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INTERDITTIVA ANTIMAFIA PREFETTIZIA, LA RIFORMA DEL 2021 NON HA INCISO
comunicazione dell’avvio del procedimento (art. 92 co. 2 bis) e, in questo ambito preliminare, la possibilità da parte del Prefetto di graduare (art. 94 bis) il proprio intervento.
Quando si ritiene che l’agevolazione a certi ambienti criminali sia stata occasionale, il Prefetto può disporre il c.d. controllo giudiziario d’ufficio e, cioè, una sorta di preventivo tutoraggio dell’azienda, oltre che il controllo dei flussi finanziari dell’azienda o dell’imprenditore oggetto di attenzione. Nei casi in cui l’influenza di ambienti criminali non potrà dirsi occasionale, il Prefetto può emettere l’interdittiva antimafia.
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Intanto si tratta di modifiche più volte invocate nelle aule giudiziarie e, quindi, parte del merito di queste nuove forme di garanzia va ascritto alla classe forense. L’esperienza pratica di questi primi mesi porta a dire che queste novità hanno inciso poco o nulla. In ordine alla prima delle modifiche introdotte e del necessario contraddittorio preventivo che è imposto al Prefetto, in realtà la c.d. comunicazione dell’avvio del procedimento si traduce in fugace contraddittorio con un funzionario, spesso inutile, a seguito del quale gli uffici prefettizi chiedono ulteriori indagini alla Polizia Giudiziaria, che non smentisce quanto da essa affermato in precedenza. Insomma , una “carta in più”. Il controllo giudiziario preventivo disposto dal Prefetto, ulteriore riforma introdotta nel 2021 quale forma di graduazione della misura accompagnato anche dal possibile controllo dei flussi finanziari, non è quasi mai applicato. Eppure i casi in cui questo strumento potrebbe essere utilizzato sono la maggior parte, proprio perché l’indizio o le motivazioni spesso rientrerebbero nella c.d. occasionalità del pericolo di infiltrazione. Per quanto è dato sapere, si contano pochi casi, meno delle dita di una mano. E invece la novità e la ratio era proprio quella, come detto, di graduare le ipotesi di intervento del Prefetto, senza trattare tutti allo stesso modo. Incide naturalmente il senso ampio, indefinito, del concetto di occasionalità dell’infiltrazione, che può essere allargato o ristretto a discrezione del Prefetto.
Si aggiunga anche che gli esiti del controllo giudiziario c.d. volontario, cioè richiesto dall’interessato al Tribunale penale di Prevenzione dopo aver subito l’interdittiva ex art. 34 bis del Codice, anche se sono positivi nel senso di escludere infiltrazioni, stanno incidendo pochissimo per cui nonostante lo Stato accerti dopo 18 mesi una “normalità” di gestione, questa non è considerata vincolante dai Giudici Amministrativi, e può essere solo un elemento di valutazione del Prefetto in sede di riesame della misura, senza alcun vincolo. Insomma, come detto, le auspicate riforme -preventivo contraddittorio e graduazione della misura- si stanno rivelando sostanzialmente inutili. Ma lo stigma sociale, la perdita di reputazione, il vero e proprio dramma che vivono molte famiglie quasi sempre coinvolte per parentele, per labili indizi come dice l’esperienza pratica, è tale che una ulteriore riflessione è necessaria.
Si crede siano maturi i tempi per riportare la questione alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dopo che la famosa sentenza De Tommaso del 2017, che pur censurava il sistema italiano delle misure di prevenzione, non è stata recepita riguardo all’interdittiva antimafia prefettizia, ritenendosi che le censure della Corte Europea riguardassero solo le misure sulla libertà personale e non quelle attinenti al patrimonio, così intendendo l’interdittiva antimafia prefettizia (Cons. di Stato. III 6.3.2018 n. 1408 ed altre successive).
Si tratta di posizioni del Consiglio di Stato che dovrebbero essere rimeditate perché la misura dell’interdittiva antimafia del Prefetto non incide solo sul patrimonio, ma anche sulla libertà della famiglia e della persona, sull’onore e sulla reputazione, che sono certamente diritti previsti e tutelati Convenzione dei Diritti dell’Uomo (vedasi art. 8).
Ci pare, poi, che si debba insistere sulla durata della misura interdittiva, che proprio per questa incertezza è definita provocatoriamente un “ergastolo amministrativo”.
Il Codice Antimafia prevede che essa debba durare 12 mesi (art. 86, 2° co.) ma tale norma è letta come misura temporale quando vi è una liberatoria antimafia, ma non per le interdittive subìte, secondo un ragionamento che non si condivide. Il tema va affrontato con decisione anche perché la Corte Costituzionale (dec. 57/2020) quando ha salvato il meccanismo della interdittiva come oggi concepito, ha chiarito che ciò era dovuto anche alla temporaneità della misura di dodici mesi, che però non è considerata perentoria, evidentemente, quando la si subisce.
Anche senza modificare l’attuale norma, si deve insistere affinchè, nei casi ove l’interdittiva non è obbligata secondo la legge ma discrezionale, decorso il tempo previsto dalla legge (12 mesi) senza evidenze nuove che possano portare ad esempio ad una misura di prevenzione penale, l’impresa può tornare sul mercato. Vi è un dato oggettivo di durata che non si può continuare ad ignorare. Nonostante le riforme, l’interdittiva antimafia quindi si pone ancora sul crinale della possibile violazione di principi costituzionali che è bene poter discutere con coraggio, tenendo conto, al di là dei buoni propositi, che questo istituto in quasi trent’anni di attività delle prefetture ha prodotto e sta producendo pochi risultati pratici sul fronte della lotta alla criminalità organizzata, ma molte, troppe, imprese perse, fallite, prima di poter dimostrare la loro estraneità.
Requisito
PERDITE DA CESSIONE PRO-SOLUTO DI CREDITI INTERCOMPANY: POSSIBILE DEDUZIONE FISCALE
La cessione pro-soluto di un credito, laddove effettuata a un valore inferiore a quello nominale, genera una perdita sui crediti (e non una minusvalenza) la cui deducibilità, tuttavia, non è automatica ma deve discendere da un’analisi che tenda sempre a verificare l’esistenza degli elementi certi e precisi, enunciati dall’art. 101 comma 5 del TUIR. In buona sostanza, la cessione del credito pro-soluto, pur avendo un effetto estintivo del rapporto di credito, realizzando i presupposti per la conseguente derecognition dal bilancio, non esonera il cedente dalla dimostrazione della definitività della perdita realizzata e/o della superiore onerosità della procedura di recupero rispetto al valore effettivo del credito. Questa posizione dell’Agenzia delle Entrate è anche confermata dalla sentenza 5790/2021 della Corte di Cassazione che, in aggiunta, ha precisato che il giudizio sulla deducibilità deve estendersi anche all’inerenza della perdita realizzata, o meglio alla congruità del corrispettivo pattuito per la cessione del credito a terzi. Tale ulteriore requisito, tuttavia, si intende “automaticamente” realizzato, qualora la cessione avvenga a favore di banche o altri intermediari finanziari vigilati, residenti in Italia o in Paesi, che consentono un adeguato scambio di informazioni che risultino indipendenti rispetto al soggetto cedente e al soggetto ceduto (circolare Agenzia delle Entrate 26E del 2013). Tuttavia, lo scenario si complica nei casi in cui oggetto della cessione sia un credito vantato nei confronti di una società controllata, posto che - anche laddove tale cessione avvenga a favore di intermediari vigilati, e quindi, sia effettuata a valori congrui
“per definizione” - l’Agenzia potrebbe ritenerla censurabile sotto il profilo dell’abuso del diritto. Questa considerazione scaturisce dalla circostanza che nei rapporti intercompany, l’adempimento o meno della controllata - debitrice potrebbe essere influenzato dalla volontà della controllante - creditrice. In pratica, la controllata potrebbe essere indotta, magari per fini elusivi, a non onorare il credito della creditrice stessa, al solo scopo di consentirne la cessione a terzi “vigilati” a basso prezzo, alterando quindi gli esiti dell’analisi di certezza e precisione, che incombe su quest’ultima. Ciò induce da sempre, la prassi professionale ad analizzare con grande cautela le fattispecie di cessione di crediti intercompany, prestando attenzione anche allo scenario effettivo di gruppo, in cui si è determinata la perdita realizzata dalla controllante
(ovvero dalla controllata, nei casi in cui sia essa la creditrice) e alla sostanza delle “prove” degli elementi certi e precisi. In sintesi, mancando l’indipendenza tra le parti, ogni scelta può non essere genuina. La risposta n°102/2023 dell’Agenzia delle Entrate è interessante perché entra nella tematica sopra delineata, dando alcune indicazioni ben precise dei casi in cui una perdita da crediti intercompany ceduti a terzi, nonostante la mancanza di indipendenza, possa essere considerata deducibile.La fattispecie aveva a oggetto un credito di una controllante, generatosi per effetto di una surrogazione di quest’ultima, nella creditoria di taluni istituti di credito verso alcune controllate, figlia della sostanziale escussione di una fideiussione prestata in loro favore dalla stessa controllante. Tali surrogazioni erano, tra l’altro, avvenute nell’ambito di un complessivo piano di risanamento ex art. 67 L.F. del gruppo, nel quale erano stati definiti - occorre rimarcarlo - anche gli importi che sarebbero stati poi effettivamente rimborsati alla controllante in forza della suddetta surrogazione. La richiesta della controllante sottoposta al vaglio dell’Agenzia delle Entrate era di poter cedere i crediti ex surrogazione a favore dei citati intermediari vigilati e di dedurre ai fini IRES la connessa perdita che si sarebbe generata. L’Agenzia, aderendo alla tesi della richiedente, ha affermato che nel caso in cui la controllante proceda alla cessione pro-soluto dei crediti di surrogazione in favore di operatori professionali terzi, devono ri- tenersi esistenti le condizioni evidenziate nella circolare 26E del 2013 e pertanto, è possibile dedurre le perdite da essa rivenienti, secondo l’art. 101 comma 5 del TUIR al momento stesso della cessione all’intermediario finanziario vigilato. La Risposta dell’Agenzia è senza dubbio positiva per gli operatori, in quanto chiarisce in via definitiva gli effetti fiscali della cessione pro-soluto di crediti a intermediari vigilati. Tuttavia, si ritiene che essa non possa essere applicata in modo generalizzato a tutte le possibili fattispecie di cessione di crediti intercompany in quanto, nel caso specifico, risultavano verificati de facto tutti i requisiti previsti - sia dal comma 5 citato, sia dalla sentenza della Cassazione sopra riportata - per la deduzione della perdita in una cessione di crediti. Più in particolare, gli elementi certi e precisi erano rinvenibili nell’articolata procedura di risanamento ex art. 67 L.F. che aveva accertato l’impossibilità per la controllata di onorare i crediti ex surrogazione della controllante. Mentre, la compresenza della “inerenza”, intesa come congruità del corrispettivo di cessione, poteva ricercarsi, sia nel suddetto piano asseverato, sia naturalmente nella qualità di intermediario vigilato del cessionario. Questi fatti oggettivi, in pratica, neutralizzavano ogni sospetto di interdipendenza nei comportamenti delle due parti. Infine, non può sottacersi la circostanza che il credito stesso derivava sostanzialmente dal subentro della controllante nei diritti degli istituti garantiti e non da un rapporto diretto controllante - controllata di natura commerciale o finanziaria. Queste considerazioni, quindi, portano a concludere che ipotesi differenti, rispetto a quella rappresentata nella Risposta, potrebbero avere, a loro volta, differenti interpretazioni da parte dell’Agenzia.Mi riferisco in modo particolare, a tutte quelle fattispecie di cessione di crediti a terzi vigilati originati da rapporti commerciali o finanziari diretti tra controllante e controllata e/o che avvengano non in scenari regolamentati dalle norme sulla crisi d’impresa, in cui la famosa interdipendenza di scelte non è scongiurata. Ad ogni caso la sua soluzione. L’Agenzia delle Entrate ragiona sempre così, e un approccio diverso in uno scenario diverso può non essere criticabile, almeno stavolta.
Con la recente sentenza della Corte di Appello di Venezia, Sez. I penale, 4 gennaio 2023, emessa nell’ambito del processo alla Banca Popolare di Vicenza, si torna a parlare, con una pronuncia molto ben articolata, del tema relativo ai contenuti del Modello Organizzativo predisposto ai sensi del D.Lgs. n. 231/01 e dei conseguenti presidi, in uno con quello relativo ai poteri, all’autonomia e all’indipendenza dell’Organismo di Vigilanza a tal scopo nominato. Nel dettaglio, la Corte adita ha evidenziato la necessità che il Modello 231 sia caratterizzato da prescrizioni che non siano generiche, di portata generale o contenenti divieti attinenti a profili marginali rispetto alla esigenza di prevenire i reati ma, al contrario, sia calato nella realtà aziendale nella quale è destinato a trovare attuazione e sia, cioè, composto da vere e