Notizie e Pensieri

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PREFAZIONE: QUATTRO PERCEZIONE DEI LUPI di Jim e Jamie Dutcher

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ei nostri numerosi anni di studio dei lupi abbiamo scoperto che, di questi animali, la gente ha quattro diverse percezioni, spesso coesistenti. La prima di queste percezioni è quella che chiamiamo il lupo dei nostri incubi. Ăˆ la bestia delle antiche paure, il concetto di lupo che gli europei si portano appresso nel Nuovo Mondo. Oggi questa creatura selvatica sopravvive nella mente di molti allevatori e cacciatori: un assassino assetato di sangue, che ammazza bestia-

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me, selvaggina e perfino esseri umani. Tristemente, è una visione dura a morire, nonostante l’enorme quantità di prove a suo sfavore. La seconda percezione in cui spesso ci imbattiamo è quella del lupo della scienza, accuratamente monitorato: il lupo braccato e studiato dai biologi. In questo caso è spesso rappresentato attraverso dati: statistiche di riproduzione, predazione, psicologia e spostamento. Benché sia una visione che in effetti riconosce al lupo una capacità intellettiva, spesso è cieca nei riguardi della sua individualità, della sua devozione per la famiglia e di qualsiasi fenomeno che suggerisca una capacità emozionale. All’estremo opposto c’è la terza percezione, che noi chiamiamo il lupo dello spirito. Tale creatura, onorata nella cultura di molte tribù native d’America, è stata mutuata e spesso travisata dai moderni difensori del lupo. Il lupo, in questo caso, è un animale di grande saggezza, da venerare quale guida spirituale. Anche se questa visione gli riserva un’alta stima, spesso ciò va a scapito di una sua precisa conoscenza scientifica. Infine c’è il lupo che abbiamo conosciuto noi: il lupo sociale. Negli anni in cui abbiamo convissuto con questi animali e li abbiamo osservati, abbiamo imparato a vedere in loro degli individui, ciascuno con una sua personalità distinta. Tuttavia i lupi sono creature fortemente sociali, molto devote al branco,

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alla famiglia. Più e più volte siamo stati testimoni del grande affetto e della grande cura che si mostrano reciprocamente e abbiamo concluso che sono capaci di provare non soltanto emozioni ma vera e propria compassione. Questa è la visione del lupo di cui vogliamo parlarvi: un lupo che non è né un demone né un dio e neppure un robot biologico. È un animale intelligente ed estremamente sensibile, che può essere insieme individuo e animale sociale. Un animale che si prende cura dei suoi malati, protegge la famiglia e ha un forte bisogno di essere parte di qualcosa che sia più grande di lui: il branco. q

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VIVERE CON I LUPI di Jim e Jamie Dutcher, Corbaccio Editore, 2006, pp. 172, € 32,00 I due autori hanno trascorso sei anni in compagnia di un giovane branco di lupi nelle Sawtooth Mountains (Idaho-USA), dove hanno vissuto in una società creata dai lupi, seguendo le loro regole. In questo modo Jim e Jamie sono stati accettati, hanno ottenuto fiducia e rispetto dai loro amici quadrupedi, hanno gioito della nascita dei cuccioli e pianto la morte di alcuni esemplari.Un’esperienza assolutamente unica e straordinaria testimoniata da questo splendido libro che narra la “convivenza” tra uomini e lupi e la illustra con spettacolari fotografie.

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PROMETTI A TE STESSO… Prometti a te stesso di essere così forte che nulla potrà disturbare la serenità della tua mente. Prometti a te stesso di parlare di giustizia, bellezza, amore ad ogni persona che incontri; di far sentire a tutti i tuoi amici che c’è qualcosa di grande in loro; di guardare al lato bello di ogni cosa e di lottare perché il tuo ottimismo diventi realtà. Prometti a te stesso di pensare al meglio, di aspettarti solo il meglio, di essere entusiasta del successo degli altri come lo sei del tuo. Prometti a te stesso di dimenticare gli errori del passato per guardare a quanto di grande puoi fare in futuro; di essere sereno in ogni circostanza e di regalare un sorriso ad ogni creatura che incontri; di dedicare così tanto tempo a migliorare il tuo carattere da non avere tempo per criticare gli altri. Prometti a te stesso di essere troppo nobile per l’ira, troppo forte per la paura, troppo felice per farti vincere dal dolore. Poema Chodron (Monaca buddhista)


È meno dannoso sbagliare nell’agire, che essere indecisi e tergiversare sempre.

Non si deve cominciare a

Baltasar Gracian

risparmiare diminuendo la quantità di buon senso. Stanislaw Lec

È bene confessare i propri errori. Ci si ritrova più forti. Gandhi

Mentre rimandiamo, la vita passa. Quando si fa quel

Se vuoi essere felice, non far vivere il

che si può, si fa quel che si deve.

Seneca

passato nel presente e non ti fermare ad aspettare il futuro.

Madeleine de Scudéry

Ogni scienza, ogni disciplina ha il suo gergo incomprensibile, che sembra inventato solo per tenere alla larga i profani. Voltaire

L’uomo giusto è sereno, l’ingiusto è pieno di turbamenti. Epicuro

Chi cammina solo può partire oggi, ma chi viaggia in compagnia deve attendere finché l’altro non sia pronto. Henry Thoreau

È nella consapevolezza della sostanza che si può plasmare la forma.

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e circa 80 isole della Repubblica di Vanuatu, situata a circa 2000 km ad est delle coste australiane, sono disposte a formare l’Anello di Fuoco del Pacifico, con una più o meno costante attività vulcanica, da semplici tremiti a occasionali tsunami. In alcune isole, coperte da fitte foreste in gran parte ancora inesplorate, la terra erompe fuori dalle acque per innalzarsi a 2000 m sul livello del mare, in altre atolli corallini e isolette rocciose giacciono ad appena pochi metri sul suo livello. La terraferma non raggiunge la superficie totale dell’Irlanda del Nord ed è sparsa su un’area vasta come Germania, Francia e Svizzera messe insieme. Molte delle isole di Vanuatu sono state abitate per migliaia di anni, le più vecchie tracce in tal senso risalgono al 2000 a.C. Lo spagnolo Pedro Fernandez de Quiros mise per la prima volta gli occhi sulle isole nel 1606, chiamando la prima Nuestra Señora de Australia del Espirtu Santo, nota oggi semplicemente come Santo. Il suo alto obiettivo era di fondare una Nuova Gerusalemme nel Pacifico sulle rive di un fiume che chiamò Giordano. Ma le popolazioni di Fabio Manzione locali non volevano essere salvati e impedirono i vari tentativi di sbarco degli spagnoli. De Quiros vagabondò nel Pacifico, credendo che il suo fallimento avesse condannato gli ignari ni-vanuatu - come sono conosciuti gli isolani - a bruciare per l’eternità. Gli europei vi si stabilirono nel tardo XVIII secolo: fra i successivi esploratori, spagnoli, portoghesi e francesi, ci fu Louis Antoine de Bougainville, che scrisse di essere stato “trasportato nel giardino dell’Eden” e l’esploratore britannico Jemes Cook che visitò le isole nel corso del suo secondo viaggio in Oceania.

ANUATU L’isola della felicità e il culto del cargo

Jemes Cook

Da giardino dell’Eden… a pandemonium a si sa che la permanenza del genere umano nel giardino dell’Eden durò piuttosto poco: la felicità dei suoi abitanti si tramutò in atroci sofferenze. La storia più recente di Vanuatu è fatta di un gran numero di preti, volgari schiavisti e goffi burocrati coloniali. Alle calcagna degli esploratori arrivarono i cacciatori di balene, i raccoglitori di legno di sandalo e i missionari per raccogliere anime. Gli europei portarono epidemie di influenza e morbillo, malattie veneree e il mercato degli schiavi, e la popolazione di alcune isole, soprattutto al nord, non si è mai ripresa. La più grande sofferenza inflitta agli isolani fu sicuramente la tratta degli schiavi, pratica perseguita fino ai primi anni del ventesimo secolo. Migliaia di ni-vanuatu vennero convinti o rapiti per lavorare nelle piantagioni di zucchero e cotone del Queensland e delle Fiji, e molti non tornarono più.

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Gli inglesi e i francesi, spesso in guerra fra di loro nel XIX secolo, coabitarono con molto disagio nelle Nuove Ebridi, come era conosciuto l’arcipelago fino all’indipendenza, e diedero vita probabilmente all’amministrazione coloniale più strana che il mondo abbia mai visto. Nel 1906 la Francia ed il Regno Unito, nemici dichiarati, stabilirono alla fine un mandato congiunto con un protocollo Anglo-Francese (il “Condominio” a cui ci si riferisce ogni tanto come “Pandemonium”) stabilendo pari influenza per entrambi i poteri. La seconda guerra mondiale portò un massiccio afflusso di personale militare americano a Efate e Santo, che diventarono basi cruciali della guerra del Pacifico. Il paese fu invaso dal costume e dai dollari americani e molti ni-vanuatu guadagnarono vere paghe per la prima volta nella loro vita. Inoltre gli isolani osservarono i neri americani beneficiare dei beni e dei lussi permessi ai bianchi, e questo non ebbe un ruolo da poco nel loro desiderio di indipendenza. Nei tardi anni ‘60 il movimento Nagriamel cominciò ad attirare migliaia di persone, in maggioranza nelle isole settentrionali. Il suo leader era il presidente Moses (Jimmy Tupou Patuntun Stevens), che si limitò inizialmente a richiedere i diritti per la “boscaglia scura”, la terra che gli europei non avevano mai reclamato o su cui non si erano mai stabiliti. Nagriamel divenne sempre più politicizzato e, nel 1971, fece una petizione alle Nazioni Unite per un “atto di libera scelta” a proposito dell’indipendenza dell’arcipelago. L’Inghilterra e la Francia concordavano che sotto le leggi del Condominio nessuno dei due avrebbe potuto ritirarsi senza l’altro, e ciò divenne un motivo per l’inattività. Furono alla fine trascinati alla riforma costituzionale nel 1974-75, e, siccome gli isolani si agitavano per ottenere più diritti, concessero le elezioni. I burocrati del Condominio si erano resi conto della vergogna del colonialismo nel mondo moderno. L’indipendenza fu raggiunta nel 1980: le truppe anglo-francesi non poterono fermare la violenza e le razzie che ebbero luogo anche nelle città più grandi, e il governo locale alla fine chiamò le truppe da Papua Nuova Guinea per riportare l’ordine e dichiarare l’indipendenza il 30 luglio 1980. Gli anni ‘90 furono anni di instabilità politica. Nel 1996 fu ostacolato un piano da parte dei paramilitari della Vanuatu Mobile Force per rovesciare il governo e instaurare la legge marziale. Quello stesso anno furono diffuse accuse di frodi alle maggiori banche da parte dei membri del governo di Carlot Korman, e la continua instabilità politica portò una flessione dell’economia e una diminuzione degli investimenti stranieri, nonostante il costante flusso di capitale straniero grazie allo stato di paradiso fiscale del paese. Nel febbraio del 1997 il governo firmò un accordo con la Banca di Sviluppo Asiatico per ristrutturare in modo significativo l’economia con fondi di investimenti privati. Nel novembre 1997 il presidente di Vanuatu, Jean-Marie Leye, sciolse il parlamento e indisse nuove elezioni. Nonostante le elezioni del marzo 1998 e un nuovo governo, ci fu un nuovo cambio alla fine del 1999. Più o meno nello stesso periodo Vanuatu fu colpita da un terremoto e da una mareggiata che causarono ingenti danni nell’isola di Pentecoste.

La seconda guerra mondiale portò un massiccio afflusso di personale militare americano a Efate e Santo

Nagriamel

Un mosaico di culture e culti l territorio frazionato di Vanuatu ha dato origine a un caleidoscopio di culture e a più di 100 lingue indigene. Isolati gli uni dagli altri dal mare o da montagne invalicabili, sparuti gruppi di isolani hanno avuto centinaia o migliaia di anni per proteggere gelosamente le loro culture e lingue o per mescolarle con i vicini. La popolazione indigena è un insieme di melanesiani - i neri del Pacifico occidentale con legami con i papua e gli aborigeni australiani - polinesiani, il popolo dalla pelle più chiara del Pacifico orientale, e varie tonalità in mezzo. Mentre il bislama è il fattore linguistico unificante, sono anche comunemente parlati inglese e francese. In un paese che si riconosce prevalentemente cristiano, le credenze tradizionali vengono mantenute da una buona parte della popolazione. I missionari sono riusciti a imporre una fede aliena a un popolo che aveva già forti credenze, ma questo successo può essere in parte dovuto ad alcune notevoli similitudini tra la cristianità e le credenze locali. Molti

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isolani credevano in un creatore, Tahara, non molto diverso da Jehovah, in un Giardino dell’Eden dove il primo uomo e la prima donna mangiavano il frutto proibito dell’albero di mele e cadevano in disgrazia, e in un demone Saratau, del tutto simile a Satana. Il mondo dei ni-vanuatu è ancora popolato da spiriti e demoni, nonostante gli sforzi dei missionari per rimuoverli. Non fu difficile però far leva su una profonda convinzione: i melanesiani credono che tutti i beni materiali vengano inviati loro dagli spiriti. Vedendo che gli europei possedevano tante cose meravigliose, ardevano dal desiderio di adorare gli stessi spiriti adorati dagli europei. Per cui i primi missionari cristiani ebbero subito un enorme successo. L’impatto della civiltà occidentale sulla tradizionale religiosità popolare degli isolani ha prodotto anche in tempi più recenti delle curiose forme di culti in cui cristianesimo e paganesimo, sacro e profano si fondono per attribuire a beni materiali delle aspettative salvifiche di tipo messianico. Culti nati da una sorta di riflessione esistenziale degli abitanti di quelle contrade, che vedevano i loro mari e i loro cieli continuamente solcati da navi e da aerei carichi, a quanto sentivano dire, di ogni ben di dio, senza che di questo ben di dio a loro arrivasse mai una benché minima parte. E siccome costoro si consideravano, come chiunque, al centro di un Universo che, dopo tutto, era stato creato dagli dei loro antenati, il fatto che tanto benessere finisse in mano di altri, per esempio nelle mani dei coloni europei e americani, che pure non sembravano disporre di antenati divini di nessun tipo, tendeva ad apparire come una mostruosa ingiustizia, cui era necessario porre rimedio in qualche modo. Così sorse fra gli indigeni la credenza che, una volta tramontato il sistema vigente, rove-

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a remota isola di Manus, in Papua Nuova Guinea - luogo di studio della giovane antropologa Margaret Mead (si parla del 1929) alle prese con il gioco e le fantasie dei bambini più piccoli ed il modo nel quale diventavano adulti in quella società – è tornata di recente a far parlare di sé come centro di detenzione del dipartimento Immigrazione australiano. Manus è una delle isole del Pacifico utilizzate dall’Australia negli ultimi due anni nel quadro della ‘Pacific Solution’, consistente nel bloccare con navi della marina le imbarcazioni che tentano di entrare in acque australiane, e nel rinchiudere i boat people in campi di detenzione in isole del Pacifico, in attesa che siano esaminate le loro domande di asilo. Ultimamente però il carcere ospitava un solo ospite, un palestinese di 25 anni a cui facevano la guardia 30 persone fra agenti di custodia, addetti ai servizi, alle pulizie e alla manutenzione, con un esborso per le casse dell’erario equivalente a 2,6 milioni di euro! Ben prima che si diffondessero in quella zona i poveri “boat people” (che, a quanto pare, non hanno ispirato nessun culto e nessuna pietà ai già ricchi australiani…) anche a Manus il

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“culto del cargo” aveva i suoi adepti negli indigeni, ancorché divisi in due fazioni. Tra i profeti storici di questo fenomeno religioso si ricorda un certo Wapi. Costui era in concorrenza con un altro profeta, il temibile Paliau, e aveva bisogno di argomenti con i quali attirare sul suo movimento il favore popolare. Per cui, pensa che ci ripensa, diede del Culto una versione in base alla quale, considerando la bontà intrinseca degli antenati e la conseguente impossibilità che lasciassero perire i loro discendenti di inedia, l’unico modo di attirare le benefiche navi sulle coste di Manus sarebbe stato quello di non fare assolutamente niente. Bastava che i fedeli smettessero di lavorare e produrre e, una volta che avessero consumate tutte le risorse disponibili, gli antenati sarebbero stati in un certo senso costretti a mandare quei benedetti carichi, dando inizio in via definitiva all’era dell’abbondanza. Ahimè. Non successe niente di simile. Il wapismo si diffuse, sì, a macchia d’olio nella popolazione, gli adepti si affrettarono a consumare tutto il consumabile e smisero con scrupolo di produrre alcunché, ma le navi proprio non si fecero vedere. La cosa generò, com’era ov-

vio, una certa insoddisfazione e qualcuno espresse dei dubbi su una teologia così liberale, ma Wapi fu irremovibile. La prosperità sarebbe arrivata da un momento all’altro e guai se un solo devoto si fosse rimesso a lavorare: avrebbe rovinato tutto. Ma i manusiani, man mano che aumentavano i morsi della fame, erano sempre meno propensi a dargli retta: alla fine abiurarono in massa, lo denunciarono come falso profeta e negli inevitabili tumulti che ne seguirono trovarono - sembra il modo di fargli la pelle. Oggi il Culto del cargo, nell’Arcipelago Bismarck, sopravvive nella veste riformata che gli diede Paliau, secondo cui le navi degli antenati sarebbero arrivate, non ci pioveva, ma un pochino più tardi, e nel frattempo non sarebbe stato male rimboccarsi le maniche e rimettersi provvisoriamente al lavoro. Nel panorama culturale e religioso delle isole del Pacifico del Sud, attualmente, il “movimento di Paliau” rappresenta una delle comunità spirituali sulla cresta dell’onda, ma chissà se qualcuno, sotto sotto, non rimpiange i bei tempi in cui l’unico modo per assicurarsi il benessere era sembrato quello di oziare.


sciato l’ordine coloniale, ridotti in schiavitù o sterminati i bianchi, gli antenati sarebbero tornati, con tutte le proprietà degli europei. Allora le tante odiate piantagioni sarebbero state distrutte, perché non sarebbero più servite. Da qui le ragioni della diffusione di una serie di credenze, generalmente catalogate come “Culti del cargo” (presenti in forme diverse anche in altre isole della Melanesia, con particolare riguardo alla Nuova Guinea e agli arcipelaghi viciniori) che, pur nelle varie forme (circa 200) che assunse isola per isola (vedi Riquadro), si proponeva il fine comune di attirare sulle spiagge della Melanesia i vettori di tutti i beni di cui i melanesiani si consideravano a buon diritto gli unici destinatari. Il primo culto del cargo conosciuto fu il “Movimento Tuka”, iniziato nelle isole Fiji nel 1885. Altri tra i primi movimenti sono avvenuti inPapua Nuova Guinea, incluso il “Culto Taro” nella Papua settentrionale, e la “Pazzia dei Vailala” documentata da F. E. Williamas, uno dei primi antropologi ad operare in Papua Nuova Guinea. Il periodo classico di attività del culto del cargo è stato negli anni durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. La vasta quantità di materiale di guerra che è stata paracadutata sopra a quelle isole durante la campagna del Pacifico avvenuta contro l’Impero del Giappone ha significato un drastico cambiamento dello stile di vita degli isolani. Prodotti industriali come vestiti, cibo in scatola, tende, armi ed altri beni di utilità arrivarono in grandi quantità per rifornire i soldati e anche gli isolani che erano le loro guide ed ospiti. Alla fine della guerra le basi aeree furono abbandonate, e i ‘cargo’ non furono più paracadutati. In modo da far si che i carichi di beni tornassero ad essere paracadutati o anche portati per via aerea o per mare, gli isolani hanno iniziato ad imitare i comportamenti che hanno visto assumere dai militari occidentali. Hanno quindi fabbricato cuffie audio dal legno indossandole seduti dentro a finte torri di controllo da loro costruite. Hanno iniziato a mimare segnali di atterraggio per aerei, hanno acceso segnali di fuoco e torce per illuminare le piste di atterraggio amò di fari di posizione. In una sorta di magia simpatetica , molti di loro hanno costruito, con i mezzi a loro disposizione, riproduzioni a grandezza naturale di aeroplani e hanno costruito nuove piste di atterraggio simili a quelle occidentali, nella speranza che questo avrebbe attirato molti più aeroplani pieni di ‘cargo’. Una religione descritta come “culto del cargo” si sviluppò durante la guerra del Vietnam tra alcuni appartenenti al popolo Hmong dell’Asia Sudorientale. Il nucleo del loro credo era che la seconda venuta di Gesù Cristo fosse imminente, solo che questa volta sarebbe arrivato indossanto una tuta mimetica e guidando una jeep militare, per portali via nella terra promessa. Le origini sono sconosciute, ma si può supporre che sia stato estratto dalle immagini del nuovo potere che apparve loro in quel periodo, in forma di militari statunitensi e di missionari cristiani occidentali. Un caso più recente di questo tipo di comportamento si ebbe nel 1979, quando la nave taiwanese Lunchaun, che trasportava un grosso carico di componenti elettriche, si rovesciò nell’oceano polinesiano. Gran parte del carico rovesciato venne saccheggiata dagli isolani locali, che ricavarono dai detriti recuperati degli oggetti, alcuni di uso pratico, altri di uso rituale.

Il primo culto del cargo conosciuto fu il “Movimento Tuka”, iniziato nelle isole Fiji nel 1885

Una religione descritta come “culto del cargo” si sviluppò durante la guerra del Vietnam tra alcuni appartenenti al popolo Hmong

L’isola di Tanna e il culto del cargo A Vanuatu questa forma di culto risale al XIX secolo - nell’ambito di alcune associazioni segrete maschili (Dukduk, Iniet) - durante il quale fu temporaneamente proibito e riportato in vita una sessantina di anni fa. L’isola di Tanna è stata la culla di una delle forme di religiosità più strane al mondo ma, alla luce della storia di queste meravigliose isole, facilmente comprensibile ancor più da noi, occidentali di oggi, che sull’abbondanza e sul lusso abbiamo fondato quella religione pagana che esportiamo in tutto il mondo, ancor più facilmente della democrazia, grazie alla globalizzazione.

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Port Vila

Ma chi era John Frum? Secondo alcuni antropologi era un soldato americano o forse un collaboratore della Croce Rossa, che infatti è diventata il simbolo di questo culto

In quest’isola, a Sud dell’arcipelago di Vanuatu, si trovano i seguaci di John Frum i quali praticano una forma di culto del cargo ancora viva (a febbraio, si celebra addirittura il Giorno di John Frum con danze, parate e feste) ma che apparentemente comincia a creare frustrazione e quindi a contrarsi. L’attesa dura da sessant’anni. Hanno costruito rudimentali piste di atterraggio nella giungla, recinti di bambù lungo la costa per custodire i doni che arriveranno, torri di legno per avvistare navi e aerei, antenne radio fatte di lattine per annunciare il lieto evento. Ma finora lui - messia, spirito, eroe reale o fantastico - non è tornato, né la sua profezia si è avverata. Certo, in un paese dove manca l’elettricità, il telefono, la tv, dove non ci sono strade decenti, dove la sola acqua disponibile è quella piovana, dove le auto si contano sulle dita della mano, il benessere fa gola specialmente a coloro che lo hanno sperimentato durante l’occupazione americana degli anni Quaranta o durante i viaggi a Port Vila, la capitale. Il culto del cargo fece la sua comparsa in quegli anni, quando i ni-vanuatu credevano che il mitico John Frum li avrebbe liberati dagli europei in generale e dai missionari in particolare. Il movimento si accentuò con l’arrivo di più di 100.000 americani del personale di servizio durante la guerra. Essi abbagliarono i ni-vanuatu con i loro frigoriferi, i camion, il cibo in scatola, le sigarette e altri oggetti di lusso, che convinsero i locali che gli europei gli stessero di proposito tenendo nascosti quei beni. Ma chi era John Frum? Secondo alcuni antropologi era un soldato americano o forse un collaboratore della Croce Rossa, che infatti è diventata il simbolo di questo culto. Secondo la tradizione orale “Egli” differiva dagli altri uomini bianchi perché conosceva i dialetti e le usanze di Tanna ed era agli isolani che egli doveva la sua obbedienza. Alcuni nativi asseriscono che John Frum abbia fatto la sua apparizione all’inizio degli anni ’30 o più verosimilmente nei primi anni ‘40, tra la spiaggia e le pendici del vulcano dell’isola di Tanna: il misterioso visitatore aveva arringato gli anziani, spingendoli a rigettare le regole imposte dai missionari e a tornare al sistema tradizionale (il kastom) nell’attesa del benessere che sarebbe presto arrivato. La popolazione, a quel tempo, era di circa 6000 persone, di cui il 60% era presbiteriano, il 30% non cristiano e il resto in massima parte avventisti o cattolici. Era l’epoca dell’avanzata del Sol Levante nel Pacifico; i giapponesi avevano occupato le vicine Salomone e gli americani, per arginarli, le Nuove Ebridi, installando rapidamente la loro macchina da guerra, costruendo piste, strade, ospedali. E scaricando dai loro cargo (aerei e navi) non solo frigoriferi, radio, tabacco e cibi in scatola “doni degli dei”, ma anche stili di vita e comportamenti sociali. I melanesiani ebbero così l’occasione di sperimentare un cambiamento radicale rispetto ai bianchi che conoscevano, quei francesi e inglesi che si spartivano le isole da un paio di secoli: rimasero piacevolmente sorpresi - da “neri” del Pacifico - nel vedere il personale militare statunitense bianco e di colore usufruire dello stesso trattamento e degli stessi ben di Dio. Il movimento si diffuse su tutta l’isola di Tanna e la maggior parte delle missioni rimase deserta. Le stime sul numero attuale degli aderenti al culto del cargo variano considerevolmente: una piccola proporzione, forse il 5%, crede che l’età dell’oro di John Frum sia a portata di mano, ma circa il 99% crede che essi verranno premiati alla fine per aver creduto a John Frum. Proprio come nelle società occidentali,in una chiesa ci sono sia adoratori devoti, che credono al cielo e all’inferno, sia altri che considerano l’andare in chiesa come una specie di assicurazione contro gli imprevisti…

Un culto più diffuso di quanto sembri Se a Tanna qualcuno comincia a dubitare di John Frum e dell’arrivo dei suoi cargo, altrove questo tipo di credenze trova sempre più nuovi adepti.

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Qualcuno penserà che in fondo si tratta solo di bizzarre forme di culto proprie di popoli primitivi, incapaci di separare il sacro dal profano. Eppure nelle nostre odierne società industrializzate, evolute e smaliziate, quanti individui sono immersi in una religione del consumo di beni materiali? Quanti sono in attesa dell’ultima novità di telefonino, di computer, di automobile che promette di surclassare i concorrenti e di consentire al possessore uno status che lo eleverà al di sopra della media? Messia mediatici ci bombardano dagli schermi televisivi o dalle pagine delle riviste patinate per condizionarci all’acquisto di beni che quasi mai ci faranno… del bene ma che, anzi, ci spingono in una spirale di dipendenza che per alcuni ha già raggiunto le sembianze di un vortice di compulsività al punto tale da classificare il malcapitato nella più recente forma di patologia psichiatrica. I nostri John Frum sono gli imbonitori televisivi e non che ci convincono a comprare cose di cui non abbiamo bisogno per soddisfare bisogni che non abbiamo o che si soddisfano con cose che non si possono comprare. I nostri John Frum sono quei personaggi politici che fanno promesse che sanno di non poter mantenere, che profetizzano un benessere facile da avere perché non è necessario conquistarselo con fatiche e rinunce ma che ci arriverà grazie alla fortuna: un “apparizione” televisiva, un gioco a quiz, un “gratta e vinci”, forse. Così sono in molti a sperare che all’orizzonte della propria vita arrivi il cargo che aspettano, la “manna” dal cielo o il Messia che li salverà… Ma è giusto sprecare la propria, unica, originale, irripetibile Vita sulla base di aspettative create da altri, in attesa di una simil-vita “tutto bene”, solo sognata in un videogioco o rincorrendo i gossip sulle vite dei “famosi” sulle pagine dei rotocalchi o sugli schermi televisivi? q

Bibliografia AA.VV.. Gli isolani di Tanna (Nuove Ebridi). In: “I popoli della Terra”. Vol. 1. Mondadori, 1975 AA.VV. I popoli dell’Oceania. In: “Globus. Il pianeta dei popoli”. Vol. 13. Mondadori 2006 AA.VV. Voci: Vanuatu; Culto del Cargo. Da: Wikipedia. 2006. http://it.wikipedia.org/wiki/ AA.VV. Voce: Vanuatu. 2006. Da: www.edt.it/lonelyplanet Ladischensky, Dimitri. El pueblo mas feliz. El Pais Semanal. 2006 Jebens, Holger (ed.). Cargo, Cult, and Culture Critique. Honolulu: University of Hawai’i Press, 2004. Kaplan, Martha. Neither cargo nor cult: ritual politics and the colonial imagination in Fiji. Durham: Duke University Press, 1995. Lawrence, Peter. Road belong cargo: a study of the Cargo Movement in the Southern Madang District, New Guinea. Manchester University Press, 1964 Lindstrom, Lamont. Cargo cult: strange stories of desire from Melanesia and beyond. Honolulu : University of Hawaii Press, 1993. Worsley, Peter. The trumpet shall sound: a study of “cargo” cults in Melanesia. London: MacGibbon & Kee, 1957. Harris, Marvin. “Cows, Pigs, Wars and Witches: The Riddles of Culture”. New York: Random House, 1974. Inglis, Judy. Cargo Cults: The Problem of Explanation. Oceania vol. xxviii no. 4, 1957. K, E. Read. A Cargo Situation in the Markham Valley, New Guinea. Southwestern Journal of Anthropology. vol. 14 no. 3, 1958.

melanesiani

Così sono in molti a sperare che all’orizzonte della propria vita arrivi il cargo che aspettano, la “manna” dal cielo o il Messia che li salverà

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Centinaia di scienziati a confronto

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Emanuele Davia Agronomo - CA3C - Comitato di Appoggio alle 3 Convenzioni dell’ONU sull’Ambiente

l titolo di cui sopra è totalmente ripreso da uno dei lanci di agenzia per l’annuncio dell’avvenuta costituzione, nella capitale francese, della sessione plenaria della IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change). Il fatto nuovo rispetto al passato è che tale sessione finalmente si apre con una particolare attenzione da parte dei governi europei: la gravità del degrado climatico ed i disastrosi fenomeni ambientali che si susseguono, con allarmante frequenza in Europa e nel mondo, cominciano ad essere presi in seria considerazione a livello politico e non solo in Francia. Il complesso delle alterazioni climatiche (uragani, siccità, sbalzi di temperatura), gli estesi inquinamenti e desertificazioni, nonché la rapida distruzione di parte notevole della biodiversità hanno raggiunto livelli tali da non poter più essere ignorati. Ora due cose sono chiare a tutti: • l’evidente progressivo degrado della biosfera (vedi gli uragani Katrina e Kyrill), il rapido scioglimento dei ghiacciai, l’aumento della CO2 nell’aria e l’innalzamento del livello dei mari non sono che le prime “semplici” manifestazioni conseguenti; ciò che seguirà non sarà certo di intensità e di pericolosità inferiore; • tutto ciò è in dipendenza delle attività umane. Quello che non è ancora possibile definire perfettamente sono l’accelerazione e l’entità con cui si manifesteranno i fenomeni in futuro e molto, a tale proposito, dipenderà dalla rapidità e dalla dimensione delle misure di contrasto che saremo in grado di applicare da ora in poi. È causa di grande rammarico dover ricordare che l’umanità avrebbe potuto risparmiare a se stessa la maggior parte di queste prove se, alle prime analisi degli

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scienziati su quanto stava accadendo, fossero seguite subito adeguate iniziative di salvaguardia: allora sarebbero state certamente molto più efficaci e di dimensioni più limitate di quanto occorrerà fare adesso e in futuro. Purtroppo si sono persi trent’anni da quando la prima conferenza mondiale sulla desertificazione di Nairobi, nel 1977, ha lanciato il primo appello internazionale sui danni incombenti. Analisi poi confermate puntualmente da una serie di conferenze a livello mondiale, con cadenza quasi annuale, e soprattutto con documenti fondamentali tra cui “Our common future report” dell’ONU negli anni ’80 e le “Convenzioni ONU sulla biodiversità, sul clima e contro la desertificazione” emanate dalla conferenza internazionale di Rio de Janeiro nel 1992, sottoscritte da più di 150 Paesi e divenute poi direttive della Comunità Europea e leggi dello Stato italiano e degli altri Paesi europei. Tutto ciò premesso, è finalmente ora che ci chiediamo perché - nonostante gli studi e le analisi approfondite, gli allarmi ripetuti più volte, le convenzioni e le leggi emanate - non si sia ancora riusciti a dare risposte adeguate, in sede nazionale ed internazionale, a problemi reali ed importanti che rappresentano una minaccia concreta alla nostra salute, alle nostre condizioni di vita e alla nostra stessa sopravvivenza; quale sia la ragione di questa riluttanza generale a farsi carico di un problema grave ed importante che interessa tutti senza eccezione alcuna; da che cosa dipenda la mancata assunzione di responsabilità e di fattiva partecipazione a risolvere problemi che minacciano la stessa perpetuazione del genere umano e di molte specie animali e vegetali. La cosa è sorprendente e quasi incredibile se la si analizza senza preconcetti. Per renderci conto dell’assoluta anomalia di questo comportamento prendiamo ad esempio la reazione di chi si accorge che nei muri portanti della propria casa si stanno aprendo rapidamente una o più grosse crepe. È normale, è credibile che non si preoccupi affatto e continui a comportarsi come se niente fosse? Evidentemente no! Perché, invece, ciò accade quando si tratta dei “muri portanti della biosfera” da cui dipende la qualità della nostra esistenza e in prospettiva la nostra stessa sopravvivenza?

È finalmente ora che ci chiediamo perché nonostante gli studi e le analisi approfondite, gli allarmi ripetuti più volte, le convenzioni e le leggi emanate - non si sia ancora riusciti a dare risposte adeguat

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la gravità del degrado climatico ed i disastrosi fenomeni ambientali

Ad un’attenta riflessione, alcune risposte ai quesiti di cui sopra appaiono verosimili. • Evidentemente la generalità delle persone non crede del tutto alla gravità dei problemi ambientali; recepisce, ma con riserva, le analisi fatte dagli esperti. È comunque restia a rimuovere questo tipo di problemi dagli ultimi posti nella scala delle priorità dove ora si trovano e ad elevarli al livello delle preoccupazioni primarie come la salute, il reddito, la sicurezza ecc. Ciò può dipendere principalmente da due cause: - la relativa rapidità dell’insorgenza dei fenomeni (pochi decenni) e la ciclicità con cui si evolve la vita sulla Terra, condizioni che ingenerano la speranza che si tratti di fenomeni temporanei destinati a scomparire nel tempo con il ripetersi di nuovi cicli; - la revoca in dubbio di una parte minoritaria di scienziati (o sedicenti tali) che sono sempre in attesa di qualche dimostrazione o elemento in più per accettare definitivamente ciò che è evidente e sotto gli occhi di tutti. • 2)La forte e diffusa propaganda di chi - per interessi personali, economici, di prestigio o di altro genere - rema contro e nega sempre perfino l’evidenza. • 3)Inoltre, ad influire maggiormente sul comportamento comune è forse l’atteggiamento della generalità delle persone quando osservano o apprendono notizie sul degrado ambientale: è quello di chi è del tutto separato da esse. Pur essendo anche vivamente interessate non si sentono comunque coinvolte personalmente e si chiedono, in modo rinunciatario: “Cosa posso fare io, da solo, di fronte a fenomeni così complessi?” È interesse primario di tutti e di ciascuno non lasciare cadere senza soluzione i punti e gli argomenti di cui sopra. • È vero, la rapidità con cui si sono manifestate queste alterazioni ambientali (cinque o sei decenni sono “un nulla” rispetto alla vita sulla Terra) è tale da sconcertare e da rendere difficile accettare la necessità di adottare comportamenti che richiedano la cessazione di abitudini in uso da generazioni; ma è altrettanto vero che ciò è avvenuto, non a caso, parallelamente all’enorme esplosione, nel mondo intero, delle attività industriali ad iniziare dalla metà del secolo scorso. Ed è quindi illusorio coltivare la speranza di un recesso spontaneo. È vero anche che in precedenza i cicli naturali riuscivano ad assorbire, quasi completamente, nei suoli, nelle acque e nei mondi vegetale ed animale, i prodotti residuali dell’attività umana, come quelli degli altri animali o delle piante. Ma da allora le dimensioni e la composizione chimica dei rifiuti prodotti dall’uomo hanno superato i limiti oltre i quali la natura non è più in grado di assorbirli e rici-

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clarli e da allora il loro continuo accumulo genera, anno dopo anno, un inquinamento crescente. Alcuni scienziati, poi, sono restii ad accettare il concetto che siano le attività umane a determinare le alterazioni degli equilibri ambientali opponendo che l’entità e la dimensione delle forze naturali in gioco, siano esse di natura astronomica (le radiazioni solari, la gravitazione ecc.) o geofisica (la rotazione, le forze endogene, le maree ecc.) sono incomparabilmente superiori a quelle generate dall’uomo. A questa impostazione scientifica è già stata data risposta in sede autorevole e cioè che nel merito, non vanno considerate solo l’entità e la dimensione delle forze in gioco, ricordando che quelle astronomiche e geofisiche già agiscono a determinare gli equilibri naturali. Ogni altra spinta aggiuntiva, come quella generata dalle attività umane, anche se di dimensioni inferiori, non lascia immutati gli equilibri che si determinano spontaneamente, ma li altera per dar luogo a nuovi equilibri diversi dai precedenti. • Chi ostinatamente nega ogni evidenza a questo proposito in molti casi è spinto a farlo, come detto, da interessi economici ( si pensi ad es. alla resistenza opposta ad uscire, il più presto possibile, dalla dipendenza degli idrocarburi o del carbone ) o da motivi ideologici (la contrarietà ad abbandonare qualche teoria alla quale, costi quel che costi, non si vuole rinunciare per prestigio personale) e si sa che….. non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. • Chi si sente impotente come singolo di fronte alla complessità dei fenomeni ambientali deve considerare che le popolazioni sono costituite dalla molteplicità delle singole persone che da sole poco possono, ma assieme sono determinanti. Che cosa può fare di utile ognuno di noi? Ad esempio convincersi che ogni danno arrecato alla biosfera, ovunque avvenga, è un danno che ci tocca e ci impoverisce direttamente e personalmente e poi impegnarsi a riscattare i problemi ambientali dal basso livello di considerazione in cui generalmente si trovano, elevandoli a quello delle cose importanti e prioritarie. Ciò sarà già sufficiente a modificare radicalmente i nostri comportamenti. Ad esempio, in ogni tornata elettorale occorre evitare accuratamente di votare i candidati, di qualsiasi partito essi siano, che non si impegnino esplicitamente a promuovere i problemi ambientali ai primi posti nell’agenda della loro futura attività. In mancanza di ciò le cose continueranno come per il presente.

Alcuni scienziati, poi, sono restii ad accettare il concetto che siano le attività umane a determinare le alterazioni degli equilibri ambientali La mappa dell'inquinamento della Terra, grazie a SCIAMACHY, lo spettrometro di Envisat

È invece di vitale importanza che gli allarmi, che a Parigi e altrove, gli scienziati lanciano sempre più insistentemente, non continuino ad essere ignorati ma che si generino in ogni Paese importanti spinte popolari che inducano i governi ad azioni congrue ed adeguate ai pericoli e alle gravi situazioni ambientali che incombono. In questo modo sarà forse ancora possibile evitare a tutti noi parte delle prevedibili ed anzi già previste disastrose esperienze a cui inevitabilmente e irresponsabilmente ci stiamo avviando. q

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a cura di Fabio Manzione

ACQUA, ORO O DIAMANTE BLU?

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a voce ormai ha fatto il giro del mondo. In un grande magazzino londinese hanno messo in vendita delle bombolette con una strana etichetta: “Aria pura di montagna”. “Respirate a pieni polmoni senza temere lo smog” recita uno slogan ad effetto. Vi pare assurdo acquistare dell’aria? Eppure è già successo con l’acqua. In quei contenitori di plastica, che faticosamente ci portiamo a casa, è racchiusa una ricchezza naturale, un bene comune, che arriva a costare oltre un euro al litro. Ce l’hanno data a bere per decenni, fino a convincerci che le bollicine fanno addirittura ringiovanire. Nell’età dell’oro blu, nell’Italia del primato europeo del consumo di acqua minerale (185 litri a testa all’anno), sembra una storia di ordinaria follia contemporanea. In un Paese che vanta un discreto patrimonio idrico (circa 47 miliardi di metri cubi) e una qualità al rubinetto da far invidia a tante acque imbottigliate, il grande successo dell’acqua minerale appare strano. Il settore ha un peso economico enorme: il fatturato sfiora i 3 miliardi di euro, più della metà del valore di tutto il mercato del ciclo idrico integrato in Italia che comprende l’acqua potabile, la manutenzione delle fognature e la depurazione. Probabilmente è per questo che sulla stampa non si trovano quasi mai notizie che possono mettere in pericolo il lucroso business. Il “Made in Italy” detiene la posizione leader nel mercato mondiale dell’acqua minerale, con 177 imprese e 287 marchi, 12 miliardi di litri imbottigliati di cui oltre un miliardo esportato. Gli stabilimenti sono circa 190. Esistono quindi più marchi che impianti di imbottigliamento. Come si spiega? In queste fabbriche dell’acqua si possono miscelare più sorgenti o utilizzare più fonti per diversi marchi che possono avere lo stesso tipo di acqua. In ogni caso, ci sono impianti da un milione di litri all’anno, per lo più per un consumo a livello locale, e strutture più imponenti che possono produrre oltre un miliardo di litri. Si tratta di grandi stabilimenti industriali che servono a imbottigliare note marche apprezzate da americani e canadesi, grandi consumatori di acqua minerale italiana. Nel mondo si consumano 120 miliardi di litri di acqua imbottigliata, con un mercato che vale circa 80 miliardi di dollari. L’Europa occidentale consuma un terzo del totale pur avendo solo il 6% della popolazione mondiale, e produce circa 38 miliardi di litri. Eppure quell’acqua che sgorga pura dagli anfratti calcarei dei Sibillini o che emerge dalle profondità sabbiose della pianura padana fa parte dei cosiddetti beni comuni, anzi è una risorsa del demanio. Un’acqua che se zampilla dai rubinetti costa meno di un euro al metro cubo (1000 litri!) e che, quando finisce in una bottiglia di plastica, diventa “oro”, arrivando a costare oltre 300 euro al metro cubo. Nonostante le Regioni pretendano sempre di più come tassa di concessione, i produttori pagano ancora l’acqua meno di un centesimo di

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euro al litro, mentre una Regione, per smaltire le bottiglie di plastica, spende 20-25 milioni di euro all’anno. Continuando con i numeri, è utile fare un confronto con i costi della confezione. Secondo un calcolo di Legambiente, la colla usata per attaccare l’etichetta costa di più del contenuto. Vediamo per curiosità quanto incide il resto. La bottiglia di plastica (chiamata “preforma”) può costare 5 centesimi di euro; il tappo meno di un centesimo così come l’etichetta. Si potrebbe obiettare: quell’acqua “pura e cristallina” arriva però sulle nostre tavole, anzi nei supermercati, sempre pura e incontaminata come se fosse appena sgorgata dalla fonte: è un servizio/lusso che si deve pur pagare. La vera forza di questo prodotto così trendy deriva da un immaginario collettivo che il marketing e la pubblicità sono riusciti a intercettare con grande successo. Inseguendo il fascino delle bollicine, negli Usa si è arrivati a commercializzare un’acqua minerale per cani, gatti, criceti e uccelli (con un’etichetta che avverte che non è adatta al consumo umano) al costo di 1,49 dollari per una bottiglietta da un quarto di litro. Un’attività che va a gonfie vele: nel giro di nove mesi, le vendite sono passate da 1300 bottiglie al mese a oltre 50.000. E, adesso, l’acqua minerale per animali si può acquistare anche su Internet. Negli ultimi tempi, tra marchi noti della moda e del design, sembra spopolare una tendenza tanto di moda quanto antidemocratica: nobilitare un oggetto semplice, nella forma e nella sostanza, con il logo e con il design e, di conseguenza, farlo entrare nell’Olimpo del super lusso. L’esempio più eclatante è quello dell’acqua minerale Bling H2O: prodotta in quantità limitata, in bottiglia satinata con tappo di sughero, è decorata con qualche cristallo simil-diamante e nasce dall’ispirazione di un produttore cinematografico di Hollywood che, sul set di lavoro, si è accorto dell’importanza che gli attori attribuivano alla veste esterna della bottiglia. Risultato? La confezione meno cara costa 25 dollari, per la più sfiziosa se ne possono pagare anche 450! Se poi si decide di versare l’acqua nelle apposite formine da ghiaccio per il freezer (naturalmente griffate da una nota casa di moda italiana) si rischia di dover aggiungere al budget altri 70 dollari. Questa particolare acqua, a quanto pare, è esente da sodio e nitrato: l’assoluta mancanza di “sale”… in “zucca” è, del resto, prerogativa di questa categoria di consumatori. Sugli effetti su altri organi del corpo concordiamo con quanto affermava un certo Jean Jacques Rousseau: «Il ricco non ha lo stomaco più capace del povero né digerisce meglio di lui». q

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a cura di Fabio Manzione

VERTICE MONDIALE SUL CLIMA: 60 PAESI A RISCHIO

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iù lo si studia, più il cambiamento climatico del pianeta diventa sempre più un allarme serio. Dai dati contenuti nel recente rapporto intergovernativo sui cambiamenti climatici (frutto del lavoro di circa 2.500 scienziati di 130 nazioni in sei anni) aggiornato con gli ultimi sviluppi sull´evoluzione dell´effetto serra, c´è poco da stare tranquilli, soprattutto per una sessantina di Paesi poveri di Africa, Asia e America Latina, che corrono rischi enormi già nel breve periodo. Il gruppo di esperti del Giec nel loro incontro a Parigi, alla fine dello scorso gennaio, hanno previsto un aumento delle temperature medie nel 2100 tra +2 e +4,5 gradi rispetto a quelle medie del 1990. La temperatura della superficie terrestre continuerà inesorabilmente a surriscaldarsi, salendo in media di oltre 6 gradi nei prossimi dieci anni, senza un contrasto efficace alle emissioni inquinanti. Il surriscaldamento della superficie terrestre produrrà inoltre sempre più fenomeni catastrofici, soprattutto nei Paesi del Terzo mondo: cicloni e precipitazioni di intensità record, inondazioni, siccità, erosione delle coste. Di qui il rischio di cronica mancanza di cibo e acqua, e quindi di incontrollabili ondate migratorie verso i Paesi più sviluppati. Uno scenario catastrofico che ha un orizzonte temporale molto vicino: i primi effetti, infatti, si materializzeranno già entro i prossimi 20 anni. I primi ad avere problemi seri saranno milioni di cittadini latinoamericani e africani. Più in là, dal 2050 circa, sarà la volta dell’Asia, dove addirittura fra poco più di 30 anni si porrà il problema dello scioglimento dei ghiacciai della catena dell’Himalaya. Dal 2080, poi, se non si interverrà per invertire la tendenza, gli esperti prevedono che il 20-30% delle specie animali e vegetali saranno minacciate di estinzione. E riesploderanno malattie tropicali ora sparite o tenute sostanzialmente sotto controllo.

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«Di fronte alle prospettive disegnate dagli scienziati - ha detto all´apertura dei lavori il premier belga Guy Verhofstadt - i politici dovranno prendere misure impopolari nei loro paesi» per evitare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici sull’ambiente, sulla salute, sugli habitat e sull’economia. Il commissario Ue all’Ambiente Stavros Dimas ha sollecitato, a livello internazionale, l’azione di Usa e Australia - che non hanno ratificato il protocollo di Kyoto - e, a livello europeo, ha annunciato che la Commissione presenterà nel giro di qualche settimana un libro verde sulle strategie per affrontare il problema del cambiamento climatico, che comprenderà anche le misure necessarie da prendere nell’Ue.

BUONE PRATICHE: SCUOLE “AMICHE DEL CLIMA” IN 7 MOSSE

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er affrontare positivamente la sfida energetica e la lotta ai cambiamenti climatici anche in classe, Legambiente ha individuato 7 azioni in cui investire per potersi definire a tutti gli effetti una scuola eco-sostenibile: 1. Utilizzo di fonti energetiche rinnovabili – installazione di pannelli solari termici per la produzione di acqua calda, di impianti fotovoltaici per la produzione di energia e acquisto, per il fabbisogno rimanente, di energia certificata proveniente da fonti pulite. 2. Efficienza energetica – utilizzo di caldaie a condensazione o centrali di microgenerazione, valvole termostatiche sui termosifoni per regolare il riscaldamento, isolamento termico degli infissi, sostituzione delle lampadine a incandescenza con quelle fluorescenti compatte che danno un risparmio dell’80%. 3. Risparmio di risorse – raccolta differenziata dei rifiuti, uso di materiali riciclati per le attività scolastiche, riduttori di flusso ai rubinetti e scarico differenziato nei wc, recupero delle acque piovane.


4. Impianti e materiali – uso di materiali isolanti termici e acustici, esclusione dei prodotti per l’edilizia contenenti sostanze nocive, attenzione alla salubrità dell’aria attraverso la realizzazione di tetti ventilati, vespai areati e drenaggi. 5. Sicurezza – adempimento delle norme previste dalla legge 626, acquisizione della certificazione di agibilità statica e di quella igienico-sanitaria. 6. Salubrità e qualità ambientale – cura dell’arredamento degli interni con attenzione ai criteri della bioarchitettura, monitoraggio della qualità dell’aria, eliminazione dell’amianto e messa in sicurezza, realizzazione o ampliamento delle aree verdi di pertinenza dell’edificio, diffusione di cibi biologici, lontananza da sorgenti d’inquinamento. 7. Organizzazione – individuazione della figura dell’energy manager, organizzazione di reti di scuole per realizzare al meglio le azioni necessarie, coinvolgimento di studenti e famiglie per diffondere comportamenti virtuosi dentro e fuori dalla scuola, uso delle strutture per attività extrascolastiche.

EUROPA: NIENTE OGM NEL PIATTO

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l Parlamento Europeo ha votato per regole più rigorose sui prodotti alimentari biologici, richiedendo alla Commissione che il limite massimo della contaminazione accidentale da materiale Ogm sia fissato allo 0.1% (la soglia di rilevabilità strumentale), contro lo 0.9% previsto per i prodotti convenzionali, che la proposta di regolamento della Commissione prevedeva come soglia anche per i prodotti biologici. Il Parlamento tuttavia ha deciso di non votare una risoluzione finale sulla materia, dato che la Commissione Europea rifiuta di assegnare al Parlamento il diritto di co-decidere sulla legislazione. Il dossier, quindi, è stato ritrasmesso al comitato agricoltura del Parlamento europeo e dovrà essere riconsiderato. Perché la posizioni diventi legge nella Ue, manca ancora la parola, determinante, dei ministri dell’agricoltura. I 27 su questo punto sono al momento divisi. La maggioranza delle capi-

tali la pensa diversamente dal Parlamento, ma Italia, Grecia, Austria ed Ungheria stanno cercando di convincere la Polonia a sposare lo 0,1%, in modo da avere i voti sufficienti per creare una minoranza di blocco che obblighi gli altri Stati membri a mediare verso l’approvazione di una soglia di contaminazione più bassa per il biologico.

PER UNA “DECRESCITA” CONSAPEVOLE: IL PROGRAMMA DELLE 8 R

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a “società della decrescita” presuppone, come primo passo, la drastica diminuzione degli effetti negativi della crescita e, come secondo passo, l’attivazione dei circoli virtuosi legati alla decrescita: ridurre il saccheggio della biosfera non può che condurci ad un miglior modo di vi-

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vere. Questo processo comporta otto obiettivi interdipendenti, le “8 R”: rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Tutte insieme possono portare, nel tempo, ad una decrescita serena, conviviale e pacifica. Rivalutare. Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. Questa rivalutazione deve poter superare l’immaginario in cui viviamo, i cui valori sono sistemici, cioè suscitati e stimolati dal sistema che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Ricontestualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne completamente il senso. Questo cambiamento si impone, ad esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza, la “diabolica coppia” fondatrice dell’immaginario economico. L’economia attuale, infatti, trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione. Ristrutturare. Adattare in funzione del cambiamento dei valori le strutture economico-produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato. Rilocalizzare. Consumare essenzialmente prodotti locali, prodotti da aziende sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale, per bisogni locali. Inoltre, se le idee devono ignorare le frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo, evitando i costi legati ai trasporti (infra-

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strutture, ma anche inquinamento, effetto serra e cambiamento climatico). Ridistribuire. Garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti. Predare meno piuttosto che “dare di più”. Ridurre. Sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta. La potenza energetica necessaria ad un tenore di vita decoroso (riscaldamento, igiene personale, illuminazione, trasporti, produzione dei beni materiali fondamentali) equivale circa a quella richiesta da un piccolo radiatore acceso di continuo (1 kw). Oggi il Nord America consuma dodici volte tanto, l’Europa occidentale cinque, mentre un terzo dell’umanità resta ben sotto questa soglia. Questo consumo eccessivo va ridotto per assicurare a tutti condizioni di vita eque e dignitose. Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”. Riciclare. Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività.

OMS: NUOVE LINEE GUIDA CONTRO LA MORTE PER SMOG L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha lanciato una sfida a tutti i governi del mondo per migliorare la qualità dell’aria nelle loro città e proteggere la salute dei cittadini. L’appello giunge con la pubblicazione delle nuove linee guida dell’OMS sulla qualità dell’aria, in cui i limiti per gli agenti inquinanti sono decisamente più bassi. Secondo l’OMS, abbassare la soglia per un particolare tipo di inquinante (noto come PM10) può ridurre i decessi fino al 15% l’anno nelle città inqui-


nate. Le linee guida, inoltre, abbassano sostanzialmente i limiti raccomandati per l’ozono e per il biossido di zolfo. A seguito delle crescenti evidenze sugli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute, l’OMS ha aggiornato le linee guida esistenti per l’Europa estendendole per la prima volta a livello mondiale. Queste linee guida si basano sulle più recenti ricerche scientifiche e stabiliscono degli obiettivi di qualità dell’aria che proteggerebbero la grande maggioranza degli individui dagli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute. Tali obiettivi sono molto più severi dei limiti nazionali attualmente in vigore in molti paesi, e in alcune città consentirebbero di ridurre gli attuali livelli di inquinamento di oltre tre volte. Si stima che l’inquinamento dell’aria sia causa ogni anno di circa 2 milioni di morti premature nel mondo. Più della metà avvengono nei paesi in via di sviluppo. In molte città, la media annuale dei livelli di PM10 (la cui fonte principale deriva dalla combustione di carburante fossile e di altri tipi) supera i 70 microgrammi per metro cubo. Secondo le nuove linee guida, per prevenire malattie questi livelli dovrebbero essere al di sotto

dei 20 microgrammi per metro cubo. «Riducendo l’inquinamento da particolato da 70 a 20 microgrammi per metro cubo, come stabilito dalle nuove linee guida, stimiamo una riduzione dei decessi di circa il 15%», dichiara Maria Neira, Direttore OMS per la Sanità Pubblica e l’Ambiente a Ginevra. «Abbassando i livelli dell’inquinamento atmosferico possiamo aiutare i paesi a diminuire patologie quali infezioni respiratorie, malattie cardiache e cancro ai polmoni, che altrimenti si diffonderebbero. Inoltre, gli interventi per la riduzione dell’impatto diretto dell’inquinamento atmosferico hanno anche l’effetto di diminuire le emissioni di gas che contribuiscono al cambiamento climatico, favorendo in tal modo ulteriori guadagni in salute». «Queste nuove linee guida sono state stabilite attraverso una consultazione mondiale con più di 80 esperti e si basano sulla revisione di migliaia di studi recenti effettuati in tutto il mondo. Esse forniscono quindi la valutazione più aggiornata e ampiamente condivisa degli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute, e raccomandano limiti di qualità dell’aria che riducono significativamente i rischi per la salute. Siamo impazienti di lavorare con tutti i paesi per assicurare che queste linee guida diventino parte della normativa nazionale», afferma Roberto Bertollini, Direttore del Programma Speciale Salute e Ambiente dell’OMS Ufficio Regionale per l’Europa. Molti paesi nel mondo non hanno regolamentazioni sull’inquinamento atmosferico, il che rende virtualmente impossibile il controllo di questo importante fattore di rischio per la salute. I limiti nazionali esistenti variano in modo sostanziale e non assicurano una protezione adeguata per la salute. L’OMS, pur accogliendo la necessità che i paesi hanno di stabilire limiti nazionali che tengano conto delle loro esigenze specifiche, ha prodotto delle linee guida che indicano livelli di inquinamento al di sotto dei quali il rischio per la salute è minimo. Le nuove linee guida dell’OMS forniscono dunque a tutti i paesi una base per definire i loro limiti di qualità dell’aria e le loro politiche a sostegno della salute con solide evidenze scientifiche.

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