la quale invia al nostro apparecchio digitale connesso alla rete una comunicazione indifferenziata puramente di cortesia e saluto. La seconda soglia, invece, a 30m dall’epicentro, crea <<una curiosa novità>>, ovvero, tracciando i tuoi dati registrati nell’app, in cui sono inseriti gusti e tendenze, con iniziative in atto o in programma nella città di Milano e non solo, il circo ci comunica, sul cellulare, l’esistenza e l’imminenza di uno di questi eventi. Giunti a 3 m dall’unico intervento fisico compiuto, un piccolo gradino circolare di 1,2m di diametro, che ridisegna il profilo della ringhiera in prossimità del sito, è l’utente stesso che può parlare alla <storia>> fisicamente, semplicemente esprimendosi ad alta voce, e come ogni buon interlocutore, il circo interagirà con lui, tramite sistemi di diffusione sonora.

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ciao Carlo. Inglobato nel profilo murario occidentale......

ciao CIRCO. Mi racconti la tua storia?

5m

UN’INTERAZIONE DIRETTA

ciao Tommaso. Oggi alla Galleria Iannone inaugurano una mostra su Andrea Branzi. Per info ti aspetto.

30m

UNA CURIOSA NOVITA’ 50m

ciao Anna. Stamattina sei bellissima.

UN SALUTO DISTRATTO

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Qui vicino, per esempio, trovi tracce delle mura di cinta massimianee e della torre di Ansperto.....

ciao, quali sono gli altri siti archeologici romani? ciao Paolo. Ti auguro una buona giornata.

ciao Marco. Domani alla Feltrinelli Alessandro Baricco presenta il suo nuovo libro. Per info ti aspetto

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Il Palazzo Imperiale Questo sito archeologico è forse il più rappresentativo di quelli riportati alla luce fra tutti quelli mappati nell’area milanese. Esso, a differenza di molti, non solo è fisicamente molto ampio, ma soprattutto, palesa molto bene i suoi caratteri architettonici originari. Straordinariamente inserito in un’intorno urbano che lo ignora, e che cresce e vive aggirandolo, è stato recentemente oggetto di un intervento di canonica muselizzazione, ovvero, è stato perimetrato e cintato. Lo spazio ipogeo a 3m sotto la quota stradale, è distrattamente osservato con curiosità da passanti di varia natura, come lavoratori, studenti dell’Università Cattolica e, ovviamente, residenti, la cui curiosità spesso si esaurisce in uno sguardo, affacciato dalla ringhiera, più lungo di 5 secondi. Quello che vogliamo ottenere noi, è prolungare questa sosta, e perché no, renderla esperienziale, vediamo questo sito, infatti, come luogo di quartiere, uno spazio pubblico dedicato alla sosta programmabile. Ma se è la sosta, più o meno distratta, che si vuole ottenere, bisogna creare le condizioni perché essa avvenga, e queste, spesso fisiche, noi vogliamo che siano principalmente climatiche. Ed è proprio microclimi, il concept slogan che noi attribuiamo a questo progetto. Se il progetto vuole lavorare su dinamiche di sosta, di varia natura, e sulle condizioni microclimatiche, per fare ciò che avvenga, ecco delinearsi l’idea che il sito archeologico fornisca luoghi liberi, all’aria aperta, dove gli utenti tra gli storici anfratti possano consumare il proprio tempo libero in condizioni di variabili percettive. Piccole soluzioni tecnico-architettoniche, più o meno rappresentative, consentono di generare molteplici e mutevoli, condizioni climatiche, del tutto personalizzabili. Un piccolo gesto fisico, oppure, un semplice tuch multimediale possono consentirci di fumare una sigaretta in pieno inverno senza cappotto indosso, oppure permetterci di godere delle luminose giornate estive, per una buona lettura, senza soffrire la calura. In altre parole, pensiamo un paradossale spazio pubblico urbano dove, poter essere riscaldati, raffrescati, illuminati o riparati dalle intemperie. Ed ecco ora, che l’idea di poter giacere in uno spazio con paradossali condizioni di <<esterno/ interno>>, durante l’escursione di tutte le stagioni, è rincorsa, spontaneamente, dall’idea di poter usare quello spazio in modi molteplici, che essi siano di semplice relax ed edonismo, o che essi siano di più largo interesse culturale o quanto meno sociale. Perché questo spazio urbano chiama, chi oggi lo bypassa, a nuove forme di sosta programmata, in maniera personale oppure in maniera strutturata, per ripetere i cinque secondi, che oggi già si spendono, o per darci la possibilità di volerne spendere qualcuno in più profondamente agognato. Ciò è finalmente possibile grazie a tre piccole soluzioni, diverse formalmente ma con la stessa filosofia d’uso. Ogni dispositivo, viene quindi studiato e pensato, in base alla sua locazione nello spazio di progetto, soprattutto, in base alle tempistiche d’uso che la loro collocazione comporta in rapporto agli utenti. Ad eccezione di un piano inclinato praticabile, sul lato Sud, con la relativa rimozione di una ringhiera, nessun altro intervento irreversibile viene compiuto sull’area. Troviamo, quindi a quota stradale, lungo via Brisa, una serie di cornici, portali metallici bianchi alti 2,1m che sono ancorati da un lato, a terra, su di un binario elettrificato, e sull’altro, sorretti da una ruota di bicicletta. Questi frame possono essere ruotati e traslati in maniera analogica, con la stessa facilità con cui, al loro interno possono modificare il proprio assetto di semplice pensilina o confortevole seduta. A livello formale esse possono essere composte in modo plurimo e spontaneo, oppure possono essere sfruttate in modo programmatico venendo ricomposte in casi specifici. Quello che, tuttavia, affronta il tema della percezione microclimatica, è il sistema di diffusione luminosa e termica, un dispositivo tecnologico posto nell’intradosso del lato superiore della struttura, attivabile, cosi come per gli altri progetti, dalla rete tramite la specifica sezione dell’app. Scendendo, entrando nel terreno archeologico finalmente liberato, diamo la possibilità all’utente singolo o in gruppi di poter prendere posto in maniera autonoma nello spazio, dove, in alcune situazioni, vengono inseriti appositi diffusori sonori, climatici e luminosi, tubolari metallici bianchi di dimensioni specifiche, anch’essi, come è prevedibile, attivabili dalla rete. Queste soluzioni sono disseminate in diversi anfratti fruibili del sito, e alcuni di essi, collocati nella parte più ampia e baricentrica dell’area vengono intagliati all’interno di una pedana lignea bianca realizzata con assi inchiodate, priva di sottofondo, semplicemente appoggiata, tale pedana circolare, che inscrive alcune porzioni murarie, ne ri92


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il

MICROCOSMO

ARMADIO

l’

CORNICE

la

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taglia i perimetri dando loro una piccola area di pertinenza dal valore contemplativo. La traccia circolare nell’area nodale del sito viene replicata dalla presenza di due grandi vele bianche, dalla struttura ad ombrello (dimensioni massime: altezza 7m, diametro 18m), le quali, poste ad altezze diverse si incrociano, anche in rapporto alla pedana, e cosi come le nuvole microclimatiche, tracciano porzioni spaziali pluri-sensoriali. Ovvero, quelli da noi definiti come microcosmi, ambienti in cui possono interagire sovrapponendosi o meno differenti stimoli microclimatici, quali asciutto, freddo, luce. Tali macro dispositivi, utili per generare ombra o per proteggere dalla pioggia, sono pensati per essere, anche chiusi oggetti di specifica composizione, infatti, essi, si comportano come un grande boma velistico che contiene mascherati, come in un carter la bobina di tessuto e le relative strutture di sostegno. Anch’essi, in maniera più ristretta, sono attivati per via digitale, su previa disposizione per eventi di pubblico interesse, oppure per sopperire ad avverse condizioni ambientali. Proprio come nel caso delle colonne, favorevoli condizioni per usi spontanei, vengono agevolate da piccole necessità oggettuali. Lungo il fronte cieco ad Est, infatti, viene collocato un armadio di domestica derivazione, dal quale, tramite l’accesso all’app, è possibile estrarre sedute, podi, e pareti componibili. Sono oggetti bianchi in policarbonato che possono liberamente andare a comporre, in molteplici assetti imprevedibili, l’intero spazio, per favorire la permanenza nei microclimi. Possono essere allestiti salotti, performance e mostre, il tutto, generato da iniziative del singolo o da programmati eventi, insomma, un luogo della città per la città e il cittadino.

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Le Terme Erculee Lo spazio urbano compreso tra largo Corsia dei Servi, corso Vittorio Emanuele e corso Europa, è sicuramente uno dei posti più degradati dell’intero centro turistico, civico e storico di Milano. Su quest’area, per giunta, sono disseminati, in maniera pressoché casuale, senza alcuna ragione filologico-interpretativa, cinque frammenti murari archeologici di modeste dimensioni. Su di essi non è stato neanche minimamente pensato un intervento museale, ciò, molto probabilmente, è dovuto alla morfologia di quel luogo. Questa porzione di città, infatti, è di complicata lettura e la sua composizione attuale è originata da molteplici soluzioni architettoniche, infrastrutturali e urbane che si sono succedute nel tempo con evidente carattere di ripiego e compromesso, al limite delle normative. L’area, infatti, delimitata da un’insolita sequenza di portici collegati, è attraversata da un percorso carrabile al quale si sovrappone una piccola chiesa, con relativa appendice architettonica e sagrato di fortuna. Il resto dello spazio, del tutto aperto e fruibile, è tempestato da bocche di lupo e accessi al parcheggio carrabile che occupa diversi piani, esattamente sotto quest’area, e che ancora oggi, conserva, tombati, altri frammenti archeologici delle terme. Il grande spazio, come prevedibile, è ben poco frequentato, benché interstiziale a due assi di grandi flussi pedonali. Insistono sull’area prevalentemente i fedeli ortodossi della chiesa e i commessi dei numerosi negozi che affacciano i propri backstage sullo spazio. Di certo luogo non attrattivo, questo brano di città, vissuto, nel vero senso della parola, quasi esclusivamente da senzatetto, vogliamo vederlo, nella sua natura appartata rispetto al tipologico contesto limitrofo, come un’area di incontro sociale, lontano dalle vetrine e dalle dinamiche commerciali, essa è pensata come un’oasi urbana. Proprio come accade in natura, il contesto uniforme e dominante del deserto, trova un momento di difformità e unicità nell’oasi, così la merceologica città di Milano si esclude, nelle sue aberranti e illeggibili risultanti formali, per andare ad identificare un ben considerabile spazio, alieno ad essa. L’oasi, per far si che si realizzi, ha bisogno di essere una leggibile entità che si sovrascrive al contesto insensato, e che ne ridefinisca porzioni praticabili e dichiaratamente aperte ad un nuovo uso, un uso sociale, di aggregazione fisica con prerogative digitali. Pensiamo ad un luogo, unico, dove la socializzazione e la praticabilità vengono offerte come naturale e doverosa alternativa all’abbandono. Vogliamo uno spazio per flashmob, dove la propaganda di internet trova la sua fisica conclusione in una porzione di città specifica a cavallo tra il reale e il digitale. Un luogo che consenta di esprimere le nostre creatività digitali ma soprattutto che possa condividerle e metterci in connessione in maniera più o meno volontaria. Ispirati dalle visioni del radical Adolfo Natalini, il quale andava professando un infinito pianeta terra lastricato, dal quale emergevano piccoli totemici frammenti di natura o spazi antropici, così, le nostre oasi, sono similari pavimentazioni multimediali poste su pavimenti galleggianti e orografici telai. Esse in grado di emettere luci, suoni, ed interazioni digitali in tempo reale, si adattano, come masch dal perimetro organico e assolutamente leggibile, a ogni caotica presenza indifferenziabile del contesto. I resti archeologici, e alcune altre porzioni, sono intagliate all’interno di esse con relativi spazi di pertinenza, atti a favorire la loro leggibilità e la loro realtà totemica. Questi parterre di nuova generazione, dal disegno a scacchi, altro non sono che macro pixel programmabili in grado di riprodurre grafiche di interazione tra gli utenti permanenti su di esse, con le stesse modalità di un social network. Riproduzione musicale ad alto volume, ridisegno di uno spazio luminoso, queste sono le funzioni di queste pedane, pensate per essere praticate e vissute da utenti che, isolandosi, possono trovare riparo in una mutevole comunità fisica che si esprime nella rete.

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San Giovanni in Conca San Giovanni in Conca, reperto archeologico di romantica espressività, è un frammento dai caratteri di rudere creato a tavolino per risolvere più importanti problematiche viabilistiche, frutto di compromessi tra le logiche del nuovo e le realtà dell’antico. Ad oggi, è un luogo di flussi, che essi siano pedonali carrabili o di trasporto pubblico. Lo spazio di piazza Missori è, infatti, un’arteria di dinamiche sociali di esclusiva mobilità. Lavoratori, studenti dell’Università Statale, passanti di varia natura e qualche raro turista sono tutti elementi vettori nello spazio. Non solo, qui, non vi sono attrattive, ma non vi sono neanche dichiarate strutture in grado di determinare benché breve una pausa anche involontaria. La cripta, infatti, straordinario spazio di ottima conservazione, dal carattere profondamente dicotonomico rispetto alla condizione stradale superiore, soffre la sua condizione ipogea. Mentre il muro cariato superiore strappa curiosità ai passanti, lo spazio inferiore, privo di landmark è totalmente sconosciuto ai più, solo qualche isolato turista o curioso viene attratto nella discesa. Tale condizione non è sicuramente facilitata dall’assetto formale del rudere, il quale, superiormente, costituisce una vera e propria quinta urbana che taglia il paesaggio ai dinamici flussi che vi passano avanti, la dove, purtroppo, l’accesso e la discesa alla cripta, giacciono esattamente dal lato sfavorito del muro. La caotica dinamicità dell’utenza dell’intorno, il suo carattere di variazione oraria e stagionale, fa subito pensare ad un intervento in continuo cambiamento, mai uguale a se stesso, e la naturale specificità formale, di tipo palesemente teatrale, ottenuta dalla porzione superiore richiama un comportamento esclusivamente spettacolare. Queste riflessioni hanno generato il concept progettuale di scenografia in divenire. Questo spazio, infatti, di duplice ontologia, uno spazio superiore ed uno inferiore, necessariamente non dialoganti, ha una duplice carattere progettuale specifico figlio di un unico gesto formale. La quinta semicircolare racchiude infatti uno spazio rappresentativo adatto a performance di qualsivoglia natura, un macchinoso <<origami>>, istituisce nuovi assetti programmabili. La cripta, invece, viene risolta con la liquidità dei percorsi, espliciti inviti per i vettori pedonali, percorribili senza sosta, rivelano una spazialità inedita racchiusa in una dimensione ipogea. Alberi e colonne volte a crociera e fronde si fanno un tutt’uno abbandonando il sorpassato concetto di museo contemplativo, e andando ad istituire nuove logiche spazialità intima, dedita alla stasi dei flussi e continuamente riadattabile. Lo spazio inferiore, infatti, viene dotato di un pavimento tecnico galleggiante, il quale ritaglia tutte le variazioni formali storiche ed invade anche lo spazio esterno che viene livellato a quota -1 per tutto lo sviluppo dell’isola di traffico. Rampe simmetriche si snodano con morbidezza dall’estremo Est del lotto fino a collegare il livello superiore, abbracciando il margine Ovest. La rampa, realizzata con finiture in materiale plastico bianco, in un unico gesto, muta in un gradino semicircolare, piccolo invito ad una sequenza di forme circolari concentriche praticabili. Queste ultime, nascondono martinetti idraulici e cerniere, che gli consentono di ruotare e verticalizzare le sue nascoste frammentazioni. La tradizionale piazza diventa superficie dinamica, illusoria e riadattabile. La pavimentazione inferiore, in piccole bocchette circolari, nasconde le airchair sacche plastiche bianche, strutturate da aria compressa che si gonfiano e sgonfiano con un gesto del telecomando digitale dell’app. Inoltre, la parte ipogea esterna è piantumata, e la collocazione dei fusti segue il disegno geometrico della struttura portante della cripta.

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EPILOGO

<<...è, prima di tutto, un’appassionata dichiarazione d’amore all’umanità, è un manifesto politico che intende ricordare a tutti gli uomini che essi sono liberi…>> Francesco Careri, Constant, 2001


Giunti al termine di questo lavoro, un percorso di ricerca e progetto durato quasi un anno accademico, ci sentiamo di poter esprimere alcune valutazioni a posteriori. Innanzitutto, dobbiamo ammettere che siamo pienamente soddisfatti del materiale prodotto e ottenuto. Se in un primo momento, l’idea di impiegare tutto questo tempo per la redazione di una tesi, portandoci fuoricorso di un semestre, diciamo, ci lasciava piuttosto amareggiati, ora, ci sentiamo di dire che questo è stato come un sesto anno universitario, non solo come impegno, ma soprattutto come crescita culturale. In questo periodo, infatti, non ci siamo dedicati all’applicazione delle conoscenze fino al quint’anno apprese, ma è stato un continuo percorso di accrescimento, anzi, forse è stato uno dei più floridi. Tutto il merito, ovviamente, va alle modalità didattiche del nostro relatore, al quale non possiamo che essere profondamente riconoscenti. Dovendo parlare, nello specifico, degli esiti della tesi, invece, ci sentiamo piuttosto orgogliosi di questo lavoro che, prima di tutto, vuole smuovere, come è successo a noi, tutti i pregiudizi culturali che la società di oggi ha in merito alle modalità di vivere gli spazi pubblici, e ,per quelli del settore, vuole aprire la mente alla possibilità di nuove modalità d’approccio, non tanto compositivo-architettonico, quanto più d’uso. Vorremmo creare dibattito, confronto, tra restauratori, architetti, sociologi, psicologi e cittadini. Pensiamo di aver costruito una futuribile alternativa alla decadenza contemporanea, ma soprattutto, ciò che auspichiamo, è che questo lavoro possa mettere in moto realmente gli organi preposti, per spingerli ad immaginare nuove frontiere, magari non la nostra, ma un’alternativa di riuso urbano di questi luoghi che superi il bigottismo culturale che regna in questo paese su questo tipo di tematiche. Noi crediamo di aver dato una risposta possibile a questa emergenza, non la sola percorribile, ma di sicuro una facilmente perseguibile e sostenibile, sia a livello materiale, per quanto riguarda i costi di realizzazione, sia a livello comportamentale, per quanto riguarda un’ipotetica realtà da interfacciare con la società di oggi. 105


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