Speciale Biennale 2011

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Spec ciale 54. B Biennale d di Venezia

INDICE: L’arte che svela si può ò svelare? SSecondo Bicce Curiger ssì, ma ogni volta si fall isce. Di Simonettta Lux nale PARABienn Back into tthe Past &... Note in m margine allaa 54° Bienna ale di Venezia Di Patrizia Mania Tra ILLUMI/nazioni e Biennalizza azione Di Eugenia Battisti Il pavimen nto di un uo omo è il sofffitto di un aaltro Uno sguardo alla 54° Biennale di Venezia Di Giorgia Calò 54° Esposiizione Interrnazionale d d’arte – La Biennale dii Venezia Il dispotism mo illuminaato tra comunità e nazzioni Di Veronicaa Gaia Di Orio 2011, ovveero la Bienn nale delle (sscarse) illum minazioni. Di Alessand dra Troncon ne 54a Biennaale. Allora& &Calzadilla per l’Ameriica di Obam ma Di Elisabetta Cristallin ni one attrave erso l’arte d di Fernando o Prats La spedizio Di Maria G Giovanna Tumino Pascali “affricano”, o d del linguaggio totale. Di Simonettta Lux Un itinerarrio intorno la 54. Biennale di Ven nezia. In visita a Palazzo Forrtuny Di Eugenia Battisti


Ilja Soskic – Speciale Di Simonetta Lux Intervista a Boris Groys a cura di Eva Frapiccini, Elisa Tosoni e Massimo Marchetti per UnDotv. Trascrizione dal video a cura di Simonetta Lux. Io è /un Altro: la Verifica #2 del progetto dell’artista brasiliano César Meneghetti alla 54 Biennale di Venezia. Di Eleonora Carbone


L’arte che svela si può svelare? Secondo Bice Curiger sì, ma ogni volta si fallisce. Di Simonetta Lux Ancora una volta, come avvenuto nella mia relazione con la Biennale Architettura l’anno scorso, mi sono trovata davanti all’irrisolto contrasto tra ciò che sappiamo – noi che siamo amici degli artisti e dei poeti – dell’arte e ciò che avviene dell’arte quando si espone al mondo, quando si consegna nel luogo deputato. In effetti questa è una delle questioni messe in opera dalla Bice Curiger, curatrice del Padiglione Internazionale, colei alla quale spetta il messaggio principale dell’arte, nelle diverse interviste pubblicate: nel “Il Giornale dell’arte”, in “Undo‐net”, che è il miglior tabloid on line che possiamo trovare, e in special modo “Alfabeta” di Nanni Balestrini ‐ il poeta e lo storico ‐ che con il supplemento speciale al n.10 “Alfa biennale” ospita tra le altre l’intervista più chiara a Bice. Una intervista che mi piace citare da Alfabiennale, curata da Manuela Gandini. Il primo passaggio dell’intenzione di Bice Curiger è stato quello di “svelare” ciò che l’arte è, cioè il fatto che l’arte che noi oggi chiamiamo tale è non più da considerarsi come “oggetto” fruibile chiuso in sé, ma un processo del quale si fissa in modi e media ormai infiniti possibili, e nel fissarsi ‐ l’opera ‐ si fa “strumento – come dice la Curiger‐ strumento intellettuale con possibilità di percezioni intuitive”. Questo svelamento – e ciò alla Biennale non avviene – richiederebbe tuttavia in primo luogo una relazione con l’artista, in secondo luogo un racconto del processo e l’attivazione di uno nuovo, in questo senso il cosiddetto pubblico diverrebbe attore dell’arte. Questo è tentato se ci si pensa, nel padiglione spagnolo con l’opera di Dora Garcia L’INADEGUATO, una extendend performance, con interventi di numerosi artisti ed intellettuali programmati durante tutto il tempo della Biennale. Da sinistra: Dora Garcìa, The Inadequate, 2011, Performance, Courtesy l’artista (Padiglione della Spagna); Franz West, Extroversion, 200‐2011. Parapavilion‐Installazione consistente in 37 parti. Courtesy Gagosian Gallery. Particolare. Tutti gli elementi vedi in Catalogo, pag. 575.

Ma lo fanno meglio molti artisti che io ho chiamato Ipercontemporanei e che non sono qui in questa Biennale: Sukran Moral, René Francisco, Thomas Ochoa, Jusuf Hadzifezjovic, César Meneghetti, artisti che mi piacerebbe vedere nella prossima. O Rosa Barba, che espone al MART, per la cura di Chiara Parisi e Andrea Villani. Il secondo passaggio è il misurarsi della Curatrice internazionale con l’idea di Nazione, che si darebbe esaurita nel mondo globalizzato in preda delle 500 multinazionali che sradicano le identità politiche in nome di una economia tutta finanziaria e anti industriale, una economia che domina il soggetto, lo schiavizza e lo usa, ne cancella le identità. L’incontrollabilità del processo di selezione nazionale – infatti a ciascuna nazione è lasciata la libertà di criterio di selezione del proprio commissario – e la indiscriminabilità del fatto se una nazione sceglie in nome dell’autopromozione politica oppure in nome di una lucida selezione dell’arte stessa, la Curiger ha tentato di contrastarlo, almeno con un atto simbolico, coniando l’idea del PARAPADIGLIONE. Il parapadiglione, che vuole dire attribuire ad alcuni artisti uno spazio nel quale egli inglobi parte di mondo o


parte di scena dell’arte invitando altri artisti o autori o “mostrando” tracce di mondo vissute: direi intelligente sublimazione di un atto critico per ora impronunciabile rispetto al funzionamento della Biennale stessa. Gli artisti dei Parapadiglioni sono stati Song Dong (Cina) che ha ricostruito la casa secolare dei suoi genitori in Cina ospitandovi opere di Yto Barrada e Ryan Gender, Monica Sosnowska (Polonia, 1972), Haroon Mirza (Gran Bretagna, 1977), Oskar Tuazon (USA, 1975), Franz West (Austria, 1947), che ha ricostruito la sua cucina con tutte le opere di artisti suoi amici che egli tiene lì. Il parapadiglione ha un suo precedente nella famosa partecipazione di Cesare Pietroiusti alla Quadriennale Romana del 1996, nel quale come opera scelse di invitare tutti gli artisti non invitati o semplicemente l’Escluso. Ma soprattutto diciamo che c’è un mondo dell’arte che ha portato avanti e realizzato ‐ non solo “simbolicamente” ‐ tale idea di portare un po’ di mondo di autobiografia nel “luogo deputato” oltre che nell’arte stessa, anche effettivamente modificando mondo e se stessi e l’altro. Diciamo che la Curiger è andata soft nella sua proposta puntualizzatrice di nodi, che purtuttavia fa emergere. Questa delicatezza della problematizzazione ha in effetti poi dato l’idea di un tono minore delle proposte di questa Biennale 54 di Venezia. Ma, se pensavo che questo valesse solo per la difficoltà di “esporre” l’architettura ‐ anche qui nella Biennale di arti visive sembra sempre che l’arte sia ALTROVE. Non si fa che metaforizzare la possibilità di percepire e conoscere l’arte, da parte di un grande esteso pubblico (oltre quello ristretto di chi frequenta da vicino e vive l’arte e gli artisti) è tutta lì davanti a noi la difficoltà di mostrare e di partecipare agli altri – a un presunto pubblico che non esiste in effetti, rispetto al ristretto autoreferenziale “sistema finanziario dell’arte”‐ l’arte stessa, la sua complessità e rispetto al modo di essere dell’artista fuori dal mondo, ma – come dice Boris Groys curatore del padiglione Russo in questa Biennale – anche del modo peculiare dell’artista di trasformare in linguaggio quella “materia prima” che è il mondo stesso, dandoci il senso di quelle Percezioni Intuitive di cui Bice Curiger parla. È accennata la possibilità di tale percezione intuitiva dei problemi della vita, che sono ciò che interessa all’artista ‐ come dava a vedere Kurt Schwitters, come diceva il grande artista italiano Giulio Turcato negli anni Cinquanta: “A noi non interessa l’arte, a noi interessa la vita”. La rinnovata dichiarazione di questa posizione, la trasformazione di un pensiero o di una percezione scelta di fatti della vita in “opera” (una “attitude” propose Harald Szeemann, nel famoso modo di esporre l’arte, estraendola dalle etichette che fu la mostra di Berna del 1969 When attitudes become form), insomma una “messa in scena della verità” nella frammentarietà in cui la realtà si presenta al soggetto artista ‐e non‐ , è ciò che sembra scorrere nelle vene o nel desiderio da tempo inaudito di questa 54° Biennale. Da sinistra: Amalia Pica, Venn diagrams (under the spot light), 2011, Courtesy Galerie Diana Stigter; Rosa Barba, Stage Archive, 2011, Fondazione Musei Civici di Trento, still da video courtesy “Undo Net”.

Lo fa la Garcia (Padiglione Spagnolo) con INAUDITO (presentata nella periodica di Scultura di Munster nel 2007), la argentina Amalia Pica, con la sua opera Venn Diagram nel Padiglione Internazionale Illuminations, lo fa Hirshorn (Padiglione Svizzero); lo fa Rosa Jijon (nel Padiglione dell’IILA) anche se la complessità del suo


lavoro qui non si “vede”; lo fa nel Padiglione di Danimarca Katerina Gregos, curatrice della mostra Speech Matters sul tema della libertà di parola con invito a 18 artisti di dieci paesi diversi… e pochi altri. Ma ciò sta avvenendo in molti artisti, qui nel mondo, e in artisti che proprio in questi giorni espongono e operano fuori della Biennale. Come Cèsar Meneghetti, che con il suo progetto Io è/ un Altro, non enuncia solo, ma realizza la possibilità di processi di inclusione e di relazione degli “esclusi”, attraverso l’arte (vedi più oltre, in questo Speciale). O come Rosa Barba, che alla Fondazione Galleria Civica di Trento, per la cura di Chiara Parisi ed Andrea Villani, insieme a Gabriella Belli, espone “Stage Archive”, trasformazione in scultura e installazioni di un pensiero e di una immaginazione dell’Archivio e della affermazione apparentemente smembrata ed assurda del fatto che sulla memoria si fonda la azione progettuale e culturale del Museo: museo che una volta tanto non è dato ‐ come oggi prevalentemente è ‐ come ricettacolo di legittimazione di proposte provenenti dagli attori del Sistema autoreferenziale dell’arte (il Collezionista, il Gallerista, l’investitore finanziario, il giornalista specializzato). Insomma, anche se Illuminations non illumina, inscrive un’idea dell’arte largamente in atto nel passato e in un altrove, accennando alla fine della metafora e della sublimazione di ciò che veramente interessa al soggetto uomo artista ed a noi.


PARABiennale Back into the Past &... Note in margine alla 54° Biennale di Venezia Di Patrizia Mania Scrive Bice Curiger, curatrice di quest'ultima Biennale, che il titolo ILLUMInazioni da lei scelto per la mostra è evidentemente "evocativo" e "stringente": da un lato, la luce, dall'altro, le nazioni, e ci si sarebbe aspettati che i due attributi, anche al di là della mostra, venissero meglio esplicati quanto meno nel testo in catalogo. Una prima delusione: qualche cenno a Rimbaud e a Benjamin per poi passare a stilare una sorta di comunicato stampa eloquente sostanzialmente di una certa inadeguatezza di fondo. Le nazioni che si dicono aperte, per loro natura poco inclini a configurare gli slittamenti e gli sconfinamenti odierni, restano saldamente chiuse nei loro margini, così come recita il titolo ma anche oltre. Lo stesso richiamo a Tintoretto, del quale sono in mostra tre capolavori, avrebbe potuto rappresentare il vero mainstream del percorso, eppure non si mostra sufficientemente esaustivo a porre la questione del passato che è presente, e finisce per essere un'occasione mancata. In che modo si relaziona con il contemporaneo? Se si guarda alla collocazione delle opere di Tintoretto, nella sala centrale del Padiglione, esse sono poste a fulcro della mostra come ne fossero il dispositivo irradiante (la metafora dell'irraggiamento collima con il tema della luce) e dunque le altre opere si porrebbero come inesorabilmente succedanee non solo cronologicamente ma anche nella sintassi seguita. Il che ingenera una inevitabile aporia che avrebbe imposto una riflessione più ampia. Alcuni artisti si sono cimentati nel gioco di rimandi accogliendo la suggestione di alcuni dettagli della pittura di Tintoretto, come ha fatto Monica Bonvicini in un'ampia installazione che rilegge la prospettiva a volo d'uccello delle scale del Trafugamento del corpo di San Marco. Su un diverso livello di analisi, Shahryar Nashat ha realizzato un'opera specificamente legata all'allestimento del Tintoretto in Biennale concentrandosi in yet to be titled sullo spostamento e la collocazione degli oggetti artistici e sugli apparati museografici che determinano modelli di pensiero e di movimento dello spettatore. Elisabetta Benassi, The Innocents Abroad, 2011. 9 motorized microfiche players, microfiches, tables, electrical lamps, electronic unit, electrical wires , Each unit:140 x 100 x 100 cm ca. Microfiche sheet (single frame), detail from the installation. Courtesy the artist and Magazzino, Rome

Se il testo di presentazione può dirsi modesto, altrettanto modesto, con qualche punta di "devianza", appare l'impianto curatoriale nel suo insieme. Qualcuno ha invocato la leggerezza come criterio metodologico che avrebbe sovrinteso le scelte, alcune certamente interessanti ma concluse in loro stesse, nella capacità dei singoli artisti a tessere la rete dei rimandi, e non conseguentemente all'architettura complessiva che appare sfilacciata e per certi versi (a rafforzarne la sensazione è ancora lo stesso testo della curatrice) inerpicata su un'ambigua costruzione di senso. Insomma, un progetto non esattamente


riuscito: un para‐progetto, si potrebbe dire, e in tale ottica se ne troverebbe una possibilità di riscatto. Coerentemente con il prefisso si verrebbero infatti ad accogliere e ad enfatizzare anche i para‐padiglioni affidati ai quattro artisti, Song Dong, Monika Sosnowska, Oscar Tuazon, Franz West. Questi ultimi in rapporto al percorso espositivo complessivo, ne configurerebbero in tale prospettiva una sorta di affinità, un parallelo deviato, alterato, contaminato. Da sinistra: Maurizio Cattelan, Turisti, 1997. Taxidermized pigions, Environmental dimension. Courtesy of Maurizio Cattelan Archive; Christian Marclay, The Clock, 2010.Edition of 6 Single‐channel video. Duration 24 hours. Installation view: ILLUMInazioni, 54. Esposizione Internazionale d’arte ‐ La Biennale di Venezia. Photo: Francesco Galli. Courtesy: la Biennale di Venezia.

Ma veniamo ad alcune opere dei ben 83 artisti invitati: nel padiglione centrale a farla da padrone è l'installazione di Maurizio Cattelan che con i suoi piccioni tassidermizzati fagocita sia pure discretamente tutto il resto. I suoi piccioni Others, benché silenti, scrutano dall'alto ed entrano nel percorso quasi ovunque. Pochi gli spazi esenti dall'intrusione e tra questi necessariamente le installazioni concluse in sé stesse che a volte insistono negli stessi spazi riservati ai parapadiglioni ufficiali, com'è il caso dell'installazione polisensoriale The National Apavilion of Then & Now di Haroon Mirza, cui è andato il Leone d'argento come miglior artista "promettente". A proposito di premi, il Leone d'oro è stato meritatamente assegnato a Christian Marclay per The Clock del 2010 un video della durata di 24 ore nel quale sono stati assemblati spezzoni di film che narrano di un racconto sul tempo e nella cui scansione il tempo che trascorre corrisponde di fatto a quello reale per cui lo spettatore mantiene la percezione di continuare ad abitare il presente pur nel richiamo al passato. Un efficace refrain sull'assunzione della memoria filmica scandita dal tema e dal dispositivo del tempo. La memoria è anche il tema dell'installazione di Elisabetta Benassi The Innocents Abroad che svelando con i suoi lettori di microfiche il retro di centinaia di fotografie di cronaca occulta il "fronte" dell'immagine in uno straniante processo di traslitterazione. Torna con il lavoro di Karl Holnquist Untitled (Memorial) la messa a nudo delle ambiguità della memoria nel presente con un modello in scala del Palazzo della Civiltà del Lavoro all'EUR per interrogarci sulle contraddizioni di oggi e su quelle della politica celebrativa. Inoltre, con la reinstallazione di un lavoro del 1967 di Gianni Colombo Spazio elastico, presentato alla Biennale del 1968, l'istituzione guarda anche alla propria memoria in un processo certamente autoreferenziale ma anche capace di "ridare vita", in un efficace richiamo, al suo passato.


Da sinistra: Haaron Mirza, The national apavilion of then and now, 2011. Installation view: ILLUMInazioni, 54. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia. Photo: Francesco Galli. Courtesy: la Biennale di Venezia; Gianni Colombo, Spazio elastico, 1967‐68. Fluorescent elastic bands, electrical engines, Wood’s lamp, 400x400x400 cm. Courtesy of Archivio Gianni Colombo, Milano

Ancora il passato dell'arte o per meglio dire l'arte del passato si materializza nelle statue‐candele di Urs Fisher, tutte a grandezza naturale, tutte illuminate dallo stoppino acceso che le consumerà per l'intera durata dell'esposizione; al centro, una candela replicante il gruppo scultoreo del Ratto delle Sabine del Giambologna, su un lato, una candela riproducente le fattezze del suo amico artista Rudolf Stingel, e sul lato opposto, un'altra scultura che è un calco della sedia del suo studio. Nel loro progressivo disfacimento celebrano la transitorietà dell'opera, il suo destino ineluttabile: non ne rimarrà che un amalgama informe. Il consumo simultaneo del passato e del presente. Se il filo della memoria, presente anche esternamente alla mostra ILLUMInazioni in molte opere ‐ valga per tutte la complessa macchina video filmica allestita nel padiglione francese dal "maestro" della memoria per eccellenza Christian Boltanski ‐ sembra raccordare diverse opere quasi come luce sempiterna, rappresentando un significativo rimando al tema di fondo, molte sono le opere per così dire "isolate" che non tessono reti e consonanze, quanto meno con il filo rosso evidenziato. A sollecitare la rete, quella però di una comunicazione allargata, è Estman Radio Drama del 2011 di Marinella Senatore, un lavoro tutto giocato sulla ricerca di una estetica partecipativa e su un altro piano, ma con premesse analoghe, deve essere letto some like it hot, il progetto performativo del collettivo Gelitin che nel corso della prima settimana dell'esposizione ha dato vita ad una performance tesa a porre in termini di criticismo la questione del territorio dell'arte e della sua definizione. Sul terreno di una comunicazione sociale, e tuttavia intima, quasi confidenziale, si muove fuori dalla mostra ILLUMInazioni il progetto Lo inadecuado di Dora Garcia al Padiglione spagnolo. L'inadeguato consiste in un'unica "performance estesa" con un fitto programma di incontri che si svolgeranno per tutta la durata dell'esposizione e che alienano il senso di appartenenza comunitaria massificato per una comunicazione esclusiva sulla quale poggia il concetto stesso di "inadeguatezza" e nel quale andranno via via convergendo esponenti di diverse discipline accomunati da un pensiero di radicalità, esclusione, emarginazione, devianza, censura, alterità. Mantenendoci sul piano politico ma spostandoci a quello della celebrazione dell'identità della nazione, in un'accezione criticista, attraverso militarismo, tecnologia, atletismo, moneta, questa stessa identità è glorificata nello straordinario padiglione statunitense affidato al duo Allora e Calzadilla. La questione dell'identità nazionale, dei confini, e delle idiosincrasie sottese è, su un piano diverso, al centro anche dell'installazione One Man's Floor is Another Man's Feelings di Sigalit Landau ospitata nel padiglione israeliano, grande metafora dell'impossibilità ma anche della necessità della speranza. Un monumento al fragile ma inconvertibile desiderio di non arrendersi. Da sinistra: Dora Garcia, Lo inadequado, 2011, 2 giugno 2011. Una conversazione tra Nanni Balestrini, Marco Baravalle, Dora García. Padiglione Spagnolo. 54. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia; Allora & Calzadilla, Gloria. Performance all’ingresso del Padiglione statunitense. U.S.Pavilion, 54. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia


Una tensione verso il monumentalismo aleggia, a onor del vero, in molti padiglioni ed è di grande efficacia in tal senso il lavoro Ahora estaré con mi hijo di Adrián Villar Rojas nel padiglione argentino che nel rovesciamento, nella trasfigurazione e nella coesistenza di molteplici creature e cose nelle sue grandi opere di argilla evoca quasi "una grandezza perduta" o forse "recuperata all'umanità" come lascia intendere lui stesso quando afferma: "Erigo monumenti perché non sono disposto a perdere niente". La liturgia della messa in un'installazione teatrale, anch'essa per certi versi monumentale, che contiene tracce biografiche esistenziali in un percorso fluxus estremamente stratificato, è la grande architettura allestita per il padiglione tedesco, cui è andato il premio come miglior padiglione, a memoria dello stesso artista Christoph Schlingensief scomparso qualche mese prima l'apertura della biennale. E ad un artista morto tragicamente è andato l'omaggio del padiglione egiziano: Ahmed Basiouny, scomparso il 28 gennaio 2011 a Il Cairo, nel "venerdì della collera" in piazza Tahir nel corso della rivoluzione egiziana che in presa diretta filmava. Un anno prima della rivolta Basiouny aveva lavorato al progetto 30 Days of Running in the Place consistente nel correre all'interno di una struttura quadrata indossando un abito di plastica dotato di sensori capaci di rilevare i suoi stessi consumi energetici che poi venivano tradotti in colori su un grande schermo. L'installazione nel padiglione affianca alla proiezione di questa performance dei filmati relativi alla rivolta egiziana nei giorni immediatamente precedenti la morte di Basiouny scompaginando i confini tra arte, vita e morte. Qui, sì davvero la cronaca stringente dei fatti ci confronta direttamente con la realtà, scansandone i para, i prefissi tutti, in un corpo a corpo con il coraggio e il rischio dell'impegno, nell'audace convergenza della pratica documentaristica con l'arte.


Tra ILLUMI/nazioni e Biennalizzazione Di Eugenia Battisti Numerose ad oggi le capitali mondiali che ospitano esposizioni periodiche d’arte contemporanea. A partire dalla più antica, la Biennale di Venezia istituita nel 1895, a seguire con Documenta, nata a Kassel nel 1955, le esposizioni periodiche si moltiplicano spasmodicamente fino a raggiungere i posti più reconditi della terra. Facciamo riferimento alla recentissima apertura in Usuhaya nel 2007 della “Biennale della fine del mondo”. Dopo Venezia, Kassel e le grandi capitali dei paesi maggiormente sviluppati, nascono esposizioni periodiche a Sidney (1973), Avana (1984), Cuenca e Istanbul (1987), Lione (1991), San Paolo (1996), Portro Alegre (1997), Berlino, Dakar e Taipei (1998), Yokohama e Shangai (2001), Sharjam (2003), Singapore (2006) e Usuhaya (2007). Dalla fine della seconda metà del ‘900, ai giorni d’oggi, accogliere un’esposizione periodica è diventata una prerogativa atta non solo a stimolare l’incremento della creazione artistica o a fornire uno spaccato del panorama artistico internazionale, ma soprattutto a conquistare la designazione di capitale culturale. Stilata la lista, prima di andare avanti con la nostra posizione teorica, sarà bene fornire generiche informazioni ed un breve excursus storico sulle più antiche esposizioni periodiche. La Biennale di Venezia: Nata come contenitore d’opere ad invito, dalla sua istituzione al dopoguerra, limita il campo d’azione all’arte accademica. La prima Biennale del dopoguerra offre un’ampia retrospettiva delle avanguardie storiche europee, soprattutto grazie alla presenza e alla collaborazione dei padiglioni stranieri. Questo non era stato possibile prima a causa della forte censura esercitata dallo Stato fascista. Scorrendo i Grandi Premi assegnati nelle edizioni svolte sotto il fascismo, troviamo curiose coincidenze a fatti storico‐politici. L’edizione del 1938 destina il primo premio ad un artista spagnolo: Ignacio Zuloaga. Casualità, nello stesso anno Francisco Franco viene nominato capo dello Stato e del governo. Nel 1940 e 1942 è la volta dell’Ungheria, con l’assegnazione del primo premio a Vilmos Alba e successivamente ad Arthur Kampf; in coincidenza, nello stesso anno, l’Ungheria aderirà all'Asse Roma‐ Berlino. Nel ‘64 si dà inizio alla corsa verso un’apertura nei confronti dell’arte internazionale. La Biennale decide di assegnare il primo premio ad un artista extraeuropeo: Robert Rauschenberg. Basta questo esempio per capire come l’anno del trionfo della Pop Art coincida con il processo di avanzamento dell’ “americanizzazione” in Italia. Altra edizione “specchio” della politica italiana è quella del ’68, contornata dalle contestazioni. Per esprimere la loro solidarietà nei confronti delle proteste in corso, gli artisti di molti paesi decisero di girare le opere. In questa edizione, inoltre, il punto vendita della Biennale veneziana venne chiuso. Clamorosa l’edizione del ‘74 dedicata al Cile per portare avanti una risonante protesta contro Pinochet. Negli anni Ottanta l'Esposizione veneziana venne impostata su temi unitari. Ripercorriamo insieme le radici di questo dilagante fenomeno, che consiste, in sintesi, nello strutturare l’esposizione partendo dal titolo. Venezia da sempre ospita nomi di importanti critici italiani: Portoghesi, Apollonio, Calvesi, Bonito Oliva, Bonami, Celant, e alcuni nomi stranieri di fama internazionale: Jean Clair, Hans Ulbrich Obrist, Robert Storr, Birnbaum, Szeemann, che fu curatore di bensì due Biennali (1999‐ 2001) e recentemente Bice Curiger. Fatto il nome di Szeemann, diventato comune denominatore di molte delle esposizione periodiche internazionali, non si può non fare riferimento all’ormai storica esposizione periodica, in cui appare lui come direttore: la Documenta numero cinque. Istituita nel 1955 a Kassel da Bode e Haftmann, Documenta è un’esposizione periodica che ha come sede il Museum Fredericianum, devastato dai bombardamenti, danneggiato durante la seconda guerra mondiale. La Documenta cinque (1972) è considerata una delle edizioni maggiormente significative. Segna una cesura rispetto le Documenta passate, le quali seguivano un criterio storico e storicizzante per ordinare l’allestimento espositivo. Szeemann inaugura la quinta edizione con una metodologia curatoriale già sperimentata in When attitudes become form nel ’69. La mostra è governata da un nuovo criterio

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espositivo: l’esposizione non è un contenitore di opere, ma è concepita come un susseguirsi di avvenimenti. Il curatore invita gli artisti a partecipare ponendo a ciascuno di essi la questione di cosa e come esporre la loro opera, in relazione all’ambiente espositivo. In tal modo gli artisti sono liberi di contribuire non solo con i loro lavori, ma ridefinendo lo spazio. La metodologia di Szeemann ebbe tanto successo da farlo diventare il curatore free‐lance (ovvero indipendente dalle istituzioni) più ambito al mondo. Sia in Documenta cinque, che in When attitudes become form, la stringente prospettiva sul contemporaneo ha spinto il curatore ad orientarsi su un’impostazione espositiva di tipo tematico e non più su un’ordinazione di tipo storico‐cronologico. Sulla disposizione tematica delle opere vertono altre mostre pilota. La mostra curata dal filosofo francese J. Lyotard Les Immatèriaux del 1985. Il curatore francese costruisce la mostra intorno al tema dell’immaterialità. Catalizzando l’attenzione sulla complessità semantica del termine “Immatèriaux”, ne sovverte quei significati che le sono tradizionalmente attribuiti. Creando uno studio delle divergenze, la mostra mette in crisi i principi convenzionali espositivi, favorendo il disorientamento corporale e linguistico dello spettatore. Dissolvendo del tutto la distinzione dei ruoli di mittente e destinatario, Lyotard porta avanti una rivoluzione copernicana nelle modalità di esposizione e fruizione, ed anche per questo viene considerato il primo teorico del Postmodernismo. Basata sulla centralità tematica anche Les Magiciens de la terre, organizzata da J. Hubert Martin al Centre Pompidou pochi anni dopo: siamo nel 1989. I principi su cui basano le due esposizioni precedenti: la centralità di una tematica e l’importanza conferita alla selezione critica, operata dal curatore, diventano i due pilastri su cui si ergeranno anche altre le manifestazioni che esamineremo. In questo caso l’accostamento arbitrario di opere occidentali a quelle provenienti da altri cinque continenti, non occidentalizzati, ha suscitato gran clamore sia in senso positivo che negativo. La modalità di presentazione espositiva, adottata da Hubert Martin, è stata definita un “Take Away” di prodotti considerati “diversi” e quindi attraenti per il loro fascino esotico. Oggi tale problematica, che investe il rapporto con la cultura locale, è al centro delle più aspre critiche rivolte alle esposizioni internazionali. La Biennale di Lione del 2001, curata da Hubert Martin e intitolata Partage d’Exotisme, propone il medesimo approccio di Les Magiciens, ovvero quello di accostare in totale libertà oggetti provenienti da mondi e culture differenti. Insorge di nuovo la medesima problematica: che prezzo deve pagare la libertà decisionale, conferita al curatore, di accostare opere ed oggetti provenienti da mondi differenti? Le aspre critiche, in cui è incappato il curatore francese, sono oggi estendibili ad altre esposizioni occidentali. Esse si focalizzano sul rischio di ignorare la funzione rituale di quegli oggetti, strappati dalle loro origini, ai quali lo sguardo occidentale attribuisce una funzione differente da quella assegnatagli dalla comunità nativa1. La nuova metodologia curatoriale, risponde Martin in sua difesa, sostiene la volontà di proporre non solo gli artisti dei paesi sviluppati, ma anche quelli appartenenti ai “Terzi mondi”, puntando l’attenzione ai margini non solo al centro2. Il binomio esposizioni internazionali periodiche e post‐colonialismo diventa significativo se rapportato all’analisi storico critica dell’arte, a partire dalla seconda metà del Novecento. Mentre nelle esposizioni periodiche di inizio Novecento, nate in occidente, si puntavano i riflettori su artisti provenienti dai paesi più sviluppati, dalla seconda metà del Novecento, nelle esposizioni periodiche dei paesi in via di sviluppo, si ospita il lavoro si artisti provenienti da paesi non occidentalizzati. Un esempio è la Biennale dell’Avana. Questa diventa punto d’incontro dei paesi non occidentali, grazie alla decisione di focalizzare le proprie attenzioni su artisti dell’America Latina, Africa ed Asia. 1

Per quanto riguarda questa problematica si veda Exhibiting Cultures. The Poetics and Politics of Museum Display, a cura di Ivan Karp e Steven D. Lavine, Smithsosian Institution, Londra 1991. trad. it. a cura di Maria Gregorio, Dario Moretti, Antonio Serra, CLUEB, Bologna 1995. 2 Interessante a tale proposito applicare la teoria di Edward Said trattata nella sua opera Orientalism. Con quale criterio si parla di centro e di marginale? Il criterio guida è quello adottato dai paesi colonizzatori dei paesi avanzati.

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La prima edizione della Biennale dell’Avana (1984) promulga l’intenzione di includere solamente artisti caraibici e latino americani. Dalla lettura del catalogo della seconda edizione, emerge la scelta, anche qui, di adottare un criterio tematico per organizzare le seguenti edizioni future. Affluiscono nella sua stesura diverse voci critiche, tra le quali quelle appartenenti al Centro Wifredo Lam. Le tematiche ricorrenti nei titoli, scelti per le varie edizioni della Biennale dell’Avana, si articolano spesso in binomi che sintetizzano le forze dialettiche delle problematiche attuali: Tradizione e Contemporaneità, Potere e Marginalità, Migrazione e Ibridazione, Periferie e Postmoderno, Individuo e Memoria, Postcolonialismo e Globalizzazione. Rimane salda però l’impostazione tematica che, come abbiamo visto, diviene caratterizzante nelle esposizioni periodiche occidentali. Oggi il dibattito sulle emergenze, portato avanti pionieristicamente dalla Biennale dell’Avana, è dilagato nell’Occidente. Non ci si sorprenderà affatto allora se, durante la nostra visita alle grandi esposizioni periodiche, ci si troverà, sempre più spesso, di fronte ad artisti provenienti da paesi non occidentalizzati, che sanno gestire magnificamente il linguaggio occidentale delle ultime tecnologie3. A testimonianza di ciò gli sguardi di alcuni artisti, come: César Meneghetti, Tania Bruguera, Theo Eshetu, René Francisco, Sukran Moral, Alfredo Jaar, Tomàs Ochoa, etc., sono stati recentemente analizzati dalla professoressa Simonetta Lux, la quale, tra i primi studiosi d’arte in Italia, ha voluto sottolineare l’importanza della militanza nell’arte dei paesi in via di sviluppo. Dalle sue analisi emerge chiaramente quel fenomeno ibrido, ruotante intorno al rapporto dialettico tra sistemi culturali europei e un’ontologia locale, sorgente dall’impulso atto a creare o ricreare un’identità locale indipendente. Negli ultimi anni, la prima esposizione periodica che ha voluto mettere in questione il ruolo del curatore, scardinandone la tradizionale impostazione tematica, è la Biennale di Lione del 2007, curata da Hans Ulrich Obrist e Stéphanie Moisdon. La prospettiva qui si restringe drasticamente: si offre uno spaccato della vicenda artistica dell’ultimo decennio. Il metodo curatoriale adottato si basa su una strategia di gioco, con regole di selezione e di distribuzione dei ruoli. Intervengono sessanta curatori provenienti da tutto il mondo e un gruppo di artisti. Al primo gruppo viene posta una questione: «qual è l’artista o l’opera più significativa dell’ultimo decennio?». A partire dalle risposte dei critici si andrà configurando la prima parte della Biennale. Contemporaneamente, al gruppo di artisti viene chiesto di realizzare una sequenza di opere che definiscano l’arte dell’ultimo decennio. L’addizione di due sequenze, coincidenti e allo stesso tempo divergenti, disegna il ritratto di un presente immediato, che riflette sia l’obiettività storica sia la soggettività di ciascun partecipante. Questa struttura è interessante perché ha permesso di ovviare i criteri selettivi e le gerarchie, tipiche della macchina espositiva. La volontà di allargare il singolo sguardo di un curatore ad una équipe, può considerarsi una delle risposte alla problematica, in questione, legata all’egemonia dettata da un’unica selezione curatoriale. Obrist sa bene che, con la recente “biennalizzazione”4, il rischio di sovrapponibilità nei contenuti, nelle formule, negli artisti prescelti, nel tipo di poetica e di tecniche usate, alimentato in maniera palese da un’oligarchia di nomi, è incombente. Intorno a tale problematica si è andato a sviluppare il dibattito mondiale, degli ultimi anni, relativo le dinamiche legate alle esposizioni periodiche. In queste esposizioni, come abbiamo visto, non solo si tende a focalizzare l’attenzione su una tematica, ma spesso si vedono protagonisti gli stessi curatori. Eventi come questi hanno un effetto alone, cioè pur esponendo un numero illimitato di artisti, tendono a portare l’attenzione su tematiche assai vicine, se non equivalenti, alle tematiche trattate nelle altre esposizioni periodiche mondiali.

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La contaminazione interculturale, facilitata dalla tecnologia avanzata, inizialmente ha promosso la consegna a domicilio dell’esotico, successivamente, grazie ad una rivalsa, l’esotico si è liberato dalla sudditanza occidentale addomesticando il linguaggio del colonizzatore. 4 La recente tendenza alla moltiplicazione di eventi a cadenza bi o triennale ha indotto molti studiosi a parlare di Biennalizzazione (Céline Condorelli, Support Structures 2009).

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Abbiamo parlato di Hans Ulrich Obrist, curatore svizzero, comparso al secondo posto nella lista dei cento personaggi più potenti del mondo dell’arte, pubblicata da “ArtReview” nel 2010. Dal 1991 al 2009 è chiamato a curare ben undici esposizioni periodiche. Vista la frequente cadenza con cui Obrist opera nelle esposizioni mondiali, possiamo ben comprendere il motivo per cui egli si trovi spesso affiancato da una cerchia di colleghi curatori e collaboratori, ed il perché egli si sia voluto creare una rosa di artisti da portare al suo seguito. I nomi dei curatori celebri che spesso lo affiancano sono: Rosa Martínez, Hou Hanru, Daniel Birnbaum, Hubert Martin e Nicolas Bourriaud. Gli stessi nomi fanno capo a numerose esposizioni internazionali; oltre Venezia, si annoverano Mosca, Lione, Berlino, Kassel, Istanbul, Manifesta, Yokohama, Dakar, Sydney, Shangai, etc. Individuati gli artisti prescelti da Obrist, focalizzata la loro presenza nelle varie esposizioni, si è andata delineando la loro massiccia presenza nell’ultima Biennale di Venezia curata dalla Curiger. Nella mostra centrale ILLUMI/nazioni ‐ ILLUMI/nations, composta da circa ottanta artisti, quattordici artisti sono gli stessi promossi da Obrist nelle esposizioni da lui curate, dieci sono gli stessi artisti ospitati nell’edizione di Lione del 2009, curata da Hou Hanru, ed otto è il numero degli artisti già presenti nelle ultime due edizioni della Biennale veneziana, curate rispettivamente da Daniel Birnbaum (2009) e Robert Storr (2007). Passiamo ad esaminare i Giardini. Gli artisti ospitati nel padiglione statunitense, Guillermo Calzadilla &Jennifer Allora, li troviamo nel 2007 e 2009 nell’ottava e nona edizione di Lione, curata da Stéphanie Moisdon, Hans Ulrich Obrist e da Hou Hanru e alla Biennale di Dakar nel 2004, nella sezione “Word” curata sempre da Obrist. Inoltre i due artisti vengono chiamati a partecipare alla 51. Biennale di Venezia, curata da María de Corral e Rosa Martínez. Per la Polonia e per la Spagna lo stesso discorso va fatto per gli artisti chiamati a rappresentare i due corrispettivi paesi: Yael Bartana e Dora García, portati entrambi da Obrist a Yokohama, per l’edizione del 2008. Nel padiglione Russo troviamo Andrei Monastyrski, Elena Elagina e Igor Makarevich, già chiamati a partecipare a Venezia nel 2007 da Robert Storr e, sempre a Venezia, nel 2009, da Daniel Birnbaum.

Da sinistra: Andrei Monastyrski e Collective Actions Group, Empty Zones. Veduta dell’installazione ospite al padiglione russo ai Giardini, Biennale di Venezia 2011; Christian Boltanski, Chance. Veduta dell’installazione ospite al padiglione francese ai Giardini, Biennale di Venezia 2011; Markus Schinwald, Markus Schinwald Abigail, 2011 Olio su tela, 61 x 71 x 5 cm., padiglione austriaco ai Giardini, Biennale di Venezia 2011. Foto di Eugenia Battisti

Nel padiglione giapponese, della 54. Biennale veneziana, è ospite l’artista Tabaimo, presente nell’edizione veneziana del 2007 curata da Storr, alla Biennale di Sydney nel 2006 e a Yokohama nell’edizione del 2001. L’artista scelto a rappresentare la Francia, a cura di Hubert Martin5, Boltanski, è presente a Venezia già nel 2007, nell’ambito degli “Eventi Collaterali”, in occasione della mostra, accolta al Palazzo Fortuny: 5

Nel 2010 Boltanski è invitato ad esporre a “Monumenta”, nell’edizione curata da Catherine Grenier. In occasione della 54. Biennale veneziana i curatori Martin e Grenier decidono di collaborare promuovendo una monografia dell’artista.

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“Artempo”, sempre curata da Jean‐Hubert Martin, insieme anche a Giandomenico Romanelli, Mattijs Visser e Daniela Ferretti. Nel padiglione austriaco troviamo Markus Schinwald, portato alla prima Biennale di Berlino nel lontano ‘98, curata da Klaus Biesenbach, Hans‐Ulrich Obrist e Nancy Spector, e nel 2006 alla quarta edizione berlinese curata da Maurizio Cattelan, Massimiliano Gioni and Ali Subotnick. L’artista inoltre partecipa alle seguenti esposizioni periodiche: Venezia 2003 (curata da Bonami in collaborazione con Hou Hanru, Daniel Birnbaum, Massimiliano Gioni, Carlos Basualdo, Catherine David, Gabriel Orozco, Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist, e Rirkrit Tiravanija) e Manifesta 2004, edizione curata da Massimo Gioni e Marta Kuzma6. Alla fine dei conti, il numero degli artisti selezionati dalla Curiger, presenti anche nelle esposizioni periodiche degli ultimi anni, ed in particolare nelle esposizioni curate da Obrist, è notevole. Tra Obrist e Curiger7 troviamo altri punti di contatto in occasione di collaborazioni per pubblicazioni. Obrist figura tra i “Notable Contributors” della rivista diretta da Curiger: Parkett8. Gli artisti in comune prediletti dai due curatori sono molti e ne forniremo subito i nomi che non abbiamo potuto trattare, ma che sono presenti nell’ultima edizione veneziana. Tra i più famosi troviamo Ai Weiwei, Franz West, Peter Fischli & David Weiss, Maurizio Cattelan, Thomas Hirschhorn, Marina Abramovic9, Rosemarie Trockel10, Philippe Parreno, Rebecca Warren11, Katharina Fritsch, Robert Crumb, Error! Reference source not found., Christian Boltanski12 e Sharon Hayes. Da sinistra: Philippe Parreno, Marquee. Veduta dell’installazione ospite nel padiglione centrale ai Giardini, Biennale di Venezia 2011; Thomas Hirschhorn, Crystal of Resistance. Veduta dell’installazione ospitata nel padiglione svizzero ai Giardini, Biennale di Venezia 2011. Foto di Eugenia Battisti

Così concludiamo con un ultima osservazione: mentre a Franz West, oltre al privilegio di poter dar vita ad una “Para‐padiglione”, viene conferito il Leone d'oro alla carriera della 54. Biennale, a Thomas Hirschhorn

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Marta Kuzma collabora con Obrist in Mark Manders. Ed. Hans Ulrich Obrist, Rachel Thomas, and Marta Kuzma. Dublin: Irish Museum of Modern Art, 2005. Inoltre è curatrice, insieme ed altri, presente nella 54. Biennale di Venezia nel padiglione norvegese. 7 Facciamo riferimento in particolare a Bice Curiger, Hans‐Ulrich Obrist, Katharina Fritsch, Ken Adam, Style and Scale, or Do You Have Anxiety?: A Conversation With Ken Adam, Christina Bechtler, Katharina Fritsch and Hans Ulrich Obrist, 2009. In questa pubblicazione troviamo un’artista presente alla mostra ILLUMInazioni – ILLUMInations della 54. Biennale di Venezia, curata da Curiger: Katharina Fritsch. 8 La lista di artisti collaboratori di Parkett include: Laurie Anderson, Richard Artschwager, Georg Baselitz, Matthew Barney, Louise Bourgeois, Francesco Clemente, Peter Fischli/David Weiss, Gilbert & George, Rebecca Horn, Ilya Kabakov, Jeff Koons, Brice Marden, Bruce Nauman, Meret Oppenheim, Raymond Pettibon, Sigmar Polke, Gerhard Richter, Cindy Sherman, Andy Warhol, e molti altri. 9 Obrist ha curato la mostra personale di Marina Abramovic nel 2009: Marina Abramovic Presents. The Whitworth Art Gallery at the University of Manchester, 2009. 10 Hans Ulrich Obrist, Mückenbus: Rosemarie Trockel and Carsten Höller. Deutsches Museum Bonn, Bonn, 1996. 11 Hans Ulrich Obrist, Julia Peyton‐Jones, and Kathryn Rattee, Rebecca Warren. Serpentine Gallery, London, March 10‐ April 19, 2009. 12 Hans Ulrich Obrist, Boltanski: Book. Stiftsbibliothek, Monastery Library, St. Gallen, 1992.

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viene dedicato il padiglione nazionale svizzero della medesima Biennale e a Marina Abramovic, viene affidata la cura personale della mostra The Fridge Factory and Clear Waters, ospitata tra gli “Eventi collaterali” della medesima Biennale. La selezione operata dalla Curiger, (anche lei svizzera come Obrist) tira in ballo, oltre gli artisti cari a Obrist, anche altri artisti portati dai curatori che lo affiancano nelle più recenti esposizioni periodiche. Facciamo riferimento a Rosa Martínez (che ultimamente è in coda a Obrist poiché, dal 1991 al 2009, ha curato otto esposizioni periodiche), Birnbaum e Hou Hanru (entrambi con un totale di sei esposizioni periodiche curate nello stesso arco di tempo), Hubert Martin (che ha totalizzato quattro esposizioni periodiche), Massimo Gioni e Nicolas Bourriaud (all’ultimo posto in classifica poiché hanno curato “solamente” tre esposizioni periodiche in diciotto anni). Con questo esempio, scaturito dall’analisi trasversale offerta della recentissima Biennale di Venezia, edizione in cui paradossalmente si voleva portare alla luce un dibattito sulla Nazionalità, come si deduce dal titolo scelto, abbiamo avuto l’opportunità di estrapolare e portare a visibilità le affinità tra alcuni curatori e i loro artisti presenti nelle esposizioni di tutto il mondo. Questo rendiconto è utile non a soddisfare una semplice curiosità professionale, ma per comprendere, in maniera critica, dove e come nasce il rischio di sovrapposizione e di omologazione internazionale del gusto a cui, come facilmente si può intuire, fa coda la sottovalutazione degli artisti radicati nel territorio. In effetti se le esposizioni periodiche, come quella di Curiger, si rifanno alle esposizioni dei curatori più in voga del momento, invitando e premiando gli stessi artisti invitati nelle altre edizioni mondiali, invece di fornire uno spaccato del panorama artistico internazionale, si andrà incontro all’omologazione e alla ripetizione. Il sovrapporsi di nomi e curatori a cui si è andati incontro nell’ultimo trentennio, ha fatto sì che chi è rimasto fuori dalle alleanze e dai sostegni reciproci delle reti di relazioni, più o meno forti, tra curatori, rimane escluso dal sistema delle esposizioni periodiche. In tal modo queste manifestazioni possono tendenzialmente creare un consenso pericoloso attorno ad una ristretta cerchia di artisti, da esse legittimati.

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Il pavimento di un uomo è il soffitto di un altro Uno sguardo alla 54° Biennale di Venezia Di Giorgia Calò Fare un resoconto sulla Biennale di Venezia non è mai facile, un po’ per la stanchezza che ti trascini dietro per settimane dopo averla visitata (soprattutto se si decide di andare nei giorni della vernice), un po’ per l’inevitabile delusione che lascia, probabilmente a causa delle aspettative forse troppo alte e che puntualmente vengono scontentate. Ammetto che sono partita per Venezia già prevenuta, ma del resto chi non lo era con tutto quello che si è scritto e detto nei mesi precedenti all’apertura, ciononostante ho fatto il mio giro tra i Giardini e l’Arsenale con la seria intenzione di trovare qualcosa che mi convincesse davvero e, udite udite, l’ho trovato! Il Padiglione Austriaco, ad esempio, è tra i più interessanti con il lavoro di Markus Schinwald che usa installazioni, performance, cinema, pittura e scultura come elementi costitutivi di un progetto unico estremamente raffinato. L’artista, nato a Salisburgo nel 1973, ha saputo infatti stravolgere l’architettura del padiglione – costruito nel 1934 su disegno di Josef Hofmann – ragionando proprio sull’idea dello spazio nella sua costrizione fisica e mentale. Un lavoro dunque fortemente psicoanalitico (del resto stiamo parlando dell’Austria), nella costruzione di un ambiente dissociativo in cui gli interstizi appaiono allo spettatore come fessure da cui si può spiare o verso cui si è risucchiati, avviando così una discussione colta tra spazio e corpo. Nel percorso labirintico rigorosamente bianco, scandito dai portali con fessure asimmetriche che impediscono l’accesso dall’entrata principale, il pubblico è invitato a deviare intorno ai lati. Da questo percorso, in cui lo spazio subisce un processo paradossale di dilatazione/delimitazione, dovuto ai blocchi di cartongesso sollevati da terra che tendono a chiudere lo spazio verso l'alto, la sensazione di circoscrizione è oltre che vissuta anche rappresentata nei rifacimenti pittorici ottocenteschi e nelle sculture che delimitano lo stesso cammino, evidenziandone l’addensamento dei vuoti. Un ottimo lavoro, elegante e soprattutto purificato da qualsiasi orpello superficiale. Un’opera direi cerebrale in cui non è solo l’artista a far funzionare i suoi neuroni, ma anche gli spettatori sono invitati a ragionare e a perdersi per poi ritrovarsi all’interno di un ambiente apparentemente fin troppo calmo che invita a riflettere sulle costrizioni socio‐culturali, focalizzando l’attenzione sul corpo e la sua messa in scena. Da sinistra: Markus Schinwald, Installazione Padiglione Austria; Christian Boltanski, Chance, Padiglione Francia. © Didier Plowy

Una particolare analisi sull’essere umano la ritroviamo anche nel Padiglione Francia rappresentato da Christian Boltanski. Mentre Schinwald esamina l’uomo seguendo un pensiero autoctono basato sulla psicoanalisi freudiana, l’artista francese sembra rifarsi ad un celebre poema del francesissimo Stéphane Mallarmé, Un coup de dés jamais n'abolira le hasard. Composta in tre parti Chance, curata da Jean‐Hubert Martin, invita il pubblico a giocare con la sorte diventando parte integrante dell’opera. Nulla è programmato, tutto è affidato al caso come i volti delle persone che si scompongono e ricompongono in infinite possibilità. Le facce di 52 svizzeri morti vanno ad intrecciarsi con i ritratti di 60 neonati vivi componendo improbabili fisionomie che lo spettatore blocca con un tasto nel tentativo di produrre un viso reale. Ai lati di questo fatalistico gioco meccanico un conteggio


scandisce il numero quotidiano di nascite (in verde) e di morti (in rosso) dimostrando come la popolazione aumenti in modo esponenziale. L’artista sembra essere fermamente convinto che vivere o morire sia in realtà l’effetto di una serie di circostanze dettate esclusivamente dal caso. Un gioco dunque, dove chi è fortunato continua la partita e chi non lo è scompare.

Da sinistra: Sigalit Landau, Installazione Padiglione Israele; One Man’s Flor Is Another Man’s Feelings, 2011; King of the Shepherds and the Concealed Part, 2011. Installation view, metal pipes, water, 11.2x2.2x8.6 meters © Sigalit Landau. Courtesy the artist and Kamel Mennour, Paris

Un altro Padiglione che ho trovato decisamente interessante è quello israeliano, inaugurato dal Nobel per la Pace Shimon Peres. Ormai da qualche edizione Israele ci ha abituato a vedere un’ottima arte all’interno dell’edificio realizzato da Zeev Rechter in stile modernista, inaugurato nel 1952. Dopo Uri Katzenstein (2001) e Michal Rovner (2003), solo per citarne alcuni, quest’anno spetta a Sigalit Landau, nata a Gerusalemme nel 1969, il compito di stupire con un susseguirsi di installazioni e video dal contenuto fortemente simbolico. L’artista, che vanta un curriculum di tutto rispetto vedendola vincitrice del Wolf Fund Anselm Kiefer Prize nel 1995 e protagonista di una personale al MoMA di New York nel 2008, ha realizzato per questi spazi un lavoro complesso in cui l’acqua, la terra e il sale diventano metafore del corpo e dell’esistenza umana. Il progetto si intitola One Man’s Floor Is Another Man’s Feelings, ovvero “il pavimento di un uomo è il soffitto di un altro”. Un modo di dire che sta a significare come qualsiasi gesto o decisione abbia inevitabilmente delle conseguenze non solo per se stessi ma anche per l’ambiente che ci circonda, evocando l'interdipendenza degli esseri umani e la condivisione delle ricchezze. Una frase, questa, che mi è ronzata in testa per tutto il tempo della mia permanenza a Venezia, maturando l’idea che probabilmente sarebbe stato il titolo giusto per la Biennale e che sicuramente non avrebbe gradito Vittorio Sgarbi, ma questa è un’altra storia. Tornando al lavoro progettato dalla Landau, che si struttura su tre livelli dentro e fuori il padiglione, con un ampliamento nel cortile, al piano terra il visitatore è immerso in uno ambiente molto simile ad una sala macchine, in cui grandi tubature regolate da un sistema di orologi occupano tutto lo spazio fino a “sfondarlo”, facendo breccia su uno dei muri. Come spiega Ilan Wizgan, curatore della mostra insieme a Jean de Loisy, l’acqua che fluisce all’interno di questi tubi, non è visibile ma viene percepita dai leggeri rumori che emette. L’installazione, oltre a voler essere un chiaro monito alla violazione degli equilibri ecologici e la distribuzione delle risorse tra le nazioni, rimanda metaforicamente al funzionamento del corpo umano. Così come una sala macchine è in genere uno spazio nascosto e fintanto che continua a lavorare correttamente non siamo né consapevoli né esposti ad esso, allo stesso modo l’uomo prende coscienza del proprio corpo, del sangue che scorre nelle vene e del funzionamento degli organi vitali, solo nel momento in cui si prova dolore o si contrae una malattia. Del resto è la stessa tradizione ebraica a suggerire un confronto tra uomo e ambiente: “Ogni cosa che il Santo ha creato nel mondo, Egli l’ha creata nell’uomo … Bestie nel mondo, microrganismi nell’uomo … Venti nel mondo, e il soffio del respiro … Acque che scorrono nel mondo, il sangue nelle vene … L’acqua salata nel mondo, e l’acqua salata delle lacrime […]”1.

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Rabbi Yossi della Galilea, in Daniela Abravanel, La Cabalà e i Quattro Mondi della Guarigione, Mamash Edizioni Ebraiche, Milano 2011.


È probabilmente questo uno degli aspetti che più mi affascinano dell’arte israeliana, il saper mescolare tradizione e innovazione nella realizzazione di lavori impregnati di una memoria storica collettiva che invita alla riflessione, pur non scadendo mai nel citazionismo. Proseguendo il percorso, da un lato si scorge un lavoro video proiettato sul pavimento. L'opera raffigura un gruppo di persone che gioca a Paesi, segnando un cerchio sulla sabbia e dividendo il territorio tra di loro. Il lavoro di Sigalit Landau è da sempre profondamente legato alla sua terra. Ad esempio, l’artista ricorre spesso al Mar Morto come elemento simbolico. Il lago, che si trova nella parte più profonda della terra tra Israele, la Cisgiordania e la Giordania, e caratterizzato da acque troppo salate che non consentono alcuna forma di vita, permette a Landau per queste sue stesse peculiarità di trattare argomenti che vanno dalla geopolitica alla memoria, dalla filosofia alla mistica ebraica. Dopo Dead See2, celebre video del 2005 in cui l’artista fluttua immobile all’interno di una spirale di angurie galleggianti il cui succo dolce e rosso si mischia con le acque salate, e Barbed Hula3, video in cui viene eseguita una danza hula hoop con un anello di filo spinato che, per il fatto stesso di farlo muovere, produce inevitabilmente delle ferite; ancora una volta troviamo come protagonista il mare che unisce e separa nella sua caratteristica, direi amniocentica, di un luogo‐non luogo. Da sinistra: Sigalit Landau, Salted Lake (Salt Crystal Shoes on a frozen Lake), 2011. HD‐Video, 11:04; Salt Bridge Summit, 2011. 12 Channels Video & sound installation, 300 cm round wooden table, 12 laptops, with “Laces” video. © Sigalit Landau. Courtesy the artist and Kamel Mennour, Paris

Tornando al percorso espositivo, la scala a chiocciola conduce poi il visitatore al piano superiore dove lo spazio è interamente dedicato a un video che viene proiettato su una parete diagonale. Nel film appaiono in primo piano un paio di scarpe coperte di sale cristallizzato e distese su un lago ghiacciato della Polonia. Dopo un lento processo di fusione, le scarpe scavano nel ghiaccio fino a cadere nel buco che hanno creato. Il senso di malinconia, la perdita di controllo e persino il collasso fisico, che porta a non avere più "la terra sotto i piedi", è strettamente legato all’oggetto‐simbolo delle scarpe, feticcio che ritroviamo come leit motiv in tanta arte contemporanea, da Van Gogh a Warhol, da Magritte a Kosuth. Il piano di mezzo è stato volutamente scelto come luogo per l'installazione centrale della mostra costituita da una tavola rotonda. Su di essa sono appoggiati 12 computer che mostrato scene di un film in cui una bambina si nasconde sotto quello stesso tavolo per legare insieme i lacci delle scarpe degli astanti mentre questi sono impegnati in un dibattito. L’atto compiuto dalla bimba vorrebbe esortare alla risoluzione del problema di cui si sta parlando in ebraico, in arabo e in inglese con gli accenti tipici, che ha per tema la costruzione di un ponte salino che collegherà la parte israeliana del Mar Morto sul lato giordano. Ciononostante i presenti riescono a liberarsi dalle scarpe e fuggire a piedi nudi. Il problema, dunque, non è stato risolto e non si è giunti ad un compromesso. Continuando la visita nel Padiglione giungiamo nel cortile, dove è presente un’installazione caratterizzata da un cerchio di scarpe di bronzo legate ancora una volta l’una a l’altra. Dodici paia (come il numero delle tribù d'Israele) sono impiegate dall’artista come metafora del vagabondaggio e della fuga, ma anche della memoria nella sua inevitabile declinazione al tema della Shoah. 2

Ruth Cats (a cura di), AS IS. Arte israeliana contemporanea, Gangemi Editore, Roma 2008. Catalogo della mostra realizzata al Complesso del Vittoriano di Roma nel dicembre 2008‐gennaio 2009. 3 Entrambi i video, Dead See (2005) e Barbed Hula (2000), sono stati presentati al MOMA di New York nel 2008 durante la mostra Projects 87, a cura di Klaus Biesenbach.


A dirla tutta i lavori che mi hanno convinto in questa Biennale, staccandomi volutamente dal tema tracciato dalla Curiger che ha dato al mio peregrinare tra “Illuminazioni” varie una colonna sonora che canticchiavo tra me e me, riadattando una canzone di Zucchero a “Bice che dice boh, Bice che dice boh boh!”; ebbene le opere che mi hanno colpito maggiormente sono proprio quelle in cui appare centrale il concetto di memoria intesa come passaggio testamentario che scandisce lo scorrere del tempo. Un esempio fra tutti è il Padiglione Germania in cui l’artista Christoph Schlingensief, stroncato dal cancro nel 2010 all’eta di 49 anni, ha lasciato come eredità al pubblico un progetto, poi realizzato dalla curatrice Susanne Gaensheimer e dai suoi collaboratori che hanno avuto il merito di reinterpretarlo trasformandolo in una considerazione collettiva del suo lavoro. Christoph Schlingensief, premiato con il Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale, dagli anni Ottanta era attivo oltre che come artista anche come regista cinematografico, di teatro, di happening e d’opera, abbattendo qualsiasi tipo di confine artistico. Nella sala principale del Padiglione, dove appare il palco dell’oratorio Fluxus, si può udire la testimonianza sonora dell’artista in cui spiega la sua lotta contro il cancro e il proprio vissuto. La sua voce, spesso interrotta dal pianto e dalla disperazione, è una deposizione tragicamente poetica e realisticamente drammatica che ci permette di riflettere sulla nostra condizione umana. Da sinistra: Christoph‐Schlingensief, Installazione Padiglione Germania; Jorinde Voigt, Nexus, 2010. Due disegni dell’installazione presentata al Future Generation Art Prize @ Venice – Ukrainian Collateral Event on the 54th Venice Biennale / Palazzo Papadopoli. Courtesy David Nolan Gallery, New York, USA & Jorinde Voigt

Vorrei concludere questo mio breve percorso manifestando il mio grande rammarico di non aver avuto il tempo di vedere gli eventi collaterali della Biennale. Mi riferisco in particolare alla mostra di Anselm Kiefer alla Fondazione Vedova, la mostra curata da Caroline Bourgeois con le opere della collezione di François Pinault a Punta della Dogana e Palazzo Grassi, la mostra di Pino Pascali a Palazzo Bianchi Michiel, la mostra di Dmitri Prigov (che per altro ho avuto la fortuna di conoscere personalmente qualche anno fa al MLAC) a Ca’ Foscari. Tutti eventi che, mi riferiscono, valeva la pena di vedere e che probabilmente avrei dovuto scegliere al posto del Padiglione Italia. Ciononostante sono riuscita a visitare la mostra dedicata a Ileana Sonnabend alla Fondazione Peggy Guggenheim in cui c’erano pochi pezzi (già visti) di qualità, e il Future Generation Art Prize del Pinchuk Art Centre a Palazzo Papadopoli, in cui era presente l’eccellenza della giovane ricerca artistica internazionale. 19 artisti, provenienti da 18 Paesi, si sono contesi il premio a colpi di installazioni, video e dipinti offrendo un loro punto di vista complesso e dinamico sui mutamenti del contesto culturale in un mondo globalizzato. Mentre l’artista cinese Cao Fei lavora sul concetto di realtà digitale, lo svedese Runo Lagomarsino, presente con l’installazione Horizon caratterizzata da una linea orizzontale dipinta su fogli di carta uniti da mollette, sviluppa un concetto che ruota intorno al contesto storico, politico e geografico che egli stesso continuamente ricontestualizza. Tra gli altri artisti presenti va menzionato anche il nostro Nico Vascellari e il raffinatissimo lavoro della tedesca Jorinde Voigt che ha presentato sette disegni giganteschi realizzati con matite e inchiostro su carta in cui viene sviluppato un sistema di infinite strutture formate da segni sottili che provengono dall’osservazione di alcuni processi culturali come la musica, fenomeni naturali come l’elettricità e il vento, e processi irreversibili come le catastrofi sismiche.


Termino così la mia cronaca, forse un po’ sfilacciata, sulla Biennale di Venezia, parlando anche se brevemente di una nuova generazione di artisti che, si spera, possano condurci verso un fare critico che non si limiti nel giudicare superficialmente, ma inviti ad una riflessione più profonda dello stato dell’arte.


54° Esposizione Internazionale d’arte – La Biennale di Venezia Il dispotismo illuminato tra comunità e nazioni di Veronica Gaia di Orio Sotto il titolo “Biennale di Venezia” si celano oggi diverse realtà autonome e tra loro non interconnesse: la mostra internazionale, i padiglioni nazionali e gli eventi collaterali. La mostra internazionale è affidata ad un curatore che viene nominato dalla Fondazione Biennale di Venezia esattamente un anno prima dell’inizio dell’edizione. Il curatore dunque ha piena autonomia riguardo la scelta dell’impostazione tematica, degli artisti e dell’allestimento, nonché sulla struttura del catalogo. I padiglioni nazionali sono gestiti direttamente dai Ministeri della Cultura, dai Ministeri degli Esteri o da organi preposti alla diffusione culturale all’estero (come il British Council e l’Institut Francais) delle diverse nazioni. Questi enti nominano un commissario ed un curatore: entrambi sono informati in anticipo (ad autunno) sul tema della mostra internazionale, ma, godendo di piena autonomia decisionale, questo ha ben poca rilevanza su quelle che saranno le loro scelte finali. Infine gli eventi collaterali sono presentati da enti non profit di tutto il mondo (associazioni culturali, università, musei): la loro candidatura è sottoposta al giudizio del curatore della mostra internazionale che decide quali ammettere nella programmazione. Questo breve accenno, forse pedante per gli addetti ai lavori, restituisce con evidenza un dato: la Biennale di Venezia è un’organizzazione complessa, che possiede diverse anime al suo interno. L’unico elemento unificante per le varie esposizioni è uno: la città di Venezia. La mappa della Biennale infatti non si limita all’Arsenale e ai Giardini, ma coincide con la cartina di tutto il centro storico, dove è possibile rintracciare molti padiglioni nazionali e tutti gli eventi collaterali. La città dunque introietta questa trama di eventi che divengono nuovi “canali” della laguna in cui scorrono veloci idee, mostre, performance, dibattiti: l’arte contemporanea crea flussi istantanei, rapidi e inaspettate relazioni. Per poter partecipare occorre essere all’interno e, in una certa misura, esserne trasportati. In uno dei saggi del catalogo di questa edizione (la cinquantaquattresima), scritto da Beat Wyss e Jorg Scheller, si avanza l’ipotesi che la Biennale di Venezia, aspirando a rappresentare la cultura globale, sia il nuovo “sublime” kantiano in grado, con la sua potenza e grandezza, di spiazzare l’uomo, esercitando su di lui un’attrazione mista a repulsione, e, successivamente, di portarlo a riflettere su se stesso. “Le grandi esposizioni internazionali riflettono una condizione assai concreta che si potrebbe definire come ‘sublimità del globale’. (...) La Biennale di Venezia è gemella della globalizzazione così concepita. Attraverso la mimesi, rimanda a ciò che non può essere né contemplato individualmente né compreso concettualmente nella sua interezza. Rappresenta ciò che non può essere rappresentato. Nell’insieme il suo eccesso di visibilità si trasforma paradossalmente in invisibilità, come una luce abbagliante che acceca.” 1 Molto interessante, soprattutto se pensiamo che il titolo dell’esposizione internazionale curata da Bice Curiger è “ILLUMInazioni”. Tutto il catalogo, che vorrei precisare è un’opera a se stante rispetto alla mostra, ci riporta in effetti al secolo dei lumi: “Anche se negli ultimi anni sono state rivolte molteplici critiche all’idealizzazione della razionalità illuministica e a pratiche cognitive specificatamente europeo‐occidentali, valeva e vale comunque la pena di continuare a celebrarle e a salvaguardarle, non da ultimo anche nel campo di battaglia in cui infuria il dibattito sui diritti umani.”2 Da una parte dunque l’illuminismo, con la sua “fede” nella ratio, dall’altra il romanticismo con il ritorno alla religiosità e allo “spirito della nazioni”. Questo è il vero tema prescelto per l’attuale edizione della Biennale di Venezia, tema che è possibile cogliere solo acquistando il catalogo dove compaiono con assiduità le categorie estetiche di classico/romantico; bello/sublime; visibile/non visibile; rappresentabile/non 1

Beat Wyss, Jorg Scheller, Il Bazar di Venezia, in La Biennale di Venezia ‐ 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011. 2 Bice Curiger, ILLUMInazioni, in La Biennale di Venezia ‐ 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011.


rappresentabile. Bice Curiger ha di fatto unito, esclusivamente a livello concettuale, la sua mostra con gli “anacronistici” padiglioni: il tema della nazione è e rimane molto scomodo per un curatore internazionale, ma si può proporre il termine di “comunità” al posto di quello di nazione, parlare della Biennale come di “una manifestazione che celebra la più recente arte contemporanea, e pertanto l’eterno presente, su uno sfondo storico autoritario”3, presentare una grande immagine di Hitler che visita i Giardini.

Hitler visita La Biennale di Venezia, 1934 © La Biennale di Venezia – Archivio Storico delle Arti contemporanee.

Gli artisti sono nomadi, acquisiscono diverse identità, spesso condividono con il proprio paese solo un passaporto, ma (aggiungerei purtroppo) la struttura della Biennale è divisa per padiglioni nazionali la cui presenza (che non è possibile eliminare) diviene “un monito. Mi permette di non dimenticare il corso della storia e specialmente la storia nazionale”4. I padiglioni dunque come elementi ingombranti, ma utili a ricordare la storia italiana, o meglio, la sua fase più cupa (sappiamo molto bene, come del resto anche Bice Curiger, che la costruzione dei primi padiglioni nazionali risale al 1907, quando venne edificato quello belga, e non al fascismo). È in questo punto che si situa l’altro tema della 54 mostra internazionale di Venezia: la luce. Da una parte il buio dei padiglioni nazionali, vittime della loro storia, dall’altra la luce che rischiara la mostra internazionale, dove possiamo “continuare a celebrare” i principi etici dell’illuminismo, e, nello stesso tempo, essere “ispirati” dagli artisti, dando loro la possibilità di erigere i “parapadiglioni”. Oscar Tuazon, Franz West, Song Dong e Monika Sosnowska sono stati invitati dalla curatrice a costruire delle strutture di natura scultorea‐architettonica che ospitassero opere di altri artisti. Franz West ha ricreato l’ambiente della sua cucina‐studio viennese ponendo opere dei suoi amici artisti all’esterno (tra cui uno specchio di Pistoletto che, in questa edizione, avrà la sorte di rimanere integro): il nome del parapadiglione è infatti Extroversion. Song Dong ha ricostruito l’antica casa dei suoi genitori a Pechino, aggiungendo due piani in alto: apprendiamo che in Cina non è concesso ampliare l’altezza delle abitazioni se non per costruire spazi dedicati ai piccioni viaggiatori, che, infatti, vengono acquistati appositamente per lo scopo. Il mio senso del grottesco prevale sul fascino melanconico dell’opera, facendomi riflettere su quanto sarebbe conveniente avere piccioni e non condoni in Italia. 3

Bice Curiger, ILLUMInazioni, in La Biennale di Venezia ‐ 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011. 4 A present stepped in History – Bice Curiger on Curating the Biennale, Intervista rilasciata da Bice Curiger a Paul Ardenne in “Artpress”, supplemento al No 379, giugno 2011.


Da sinistra: Parapadiglione di Song Dong– Disegno dello spazio centrale, 2011 © Song Dong, Courtesy of The Pace Gallery, Beijing; Monika Sosnowska, Modello di Antechamber, 2011, Foto di Monika Sosnowska ©Courtesy the artist, Foksal Gallery Foundation, The Modern Institute, Galerie Gisela Capitain, Kurimanzutto, Hauser & Wirth.

Il parapadiglione di Monika Sosnowska (Antechamber) si presenta come una stella rivestita di comune carta da parati: al suo interno compare la serie Ex‐offenders di David Goldblatt in cui l’artista, di origine sudafricana, ha fotografato ex‐detenuti nella scena dove hanno commesso i propri crimini. Un breve testo si pone come didascalia o meglio come un racconto in prima persona. Torniamo al catalogo: le pagine dedicate ai parapadiglioni sono stampate su una carta diversa, di colore verde e, ovviamente, sono collocate tra la fine della sezione dedicata alla mostra internazionale e l’inizio di quella dedicata ai padiglioni nazionali. Nella pagina dedicata a Monika Sosnowska è scritto, in caratteri direi ben visibili “gli artisti usano questi contesti per negoziare nuove forme di comunità e indicano che esistono voci diverse da quella del curatore”. “Para‐padiglioni”: al di là, oltre i padiglioni. Mentre i padiglioni nazionali scontano la memoria di una storia “autoritaria” e le scelte di “grigi” ministeri vengono imposte agli artisti, in ILLUMInazioni essi sono liberi di costruire strutture “private”, di “dimensione familiare” e, nello stesso tempo, di costituire le “comunità”, instaurando dialoghi privilegiati solo con altri artisti. Tra questi compare, a sorpresa, Tintoretto, scelto per la sua “energia pittorica assolutamente anticlassica”5 o, meglio, per il suo essere un emarginato: “gli emarginati ispiratori acquisiscono rilievo mettendo in discussione le certezze del discorso mainstream orientato al consenso.”6 La lunga e tediosa tavola rotonda sul nostro artista veneziano del Cinquecento si conclude con un intervento di Corinne Wasmuth: “Tintoretto rispose forse alle esigenze del mercato, ma in confronto ai suoi colleghi non divenne molto ricco.”7 Bene, ora la presenza di Tintoretto è più che giustificata: emarginato, moderato nell’arricchirsi con le proprie opere e infine, non dimentichiamolo, pittore della luce. Esiste davvero un dialogo tra gli artisti presenti in mostra e questo grande artista del passato? Certo, afferma Bice Curiger, basti osservare l’opera di James Turrell (Ganzfeld APANI): dopo aver tolto le scarpe e indossato degli appositi “copri‐piedi” (tralascio i commenti sulle file, del resto siamo al vernissage) sono entrata in una stanza completamente vuota, inondata da fasci di luce colorata cangianti che si oscurano gradualmente. Confesso di non aver provato “un’esperienza estetica o spirituale” (come viene definita in catalogo), ma, al contrario, un dubbio: quale rimando così sottile mi è sfuggito tra questa stanza e Tintoretto? Stessa impressione anche per l’opera di Nicholas Hlobo, artista che ho ritrovato (senza stupore) anche nella mostra presso Palazzo Grassi Il mondo vi appartiene (curata da Caroline Bourgeois), dove sembra di essere 5

Bice Curinger, ILLUMInazioni, in La Biennale di Venezia ‐ 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011. 6 Ibidem. 7 Jacopo Tintoretto (1518‐1594): una discussione dalla prospettiva contemporanea. Tavola Rotonda su Tintoretto con Carolin Bohlmann, Diedrich Diederichsen, Corinne Wasmuht, Bice Curiger in La Biennale di Venezia ‐ 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011.


tornati di colpo alla storica esposizione del 1989 Magiciens de La Terre: una stanza è dedicata, allora come oggi, al confronto tra Alighiero Boetti e Frederic Bruly Bouabré. Del resto il nome di questa mostra sembra riecheggiare in questa Biennale e non solo perché il suo curatore (Jean Hubert Martin) ha curato il padiglione francese, ma soprattutto nell’impostazione del catalogo: sia in quello di Magiciens de La Terre che in questo della Biennale vengono poste a tutti gli artisti presenti in mostra le stesse domande. Nel nostro caso abbiamo due novità importanti: gli artisti degli eventi collaterali sono considerati “silenti” e le domande non sono generiche sull’arte, ma insistono sull’ormai divenuto odioso concetto di nazione. La prima “la comunità artistica è una nazione?” è un utilizzo evidente del “repetita iuvant”: non solo tutti i saggi insistono sul concetto di comunità, ma ora anche gli artisti devono rendere conto di questa particolare visione. Visione che ha il merito di essere davvero democratica e, finalmente, di elargire un po’ di libertà (almeno di parola) agli artisti dei padiglioni nazionali. Ahmed Basiouny, artista del padiglione egiziano, non ha potuto rispondere: è morto durante gli scontri di Piazza Tahrir, il 28 gennaio del 2011 per ottenere “libertà, uguaglianza e fratellanza.” Nel padiglione infatti sono proiettati i video della sua ultima performance e quelli, girati personalmente dall’artista, che riprendono gli scontri della rivoluzione egiziana.

Da sinistra: Veduta generale del Padiglione Egiziano con i video di Ahmed Basiony, Foto di Veronica Gaia di Orio; Still dal video di Ahmed Basiony girato durante le rivolte in piazza Tahir il 25 gennario 2011, Foto di Veronica Gaia di Orio

I due artisti del padiglione americano, Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, non hanno risposto: forse il suono dell’organo che funziona solo con un bancomat inserito (Algorithm) e il frastuono del carro armato ribaltato che funziona come un tapis roulant (Track and Field) gli hanno impedito di sentire le domande.

Da sinistra: Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, Algorithm, 2011, Foto di Veronica Gaia di Orio; Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, Track and Field, 2011, Foto di Veronica Gaia di Orio.


Il padiglione danese ha deciso di ospitare una mostra internazionale dedicata proprio alla libertà di parola e così è stato: Robert Crumb ha affermato di non “gradire” la tipologia di domande che gli vengono presentate. Mike Nelson, artista del padiglione inglese, ha risposto dal buio del suo ambiente, o meglio, dalla luce rossa di una camera oscura. Nelson ha trasformato l’intero padiglione britannico in una serie di stanze, di corridoi, di oggetti da lavoro disseminati a terra, di tappeti consunti: sono le stanze del Büyük Valide Han, un caravanserraglio di Istanbul del XVII secolo che è oggi occupato da laboratori di artigiani tessili. È proprio in queste stanze che Nelson, per la Biennale di Istanbul del 2003, aveva realizzato l’opera Magazin: Büyük Valide Han: una camera oscura abbandonata, con delle foto della città di Istanbul e dell’edificio stesso. L’artista ha ricostruito questo suo precedente intervento (utilizzando, come materiale di quell’installazione, solo le fotografie) e, nello stesso tempo, ha creato anche l’ambiente in cui era posto (il Büyük Valide Han) all’interno del padiglione britannico. La Biennale di Istanbul è giunta, per la prima volta, nella Biennale di Venezia. “Ad un livello il lavoro evidenzia la diffusione delle biennali d’arte come istituzioni. L’esportazione ad est di questo modello culturale è sottolineato da una biennale dell’Est che ritorna ad Ovest, al punto di origine dell’istituzione”.8

Vedute dell’installazione di Mike Nelson, I, Impostor, Padiglione della Gran Bretagna, Foto di Veronica Gaia di Orio

Ad un altro livello è la storia personale di Mike Nelson che è profondamente legato ad Istanbul, città che ha visitato più volte, sperando di ritrovare ogni luogo già percorso; “La città è divenuta un indicatore della mia stessa vita: io ritorno, lei è cambiata e lo sono anch’io. Ci incontriamo di nuovo ogni volta”.9 Infine, come non cogliere la storia stessa della città di Venezia in rapporto all’Oriente, le sue conquiste, le rotte, i commerci, le dogane (tra cui Punta della Dogana che ora ospita il Museo di Pinault) in cui arrivavano le merci dall’est? Questi padiglioni nazionali, che ritengo i più interessanti, non sono affatto “anacronistici”: in loro il rapporto con la storia si incarna nel presente e diviene esperienza traumatica di rivoluzioni, riflessione cinica sulla “democrazia” da esportare, difficile espressione della non libertà di espressione e infine svelamento dello statuto stesso delle Biennali, unito ad una rielaborazione personale dell’anima di due città. La ratio illuminista si è trasformata in Fede di poter indurre associazioni: la luce, il sublime, il “domestico”, e infine Tintoretto, un passato imposto agli artisti e pietrificato in un catalogo. Lo “sfondo autoritario” di questa Biennale non è dato dai padiglioni nazionali (dai fantasmi del fascismo e dal concetto di nazione, di razza, di confine), ma si colloca in un dispotismo illuminato che concede il formarsi di comunità ristrette tra artisti, ma non il libero confronto con la cultura, con la storia e con le realtà contemporanee.

8

Mike Nelson in Host Pavillon / Guest House / Han. An Interview with Mike Nelson, Rachel Withers and Guests in Catalogo del Padiglione Britannico, 54° Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, British Council, Londra, 2011 9 Ibidem.


2011, ovvero la Biennale delle (scarse) illuminazioni. Di Alessandra Troncone A quasi un mese dall’opening sono già stati spesi fiumi di inchiostro su questa 54 edizione della Biennale di Venezia. Senza contare gli innumerevoli pamphlet avvelenati che hanno bersagliato il nostro Padiglione, ormai al centro di ogni conversazione che abbia per oggetto la kermesse lagunare. Al di là delle critiche che hanno accompagnato il Padiglione Italia sin dalla nomina del curatore, c’è da constatare – non senza una punta di amarezza – che la mostra internazionale di Bice Curiger non si presta a fare da buon contrappeso in termini di qualità. In due parole, se le aspettative riposte in quest’ultima erano di gran lunga superiori a ciò che ci si aspettava di vedere nella mostra sgarbiana – che già si annunciava per quello che effettivamente è stata –, se all’Arsenale e ai Giardini eravamo pronti a vedere qualcosa di più, o meglio, ad avere una qualche illuminazione, tutto questo non è successo, fatta eccezione per pochi, singoli casi. Il titolo scelto dalla Curiger per la sua prova in Laguna fa riferimento alla possibilità di gettare luce sulle ricerche dell’arte attuale ma anche sull’istituzione stessa, come annunciato in catalogo. Il suffisso “nazioni” richiama invece la specificità della manifestazione veneziana, ovvero quella delle presenze nazionali. Così la mostra “non intende promuovere una singola visione, bensì esporre la pluralità dei punti di vista attuali presenti in questo luogo”. L’introduzione è chiara, talmente chiara da apparire scontata. Ci dirà qualcosa di più a seguire? Purtroppo il testo in catalogo, al pari della mostra, perde proprio l’occasione di “aggiungere” qualcosa. Il problema della complessità culturale viene sfiorato ma mai approfondito, così come il rapporto tra il contemporaneo e l’antico, incarnatosi nella scelta di portare in mostra le tre splendide tele di Tintoretto, pittore della luce per eccellenza. La biennale di Daniel Birnbaum era stata quella del politically correct, precisa e godibile seppur mai “sconvolgente”; qui viene a mancare anche quello scarso mordente intravisto nella passata edizione, impressione rilevata in mostra ma confermata poi proprio dal testo in catalogo, che appare svuotato di qualsiasi slancio critico‐teorico. ILLUMInazioni rimanda – come ci dice sempre la curatrice – sia all’Illuminismo come trionfo della ragione, sia all’illuminazione che, al contrario, è “riconoscimento intuitivo, epifania”. Una compresenza di opposti che si concilia a fatica; il risultato finale è una mostra che non appare né particolarmente illuminata né tantomeno illuminante. Dunque una biennale che si fa sfuggire l’occasione di essere LA mostra per essere “solo un’altra mostra” – per citare l’efficace titolo di un testo da poco pubblicato per i tipi Postmediabooks (Just Another Exhibition, a cura di F. e V. Martini) – cui non spetta il merito di aggiungere qualcosa sulla situazione attuale. Una delle possibili cause di tale esito è il fatto che alcuni dei lavori scelti per la mostra non siano il meglio che ci si aspetterebbe dall’artista invitato; l’intramontabile Cindy Sherman convince meno nella sua declinazione bucolica, il gigantesco uccello‐vampiro di Nicholas Hlobo sembra il fratello minore (in termini di ingombro “concettuale” e non fisico) di un’installazione dello stesso Hlobo presentata a Palazzo Grassi nella mostra Il mondo vi appartiene. Il ratto delle Sabine di Urs Fisher è di certo suggestivo, ma l’intervento a Palazzo Grassi non è da meno, anzi; l’illusione di una stanza allestita che si rivela essere solo carta da parati sembra funzionare meglio della pedissequa applicazione dell’idea di luce annunciata dal titolo della Curiger, dimostrando che il sensazionalismo può essere perseguito in modo meno didascalico. Visto il bicchiere mezzo vuoto, proviamo ora a vederlo mezzo pieno: cosa resterà – o potrebbe restare – di questa 54 Biennale? Forse i silenziosi ma ingombranti piccioni di Maurizio Cattelan, diventati colombe nella descrizione “edulcorata” in catalogo. Sicuramente la presenza di due italiani d’eccezione, Luigi Ghirri e Gianni Colombo, entrambi ai Giardini. Colombo in particolare, con il suo Spazio elastico del 1967, funziona bene da preambolo alla sala dove la


curatrice ha voluto portare tre opere di Tintoretto. È uno dei pochi guizzi che si coglie nel dialogo cercato tra il grande maestro veneto e il dipanarsi delle ricerche contemporanee, insieme alla presenza delle vedute veneziane di Pipilotti Rist, un trionfo di luci, colori e suoni che rende visibile la stratificazione “temporale”. A dialogare con Pipilotti poteva esserci idealmente Canaletto… perché non “invitare” anche lui? Da sinistra: Maurizio Cattelan, Others, installazione nel Padiglione centrale dei Giardini. Foto: Alessandra Troncone; Pipilotti Rist, Non voglio tornare indietro (Ospedale), 2011, video projection on veduta oil painting “Anonymous Venetian Master (Apollonio Domenichini?): Veduta with Canal Grande with Santa Maria di Nazareth, Santa Lucia and Scuola dei Nobili”, Museum Langmatt, Stiftung Langmatt Sidney und Jenny Brown, Baden/Switzerland (detail) Courtesy the artist, Hauser & Wirth and Luhring Augustine, New York

Altro punto a favore della Curiger è l’introduzione dei parapadiglioni, strutture concepite da artisti che “mirano a dinamizzare la presentazione rinunciando alla consueta narrazione additiva”. Monika Sosnowska, Franz West, Song Dong, Oscar Tuazon, hanno proposto mini architetture per dar spazio all’opera di altri artisti; tra i più riusciti quello della Sosnowska, ospitante l’installazione sonora di Haroon Mirza e gli intensi scatti fotografici di David Goldblatt, un documentario sulla città di Johannesburg raccontata attraverso i suoi paesaggi e la sua gente. La riuscita del parapadiglione va letta in relazione alla fortunata sintesi arte‐architettura, che si ritrova anche in molti padiglioni nazionali: quello austriaco di Markus Schinwald, quello greco di Diohandi, quello inglese di Mike Nelson, fino al progetto visionario del prematuramente scomparso Christoph Schlingensief, che ha trasformato il padiglione tedesco in una enorme chiesa laica. Tutti esempi di una profonda reinterpretazione dello spazio espositivo dato. Altri artisti nella mostra della Curiger hanno proposto soluzioni simili seppur non espressamente pensate come parapadiglioni: è il caso dello svizzero Fabian Martì, dove però il percorso interno della struttura si rivela funzionale alla presentazione di un video dello stesso artista. Da sinistra: Monika Sosnowska, The model of “Antechamber”, 2011. Photo Monika Sosnowska © Courtesy the artist, Foksal Gallery Foundation, The Modern Institute, Galerie Gisela Capitain, Kurimanzutto, Hauser & Wirth; Christoph Schlingensief, Padiglione


Tedesco, Eine Kirche der Angst vor dem Fremden in mir, 2011, Modell Foto: (c) Roman Mensing, artdoc.de in Zusammenarbeit mit Thorsten Arendt, artdoc.de

Cos’altro resterà di questa Biennale? Senz’altro la presenza degli inglesi, vincitori su tutta la linea a cominciare dal Leone d’Oro Christian Marclay. The Clock è una di quelle opere geniali che riattualizza la pratica del montaggio in funzione di una riflessione sul tempo, portando a coincidere quello “finto” dello schermo con quello reale di fruizione e risultando nel contempo un film avvincente, dal ritmo serrato seppur mai esplicitamente narrativo. Sempre in mostra all’Arsenale, Nick Relph presenta Thre Stryppis Quhite Upon ane Blak Field, video che gioca sulla sovrapposizione di tre documentari: il primo dedicato all’artista Ellsworth Kelly, il secondo al tartan (particolare disegno dei tessuti in lana delle Highland scozzesi) e il terzo allo stilista Rei Kawakubo. Le immagini si sovrappongono così in un caleidoscopio di colori psichedelici, insistendo sulla capacità di evocare assonanze visive pur nella diversità dei contenuti trattati. Altro inglese d’eccezione è Mike Nelson il quale, nel padiglione della Gran Bretagna, porta lo spettatore a perdersi tra porticine, tavoli da lavoro e improvvisate camere oscure, ridisegnando lo spazio in funzione di un percorso a tratti onirico. Da sinistra: Christian Marclay, The Clock, 2010. Edition of 6. Single‐channel video. Duration: 24 hours. Credit for the images should read: Courtesy White Cube, London and Paula Cooper Gallery, New York. Courtesy of the artist; Mike Nelson, British Pavilion, 2011. Foto: Alessandra Troncone

Ora, dovendo guardare in casa nostra ‐ e non potendo rivolgerci al padiglione Italia per trovare qualcosa da salvare, se non altro per colpa dell’affastellamento da Salon ottocentesco – c’è una realtà estremamente interessante che, seppur partita in sordina (mediaticamente parlando) perché non attraversata dallo stesso sciame di polemiche, ha saputo attirare l’attenzione e la curiosità degli addetti ai lavori. Stiamo parlando del Padiglione delle Accademie alle Tese di San Cristoforo, frutto di una lunga preparazione che ha visto lavorare in sinergia i direttori delle 20 Accademie di Belle Arti italiane. Primo step, la selezione interna dei venti migliori diplomati degli ultimi 10 anni (2000‐2010), i cui curricula e portfolio sono stati inviati a Roma per un’ulteriore selezione ad opera di una commissione ad hoc. Il risultato è una mostra con all’incirca 150 opere che, al contrario del padiglione “ufficiale”, appare molto meglio strutturata; l’allestimento con pannelli centrali rende possibile e leggibile un percorso, la compresenza di tutti i media artistici (con piccole salette dedicate alle proiezioni video) si presta ad offrire una panoramica completa ed equilibrata delle direzioni verso le quali si muovono le ricerche dei più giovani, al punto che non pochi hanno suggerito una strategica inversione di padiglioni. Al di là del buon allestimento, molti degli artisti che si incontrano lungo il percorso sono già talenti riconosciuti e non sfigurano affatto nel contesto biennalesco.


Padiglione delle Accademie, da sinistra: Riccardo Albanese, Untitled, opera a parete, resina, 2008, cm 190x190x70; Matteo Fato, Luca stesa, Incisione calcografica, puntasecca su zinco, 1950x1000mm (lastra di zinco), 210x115cm (carta), 2005. Courtesy dell’artista; Luana Perilli, The Man of The Season (in loving memory of loving memories), still from stop motion video, 2007‐2010. Courtesy The Gallery Apart in cooprodution with Incontri Internazionali d'Arte and MACRO.

In ambito romano spiccano le presenze di Luana Perilli e Mariana Ferratto, già protagoniste di importanti mostre nella capitale. Le bellissime fotografie di Fatma Bucak, esposte all’ultima fiera bolognese nello stand di Alberto Peola, rimandano alle origini turche dell’artista, formatasi all’Accademia di Torino. Le bianche ali in resina di Riccardo Albanese (ri)portano all’Accademia di Napoli, così come il cupo paesaggio metropolitano di Christian Leperino e il trittico fotografico di Barbara La Ragione. Matteo Fato (Accademia di Urbino) presenta un’incisione di grandi dimensioni dove la tecnica tradizionale si sposa con un soggetto contemporaneo: Luca stesa. Le opere di William Marc Zanghi e di Carmelo Nicotra mostrano come la scuola pittorica palermitana conservi una sua continuità, trovando nuovi stimoli nelle ricerche dei più giovani. Infine, quasi alla fine del percorso espositivo, il video dalla pungente ironia di Laurina Paperina, Come uccidere gli artisti: Bruce Nauman colpito a morte da un clown, Ed Ruscha bruciato in un incendio in una pompa di benzina, Joseph Beuys mangiato da un coyote… un gioco che prende di mira i più grandi protagonisti dell’arte degli ultimi cinquant’anni, riportati “idealmente” a Venezia. Il Padiglione delle Accademie invita così a guardare cosa si muove nelle fucine della giovane arte italiana. Una nota di freschezza e di luce in una Biennale che, in fin dei conti e a discapito del titolo, è risultata ben poco “luminosa”.


54a Biennale. Allora&Calzadilla per l’America di Obama Di Elisabetta Cristallini Non c’è dubbio che la scelta del duo Allora&Calzadilla per il Padiglione degli Stati Uniti fatta da Lisa Freiman sia stata coraggiosa. Non c’è dubbio che anche l’aver chiamato l’IMA ‐ Indianapolis Museum of Art (con la sua curatrice senior che è appunto la Freiman) ad organizzare la mostra, sia stata una scelta altrettanto coraggiosa. L’Indiana è uno stato periferico e davvero poco amato dagli stessi americani che lo definiscono “fly‐over State”, cioè uno stato che si sorvola “coast to coast”, da est ad ovest, senza che qualcuno abbia voglia di atterrarvi, a meno che non sia appassionato di gare automobilistiche. La Freiman ha scelto Jennifer Allora, americana, e Guillermo Calzadilla, cubano, che vivono a Porto Rico, controverso territorio a sé, che si autogoverna, non incorporato agli Stati Uniti, neanche culturalmente, tanto che l’inglese viene insegnato come lingua straniera. E non è poco per un’America che è stata straordinaria perché ha voluto un nero come suo Presidente, ma ha poi preteso che esibisse il suo “long form birth certificate”, cioè il certificato di nascita completo, per avere la certezza che fosse davvero nato alle Hawaii, come ha sempre sostenuto, invece di chissà dove, magari fuori dai territori statunitensi. Come se non bastasse, il duo ha voluto titolare il padiglione Gloria, una parola che si scrive nello stesso modo in italiano e in spagnolo, la lingua del loro luogo di appartenenza. “Ci piaceva dare un nome femminile e in spagnolo – hanno detto – Tutte le opere sono marcate da uno spirito di attività critica e di profanazione”. Perché loro, che lavorano in coppia dal 1995, contaminando mezzi visuali, sonori, spaziali, dalla performance, alla musica, video, fotografia, scultura, oggetti ready made, sono soliti innescare una catena di associazioni metaforiche e metonimiche e relazioni concettuali e poetiche che fanno perno su temi relativi alla giustizia sociale, problemi della società consumista, temi geopolitici, come nazionalismo, confini, autorità, democrazia, globalizzazione, delocalizzazione. Ma il titolo Gloria, si riferisce anche, con indubbia ironia, al tipico spirito americano convinto con orgoglio, fino a non molto tempo fa, della grandezza militare, religiosa, economica, culturale, sportiva degli States. Da sinistra: Allora&Calzadilla, Track and Field, 2011; Armed Freedom Lying on a Sunbed, 2011; Body in Flight – Delta, 2011. Foto Elisabetta Cristallini

Così all’esterno del padiglione su un enorme carro armato militare rovesciato è poggiata la macchina con il tapis roulant per correre in palestra, dove ad intervalli regolari, nei giorni del vernissage, si sono esibiti alcuni atleti famosi, come Dan O’Brian, il quattro volte campione del mondo di Decathlon. Mentre il tapis roulant è in funzione, il cingolato sprigiona un rumore assordante di ferraglia quasi fosse in procinto di autodisgregarsi. Un chiaro messaggio antimilitarista per quest’opera, non a caso intitolata Track and Field, ironicamente esorcizzato con l’esibizione della maniacalità tutta americana del fitness e assolutamente al passo con i tempi, visto il recente desiderio espresso da Obama di ritirarsi dall’Afghanistan. Un tema analogo ricorre all’interno, dove all’ingresso ci accoglie una copia dell’ottocentesca Statue of Freedom, quella che sta sulla cupola del Campidoglio di Washington (la sede ufficiale del Congresso degli Stati Uniti e il cuore simbolico di tutta l’America dove vengono esibite le bare dei presidenti morti avvolte dalla bandiera). Con un gesto di duchampiana memoria, Allora&Calzadilla detronizzano la statua


neoclassica che qui giace su un lettino abbronzante, quasi fosse anch’essa in una bara. Un monumento simbolo decontestualizzato, dissacrato, umiliato alla consuetudine di un qualunque americano medio che sente il bisogno, per apparire in pubblico, di presentarsi in forma, bello e in salute. Nelle due sale simmetriche laterali delle comode poltrone, come quelle usate in business class sugli aerei di linea statunitensi, funzionano da trave d’equilibrio per i movimenti di straordinari ginnasti (anche qui è da segnalare la campionessa medaglia d’argento alle olimpiadi di Pechino 2008 Chellsie Memmel) che con coordinazione, fluidità e flessibilità perfetti compiono le loro elastiche piroette come se fossero nella loro palestra personale (Body in Flight‐Delta, Body in Flight‐American). È ancora una modalità per Allora&Calzadilla di marcare tanto la retorica nazionale dell’industria aerea, quanto le feticizzazione neoliberale degli affari e della finanza che si servono di businessmen.

Da sinistra: Algorithm, 2011; Algorithm, 2011; Half Mast‐Full Mast, 2011; Half Mast‐Full Mast, 2011. Foto Elisabetta Cristallini

Il tema della finanza riemerge in un’altra sala, interamente occupata da un gigantesco organo a canne che al posto della tastiera per essere suonato ha un vero e proprio bancomat: quando digitiamo i nostri numeri segreti per prelevare i soldi, l’organo inizia a suonare una musica specifica proprio per quella sequenza numerica (non a caso il titolo è Algorithm). Nell’ultima sala c’è un video, composto da due schermi sovrapposti, girato nell’isola di Vieques di fronte a Porto Rico. Ciascuno riprende un paesaggio differente, ma i siti evocano luoghi di vittoria o di sconfitta nella lotta dell’isola per la liberazione dall’esercito americano di stanza lì con la sua U.S. Navy fino al 2003. In più i due video sono collegati da un’asta dove a turno dei giovani si attaccano atteggiandosi a bandiera umana. È ancora un modo per Allora&Calzadilla di affrontare il tema del rispetto dell’identità dei luoghi e del rifiuto di ogni politica colonizzatrice. Lisa Freiman parla di “opere poetiche e sorprendenti” che ricordano “la frammentata, instabile e contraddittoria natura del mondo contemporaneo”. Ed ha aggiunto: “Sono interventi quasi surrealisti che intendono catapultarci in una contestazione delle narrative ufficiali. Tali gesti assurdi e paradossali ci implorano di riflettere sul rapporto tra arte, guerra, nazionalismo e competizioni atletiche”. Non c’è dubbio che Allora&Calzadilla con le loro sei oper‐azioni che toccano temi Politically Correct interpretino al meglio l’America di Obama, una nazione in declino, stremata dal debito pubblico, anche per i costi della sua politica neoimperialista, una nazione da ricostruire. “Riprendiamoci il Sogno americano”, ha appena invocato Barack Obama.


La spedizione attraverso l’arte di Fernando Prats Di Maria Giovanna Tumino Cercasi uomini per spedizione rischiosa, bassa paga, freddo pungente, lunghi mesi nella più completa oscurità, pericolo costante, nessuna garanzia di ritorno. Onori e riconoscimenti in caso di successo. Così l’esploratore irlandese Ernest Shackleton scrive nel 1911 in un annuncio per reclutare uomini per la sua spedizione antartica. Le stesse parole si leggono sulla parete esterna al Padiglione cileno della 54 edizione della Biennale di Venezia, in cui Fernando Prats parla del mondo dell’arte e del ruolo dell’artista, attraverso quelle parole, che si fanno luce e sembrano indicare una direzione. Il percorso creativo di Fernando Prats è composito e stratificato come le sue opere: nasce in Cile, vive in Spagna, si muove e indaga diverse realtà metropolitane, diverse geografie, è poeta e artista visivo, usa la parola, il disegno e la fotografia, diverse espressioni di comunicazione che nell’insieme compongono il suo linguaggio e nello stesso tempo ibrida culture diverse, come nel progetto portato in laguna per la 54 Biennale di Venezia dove gli sono state rivolte alcune domande. Gran Sur, 2011, Base Antartica Arturo Prats, Isola Greenwich. Tubo al neon, struttura in legno, cavo, alluminio e generatore di corrente. Dimensioni variabili, immagini courtesy Studio Pesci

Maria Giovanna Tumino: La sua partecipazione come unico artista all’interno del Padiglione Cileno che significato ha nel suo percorso di artista? Fernando Prats: La Biennale di Venezia rappresenta uno spazio di eccezione in cui mostrare il mio lavoro, ho anche avuto un grande supporto per realizzare e presentare Gran Sur, il mio progetto. Un esempio di questo percorso è stata l’installazione di Gran Sur nell’Isola Elefante ad Antartica. M.G.T.: Gran Sur è un’opera complessa e stratificata come tutti i suoi progetti. F.P.: Sì, il progetto che presento in Biennale, Gran Sur appunto, è un opera in cui sintetizzo in tre diverse parti tre diversi momenti di “condensazione del tempo”. Il primo è l’intervento realizzato per l’eruzione vulcanica nella città di Chaitén; il secondo è composto da una serie di disegni realizzati durante il devastante terremoto avvenuto in Cile nel febbraio del 2010; e infine l’installazione realizzata nell’Isola Elefante ad Antartica, con lettere al neon che recuperano il testo pubblicato dall’esploratore irlandese Ernest Shackleton nel 1911 per reclutare uomini per la sua missione esplorativa attraverso il Polo Sud.


Da sinistra: Grand Sur, 2011, installazione neon lettering, immagini courtesy Studio Pesci; Particolare del Lavoro sul terremoto che ha colpito le zone del centro sud in Cile, tele, immagini courtesy Studio Pesci; 03:34:17, Dichato 2010, Carta e detriti, dimensioni variabili, immagini courtesy Studio Pesci

M.G.T.: Il suo percorso artistico è strettamente legato alla sua vita. È una storia di viaggi e ricerche attraverso luoghi e culture diverse. F.P.: È vero, la mia opera si può intendere come un viaggio personale, attraverso me stesso. Considero il viaggio un modello di lavoro, lo percepisco come un diagramma di energia, di forze capaci di generare mutamenti e trasformazioni, a livello sia formale che intellettuale. Cerco in modo quasi ossessivo di attraversare queste energie della natura, dell’uomo, del territorio. All’interno di una delle tre parti di Gran Sur, un viaggio attraverso il Cile, ho potuto catturare, mediante delle carte dipinte con il fumo e dilavate dai fiumi e dalle pietre1, l’energia del luogo: l’energia del mio paese. È un metodo di pittura singolare che si può definire sismografico. Non è la geografia in sé l’oggetto della mia ricerca, è qualcosa di più complesso; mi avvicino ai luoghi attraverso lo studio delle mappe. Ma quando parlo di viaggio mi riferisco ad un modello concettuale, per questa ragione attribuisco enorme importanza ai criteri e ai procedimenti che utilizzo per la realizzazione dei miei lavori, che non sono solo materici ma anche intellettuali. Le esperienze sensoriali possono raggiungere un raggio molto ampio, questa sensorialità è inoltre legata alle varie persone che partecipano e dipendono dalla forte connotazione etica inserita nel mio lavoro, in particolare nell’installazione di Antartica.

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La tecnica utilizzata dall’artista è quella di ricoprire tutta la superfice pittorica di fumo/fuliggine e poi di lavarla nei corsi d’acqua, nei fiumi che ci sono nel posto, e di segnarla con le pietre e gli oggetti che trova. È un procedimento legato a doppio filo al territorio in cui l’opera viene realizzata.


Pascali “africano”, o del linguaggio totale. di Simonetta Lux Saggio critico pubblicato in occasione della Mostra Collaterale alla 54 Biennale di Venezia Pino Pascali ritorno a Venezia, mostra e catalogo a cura di Rosalba Branà, direttrice della Fondazione Museo Pino Pascali, e di Giusy Garoppo, ed. DI MARSICO LIBRI. In occasione della mostra è stata realizzata la animazione e sonorizzazione de Il Supplizio, progetto di macchina celibe dell’artista (1964), per la cura di Simonetta Lux, realizzazione animazioni Matteo Marson. Visibile in mostra. (gli asterischi* rinviano alla fine del testo, ad Alcune note a Pascali “africano”) Scrivere di un Pascali “africano” potrebbe voler dire che quella di tema africano è una linea dominante nell’opera di Pascali, ma non è così. Potrebbe anche voler dire che è tracciabile un filo creativo che collega i due tempi e modi diversi della creazione di Pascali, ma apparentemente non è così, poiché sia nel periodo delle creazioni per la pubblicità e la televisione (1958/1965), sia nel periodo dell’entrata in scena nel mondo dell’arte dove resta per soli tre anni (1965/1968), nel mondo immaginifico di Pascali abbiamo oltre al suo richiamo a temi dell’Africa e del “selvaggio”, anche i temi della guerra, della pubblicità, della comunicazione di massa, del mondo industriale e del mondo agricolo pastorale, del naturale e dell’artificiale. Può ‐ e vuole tuttavia ‐ voler dire che Pascali, Pascali considerato come autore critico e consapevole, come uomo/artista, va considerato in un processo che dura fin dai suoi inizi nel 1958, e che la sua visione del mondo da lì cresce e attraverso i temi dell’Africa e del selvaggio si precisa e si racconta il suo posto nel mondo e nella società contemporanea, sia quella della comunicazione di massa sia quella dell’arte e della cultura. E ciò che Pascali chiama linguaggio totale, unità di uomo e creatore, nelle diverse forme di creazione. Decido di scrivere di un Pascali “africano”, insomma, dopo aver in altri miei scritti precedenti sottolineato il carattere colto e responsabile della azione di Pascali nell’arte (la metamorfosi da parola a sensualità a immagine o/a opera o/a azione): colpita sia dal ruolo che a Pascali è attribuito dallo studioso della cultura artistica africana contemporanea nell’era postcoloniale e postmodernista Jean‐Loup Amselle*, sia colpita da una recente dichiarazione di Vittorio Rubiu*. Per entrambi i casi sottraggo così Pino Pascali alla fatua contrapposizione arte/nonarte (certo vi sono campi diversi e separati della creazione e produzione artistica), riconducendolo nella piena attualità del suo pensiero critico sul mondo contemporaneo, sottraendo legittimamente il suo pensiero dai confini delle definizioni e dalle gabbie oggettuali. A premessa di una riedizione di un suo testo dell’83, Rubiu scrive: “Una cosa vorrei che alla fine risultasse chiara, cioè che uno degli aspetti più significativi della personalità di Pascali consiste proprio nella oscillazione, o tensione, tra la consapevolezza della storia, del divenire storico dell’arte, e quello che la Sontag chiama il “sogno di un’arte totalmente astorica, e quindi non alienata” (p. 249). La dichiarazione di Rubiu riapre per così dire i giochi della valutazione di Pascali, proprio di Rubiu che, insieme ai suoi amici dell’epoca Kounellis e Mattiacci in particolare, era stato il più drastico nel vedere una profonda scissione tra il lavoro di Pascali nel campo della produzione per la pubblicità e le sue opere come artista, con la sua entrata in scena nel sistema di legittimazione dell’arte, cioè con le mostre nelle gallerie e nei Musei più importanti dell’epoca. Lo scandalo era iniziato fin dalla fine del 1968, quando Sandra Pinto* pubblica ( D’Ars, gen. 1969) e parla per la prima volta di alcuni suoi lavori per la pubblicità (spot video, creati nello studio di Sandro Lodolo*, per la casa di produzione di Massimo Saraceni), cosa che era sembrata come un pericolo di arresto o diluizione o abbassamento della conferma a grande artista internazionale di Pino Pascali, che lasciava sì un straordinario patrimonio di opere eclatanti e di unanime successo internazionale, ma un patrimonio chiuso ed quindi in pericolo, ai fini della circolazione futura, stanti le regole del sistema finanziario dell’arte.


Un “sistema” di cui Pascali era stato ben consapevole, quando scrive nel suo ormai famoso taccuino e fogli sparsi (Lux*in D’Amico,1987, foglio 6; Pinto, 1969): ”Oliman Linguaggio oggetto linguaggio galleria linguaggio totale le opere sono esposte” e “Arte‐ test psicologici‐ libertà”. Molto si è chiarito da allora, e certo la creazione di docufictions (gli spot tv, da Carosello alle diverse pubblicità per la rai, in bianco e nero) è cosa diversa dalla creazione dell’arte, risponde a criteri ben diversi di valutazione e lettura, ed è merito di Marco Giusti aver messo i puntini sulle i. Identifica certo il carattere collettivo del lavoro filmico e di animazione, ma di Pascali identifica le peculiarità, in ognuno dei settori (pubblicità per il cinema, per la tv, sigle tv, scenografia), e dice: “Pascali, a dispetto di quel che si pensava allora, soprattutto negli ambienti artistici, si distingue come un innovatore creativo e fondamentale”. E cioè le sue sigle hanno fatto scuola, sono un modello di creatività degli anni ’60, le sue forme animate erano diverse da “quelle che ci proponeva la tv del tempo”, e pone come indubbio che Pascali adoperasse (o avrebbe adoperato) nel suo lavoro di artista idee che provava nella grafica pubblicitaria. Dunque due ambiti di creazione diversa, certo, ma connessi: da che cosa? Che cosa a che fare la lettura e l’apprezzamento delle carte e opere di Pascali degli anni della collaborazione con Lodolo e con la casa di produzione cinematografica di Massimo Saraceni (1958/1965), tra le quali vi sono quelle aventi a soggetto l’Africa ed il selvaggio o il cosiddetto primitivo, e le opere d’arte che Pascali stesso riconosce come arte, a partire dalla mostra del gennaio 1965 alla galleria La Tartaruga, fino alla ultima, la Biennale di Venezia del 1968? Che significa dire “Pascali africano”? Che cosa era “primitivo” o “africano” o “selvaggio” per Pascali? (Calvesi*). Intanto, per queste opere disegni, carte create da Pascali per la pubblicità, emerge un elemento interessante: tutti i suoi personaggi sono disegnati come dei totem: se nelle loro parole o movimenti vengono ironicamente individuati nei loro tic e ruoli automatici, proprio per questo automatismo il disegno, la struttura della immagine, è totemico. Dunque l’africanità (il totem) si fa in Pascali sempre “linguaggio”, sistema di segno, adeguato alla sua osservazione del mondo e dei soggetti contemporanei. Ma dicevo, che ha a che fare quella frase oggi di Rubiu, proprio lui, con tale indicazione di poetica, che è anche etica? Eppure sappiamo che Pascali, perfino nell’immagine ultima che ci ha lasciato ‐ il rifiuto di aderire al boicottaggio della Biennale di Venezia del ’68 ‐ è una immagine di estraneità dal “politico”. Il Totem = l’uomo tipizzato. L’animale dell’Africa (vedi il disegno astrattizzato del leone) viene disegnato o con il codice essenzializzato adeguato alla comunicazione visiva, o con il codice stilistico della sua sperimentazione polimaterica (l’elefante, la giraffa, il rinoceronte) che è anche di un naturalismo modificato e adeguato alla memoria dell’infanzia (i libri di racconti illustrati), risalimento alla sua identità originaria, che è sempre la questione sottostante alla sua opera creativa, che la “giustifica” e che gli consente la sua identificazione non alienata, nel mondo in cui opera e in cui si sente “estraneo”. Come ci chiarirà nel 1967. Da sinistra: Pino Pascali, Figura di donna, china e tempera su acetato applicato su carta, cm.24x29. Registrata presso l’archivio Pino Pascali. Christie’s vendita n.2415, 18 dic. 2002, Roma, Palazzo Massimo Lancellotti; Pino Pascali, Stregone, tecnica mista su cartoncino, cm. 35x24,8, realizzazione 1964, Registrata presso l’archivio Pino Pascali a cura di Sandro Lodolo. Christie’s vendita n.2415, 18 dic. 2002, Roma, Palazzo Massimo Lancellotti.


La verità è che Pascali era, viveva, una estraneità sia rispetto alla società industriale e metropolitana (in cui pure si immergeva: risposta alla intervista della Volpi) ed agli attori di quella scena (la gente comune, i ruoli, i personaggi totem) sia rispetto alla “storia dell’arte” contemporanea o antica che fosse. Allora – quando lavora nel mondo della pubblicità e della comunicazione alla massa, la sua domanda a stesso doveva essere: che mondo è questo che sto illustrando e con cui sto comunicando? Dopo, quando entra nel mondo dell’arte con l’arte, la sua domanda a se stesso è: che cosa amo? Che cosa sento? Che cosa sono, se in questa attualità mi sento disperso o soffocato? Che fare? La risposta che matura nel tempo (e che risalta nel documento manoscritto autobiografico ora di Anna D’Elia* e nella intervista a Carla Lonzi* del 1967, di cui forse quel documento è preparatorio) è: devo tornare alle mie origini al fondamento della mia personalità. Da qui scaturisce quella sua posizione di poetica/etico‐politica, che intuitivamente oggi Rubiu coglie, contro ogni evidenza “storica” del modo di darsi e di porsi di Pascali, a cui assistemmo, oltre alle immagini e agli oggetti stessi. La sua estraneità e la sua astoricità è un suo “giudizio” sulla condizione dell’uomo nella società contemporanea industriale avanzata (Argan). Astorica e quindi “non alienata” è la sua azione nell’arte, ma storica è la azione di cui egli dice “arte è trovare un sistema per cambiare”. (cit. in Lux‐D’Amico, dalla intervista su “Marcatré”, n.37/38/39/40/, maggio 1968, a Marisa Volpi* su Tecniche e materiali). Ma io che, ventiduenne negli anni 65‐68, avevo accolto con passione tutta la uscita di Pascali come artista (non conoscevo le sue creazioni per la pubblicità), che ero giunta a capire questo giudizio di Pascali sul mondo, mi sono chiarita del carattere originale e processuale di dare forma a una azione di contrasto a tale contesto inaccettabile, quando ho studiato i suoi disegni e appunti in parte inediti, nel 1983. Ma si tratta pur sempre di appunti del pensiero di Pascali dell’ultimo anno e mezzo della sua vita. La azione di contrasto di Pascali al mondo in cui ‐ come Carlo Magno*, “si immerge e non si bagna”, vale anche per le opere prima della sua scesa in campo nell’arte e con l’arte? Quando potrebbe apparire perfettamente integrato nel sistema della comunicazione di massa e della committenza pubblicitaria: il massimo di sistema? Arrivo oggi a condividere questa intuizione critica di Rubiu per altra via, che è una via che attesta anche la labilità e anacronicità dell’atto critico (che però poi in quanto tale, in quanto anacronistico, è sempre vero), tanto quanto dell’atto artistico. Dopo tanti modi della apparizione, nell’ambito della nostra attività critica ed espositiva, delle creazioni di Pascali che hanno in special modo a che fare con l’Africa (e che si danno proprio degli anni delle sue creazioni tra 1958 e 1965 di spot e docufictions e che originalmente hanno che fare con esse e tra esse, e che poi ritornano in modi e linguaggi diversi i tre anni della creazione artistica), mi aveva colpito nel 2005, la citazione da parte di Jean‐Loup Amselle di una dichiarazione, di un pensiero, di Pascali, in apice al capitolo 3 intitolato L’arte africana dev’essere esposta?, del suo libro L’art de la friche. Essai sur l’art africain contemporain (tradotto nel 2007 da Bollati Boringhieri col titolo L’arte africana contemporanea):* “Quando i neri creano un oggetto, ne nasce una civiltà. Lo creano in quel momento preciso, con l’alacrità dell’uomo che scopre i meccanismi, la scienza dell’uomo che scopre tutto”. Sono le parole che Pascali dice a Carla Lonzi, Amselle le trae (p. 38) dal Catalogue du Musée d’art moderne della Ville de Paris, per la mostra di Pascali che vi si tiene nel 1991. In quello stesso apice c’è una citazione dell’artista africano Frédéric Bruly Bouabré, significativa del modo in cui sente un artista delle culture emergenti, che vuole essere un artista‐uomo, all’inizio del nuovo millennio (è il 2000): “Volevo essere Victor Hugo, mi prendono per Delacroix”. Il libro di Amselle, che (come dice in una parte avanzata del suo saggio) vuole essere uno “studio posto sotto l’egida dell’estetica politica” (p. 88), si interroga su che cosa si sia inteso anticamente (a partire dal XVIII secolo) e si intenda oggi quando si parla di “arte africana” e di “artista africano”, partendo da tutti luoghi comuni e pregiudizi originari, fino alle interpretazioni primitivistiche dell’inizio novecento, giù oltre fino agli attuali conformismi della trasmissione e della percezione dell’Africa e dei suoi processi creativi, di livello più o meno popolare e con il persistere o scomparire dei pregiudizi – attraverso simulacri e divi della comunicazione di massa. Uno studio che si dispiega nella cornice del postcolonialismo e del postmodernismo. Non è qui il luogo di andare oltre sul seguito dello studio di Amselle, che si colloca in un più ampio dibattito internazionale su che cosa possa e debba intendersi per arte e per artista oggi, nel mondo globalizzato, ancora (per poco) diviso tra società industriali avanzate e secondo o terzo mondo, tra culture dominanti e


culture emergenti, tra centri e periferie: un dibattito nel quale i termini stessi si stanno dissolvendo e che quindi va riscritto in termini totalmente diversi. Certo è che per Amselle – il cui titolo originario che ho appositamente riportato (e che è diverso dalla traduzione) parla dell’ “arte della friche” che è l’arte propria del luogo abbandonato, del luogo/scarto, è lo scarto stesso, il feticcio e il kitsch della trasmissione popolare, pregiudizialmente degradata di senso, l’oggetto “parziale” dal senso dimezzato. Ciò di cui parla Pascali in quella parte scelta da Amselle della importante intervista a Carla Lonzi (c’è da chiedersi perché Carla Lonzi non vi ha inscritto le domande: proprio per la consapevolezza della inadeguatezza della “parole” e anche lei per non inficiare ed intuendo la originalità di Pascali), è il ritrovamento del senso autentico dei valori di una volta. Ma non è solo questo (sarebbe semplicemente un luddismo culturale quello di Amselle‐Pascali). Amselle ‐ Io ipotizzo ‐ vedendo le opere “africane” di Pascali nella mostra di Parigi del 1991, sia le creazioni per la pubblicità, sia le straordinarie sculture, sia centinate (la decapitazione delle giraffe; il rinoceronte), sia realizzate con materiali bassi e d’uso popolare e comuni (le trappole, le liane i ponte fatte con materiali industriali ‐la retina di ferro, generalmente d’uso di cucina per pulire le pentole di alluminio‐ o artigianali come la rafia) e leggendo altri scritti di Pascali, ha individuato il credo metodico di Pascali non solo nell’arte, ma in tutto un processo creativo che trapassa da una fase all’altra della sua vita. “Ho orrore della tecnica come ricerca… ‐ dice a Marisa Volpi ‐ l’industria? Certo importante, io sono molto attento a quello che vedo per utilizzarlo (ad esempio il colore innaturale di quei tappetini pelosi, meraviglioso), la cultura, quello che fanno gli altri, gli oggetti della rinascente e della Upim, tutto si può utilizzare, trasformare. Il realismo e l’astrazione mi spaventano ugualmente perché non cambiano, costringono nella loro identità, il cubo col cubo, il paesaggio col paesaggio, ecc. L’arte è trovare un sistema per cambiare: come l’uomo che ha inventato la scodella per prendere l’acqua la prima volta. Così nasce la civiltà, la voglia di cambiare. Dopo la prima volta la scodella è accademia. Fare un ponte di corde, fare un dio di legno, vincere la fatalità, una condizione, una paura. Quello che faccio è l’opposto della tecnica come ricerca, l’opposto della logica e della scienza”. “Senti ‐ dice a Carla Lonzi nel luglio 1967 (Discorsi, in Marcatré, n. 30,31,32,33, luglio 1967), dopo aver parlato della sua estraneità al mondo e all’arte stessa anche grandissima, di cui vorrebbe solo capire come l’altro ha fatto a “far uscire da sé quel fenomeno potente” come il non finito di Michelangelo o le sculture di Claes Oldenburg ‐ quello che mi colpisce più di tutto a me sono le sculture dei negri, veramente, i loro oggetti hanno una tale evidenza, una tale forza che mi prendono, mi posseggono. I libri che compro adesso sono questi qui. A me ogni oggetto, anche artigianale, qualsiasi cosa che facciano che sia autentico, mi fa impazzire molto più di un designer moderno, ti giuro. C’è un abisso spaventoso tra un cucchiaio loro intagliato con l’accetta e in quella maniera con quella decorazione e uno nostro. Io trovo che siano troppo eleganti queste cose industriali, vedi c’è questo fatto che il disegno è sempre schiavo di un gusto, cioè sul piano del consumo, gli oggetti che si fanno non sono inventati, sono costruiti a seconda del gusto, medio oppure alto, ma sempre del gusto……………………………………. E ci vuole l’intensità di chi non ha niente per potersi veramente creare qualcosa”. Pascali è dunque passato da un uso delle immagini stereotipe dell’Africa e dei suoi animali, sia rielaborandole con tecnica postinformale (Gorilla, Aborigeno, Rinoceronte, Giraffa, Elefante) sia traducendole in segni, in cifra identificativa anche dei personaggi delle aree e delle periferie metropolitane (Homo Sapiens, Postero’s, Minotauri, per la Rai_sigla Intermezzo del 1962‐63 d.f., Totem, 1963 d.f., Leoni del 1962‐63 d.f., Stregone della coll. Lodolo datato 1964, TOTEM della coll. Berardi, Tre Mascheroni per Radiotelefortuna quindi del 1964, i Killers e il Tenente O’Clock per Algida d.f. 1964‐65, il Moschettiere per Rai‐Intermezzo d.f. Il Soldato del 1963 per le Sigarette Amadis d.f.,) riversandole nella comunicazione di massa della prima televisione italiana (sublimandone in ironia e scherzo gli ordini di contenuto e di tono), talvolta realizzando con il riuso anche delle sculture/totemini di personaggi tipici (Lo Scozzese; il Viveur; Il Selvaggio) all’uso delle materie basse o di scarto e degli oggetti trovati, per quelle opere d’arte – che egli chiama “sculture finte” (Labbra rosse‐Omaggio a Billy Holiday, Torso di Negra al bagno, Negra al bagno, Decapitazione della scultura, Decapitazione del rinoceronte, Decapitazione delle giraffe, trofei di caccia, Grande rettile, Scogliera, Cascate, Mare, Bambù, Serpente, Trappola, Ponte, Pelle conciata, Le penne di Esopo, Coda, Ponte levatoio) nelle quali è usato come trash persino talvolta il procedimento originario: costruire oggetti centinati, come farebbe un costruttore di barche o un aereomodellista, enunciando tra


memoria dell’infanzia e la bassa lega della trasmissione dell’imagerie afro/selvaggia la scoperta della “grotta primordiale” delle idee dell’arte. Da sinistra: Pino Pascali, Rinoceronte, tecnica mista su acetato e cartoncino, cm.25x36, Coll. Privata; Pino Pascali, Decapitazione della scultura 1966, tela bianca su centine di legno, due elementi, cm.103x380x85 e cm.82x58x45, Asta Sotheby’s Parigi, 6 ottobre 2005.

Che come dice Amselle, è ricerca delle forme estreme di vita, o, il che poi è la stessa cosa, delle forme primarie, anzi primali, rispetto all’esistenza. Un primitivismo che si è “tentato di tenere sotto controllo” ma che non è più da cercare nelle giungle remote della foresta amazzonica o della nuova Guinea, ma nelle giungle delle città africane o europee, là dove si può scoprire la grotta primordiale delle idee dell’arte, che sono in attesa e chiedono solo di essere rivelate da un inventore”. Tra i due tempi della creazione di Pascali, tra la fine del 1964 e gli inizi del 1965, c’è un’opera/metafora, un’opera cerniera, che chiude (e comprende elementi) la prima fase (quella degli ordini della committenza televisiva) e anticipa temi e sculture (ma non il linguaggio) di quella dell’arte (1965‐1968): il progetto di macchina celibe “Il Supplizio”, auto commissionata, destinata io credo ad una “animazione” (come si evince dalla legenda/racconto che la descrive), nella quale tutte le arti dell’ironia pascaliana propria dei suoi lavori per la pubblicità e per gli spot televisivi, la ricerca stessa delle armi favolistiche della letteratura medievale cavalleresca per l’infanzia (insomma il suo scavo nelle proprie origini), la spettacolarizzazione degli oggetti (il teatrino, anticipato nel vassoio di frutta sospeso), il gorilla affamato che salta fuori dalla gabbia (che qui non appare, ma è solo raccontato: l’animale africano, non ancora disegnato, che poi, nella fase dell’arte sarà messo in scena nelle foto di Pascali, come “Alé Cita”, ricordo della scimmia che aveva allevato in casa quando era bambino), tutte quelle arti pascaliane vengono messe in moto dall’ordine del “Grande Maestro del Supplizio”, musicate dal “Batterista boja” che batte col tamburo il “ritmo infernale”.


Pino Pascali, Il Supplizio (particolare), (1964), stampa cianografica (matrice china su lucido dispersa), cm.37x117, Coll.privata, Roma.

La Vergine denominata con una M (Madre?), verrà suppliziata alla fine del movimento assurdo, kafkiano, impresso da una serie circostanze ridicole ma anche pericolose (la leva della grancassa che il batterista suona, che tira una corda, che apre la gabbia del gorilla, che mangia la frutta, che fa cadere le palle di piombo, che fanno trasbordare l’acqua da una vasca, che allaga le tubature, che fanno scattare la scure, che mette in moto il sistema dei giavellotti e delle balestre che trafiggono la (invisibile) Vergine, che precipita in mezzo alle lame che la triturano. Lasciandola cadere in un “atro averno”.

Pino Pascali, Gorilla, 1964; pittura su acetato e carta.

REQUIESCAT IN PACEM l’immonda creatura. Frase che conclude l’evento celibe di messa a morte. La cui “ideologicità” non trasparirebbe (puro evento crudele e sghignazzante di un meccanismo precostituito e incontrollabile o immodificabile), se non sapessimo che nell’anno della sua uscita come artista nel mondo dell’arte, a Torre Astura, per la galleria La Salita di Giantomaso Liverani, nel luglio 1965, realizza la nota performance su “Corradino di Svevia”, il giovane Imperatore tradito e messo a morte nel 1268 a 26 anni, inserendo nella installazione una scultura/finta (una finta lapide fatta di legno, panno felpato e tela dipinti a smalto) su cui iscrive: ”REQUIESCAT IN PACE CORRADINUS” (REX SUEDORUM‐SAECULA SAECULORUM‐ DE CAPITE OBTRUNCUS ALICUIUS OPERA PRODITUS‐JOSEPH PASCALI FECIT ANNO). Della quale performance forse “Il Supplizio” è una prima idea. Pascali è stato nella grotta primordiale delle idee dell’arte, nella giungla africana/metropolitana, attingendovi la sua integrità originaria..


*Alcune note a Pascali “africano”. Il testo di Jean‐Loup Amselle (L’art de la friche. Essai sur l’art africain contemporain, Flammarion, Parigi, 2005) lo ho incontrato appunto nel 2005, leggendolo nella edizione francese. Questa lettura, che si collocava nella miei studi sulle culture transizionali, (su che cosa è l’arte e che cosa fanno gli artisti dell’ultimo ventennio, nell’epoca postcolonialismo e del postcomunismo, misurandosi con la loro perifericità e con la loro ricerca di autonomia dalle prescrizioni del sistema dominante dell’arte occidentale) mi ha dato la spinta a scrivere di un Pascali africano, come di un artista/uomo che intravedevo non più solo come artista produttore di opere d’arte, ma come un artista/critico alla ricerca di una propria identità originale rispetto al sistema occidentale dell’arte nel quale pure si situava, negli anni sessanta, e che era il solo sistema di legittimazione . Jean‐Loup Amselle scopre Pascali nel 2005, attraverso il Catalogue du Musée d’Arte Moderne de la Ville de Paris del 1991. In quel catalogo – relativo alla mostra lì realizzata di Pascali di quell’anno, preceduta dalla mostra per pubblicità di Roberto Peccolo di Livorno del 1990 e di Daniela Ferraria all’Arco d’Alibert di Roma dello stesso 1991 ‐ è riportata la Intervista a Carla Lonzi Discorsi, uscita su “Marcatré” (luglio 1967, n.30,31,32,33). Forse, o quasi certamente, Amselle poteva aver visto nel 2001 la mostra alla Galleria Durand Dessert, nel cui catalogo sono pubblicati i disegni “africani”, tra gli altri a committenza Radio televisione. Ed il saggio di Lodolo Pascali et “son” Afrique. Il testo di Vittorio Rubiu si trova nella riedizione del 2010 del volume di Anna D’Elia del 1983. Anna D’Elia, insieme alla Galleria Peccolo, era stata la prima riaprire – dopo Sandra Pinto nel 1969, ad occuparsi anche del Pascali creativo docufictionist e comunque di tutto un patrimonio di immagini che risalivano agli anni appunto tra il 1958 e il 1964, tra cui anche le tre piccole sculture/totemini polimaterici (Lo Scozzese, Il Viveur, Il Selvaggio). Sandro Lodolo, l’amico nel cui studio Pino Pascali creò disegni da animare o scenografie per una committenza televisiva o cinematografica, che veniva prodotta dalla casa di produzione di Massimo Saraceni, scrive il primo testo specifico su Pascali africano: dal titolo Pino Pascali e la sua Africa (8 gennaio 2001), in occasione della mostra tenutasi prima a Livorno alla Galleria Peccolo e poi a Parigi alla Galleria Durand Dessert nello stesso anno. Lodolo si concentra in particolare sulla realizzazione – nell’autunno inoltrato del 1964 – di 15 filmati dedicati a popoli esotici, e mentre lui individua riprese che fa su paesaggi da foto pubblicitarie dei diversi paesi, a Pino viene affidato il lavoro su vario materiale iconografico, su Giappone e Africa, “che in camera oscura riproduceva in numerose copie sulle quali interveniva sbiancando a ritoccando le parti superflue per poi ingrandirle e riprodurle con del bitume su acetato […] Dopo vari orientamenti scelse la tecnica più efficace: l’alto contrasto su acetato”. Lodolo parla di una specie di “delirio nippo‐africano, in cui convivevano samurai, graffiti primordiali, maschere tribali, indigeni armati e tanti animali”. Il film realizzato ha il titolo “AFRICA”, e la fiche tecnica (pubblicata nel catalogo della galleria Durand Dessert ) è la seguente: Committenza: RAI. TV; Emissione: Radiotelefortuna 65”; Produzione: Lodolo & Saraceni Cinematografica; Durata: 60 secondi; Girata in: 35 mm.; Scenario: Sandro Lodolo e Pino Pascali; Ricerche: Nicola Attanasi; Scenografia e disegno: Pino Pascali; Operatore: Gianfranco Modestini; Voce: Gigi Ortuso; Musica: ”Percussioni” (repertorio RAI); Montaggio e messa in scena: Pino Pascali. “Pino ‐ aggiunge Lodolo ‐ restò sempre affezionato al materiale “africano”, soprattutto gli animali, che rividi in seguito appesi nel suo studio privato, come si può osservare in una foto sul catalogo edito da De Luca nel 1982 in occasione della retrospettiva dedicata a Pascali al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano”. Il testo di Lodolo, senza fiche tecnica, viene ripubblicato in Buon Compleanno Pino!70 anni dalla nascita di Pino Pascali, a cura di Rosalba Branà, Palazzo Pino Pascali, Polignano a Mare, 16 dicembre 2005‐12 febbraio 2006. Nel 2008 Lodolo rilascia una ultima intervista pubblicata nel catalogo della mostra alla galleria EMMEOTTO di Roma. Due sono le interviste date da Pascali, su “Marcatré”: la prima nel n. 30/31/32/33 del luglio 1967, è quella a Carla Lonzi, la quale sceglie di intitolarla Discorsi e di porre al posto delle domande dei puntini di sospensione, per lasciar fluire il discorso/flusso di Pino Pascali. La seconda nel n.37/38/39/40 del maggio 1968 è quella data a Marisa Volpi, nell’ambito di una larga inchiesta su “Tecniche e materiali”. Anche qui (e diversamente da tutti gli altri artisti intervistati) non c’è il ritmo domanda/risposta, ma una specie di racconto della Volpi stessa di come è andata la intervista


telefonica, dall’inizio con la filastrocca “Evviva Carlo Magne / Ch va‐n dall’acqua e non s’abbagne”, ed il seguito in cui si alternano i pensieri di Pascali ed i commenti della Volpi. Marco Giusti, che vide la prima mostra di Pascali per la pubblicità nel 1991 alla galleria Arco d’Alibert di Daniela Ferraria, iniziò allora a fare ricerche negli archivi RAI e interviste ulteriori allo stesso Lodolo e a Roberto Manili. Integrò nel 1993, per la Biennale di Venezia, il filmato con i caroselli fatti da Pascali già realizzato da Lodolo nel 1991 (mostra Arco d’Alibert). Porta poi il filmato ulteriormente integrato alla mostra di Napoli, a Castel dell’Ovo ed infine nel 2003 a Polignano per il Premio Pascali. Racconta tutto questo nella sua intervista pubblicata nel catalogo della mostra “Pascali disegni per la pubblicità” tenutasi nel 2008 alla galleria EMMEOTTO, a cura di Daniela Ferraria, con un saggio introduttivo di Maurizio Calvesi e con Il saggio Per una filmografia di Pino Pascali e Filmografia di Marco Giusti. Maurizio Calvesi, che insieme a Marco Giusti ha messo i puntini sulle i quanto al valore dell’opera di Pascali su commissione, nel 2010 in La vita che risorge, ritrova il “risalimento alle radici del primario”, ai motivi archetipici individualizzanti, confermando quella sua osservazione critica per cui per Pascali, anche nella strutturalità delle sculture “africane”, non si deve parlare di strutture primarie,nel senso americano, ma di una strutturalità del “primario”, dell’archetipico, e del primitivo in tal senso. Simonetta Lux scrive di Pino Pascali, di cui era stata molto amica, solo, la prima volta, nel 1987, quando in occasione della mostra al Pac di Milano, Fabrizio D’Amico le affida lo studio e la analisi di un taccuino inedito (che tra l’altro l’autrice riconosce per averlo visto anche tra le mani di Pascali e farvi alcuni dei disegni) e di alcuni altri fogli sparsi in parte editi da altri. Si tratta di del saggio Tutta la storia è da creare, in cui Lux spiega il processo creativo di Pascali e la sua idea di creare un mondo altro, con un processo creativo associativo che va da parola, a immagine, a oggetto, attraversandosi nello svolgimento dei sensi, della percezione e della memoria. E del saggio Parole e disegni di Pino Pascali ‐ Ragioni di un catalogo. Ricordo che appena usciti ricevetti una telefonata da Emilio Prini, che lì per lì mi sorprese (chi conosce Emilio Prini può capirlo) e poi mi emozionò tantissimo. Mi disse che aveva letto il mio scritto, che lo trovava straordinario, e che pensava che fosse proprio come ogni artista vorrebbe che si scrivesse di lui. Il saggio Tutta la storia da creare è stato poi riscritto integrato al più ampio contesto culturale dell’epoca, di cui Pascali appare ben consapevole e giudice nello stesso tempo, nel volume di Anna D’Elia, Pino Pascali, (Electa, Milano, 2010) con il nuovo titolo Un taccuino di disegni di Pino Pascali per opere future 1967‐1968. Simonetta Lux scrive poi sull’opera inedita e mai vista di Pascali intitolata “Il Supplizio”, che oggi qui si indico come opera/cerniera di congedo dalla fase creativa di Pascali docufictionist (per la pubblicità) alla fase propriamente della creazione dell’arte, di cui quella contiene una serie di anticipazioni. È una stampa cianografica su carta, da un originale disegno a inchiostro su acetato mai ritrovato (cm.37x 117). Ne scrive sulla rivista on line www.luxflux.net (“LuxFlux‐Prototype Arte Contemporanea”), n.1, 2003, “CENSURA D'IDENTITA'. 1."Il Supplizio", con una prima animazione realizzata su sue indicazione da Stefano Bruni. Rosalba Branà espone tale opera, che oggi appare una specie di cerniera da una fase all’altra della vita artistica di Pascali, per la prima volta, al Museo Palazzo Pino Pascali di Polignano in occasione della mostra Buon Compleanno Pino! 70 anni dalla nascita di Pino Pascali, a cura di Rosalba Branà (Palazzo Pino Pascali, Polignano a Mare,16 dicembre 2005‐ 12 febbraio 2006), con una nuova analisi. Lux riprende la questione del contesto culturale di Pascali anche in un importante contributo agli studi sullo scrittore Tommaso Landolfi, pubblicato in Cento anni di Landolfi, Atti del Convegno per il centenario della nascita 1908‐2008 (Bulzoni, Roma, 2010), e della conoscenza da parte dell’artista di uno dei più importanti scrittori del Novecento.


Un itinerario intorno la 54. Biennale di Venezia. In visita a Palazzo Fortuny Di Eugenia Battisti Visitata la 54. Biennale di Venezia, facilmente si approda al Palazzo Fortuny, dove si inaugura una mostra promossa dalla Vervoordt Foundation e la Fondazione Musei Civici di Venezia, in collaborazione col direttore di Palazzo Fortuny Daniela Ferretti. Tra i curatori troviamo: Axel Vervoodt, Rosa Martínez e Francesco Poli. Coronandone la trilogia, il concetto di base della mostra si riallaccia alle precedenti, tenutesi in questa sede: Artempo (2007), Academia (2008) ed In‐finitum (2009). Sfogliando le pagine dell’elegante catalogo, scorriamo insieme gli interventi più interessanti. L’origine del titolo della mostra: TRA. Edge of Becoming è illustrato da Axel Vervoordt, collezionista, belga, fondatore della Vervoordt Foundation1. La parola TRA, rovesciamento del termine ART, può essere letta anche come abbreviazione di Travel, Transport, Traverse, Trasformation, Training, etc. L’elenco dei significati connessi al titolo continua. Si approda ad uno studio sui vari usi del termine fatti nel mondo. Le riflessioni ripercorrono l’alfabeto Sanscrito, in cui TRA è la preposizione che aiuta a raggiungere la conoscenza e la liberazione, analizzano il nome Mantra, composto da due parti, Man: pensare e Tra ovvero lo strumento, per giungere al Tantra: sistema che collega il sesso e l’energia cosmica. Il sottotitolo Edge of Becoming, tradotto in italiano “Soglie del divenire”, indica la potenzialità della trasformazione in ogni singolo momento2. Tra le opere alcune sono site‐specific: Sulla Soglia di Giulio Paolini, Architecture sonore di Mireille Capelle, Lightning Fields 19.221,2009 di Hiroshi Sugimoto. Le altre esposte sono gentilmente prestate da un artista/collezionista: Antoni Tàpies, del quale Vervoordt elogia l’eclettica collezione personale. Il primo dialogo, spiega il collezionista, si è stabilito direttamente tra le opere e il loro contenitore: Palazzo Fortuny, residenza di una storica famiglia, composta da artisti e collezionisti. Il secondo dialogo creativo è acceso dall’accostamento di un’opera d’arte contemporanea ad una risalente al Sesto e Ottavo secolo, come ad esempio quello tra l’opera di Giovanni Anselmo ed una statua antica buddista. Concludendo Vervoordt afferma: la visita della mostra si trasformerà, agli occhi del pubblico, in un vero e proprio pellegrinaggio. Dalla ricchezza semantica del termine TRA nascerà la via che porta «l’uomo ordinario in un posto straordinario». Passiamo all’intervento dei curatori. Rosa Martínez, unendo le citazioni di Rilke e Miyazama Kenji, torna a sostenere la centralità del fruitore, inteso come potenziale creatore. Centrale è, secondo l’autrice, l’obiettivo teso ad incoraggiare il visitatore a guardare il mondo attraverso l'arte. Il viaggio di Ulisse e quello di Dante, la regia di Alain Resrais e quella di Tarantino, sono opere specchio del mondo in cui viviamo, spiega Martínez: «Svelano nuovi territori, non calpestati». L’affermazione di Beuys: «Every man is an artist», sostiene la critica, può essere accostata al concetto buddista: ognuno di noi potenzialmente è Budda o Dio. Da questo presupposto nasce il nuovo concetto di arte approdato nel cinema, nel teatro, nella performance, nella fotografia e in tutte le forme di arte relazionale del XX secolo. 1

Questa organizzazione include un team di circa cento collaboratori tra storici, architetti, designers, restauratori, artigiani, project leaders e staff di supporto. 2 Secondo Axel Vervoordt, a queste associazioni può essere ricondotta la ricerca artistica di colui che reputa uno dei più grandi artisti del XX secolo: Lucio Fontana. Traducendo l’atto di bucare la tela in azione che lega esperienza artistica e terza dimensione.

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Solo dopo aver accantonato i preconcetti e le convenzioni, le “magnetiche anomalie”, insite nelle opere esposte, divengono captabili dal pubblico. Fortuny diventa il laboratorio dove le arti vengono interconnesse e la visita alla mostra si trasforma in un rito di passaggio a cui lo spettatore viene sottoposto. Anche il discorso di Francesco Poli prende piede da una riflessione sul termine TRA. Nel suo saggio critico, ospitato nel catalogo della mostra, il termine è inserito nella complessa problematica legata ai significati simbolici e culturali del concetto di “soglia”: punto d’incontro tra interno ed esterno, che marca la fase di transizione e trasformazione da una condizione ad un'altra. Ripercorrendo le relazioni tra i possibili temi convergenti, legati a tale idea, lo studioso indica come fondamentali: il rapporto tra opera, fruitore e contesto spaziale; le architetture metaforiche (finestre, porte, corridoi, ponti, archi, etc.); i simboli personificati come Giano (dio delle porte che indica l’evoluzione tra passato e presente, tra entrata e uscita); le connessioni tra culture differenti, (come Est e Ovest), e il limite tra conscio ed inconscio. Alla finestra albertiana Poli rapporta tre opere: The Human Condition (1933) di Magritte, alla quale si accompagna la questione cruciale sulla relazione tra realtà e la sua rappresentazione; Large Glass di Duchamp, letteralmente una finestra, una soglia tra visibile e invisibile; i grandi quadri astratti di Rothko, visti come finestre. Gli esempi citati introducono il lettore all’interno del dibattito relativo la questione dello sconfinamento tra arte e realtà, iniziato con gli artisti dell’Avanguardia. La citazione di José Ortega y Gasset: «L’immagine senza cornice ha l’aria di un uomo nudo, spogliato» e la critica fatta da George Simmel, in un testo del 1907, agli artisti che rifiutano o giocano col ruolo della cornice (come Seurat, Kandinsky, Balla, Mondrian, fino ad arrivare ai Dadaisti e Surrealisti), pongono le basi, testimoniali, su cui si andrà sviluppando la scottante questione relativa l’uso della cornice nell’arte contemporanea. Poli fornisce altri esempi in cui la volontà di sconfinamento tra arte e realtà sovverte il principio illusorio del quadro/finestra. Dall’opera di Fontana: Quanta (1960), serie di tele di diversa forma, concepite non per ospitare la pittura, ma come oggetti plastici, si viene “linkati” direttamente a Frank Stella, artista che fa coincidere la forma della tela con la configurazione geometrica dipinta sulla superficie. Un importante precedente, sostiene Poli, sono gli Stripes di Barnett Newman (1950). L’integrità estetica del quadro, professata da Simmel, osserva, è soppiantata dall’Environment‐art, pratica dilagata negli ultimi decenni. In questo caso, il confine tra arte e vita diventa sempre più labile, la scultura e la pittura escono dalla cornice e scendono dal piedistallo, entrando in diretto contatto con lo spettatore. Il pubblico che fruisce l’installazione si trova spiazzato, poiché non si trova più in contemplazione di fronte ad un quadro, ma catapultato dentro l’opera d’arte. Le radici di questo fenomeno vengono ricondotte, dallo studioso, ai Merzbau di Kurt Schwitters, uno dei maggiori referenti del Nouveau Réalisme e del New Dada americano (si fa riferimento ai Combine Paintings di Rauschenberg). Altri esempi si riferiscono alle ricerche portate avanti da Allan Kaprow (1960), dalla Minimal Art, dall’Arte Processuale, dalla Land Art, dall’Arte Povera e dalla Concettuale, fino ad arrivare alle recenti installazioni dove è complesso l’uso dei media. Tra le proto‐installazioni, oltre i Counter‐Reliefs (1915) di Tatlin ed ai “Ready ‐ Made” di Duchamp, come Tre Buchet (1915), si menziona l’ambiente Proun di El Lissitzky (1923). Esempi successivi, ma fondamentali di Environment, conclude Poli, sono l’Ambiente Spaziale di Fontana (1949) e Jump in the void di Klein (1958). Passando all’analisi della “soglia” come porta, il curatore ricorda la potenza straordinaria di tale struttura architettonica, messa in luce già dalle riflessioni di Victor Stoichita. La sua natura polisemantica è sintomo dei numerosi usi rituali, ai quali assolve in tutte le culture del mondo. La porta come passaggio tra fuori e dentro, come comunicazione tra due ambienti, viene celebrata da diversi artisti: Giacomo Balla, De Chirico, Ernst, Dalì, Magritte, Delvaux. Nella scultura moderna troviamo la Porta dell’Inferno di Rodin, la Porta dell’amore di Brancusi o l’emblematica porta di Duchamp: 11 Rue

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Larrey. L’ultima opera citata, il cui tema principale è la porta, è la stessa che Kounellis inizia ad ostruire con dei massi a partire dal 1969. Per concludere, Poli individua altre interpretazioni estetiche della porta, negli ambienti di Maria Nodman, Robert Irwin, James Turrell e Anish Kapoor. Quest’ultimo saggio critico rimane uno dei più illuminanti perché offre un excursus storico fatto di esempi calzanti, utili a comprendere le questioni fondamentali legate ai recenti sviluppi dell’arte contemporanea. Poli coglie, traccia e individua, lo spirito del percorso, insito nell’allestimento curatoriale della mostra, da sempre incardinato sul gioco e sul rimando tra opere e simboli, di leggibilità globale, in continua migrazione. Le opere divengono anelli di connessione tra mondo antico e contemporaneo, tra cultura orientale ed occidentale. L’itinerario espositivo offre allo spettatore inconsueti accostamenti, al fine di far affiorare, nello spettatore, impreviste associazioni tra oggetti, immagini ed ambienti.

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Ilija Soskic Speciale a cura di Simonetta Lux Gli articoli pubblicati di seguito fanno parte dello Speciale Ilija Soskic, a cura di Simonetta Lux, pubblicato in doppia lingua, italiano/inglese, in Luxflux.net, marzo 2011: http://www.luxflux.org/n41/specialeprotocollo.html Sono qui pubblicati alcuni materiali inediti, per il volume monografico di Simonetta Lux e Dragica Cakic su Ilija Soskic in corso di pubblicazione. Courtesy Simonetta Lux/Dragica Cakic Soskic

Ilija Soskic (Dečani, 1934) è stato invitato alla Biennale internazionale d’arte di Venezia 2011, per il Padiglione del Montenegro in The Fridge Factory and Clear Waters. Ilija Šoškic, Natalija Vujoševic, a cura di Marina Abramovic Cetinje Community Center Obod. Commissari: Petar Cukovic, Svetlana Racanovic. Sede: Palazzo Malipiero, San Marco 3079. Nel raccontare alcune delle ultime performances di Soskic tra Italia e Croazia nella seconda metà del 2010, siamo lieti di anticipare alcuni passi del volume in preparazione sull’artista per la cura di Simonetta Lux. Si tratta di interviste e Manoscritti Autobiografici dell’artista (per la cura di Dragica Soskic e Simonetta Lux. Trascrizioni di Vania Granata). I testi autobiografici sono di particolare interesse in quanto non è ancora nota ‐ malgrado la notorietà dell’artista tra Europa e Balcani ‐ la complessa biografia di colui che è stato un vero e proprio maestro delle generazioni che non hanno vissuto la drammatica transizione dalla federazione Yugoslavia di Tito, attraverso la guerra fratricida del 1992‐1995, e della condizione dell’artista sotto Tito, della presenza originale e degli scambi degli artisti Iugoslavi con l’arte contemporanea europea ed internazionale, come anche della transizione drammatica allo stato attuale delle nazioni della ex Jugoslavia la arte di Soskic è creazione testimoniale. Ilija Soskic è uno degli artisti che seguo dal 1986, anno del suo rientro in Italia dalla condizione di profugo (1991), ed ha partecipato a numerose iniziative del MLAC‐Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza di Roma. Vedi ad vocem Archivio Museo Laboratorio di Arte contemporanea nella rivista www.luxflux.net. Vado a Grisignana/Grožnjan l’11 settembre 2010. Mi invitano infatti: c’è Soskic, mi dicono. Viaggio in treno, Venezia, poi Trieste. Poi in auto, attraverso il confine dell’Istria. Grisignana è a pochi chilometri. Una piccola città (territorio di 68 kmq, un migliaio di abitanti) della Repubblica Presidenziale di Croazia, Regione Istriana. Già centro irredentistico dell’Italia asburgica, città bilingue della Zona B del “Territorio libero di Trieste”, città dell’esodo degli italiani tra 1945‐1955, città in cui Tito favorì l’insediamento degli artisti. Tito infatti ad ogni città o cittadina della Jugoslavia aveva voluto offrire un polo di aggregazione culturale, sia stato esso di teatro, cinema, arti visive etc., sostenendo comunque la libera circolazione in Europa degli artisti e dell’arte. E, come già ho avuto modo di scrivere (vedi Speciale Biennale di Sarajevo, su www.luxflux.net. Regiones, n.38, 2010 e nello Speciale Jusuf Hadžifejzović su www.luxflux.net, Art in Theory), non c’è da meravigliarsi se un artista, seppure invitato come grande maestro, si muova anche per ognuno di piccoli centri dell’arte, che poi sono tutti estremamente significativi. Un costume culturale di movimento all’interno della ex‐Jugoslavia e naturalmente anche attraverso e avanti indietro con l’Europa, che si è mantenuto durante la guerra aperta contro l’altra Jugoslavia da Milosevic contro il costituirsi di nuove Repubbliche indipendenti (la prima delle quali fu proprio la Croazia). I maggiori artisti, poeti dei diversi paesi in guerra tra loro negli anni ‘90 della guerra, hanno continuato anche pericolosamente a vedersi e incontrarsi, a scambiarsi sempre amichevolmente (talvolta con pericolo) esperienze ed eventi. La logica della pace e della libertà dell’arte contro la logica della guerra e del dominio. “Da Ilija ho ascoltato storie di guerra e di pensiero; quelle di un uomo, che vive le sue “esperienze come un fatto artistico e fa dell'espressione artistica un'esperienza. Intenso, assolutamente non banale” (sbo, 1997, http://www.luxflux.net/n5/soskic.htm). Questo treno che da Venezia va a Trieste e ritorno è proprio vecchio, degradato, ma con gli arredi, le tappezzerie, il design anni Cinquanta‐Sessanta, che rappresentò lo stretto scambio artistico e di design tra

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Italia e Yugoslavia (penso alle biennali di Zagabria etecetera: una storia che credo stia scrivendo Dunja Blasevic, l’amica di Belgrado di Soskic degli anni Sessanta, allora Direttrice del Centro Culturale Studentesco, poi direttrice del Centro Soros per l’arte Contemporanea, oggi a Sarajevo, direttrice di un importante Centro per l’arte Contemporanea).

Dal treno per Trieste, settembre 2010. Foto: Simonetta Lux

La sera della domenica 12 settembre 2010, a Grožnjan/Grisignana Ilija Soskic entra nella sala del micro‐museo di arte contemporanea, la Gradska Galerija (Galleria Civica). É una mostra collettiva curata da Eugen Borkovsky con una sezione per l’invitato speciale Ilija Soskic. Entscheidungsproblem è il progetto site‐specific di Ilija Soskic, che si concentra sul comportamento prodotto nella collisione tra il concetto artistico e la sua azione critica nel momento della compartecipazione. La sua sala è vuota. Gli altri partecipanti espongono opere di arte tradizionali anche se attuali (fotografie, installazioni a parete, carte, pitture) nelle altre diverse stanze della Galleria. Ilija traccia un cerchio di farina di gesso al centro dell’ambiente e tiene in mano il filo di una corda lunga al cui esterno è aggomitolato il lungo filo restante. All’estremo del filo è legato un grosso chiodo, che fissa il centro per tracciare col gesso il cerchio perfetto. Il pubblico è tutto intorno. L’artista, dentro il cerchio, racconta. Chiedo oggi a Ilija: ma che raccontavi? Così mi risponde. Ilija Soskic: Quadratura del cerchio La performance di Grosnian (sic=Grožnjan) cominciò con un cerchio di gesso che ho costruito e la parte parlata. Cominciai col ricordare la mia presenza a Grosnian (sic=Grožnjan) come ospite di Marina Abramovic a casa sua grosniana, 1972. Marina era ancora studentessa masters. Dopo qualche giorno mi viene l’idea di fare una hepening – performance (sic = happening _ performance) con Marina e altri ospiti suoi e così fecimo all’aperto una specie di azione urbana. Forse, non sono sicuro, era la sua prima performance. Il giorno che dovevo partire dissi a Marina perché non vieni con me a Venezia alla Biennale e poi andiamo in una casa di campagna che ho a disposizione che possiamo fare il resto dell’estate. È sul mare vicino a Venezia. Così che lei saltò sulla mia mini jeep e partimmo… il resto è già ben conosciuto… Dopo la parlata di Marina segue il cerchio, la quadratura, come misurare la quadratura del cerchio!? È una antica domanda che ci viene dai matematici greci ed anche se è ovviamente inutile, è una domanda della metamatica tutt’ora, ma quello che a me era interessantissimo era proprio l’inutilità ma che però, molto affascinante (abbacinante), come fosse l’arte. Per me mentalmente è un’opera d’arte…certamente ipotetica…, ma bella.” 8 marzo 2011

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Da sinistra: Ilija Soskic, Entscheidungspproblem_quadratura del cerchio, 2010, performance a Groznjan; La gente e Soskic a Groznjian, settembre 2010. Foto: Simonetta Lux

Ho trascritto Quadratura del cerchio, oggi a 5 mesi dalla mostra collettiva di Grisignana/ Grožnjan. É la trascrizione del testo scritto da Ilija Soskic ad acquerello su carta A4, su mia richiesta, l’8 marzo 2011, di dirmi per intero che cosa raccontava alla gente seduta intorno al cerchio da lui disegnato, dentro il quale lui si trovava. Io pensavo, allora, vedendolo fare continuamente il gesto di indicare il dentro ed il fuori, che egli si rivolgesse dal suo luogo particolare dell’arte (nel cerchio) a qualcuno che era fuori (il pubblico), e che – indicando continuamente il dentro ed il fuori – egli si riferisse al suo essere un artista la cui vita, come uomo e come artista, fosse legata al suo paese e contesto, la Jugoslavia prima e poi la condizione di profugo in Grecia e in Italia. E che questo significasse anche, o volesse far capire anche, che la sua arte performativa e spesso dematerializzata (agire con il corpo proprio e crearsi degli aggeggi inclusivi e vagamente simbolici oppure richiami di autobiografia artistica) era legata per un verso a un certo avanzato linguaggio internazionale dell’arte (essere nel cerchio), per altro verso fortemente incardinato motivazionalmente e finalisticamente al suo contesto socio‐politico di origine (anche essere qui a Grožnjan, per esempio). E viceversa, perché è suo l’operare nella dialettica tra i due “cerchi” (quello contestuale originale e quello del linguaggio legittimato dell’arte; ma anche il cerchio dell’est e quello dell’ovest), come sul filo del rasoio che separa originalità e soggezione, opera dell’artista dentro/ fuori il “sistema dell’arte” cosiddetto occidentale avanzata. Questo lavoro sul crinale, interstizio di libertà creativa, è ciò che ho definito “arte ipercontemporanea” e quell’artista “soggetto ipercontemporaneo” in Arte ipercontemporanea. Un certo loro sguardo. Ulteriori protocolli dell’arte contemporanea (Roma, Gangemi, 2008). Ed il “sistema dell’arte”, purtuttavia, “zona franca”, senza la quale nessuna azione artistica “originale” potrebbe darsi, ma neppure “etica” (cioè fondata su una coscienza critica del mondo) potrebbe darsi: la protezione “immateriale” della “zona franca dell’arte” può salvare la vita dell’artista operante in nazioni autoritarie.

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Da sinistra: Ilija Soskic, Quadratura del cerchio, testo, 2010 (1 e 2); Ilija Soskic, Studi per Entscheidungsproblem, 2003, gouache e inchiostro su carta a4.

Un po’ ci avevo azzeccato: per esempio il racconto senza dettagli che oggi Soskic mi dice aver fatto della azione/performance di 30 anni prima con la Abramovic, e che io non capendo la sua lingua non sapevo avesse detto, è, mi pare, proprio questo messaggio: lì nel ‘72 nasceva l’arte performativa di Marina Abramovic e la sua stima ed amicizia con Ilija Soskic (1). La stretta dialettica tra i due elementi: contesto matrice originario (la propria patria nazionale e culturale) e linguaggio (conoscere e scegliere nel contesto artistico transnazionale europeo), è poi il fondamento della sua arte e della sua maestria riconosciuta. (1) In verità Ilija Soskic e Marina Abramovic riconoscono così l’atto originario (non ancora opera d’arte) che ne avrebbe poi fatto degli artisti performativi, per i quali la messa in gioco del proprio corpo è il nucleo centrale. Ilija racconta che, da adolescente, in una riunione familiare seguita alla violenta negazione da parte del padre di fargli compiere studi artistici, si chiuse nel bagno. Tagliatosi entrambe le sopracciglia si presentò come se nulla fosse ai familiari. Inorriditi e scandalizzati tutti, salvo uno zio che difese il giovane Ilija e ne sostenne gli studi artistici. Marina Abramovic, in un piccolo video autobiografico Marina’s first performance, ora su You Tube http://www.youtube.com/watch?v=1DxZKAQ9WrM. Fa parte della lunga intervista video in occasione della mostra al MOMA di New York (www.moma.org) Marina Abramović: The Artist Is Present, March 14‐May 31, 2010. Marina racconta che quando era piccola aveva scarpe ortopediche ed i capelli tagliati a caschetto alto all’altezza degli occhi. Era inorridita quando si guardava allo specchio. Amava moltissimo Brigitte Bardot, di cui aveva una serie di foto ritagliate dai giornali. Un giorno decise di trovare il modo di farsi portare in ospedale, sfoderare la sua collezioncina di foto, per farsi rifare il viso: nella sua cameretta si mise a girare sempre più veloce intorno a se stessa fino a cadere violentemente sulla spalliera del suo lettino, al fine di rompersi il naso. In verità si spaccò solo lo zigomo destro e la madre sopraggiunta dopo averle dato i classici schiaffoni, la fece medicare semplicemente. Questa, dice Marina, la considero la mia prima performance, anche se non ha niente a che fare con l’arte. ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ Perché lavoro con Ilija Soskic? 3 risposte a 1 domanda Di Simonetta Lux D.: Perché lavora con Ilija Soskic? Ilija Soskic è uno dei più interessanti artisti della generazione che entra nell'aktionismus e nel progetto di apertura al momento critico globale che si configura già alla fine degli anni Sessanta. Pur essendo comparso nel momento stesso di apparizione dell'arte povera in Italia, sin dall'inizio Soskic

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rivela una marcia in più data da tre elementi: 1) Il suo concetto di energia, dispiegabile attraverso gesti o opere d'arte (concetto che condivide con i maggiori artisti internazionali, da Beuys a Nagasawa). 2) La sua intuizione della imminente esplosione del sistema europeo occidentale, e in particolare della Jugoslavia, cui apparteneva e cui reputa e vuole ancora dichiarare di appartenere in quanto Stato unitario di culture diverse (rifiuta ogni forma di razzismo e settarismo). 3) La sua continua scrittura/ pittura, ovvero il suo continuo diario mentale (e di critica politica), che egli attua attraverso disegni, carte‐scritture, sistema nel quale ha elaborato tutta una sua riflessione filosofica e “sulla” filosofia del ‘900, da Wittgenstein e Ramsey ad oggi. Sto scrivendo un (primo) volume critico su Ilija Soskic a cui seguirà l'edizione internazionale dei suoi scritti/disegni/gesti su carta. ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ Chi è Ilija Soskic? Alcune note autobiografiche di Ilija Soskic Di Simonetta Lux Parla l’artista e racconta il suo punto di vista dal suo punto di vista. Una breve biografia di Soskic ed una Autobiografia in 4 parti a cura di Simonetta Lux e Dragica Cakic Soskic Ilija Soskic nasce a Dečani, località montenegrina della ex‐Jugoslavia, nel 1934. La sua posizione artistica si pone in linea con l’intellighenzia intellettuale repressa dal realismo sociale. Durante il regime titoista, tramite le sue abilità sportive ‐ primatista jugoslavo di lancio del martello –, riesce a sfuggire ad una punizione militare dovuta alla sua posizione critica anti partito, e si conquista la possibilità di studiare presso la facoltà di Belle Arti di Belgrado. Gli esordi sono contrassegnati dall’impatto violento e profondo che ebbe su di lui il Teatro povero di Jerzy Grotowski, il cui articolo del 1964 (poi messo a mo’ di introduzione del famoso Verso un Teatro povero uscito nel 1969) venne tradotto nella sua lingua nel 1965 sulla rivista “Scena” pubblicata a Novi Sad; dalla fascinazione per l’arte americana di Pollock, ma anche dall’esistenzialismo francese e dal teatro russo; in seguito, il suo percorso creativo tende a non essere più distinguibile dalla sua stessa vita. Sulla scena culturale di Belgrado importante il contatto con Djuna Blasevic, che allora dirigeva il Centro culturale studentesco di Belgrado (concesso da Tito a seguito delle rivolte studentesche del ‘68). Dal 1969 Soskic si trasferisce in Italia, a Bologna, dove scopre il linguaggio di Manzoni e di Pascali, e dove incontra e diviene amicissimo di Luigi Ontani, insieme al quale apre la stagione performativa europea. Dal 1973, è a Roma dove frequenta l’ambiente sovranazionale delle gallerie Gap e l’Attico; tornerà nella sua terra solamente per assistere e testimoniare i disastri della guerra. Il suo lavoro, tra azione performativa, video ed installazioni, tende a fondere in un’elaborazione altamente critica elementi culturali e politici, mitologie ed elementi drammatici della natura: un percorso che offre ampio spazio alla dimensione progettuale condensandone la natura concettuale e filosofica. S.L. e D.C.S.

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Essere nato in Jugoslavia Di Ilija Soskic Essere nato in Jugoslavia voleva dire, nel senso di consapevolezza, essere nato nel 1945 (non anagraficamente) in un paese socialista facendo la prima elementare e i primi passi dell’educazione stalinista. Ero della prima generazione di pionieri con i capelli rasati a zero, con un grembiule nero abbottonato fino al collo e con il mitico fazzoletto rosso legato attorno al collo. Sulle pareti dovunque c’era appeso il ritratto di Stalin. Era un’educazione di “coreografia militaresca” per cui l’idea del sistema mi era imposta da piccolo, insieme alle prime lettere da scrivere e leggere. Qualsiasi movimento si facesse, entrata in classe, uscita dalla scuola, ecc., doveva essere in fila, composta e ordinata. Era una realtà quotidiana che mirava ad un ordine ideologico come un fatto esistenziale e rappresentativo, ma sostanzialmente era un “lavaggio di cervelli”, per usare un’espressione di una volta. Ci dicevano continuamente che eravamo gli eredi di un mondo nuovo che stava costruendo un grande futuro. Ancora oggi ricordo tutto, fino ai piccoli dettagli. Poi nel 1953, dopo vari travagli mi trovai al liceo artistico. Era l’anno della morte di Stalin. La storia non cambiò molto. Le spie si riducevano da “una su tre” a “una su dieci”, ma diventavano più esperte. Si dava l’illusione di una flessibilità del regime più libertario, ma effettivamente non era così. Avevo 19 anni e avevo scoperto lo sport e le possibilità che lo sport potesse dare. Era l’attività privilegiata e volevo provarci: i primi passi in atletica promettevano. Così ho cominciato a fare un cambiamento con me stesso recuperando la fiducia e l’identità. Mi dedicai agli allenamenti con tutta la forza. Avevo grande voglia di riuscire, cercando anche di essere positivo con tutto il resto, che non mi veniva facile visto che ero già parecchio frustrato. Essere nato in Jugoslavia voleva dire essere ossessionato con l’idea di scappare via. Però, malgrado tutto mi dispiace che la Jugoslavia non c’è più, e che il socialismo fosse un errore e il capitalismo una cosa giusta non ne sono convinto! ** Selezione dall’intervista di Vania Granata, novembre 2003. Ilija Soskic, Uccello sulla spalla, performance per foto, 1973, foto b/n di Luisa Tappa, Archivio Soskic. Scheda: Nella palude del delta del fiume Po ho catturato un passero per posarlo sulla spalla sinistra e dargli la possibilità di riprendere il volo. Una performance per la foto. Ho pensato per un attimo di poter essere Icaro e far parte di un volo. La storia mitologica narra di Icaro come di un segno nel quale si riconosce la tipologia della mentalità umana: ossessione, megalomania, ed anche il coraggio. Quel qualcosa in più che distingue l’artista dall’uomo comune è l’Icaro, è il sogno del volo. Giotto ha dipinto S. Francesco che parla agli uccelli. Non si sa se S. Francesco abbia veramente, con le sue preghiere, coinvolto gli uccelli, ma il Giotto ha veramente dipinto quest’immagine, e (solo) questo è importante.

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La squadra atletica “Stella Rossa” Di Ilija Soskic La mia carriera sportiva per disperazione! Come avevo accennato prima, nel sistema del realismo socialista, e del socialismo reale, lo sport era fra le cose privilegiate. Poiché il mio era un caso di dissociazione forzata, non potevo studiare, andare avanti. Questo voleva dire essere segnalato al più basso grado esistenziale. Per fortuna all’età di 17 anni scoprii di avere doti atletiche. Nelle prime gare, da junior, ho cominciato a vincere le gare del lancio del martello di livello minore rivelando però un potenziale notevole. Poi seguiva il campionato nazionale juniores che ho vinto e mi ritrovai nelle competizioni internazionali. In seguito la “Stella Rossa”, la famosa società sportiva di Belgrado, mi diede l’opportunità di inserirmi nel gruppo di atletica leggera, e così fu. Ero considerato dagli esperti allenatori della “Stella Rossa” come un talento di grande prospettiva e quindi mi diedero uno stipendio. Ero uscito dall’incubo. Entrai presto nella nazionale jugoslava, vinsi il titolo di campione e, insomma, ero arrivato ai livelli massimi. Entrai anche fra i candidati per le Olimpiadi del 1960 di Roma, ma fui fermato da uno strappo muscolare, ma poi mi ripresi. Fui attivo fino al 1968, dopo di ché cominciai ad interessarmi più seriamente all’arte. Tornando però alla questione politica, vorrei fare una spiegazione più chiara del perché ero rinnegato dal regime. C’erano in effetti diverse ragioni: una perché ero di origine familiare di nobiltà montenegrina, un’altra era perché mio padre era un ex ufficiale dell’esercito monarchico nato nella seconda guerra, dove non c’erano né miei meriti né mie colpe; e poi ero pubblicamente schierato fra gli intellettuali sostenitori della rivoluzione cinese, della cosiddetta “rivoluzione culturale” passata dal futurismo sovietico alla rivoluzione di Mao. Insomma, bastava ed avanzava, però diventando un campione sportivo venivo perdonato. Comunque non sono mai stato un appartenente a nessuna cosa, tranne alla squadra atletica di “Stella Rossa”. Nel 1969 andai via dalla Jugoslavia e mi trovai in Italia, a Bologna. Scoprii l’arte d’avanguardia contemporanea italiana e anche l’avanguardia storica del futurismo italiano e tutto il clima dei movimenti del “sessantottismo”. L’avevo già fatto all’Università di Belgrado e di conseguenza dovetti lasciare in fretta Belgrado e il paese. A Bologna, all’università, dove mi ero iscritto (Accademia delle Belle Arti), trovai tutto ciò che volevo trovare: l’energia ribelle, il dinamismo emancipatorio di sinistra, la vita libertaria; e la prima volta ho visto la mia generazione come la sognavo a Belgrado, bella e viva. Ho cercato subito di riordinare la mia testa, di collegare le forze che avevo e le nuove forze: la cultura, la politica, il movimento, per crearmi il mio nucleo di energia mentale e tentare la mia fortuna nell’arte. Mi resi conto che la performance poteva essere nutrita di elementi di valore vissuti nell’esperienza dello stadio, della pedana di lancio, del potere della concentrazione e della capacità del gesto di massima energia psicofisica; e su questo “bagaglio” si poteva aggiungere il concetto dei valori artistici: la forma espressiva, il messaggio concettuale, la bravura del linguaggio e altre cose specifiche, anche arte/vita/idee/concetti… ** Selezione dall’intervista di Vania Granata, novembre 2003. Ilija Soskic, Sheafs, installazione, legno e pelle, 1962, courtesy Museo d'Arte Contemporanea Ljubljana. Scheda: I legni nascono nel 1953 quando ho cominciato con l’atletica leggera, con il salto con l’asta, e quindi con l’asta di legno che avevo fatto da me. Poi si susseguono le aste, nella ricerca di una che fosse perfetta, così nacque una collezione che poi divenne un fascio di tante (aste) messe insieme e legate con un filo di ferro sempre con l’intenzione di renderle dritte. Poi, ad un certo punto, ho cominciato a vedere questo “fascio” come un totem, come una scultura, come effettivamente era. Nel 1961 avevo già preso coscienza di essere, con queste aste diventate tantissime, entrato in una scultura particolare. Da lì cominciano i “pezzi”, non più pensati come attrezzo sportivo, ma come ricerca delle forme creative. I primi anni ’60 in Jugoslavia c’era il realismo socialista ancora, come arte ufficiale, e, altrettanto ufficialmente era considerata l’arte astratta come non desiderabile, per cui io non avevo alcuna possibilità di entrare nelle gallerie o in altri spazi pubblici. Questo mio lavoro in legno: le composizioni di aste e forme rotonde rimanevano come in dialogo con me stesso. Studiando all’Accademia di Belgrado mi sono reso conto che non aveva senso continuare. Dopo il 1966 mi dedicai all’atletica, essendo diventato un membro della squadra nazionale. I Campioni sportivi erano trattati bene. Non ho smesso del tutto con l’arte. L’idea che si era sviluppata in forma oggettuale ho cercato di

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portarla avanti sulla carta, disegnando le forme astratte, gestuali, in varie tecniche, però sperando di riprendere un giorno il materiale. Non lo feci mai anche perché il mio interesse ebbe dei cambiamenti. La passione iniziale si trasformò in rabbia. Il mondo dell’arte mi ripugnava. Mi dava fastidio a pensarci, e poi eravamo alla vigilia del ’68. C’era moltissima inquietudine fra gli studenti universitari e fra i giovani in generale, per cui anch’io cercavo un altro tipo di comportamento rispetto agli standard, al cosiddetto JUS (lo standard jugoslavo) che era una normativa politico‐ideologica dell’economia… e di cultura.

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Trovare un modo per evadere dall’arte: FLUXUS e Gap anni 70 e oltre Di Ilija Soskic Ho sempre pensato che era necessario avere una freddezza verso l’arte, nel senso di una presenza misurata ed attenta. Delle volte bisogna saper spostarsi, uscire e rientrare, giocare il nascondino. Fin dall’inizio mi sentivo sdoppiato fra amare l’arte e non amare il mondo dell’arte. Non è soltanto il realismo socialista ad essere il sinonimo di un sistema, ma anche l’arte occidentale, che vanta un liberalismo, non scherza sull’essere un sistema. Il realismo “liberale” con il suo mercato, ed il centralismo lobbistico della scena artistica, e poi con una serie di caratteristiche repressive e ciniche, non mi risulta diverso dal realismo socialista tranne nella scelta di obiettivi e di maniere. Il Situazionismo degli anni ’60 e i movimenti successivi degli anni ’70 nell’arte, incluso il teatro e la musica, cioè l’arte interdisciplinare, hanno evidenziato chiaramente, attraverso una netta critica della cultura borghese, offrendo le alternative, un altro modo di pensare, fare e comportarsi. Si potrebbe dire che la formula era “superare l’arte”, e credo che il processo non si è interrotto. Infatti, il mio assioma entscheidungsproblem (“procedere per verificare”) è un segno di cui tengono conto i metamatematici, ma anche i logici e gli altri pensatori. Credo che la scena artistica attuale è divisa su due concetti, direi contrapposti duramente, che sono la conquista della società, e, all’opposto, la conquista della metamatematica, non soltanto simbolicamente, ma nel senso di andare oltre, di cercare qualcosa di più, come è sempre stato, particolarmente nell’arte concettuale. Abbiamo sempre parlato dell’arte mentale, dell’arte del comportamento, da cui viene la performance, però siamo sempre rimasti sulla ricerca del “sesso degli angeli”. Tutti sappiamo, per mezzo di una semplice saggezza, senza richiamarci troppo ad un alto rango di sapienza, che la creatività non nasce sotto l’ala dell’elite sociale, ma ben altrove; se, però, la realtà ci conduce al contrario, significa che abbiamo accettato l’imbroglio e quindi abbiamo rotto le regole del bridge, e quindi non giochiamo più a bridge. Gli artisti “importanti” restano sempre quelli della data classe e non mai gli altri, i fuori classe, che sembrano non esistere. Ma davvero è così? Durante la guerra civile jugoslava, 1991/1994, ho tenuto a Belgrado, a Novi Sad, in Ungheria (con Otto Tolnai) e all’Accademia dell’Arte a Düsseldorf (con Claus Rinke) diverse performances con la verbalizzazione su questo tema. Inoltre feci varie interviste, per giornali, riviste e T.V., dove alzavo la voce contro la guerra, associando l’arte di appartenenza e i vari “nuovi filosofi” di sinistra occidentale, i cosiddetti “differenzialisti”, impegnati a giustificare la guerra e l’asimmetrismo. Ho visto all’opera una classe dell’intellighenzia del sistema mediatico agire da mercenari. Scrissi anche diversi articoli per giornali specializzati dove, fra l’altro, scrissi sul Situazionismo (“la rivoluzione dell’arte moderna e l’arte moderna della rivoluzione”) cercando di ricordare quello che mi sembrava molto importante, spinto nella dimenticanza, cioè la dimenticanza stessa. Fui mal accolto dalla destra nazionalista, generosamente sostenuta dalla sinistra differenzialista e dalla CIA. Che confusione!? Si moriva nel mezzo di una confusione, come delle galline, e, appunto, sono tempi che stiamo percorrendo; tempi di smarrimento e di paura. Insomma, la mia posizione è cercare di sopravvivere. Non sono di quelli che ai tempi di oggi si sono fatti una fortuna, e mi vanto di questo. Il movimento Fluxus sono i miei amici per natura, particolarmente Boris Nieslony e l’ex gruppo Büro Berlin. Pensa: nel 1987 mi trovavo a Dubrovnik, in ritiro artistico, e un giorno vedo arrivare a cercarmi Boris Nieslony, che fu una vera sorpresa. Chi sa come abbia fatto a trovarmi? Il mio indirizzo di Dubrovnik non esisteva, eppure lui m’ha trovato; si è trattenuto solo poche ore, giusto per informarmi della mostra di “Büro Berlin” nella quale voleva che io prendessi parte in una performance abbinata con lui, due performance come una. Abbiamo mangiato qualcosa e poi lui è ripartito, tutto in poche ore. Così sono gli artisti fluxus. Eravamo d’estate ed in autunno arrivai a Berlino, come eravamo d’accordo. C’erano tutti della Fluxus Internazionale. Così si è chiuso un capitolo del gruppo berlinese. Il Fluxus è soprattutto un comportamento, un rapporto comportamentale di contenuti precisi dai quali viene poi anche un’opera d’arte, ma non necessariamente. Credo che l’opera d’arte e l’operazione d’arte, e le cose che si trovano di mezzo, secondo il principio matematico della “inferenza lineare”, vengono successivamente spiegate una con l’altra. Insomma, non si può definire il Fluxus. Si può, proprio se si vuole, dare un’interpretazione libera come

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faccio io in questo momento, per non essere scortese verso uno che mi fa questa domanda, però aggiungo subito che forse sbaglio… Per quanto riguarda il resto della domanda comincio a dire che ci sono degli artisti che subiscono delle ingiustizie assurde perché non sono attenti (parlo sempre dei non‐appartenenti) e non vogliono essere attenti alle regole della società artistica e degli interessi del mercato. La galleria Gap era, appunto, la galleria che agiva fuori dalle accennate cercando di dare spazio agli artisti “autoemarginati” di cui il lavoro non veniva codificato per natura del loro concetto ideologico, salvo Paik e Vostell, visto che sono nominati nella domanda, che erano presenti in entrambi i campi. Dipende molto dalla strategia del lavoro di un artista, dipende dai metodi, dalla maniera espressiva, dal carattere dell’artista e anche forse dalla simpatia e dal fascino del personaggio dell’artista. La galleria Gap ha lasciato un volume nel quale si trova documentata l’attività dal 1972 fino al 1975, ma piuttosto vorrei dire di Giovanni Fileccia, fondatore e direttore della Gap, qualche parola. Gianni era un politologo che veniva dalla T.V. e dal cinema, ma poi alla fine degli anni ’60 ha deciso di approfondire alcuni punti della contestazione del ’68, che nel cinema era trattato di striscio, e così ha avuto l’idea di cercare gli artisti, aprendo in Via Monserrato una galleria del tutto diversa dalle gallerie del momento. Con Gianni ci siamo incontrati a Milano nel 1972, e poi ci siamo rivisti a Bologna dove allora abitavo e mi propose di trasferirmi a Roma. Mi diede una sistemazione vicino alla galleria e così entrai nell’attività della Gap nel 1973. C’era un gruppo di artisti (non faccio nomi), attorno all’idea “arte, vita e politica” come raggruppamento di idee, cose e fatti in un dibattito permanente ed aperto, si può dire che era l’unica galleria del Fluxus italiano, e ovviamente anche internazionale, anche se non c’erano delle dichiarazioni in questo senso. Lo spazio era quasi sempre vuoto con al centro un grande tavolo con la carta da scrivere e così chiunque entrasse dentro aveva questa opportunità. Poteva lasciare un messaggio scritto, disegnato, come si voleva e così nasceva un “materiale” che poi veniva comunicato con il mondo in maniera ciclostilata; oppure, poiché la Gap aveva un cartellone anonimo a Porta Portese dove esponeva le gigantografie, si poteva fotografare il messaggio scelto, fare la grande foto e appenderla sul cartellone. L’ho fatto anch’io. ** Selezione dall’intervista di Vania Granata, novembre 2003. Ilija Soskic, Hohenzollern, performance per video super 8,12’, 1976, Video e performance realizzati presso il Palazzo Reale Hohenzollern, Tübingen per la Galleria Dacic. Foto a col. di Zivojin Dacic.

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Ilija Soskic, Latte‐Seta. Energia massima tempo minimo, performance‐azione in 4 atti (sparo nel muro), 1975, Galleria L’attico, Roma, nell’ambito della mostra 24 ore su 24, Foto Lionello Fabbri Scheda: Galleria L’Attico 1975, impegnata nel progetto “24x24”, con la partecipazione degli artisti Kounellis, De Dominicis, Patella, Mattiacci, Festa, Boetti, Ontani, Germanà, Pisani, Prini, Chia, Clemente e Soskic. Il progetto conteneva un’azione collettiva impostata sul tempo di sette giorni in continuità, giorno e notte, dove si alternavano all’orario‐proposizione, ogni due ore, un artista – un lavoro. La mia performance era composta di quattro tempi: il tempo del cuscino di seta rosa messo per terra; sopra ci stava seduto l’artista che coinvolgeva il pubblico in una conversazione contraddittoria: tutti gli argomenti venivano sostenuti e negati nello stesso tempo, compresi l’ambiguità e il qualunquismo. Il secondo tempo conteneva l’uso di un coltello a serramanico infilato al centro del muro, senza storie, senza “drammaturgia”, che coinvolgeva il pubblico sul fatto tautologico (la cosa si spiega in se stessa). Il terzo tempo presentava un tavolo di colore nero dove l’artista coinvolgeva un altro artista per fare il “braccio di ferro” (la cosa si spiega in se stessa). Il quarto tempo, il tempo conclusivo, l’artista sceglie la stanza senza finestre dove piazza per terra davanti al muro un fiasco di latte ed una rivoltella carica. Dopo un’ora, alla metà del tempo previsto, l’artista entra nella stanza e con la mano sinistra prende il fiasco di latte e con la mano destra prende la rivoltella. Punta l’arma contro il muro di fronte e spara. Rimette poi tutto alla posizione precedente e lascia la stanza. Lascia anche la galleria concludendo la performance. L’idea nasce sulla memoria del suicidio del poeta futurista russo Majakovskij; sparandosi in testa, lascia un biglietto scritto: “non lo raccomando a nessuno”. “Massima Energia –Tempo Minimo, “Gli anni di piombo”, il sogno rivoluzionario, l’utopia, la realtà, e tante altre cose; lo sparo al muro era l’assioma del tempo e dell’arte che fa il segno…

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Astensione/Gli anni 80 Di Ilija Soskic Copertina della rivista “La Moto”, giugno 1980. Ilija Soskic al Raduno Internazionale dei Motociclisti a Roma. Astensione o rinuncia? È una domanda alla quale non avevo la risposta chiara. Siamo a Roma, 1976, quando le credenze, le passioni e le idee di prima non reggevano più. Non si poteva immaginare più niente, anche se apparentemente continuava la scena d’avanguardia d’arte. Ormai era diventato un fatto istituzionale. Eravamo al capolinea per cui volevamo anticipare la crisi, cambiando il comportamento. Sentivo bisogno di non vedere più gli altri artisti, compagni di strada di una volta, di un percorso. Sentivo bisogno di tentare una vita solitaria, tutta mia. Ero da tempo un appassionato motociclista, un guzzista. Avevo una moto “Guzzi 500 Alce”, una moto militare d’epoca, per cui un indizio c’era già. Partire, andare via, non essere più di mezzo ad una paranoia artistica dei salotti romani. Pensai a Capo Nord. Volevo arrivare a Capo Nord con la moto. Ho cominciato a preparare la moto e l’equipaggiamento, studiare il percorso lungo 5000 Km, studiare le tappe, accampamenti e altri dettagli tecnici. Di testa ero già pronto. Volevo arrivare allo sperone del Capo Nord e piazzare sulla punta più nord del pianeta un mio bastone. Il 24 luglio, il giorno del sole di mezzanotte era il mio traguardo. Partii il 20 luglio. In quattro giorni dovevo percorrere 5000 km, più di mille chilometri al giorno. Il 10 luglio, a dieci chilometri da Hannover si è fermata la moto, una valvola del motore spezzata. Era la mattina ed avevo appena iniziato la tappa per il passaggio in Scandinavia. Finii in una motofficina. Il pezzo di ricambio non c’era per cui presi il treno verso l’Italia, per prendere la valvola e poi indietro per Hannover. La moto fu sistemata, ma avevo perso il ritmo del viaggio e quindi il 24 luglio, il giorno del sole di mezzanotte era ormai irraggiungibile. Ad ogni modo quello che chiamavo l’astensione era già in atto. Tornai a Roma, passando per Amsterdam e per Parigi, e poi verso l’Italia, passando il Brennero e poi Venezia, e poi la strada statale la “Romea”, la superstrada verso Perugia e infine arrivo a Roma. Dopo un paio di giorni davanti a Rosati incontrai Mario Diacono. Aveva appena aperto la galleria a Roma. Mi offrì la mostra. Così improvvisamente. La fissammo per il 20 di luglio 1980. Non ero convinto, però la feci lo stesso. Feci anche un’altra nel 1983, ancora meno convinto. Nel frattempo cambiai la moto: comprai una moto “Guzzi California” di 850 di cilindrata. La Transavanguardia era in piena espansione. Partii di nuovo verso Nord Europa, verso Amsterdam. Volevo vedere cosa facesse la galleria “De Appel” e la direttrice artistica Aghi, con la quale avevamo parlato anni fa di una mia mostra, mai riuscita mai disdetta. Volevo anche vedere la Marina Abramovic e Ulay (Marina era una mia scoperta. La incontrai nel 1970 a Rovigno, mentre era ancora una studentessa. Era un’artista, anche se non lo era ancora. Le offrii di venire con me a Comacchio dove avevo una casa in campagna, e così fu ospite da me. Le feci conoscere Luigi Ontani, la letteratura artistica dell’epoca ecc. in seguito lei seppe fare tutto il resto strepitosamente) dopo tanto tempo la volevo vedere. Partii per Amsterdam. Mi resi conto subito che cosa era la moto “Guzzi California”, chiamata dai motociclisti “bisonte della strada” per l’imponenza meccanica. Il mondo del motociclismo degli anni ’60 – ’70 era nettamente diviso fra le moto europee (Moto Guzzi, BMW, Laverda, Ducati) e le cosiddette “Nippomoto” (Kawasaki, Honda, Suzuki, Yamaha) sull’immagine ideologica. Le moto giapponesi erano di destra, erano le “nippo‐schizzo”, rumorose, scattanti e veloci, e raramente “raid‐viaggiatrici”; anche perché non erano resistenti. Si surriscaldavano facilmente, specialmente in salita e sotto acrico. Erano brillanti soltanto nella presenza urbana, nei tratti brevi e nei moto raduni. La moto europea, particolarmente la Guzzi e le BMW, erano le moto resistenti, un po’ meno scattanti e veloci, però più solide di telaio e più sobrie dall'aspetto estetico. Erano due tipologie del motociclista di destra e di sinistra, però a differenza di tutte le altre cose che si distinguevano ideologicamente a taglio netto, fra i motociclisti non era così. La “cavalleria d’acciaio” aveva veramente un comportamento cavalleresco. Quando ci si incrociava sulla strada ci si salutava ritualmente. Se una moto era ferma, a bordo strada, magari il motociclista faceva un bisognino, si fermavano tutti per vedere se tutto fosse a posto. Non ho mai visto un caso diverso, uno che non rispettasse questo rito, a prescindere dalla tipologia ed ideologia. Queste cose esistevano soltanto fra i motociclisti, fra “centauri”. Io ormai ero fra di loro a “tempo pieno”, ed ero un solitario. Normalmente si viaggiava in gruppi o in coppie, io invece appartenevo ai solitari, ai più duri. Si riconoscevano, non solo per le bicilindriche, “la Guzzi e la BMW”, ma anche per l’abbigliamento: i blue‐jeans con stivali, o addirittura le scarpe da tennis, e poi la giacca di pelle con il fazzoletto al collo, e senza casco e senza guanti. Invece

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l’equipaggiamento era al completo: la tuta da pioggia, una tendina con il sacco a pelo, la scorta di calze e la biancheria robusta, gli attrezzi meccanici e i pezzi di ricambio come il filo‐guaino, camera d’aria, le lampadine e gli altri materiali consumabili. Sto parlando di raid‐viaggiatori, di lunga tirata, come ero io. Gli altri erano i cosiddetti “schizzatori” per i tratti brevi e per l’immagine. Poi c’erano le donne, le ragazze “centaure” di entrambe le tipologie. In volo non le si riconosceva. Ci si vedeva soltanto alle soste e ci si guardava. La loro presenza faceva gran piacere. Rendevano la “cavalleria d’acciaio” più bella e più erotica. Era un mondo che mi faceva dimenticare completamente l’arte e le paranoie, le ambiguità e le cattiverie dell’arte. Le ragazze motocicliste mi piacevano moltissimo. Erano le donne speciali, le amazzoni moderne, reali, fisiche. Fra i tratti veloci che duravano più o meno 150 – 200 chilometri mi fermavo. Bevevo molti caffè per tenermi sveglio e poi fumavo il mio sigaro toscano. Le aree di sosta erano anche i momenti di moto‐socializzazione. Ero sempre ben visto dagli altri motociclisti, con il mio sigaro e i baffi visibili. Anche la mia moto per come era attrezzata ed equipaggiata e con il suo grande manubrio e la sella particolare, con la forcella ed il cardano robusti, più delle altre moto. Era tutta il più. Non a caso era chiamata il “bisonte della strada”. Arrivato ad Amsterdam andai direttamente alla “De Appel”. Volevo rintracciare la Aghi e la Marina e Ulay. Mi dissero che la Marina e Ulay erano via, erano in Italia, a Firenze. La Aghi c’era. Il giorno dopo ci siamo trovati a casa sua. Fra di noi c’era nel passato un interesse per una mostra alla “De Appel” che però non si riusciva a realizzare. Ci si parlava, c’era una simpatia o curiosità, o altro, ma non abbastanza per lanciarsi in una mostra. Loro, femministe della galleria e del programma ed io con la moto, il sigaro in bocca e i “baffi a manubrio”; non coincideva bene, anche se da un lato coincideva fortemente. Il giorno dopo, alla sera, la Aghi m’ha invitato per una cena in un ristorante fuori città. Era molto depressa e triste per la morte delle sue amiche e socie della galleria, in quel fatale incidente aereo. Dopo questa amichevole cena non ci siamo più visti. Eravamo nel 1983. Tornai in Italia, a Firenze dove erano la Marina e Ulay. Ci fu un incontro caloroso. Si buttò all’abbraccio prima che scendessi dalla moto e per un pelo non ci siamo rovesciati per terra. Era bellissimo anche se poi dopo ci chiudemmo ognuno nel proprio, alla “Marina Abramovic”. Fui ospite loro, in questa villa del Centro Culturale Tedesco, per due giorni, però non accadde niente. Lei continuava il suo lavoro tranquillamente. Non le interessava più di tanto cosa succedeva attorno, cosa succedeva agli altri. Ci lasciammo e poi tornai a Roma. Poco tempo dopo ripresi il viaggio. Questa volta ero lanciato verso l’est, verso la Jugoslavia, verso Belgrado. Feci l’autostrada del sud verso bari, da dove volevo prendere il traghetto, ma poi sbagliando il giorno della nave presi la strada lungo mare verso Trieste; mille chilometri non previsti. Arrivando a Trieste dovevo decidere se fare l’Istria oppure la Slovenia. Il tempo era bello e decisi di fare le Alpi Slovene verso Liubliana. Però ci fu un rapido cambiamento del tempo, ma ormai ero su questa strada. In alto, nelle montagne trovai un vento forte e poi anche la pioggia. Arrivai a Liubliana fradicio, ma non mi fermai tranne che per prendere un the. Speravo che scendendo dalle montagne verso Zagabria avrei trovato un tempo migliore, ma non fu così. Passai anche Zagabria senza fermarmi, prendendo la superstrada “Fratellanza e Unità”. Da Trieste a Belgrado sono circa 700 chilometri, però sotto la pioggia la moto scendeva di velocità alla media di 60 all’ora per cui dovetti fermarmi a 100 chilometri da Belgrado e prendere un motel. Ero distrutto e cominciava il buio. Il giorno dopo c’era un bel sole. Arrivai a Belgrado alle 10 del mattino e andai dritto al Centro Culturale SKC. Ero nel mio paese anagrafico, ma di mio poi non c’era molto. Belgrado? Ma cosa ci facevo qua? C’erano sempre loro, il gruppo di critici e gli artisti del potere, affiliati ai servizi di sicurezza dello stato. Il Museo di Arte Contemporanea, l’Accademia delle Scienze e dell’Arte, l’Unione degli Artisti e la Cattedra di Storia dell'Arte erano strettamente controllati da questo gruppo di zdanoviani (Zdanov, Ministro della Cultura di Stalin, che non esitava a tirare fuori la pistola). Apparentemente mi diedero un’accoglienza amichevole. Mi diedero anche la data per una mostra alla galleria SKC. Eravamo nel 1983. Feci questa mostra che poi non significava niente. La Jugoslavia era già moribonda. L’aria che si respirava era marcia. La credenza e la fiducia erano ormai il soggetto di sarcasmo e d’ironia. Si affacciavano i nazionalismi, le etno‐manie e il fascismo, dentro il partito comunista. Ripresi la mia moto puntando verso il Montenegro per poi prendere il traghetto per Bari. Ormai eravamo nell’autunno 1984. Dovevo attraversare la montagna di Zlatibor, che era già sotto la neve, poi seguivano le montagne del Montenegro. Al mattino presto quando iniziai il viaggio c’era una pioggerella, ma speravo di trovare il sole più avanti. Invece continuava la pioggia sempre più insistente. La strada statale che passava per le pianure e le campagne della Serbia, mi resi conto subito che era molto pericolosa.

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L’asfalto era fangoso perché ci passavano i trattori e le bestie, e quindi rallentai la moto a 50 orari. Sono 600 chilometri da Belgrado al Montenegro al Porto marittimo. A metà strada dovetti toccare il freno e la moto perse l’aderenza. Fu una caduta spettacolare. Ci trovammo sull’asfalto in una scivolata di 20 – 30 metri. Ero aggrappato al manubrio. La moto niente, solo una freccia rotta, mentre io invece sentivo il braccio e la spalla non bene. Tentai di rialzare la moto, ma niente da fare. La moto, con l’equipaggiamento, pesava attorno ai 300 chilogrammi, ed io con un braccio solo. Nel frattempo c’era in arrivo un trattore con due contadini che mi hanno messo la moto sulle ruote. Il motore parte al primo colpo, e quindi tutto a posto, però il braccio sinistro non va bene. A malapena riesco a muovere le dita, con il dolore sempre più forte. Comunque riesco a manovrare la frizione e riparto. Dopo un’ora di cammino mi trovo davanti alla salita della famosa montagna Zlatibor. Ho sempre dolore alla spalla e al braccio, e poi non ho idea di cosa devo trovare sulla strada di questa montagna. La neve c’è, però spero che la strada sia pulita. Mi metto sulle tracce delle ruote di un camion, a passo d’uomo. Dopo un po’ vado in sorpasso e continuo da solo. La sofferenza è molta. Non ho mai avuto una situazione di strada così difficile: dolore, freddo e rischio. Faccio il passo della montagna e mi fermo davanti ad un’osteria. Presi un the e una grappa, poi mangiai qualcosa. Sento la spalla che non va bene. Mi sembra di aver rotto qualcosa, forse un tendine o la clavicola, ma devo proseguire. Sono le sei di pomeriggio e quindi ho due ore di luce. Posso fare altri 100 chilometri e poi c’è una cittadina e un bel motel sulla strada. Riparto. Una fatica tremenda. Dopo un’ora di guida trovo la pioggia di nuovo. L’acqua negli stivali, acqua dappertutto. Non c’è un abbigliamento che regge. Mi mancano una ventina di chilometri. Ho una netta discesa, piena di curve a gomito, e comincia anche il buio. Questi ultimi chilometri diventano una vera e propria lotta di sopravvivenza. In basso intravedo le luci del paese e prendo coraggio, stringo i denti. Dopo circa quaranta minuti sono finalmente davanti al motel. Tutti a guardarmi come fossi un marziano. Alla portineria mi dicono che non c’è un posto libero, ma poi spunta una camera libera. Mi chiedono da dove vengo. Si meravigliano. Entro in camera, ma non posso cambiarmi perché anche i vestiti di scorta erano bagnati. Vado così come ero nel ristorante per mangiare qualcosa. Poi mi faccio una doccia e prendo due aspirine e dritto a letto. Il giorno dopo era un miracolo il tempo: c’era un sole di montagna e la strada asciutta. La moto era talmente sporca che non si riconosceva il suo colore rosso‐bordeau. Era tutta grigia dalla “pellicola” del fango sottile. Avevo altri 150 chilometri fino al porto e fu una passeggiata bellissima dopo l’inferno del giorno prima. La spalla continuava ad essere rigida e dolorosa. Il resto del viaggio, fino a Roma, fu un viaggio di routine. Arrivai a Roma. La spalla mi faceva meno male per cui non andai dal medico. Il mio piccolo studio in Vicolo del Bollo era sempre più piccolo e triste. Dormivo in una brandina militare da campo, in un sacco a pelo. La sosta romana praticamente era in funzione di un prossimo viaggio che consisteva, oltre alla preparazione meccanica della moto, alla preparazione mentale e politica, perché si ripeteva la Jugoslavia. Dovevo tornare e prendere parte alla “paranoia jugoslava” e la guerra civile mi sembrava inevitabile. Anzi, a dire la verità, sentivo una gran voglia di vedere un resoconto di un’utopia talmente sporcata e deprimente, con la CIA americana che in Jugoslavia aveva trovato il “formaggio svizzero”, e che la cosa buona, sicuramente un patrimonio di una possibile civiltà socialista, che era l’assistenza sociale e la cultura dialettica del terzo mondo. E poi c’era anche una convivenza interdisciplinare dei popoli, delle etnie, e delle religioni; ormai tutto quanto tradito, venduto e distorto. La Jugoslavia era ormai un paese patetico e pericoloso. Voglio ritornare per testimoniare una svolta inevitabile, e tragica. Gli slavi non si sono mai del tutto civilizzati di poter adoperare la dialettica, il sofismo e la bravura politica; e d'altra parte sono rimasti legati alle armi, alle memorie belliche, al culto del cannone, particolarmente nei serbi. Nel primo viaggio ho trovato la crescita dell’odio e dell’inflazione monetaria, per cui non era difficile immaginarsi il futuro. Nel 1986 partii di nuovo per Belgrado dove feci una presenza‐performance sul “mistero dell’acqua” di Tarkowsky alla galleria SKC e poi feci un’intervista con Bojana Peic, per la rivista “Start” di Zagabria dove venivo definito da lei “easy‐raid”, il che voleva dire che lei era l’unico critico d’arte di Belgrado che si rendeva conto di ciò che facevo. Poi ritornai un’altra volta a Roma, ed era la volta della separazione dalla mia moto e dal mio sigaro toscano. Ritornai subito in Jugoslavia, a Zagabria, in treno con lo zaino e il sacco a pelo. Poi feci il giro di tutti i centri culturali della Jugoslavia: a Liubliana, a Sarajevo, a Titograd in Montenegro, e di nuovo a Belgrado. In questo girovagare jugoslavo incontrai tre donne interessanti: a Sarajevo la Nermina Kurspahic, teatrologo e direttrice della galleria “Novi Hram”, e feci con lei la mostra ed

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un’intervista importante; poi la Luba Gamulin, storico d’arte e direttrice della galleria “Sebastian” e feci anche con lei una mostra‐performance, con la quale chiudeva l’attività della galleria, e poi Dragica Cakic, filosofo e giornalista. Ilija Soskic, Il mondo è ricco, l’uomo è povero, performance/installazione, calco in gesso della mano, colore verde kent, aculei di acacia, poesie di Velimir Chlébnikov, 1980, Roma, Galleria Mario Diacono, (particolari 1,2,3,4). Scheda: Un tableau‐vivant composto di una installazione dedicata alla mano sinistra che tiene la propria copia (della mano sinistra) in gesso dipinto color verde turchese dalle cui dita divaricate si protendono cinque aculei vegetali. Alla fine del tableau il “doppio” della mano viene murato come se spuntasse dal muro verso lo spazio del resto. Un’impronta d’artista, un assioma dell’Haz‐Art (M. Diacono: “L’HazArt”).

Ilija Soskic, Sator (Carré Magique), installazione e performance con Lea Tolnai, (marmo e danzatrice), 1989, foto (b/n) Tomislav Svilokos. Scheda: Sator Arepo… L’idea nasce alla fine degli anni ’70, nel momento della trasmutazione generale del mondo e nel momento di una mia riflessione personale. Procedere senza l’ideologia movimentista e senza un linguaggio comportamentale predisposto, e anche senza l’imbocco dell’anacronismo di tendenza della scena artistica, doveva essere estremamente innovativo ed anche estremamente difficile. Bisognava affrontare una solitudine particolare, trovarsi lontano da tutto e con la credenza ossessiva e personalizzata del tutto. Il simbolismo mitologico invece offriva una possibilità nel vuoto in cui mi trovavo. Così cominciai con il famoso quaderno “Sator…”, contando sul fascino e sulla bravurosa “lettura” di queste cinque parole costellate in quadrato che si leggevano da tutti i quattro lati. Questo sistema 5x5=1 portava verso un’estensionalità importante, equivalente alla grande trasmutazione in corso. Lo capii come un progetto a tempo indeterminante, con un titolo in lingua francese “Carré magique”, per convenienza, aggiungendo due punti storici referenziali: da una parte “Quadrato bianco su bianco” di Malevic, e d’altra parte le Geometrie di Platone. Così nasce questa costellazione mentale la quale, effettivamente, mi diede lo slancio per gli anni ‘80 e ’90, malgrado la difficoltà drammatica. Riuscivo a mettere in ordine il pensiero, il pensiero che viaggia, attraverso la cosiddetta “inferenza lineare” dove le cose e i fatti si spiegano

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successivamente l’uno con l’altro. Ad ogni modo il mio “quadrato”, come opera d’arte, che è il vero traguardo, basato su queste cinque parole (sator, arepo, tenet, opera, rotas) è un’operazione creativa, una scultura, un quadro, un gesto, un segno, un racconto, ed anche uno scudo e tante altre cose. Alla fine è anche una semplicissima forma che può essere scritta con la matita sulla carta usando i numeri da “1” a “25”, cioè “5x5”… e così via…

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Anni Novanta, anni di disagio Di Ilija Soskic Per me questo era il tempo della sciagura, della guerra civile jugoslava che mi coinvolse e travolse, senza il mio consenso e la mia volontà. E poi non furono soltanto gli anni bellici, dal 1991 al 1994, ma anche quelli dopo la guerra fino ai tempi d’oggi. Nel ritorno a Roma (1996) trovai la sinistra anti‐jugoslava contro di me perché jugoslavo di etnia serba, che continuavo a difendere, convinto della pesante ingiustizia dei cosiddetti differenzialisti (di sinistra). La mia riabilitazione al lavoro, di cui avevo molto bisogno, non fu attuata, anzi, fui isolato (imbottigliato) con una tendenza precisa. La scena artistica, i musei e le gallerie di prim’ordine, in grado di rilanciare, promuovere e riabilitare, furono chiuse per me. I critici e gli altri interlocutori, e anche gli artisti della centralità, si coordinavano nei miei riguardi per la negazione totale, per cui la mia posizione, dopo guerra, in Italia e in Francia, fu azzerata. Fui spinto nel disagio esistenziale uguale a quello della guerra, senza però l’assistenza della croce rossa internazionale. Questa è la situazione ancora presente, ora, nel 2003. Subivo il rigetto dell’intera scena artistica, tranne i due critici Simonetta Lux e Gabriele Perretta, e forse di qualcun altro, ma che non aveva abbastanza coraggio... un disagio inutile... Portai avanti il progetto Teatro del Pane. Fu la prima occasione a Castelbasso, in una mostra collettiva internazionale intitolata Trasalimenti. Trovai un forno del Seicento, un relitto che ho rimesso in uso. Feci fare il pane dalle donne del luogo (un borgo medievale di 49 abitanti): 25 pagnotte rotonde caserecce messe a terra; davanti al forno ancora caldo e profumato di pane un lenzuolo bianco contadino sul quale misi in ordine “carré magique” e il pane. In fondo, sul muro, in una nicchia, feci un “tableau vivant”: seduto incastrato nel buco con una bombetta sulla testa e il vestito bianco. Il vecchio forno diventò un’opera d’arte, incluso nella mostra che durò (per me) il tempo dell’inaugurazione. Nell’arco degli anni ’90 furono compiute le seguenti realizzazioni pubbliche: 1991‐1995: Nel corso della guerra civile, feci diverse interviste per i giornali, radio e T.V., con la forte e chiara critica contro la guerra. 1994: Incontro con Otto Tolnai e la partecipazione al festival “Mediawave” di Gyor, in Ungheria; con una performance insieme a Lea Tolnai, partecipando anche come membro della giuria per i films d’autore. Congiunta anche un’intervista T.V. del programma eurovisione ungherese. 1998: Feci parte della mostra Punto di fuga di Simonetta Lux al Palazzo Colonna di Genazzano con il progetto Clandestini. Cinque persone sedute sulla panchina, girate contro il muro, senza documenti, senza identità (che acquistano la legalità nello spazio e nel tempo dell’arte); un progetto che non fu realizzato. 1999: Al Teatro Argentina di Roma, partecipai al convegno sull’artista Alberto Savinio, invitato da Simonetta Lux. Feci un tableau vivant inserito nella tavola rotonda del dibattito con la formula E‐mc² di Einstein scritta sul cono (di cartone nero) sopra la testa (la foto fu pubblicata sul “Corriere della Sera”) ripreso anche dagli studenti della facoltà di Lettere come l’assioma della manifestazione No all’intervento armato in Jugoslavia. In seguito fui invitato alla Facoltà di Fisica de “La Sapienza” per un dibattito anti‐guerra. 1999: La rivista “Lettre International”, per scelta di Rebecca Horn: fui inserito nel gruppo di artisti per omaggio al 2000, per il passaggio del millennium. Feci il Teatro del Pane pubblicato su due pagine intere. Così ho chiuso gli anni Novanta; anni del disagio e delle tragedie. Ilija Soskic, Poiesis disciplinata (i corpi di Platone), o Alea, legno e marmo, 1994, a VRSAC. Scheda: Alea, “Gioco dei dadi” inteso come un tavolo complessivamente (un cubo) di 100x100 cm costruito in falegnameria, senza chiodi, secondo un mio disegno. Di sopra viene messo il cubo di marmo di 50x50 cm tagliato in una cava, in modo che diventasse un oggetto tautologico: due cubi “in gioco”… Soskic, malgrado la guerra in corso in Jugolsvia, partecipò alla mostra invitato dal curatore Grosdanic Gera, venendo dalla Grecia dove era profugo.

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Ilija Soskic, E ═ mc², 1999, performance eseguita durante il Convegno Le metamorfosi di Savinio, performance‐ tableau vivant (l’artista, copricapo ku klux klan di cartone nero, con inscritta la formula della bomba al fosforo con una matita da trucco), Roma, Teatro Argentina 14‐18 aprile 1999. Scheda: La formula dell’energia atomica intesa come gesto di contestazione in diverse performance‐azioni, connesse al bombardamento della ex‐Jugoslavia, e l’impiego delle mini‐bombe nucleari, i cosiddetti proiettili di uranio impoverito. Una formula che andava scritta sul cono di carta nera con il quale veniva coperta la testa. Veniva scritta con la matita da trucco delle donne direttamente sulla fronte, sempre come il trucco, ma in un altro contesto. Questo gesto fa parte di un mio lavoro degli anni ’70, quando le mie azioni di presenza e di trasformer andavano come linguaggio ideologico, che i critici definivano come “arte del comportamento” o come “body art” formalmente percepito e considerato, ma soltanto a livello di curiosità. La caratteristica di questo “linguaggio d’arte” era nella capacità di farsi valere aldilà delle istituzioni e dell’ufficialità di esse, che soprattutto rendeva le idee e le azioni d’artista libere e slanciate, cioè l’avanguardia di pensieri, di idee, di cose e di fatti. «E ═ mc²» significa, oltre il riferimento politico immediato, anche lo scatto e la velocità d’espressione creativa.

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2000, Continuità Di Ilija Soskic 2000: Dopo la mostra di Berlino (Galleria Brötundspiele) parto per Belgrado a prendere parte al rovesciamento del regime di Milosevic. Di proposito feci una performance al Centro di Decontaminazione Culturale che fu il quartier generale dell’opposizione intellettuale e delle lotte politiche anti‐guerra. La performance era composta da una diagonale fatta di fiori di plastica che tagliava il muro principale, un tavolo di colore nero davanti al muro di fianco sul quale salivo per esporre la parte parlata con l’assioma metamatematico 0 ≠ 0, (considerato dai metamatematici stessi come l’Assioma Bastardo). La conversazione toccava la politica di Belgrado e la politica in generale, sottolineando tutti i disagi intellettuali dei tempi attuali, particolarmente dell’arte e del populismo culturale durante il potere di Milosevic, ma non solo di Milosevic e della Serbia, ma anche della postmodernità e dei suoi prodotti dello “specchio distorto” e del liberismo globalista. 2001: Feci un video di tre minuti imperniato sulla formula dell’uranio impoverito e della “formula bastarda”, che fece il giro di diverse mostre internazionali (Atene, Mosca, New York) compresa la 59ª Mostra del Cinema, della Biennale di Venezia. 2002: Su invito del Comitato Anti‐Legge‐Bossi‐Fini, partecipai al comizio della Facoltà di Filosofia de “La Sapienza”. Feci una performance davanti agli studenti “disegnando” sul muro la mia stessa sagoma: appoggiandomi con il corpo sul muro, con il braccio e la mano, la quale teneva un carboncino, “copiavo” il mio corpo. Alla fine del gesto rimaneva il graffito come testimonianza della presenza d’artista che si ribella, lasciando la propria traccia. 2003: Entscheindunsproblem (performance) ad Anguillara – Simonetta Lux + Pino Pascali, Ikeda, Soskic (la sabbia nera che scola, con la bombetta come scrittura)

Ilija Soskic, Entscheidungsproblem, 2003, performance‐installazione (l’artista, indossando la bombetta nera con su inscritto in gesso entscheidungsproblem, fora un sacco nero pieno di sabbia, facendone uscire come da una clessidra). Foto A. Zakrzewicz, Anguillara Sabazia (Roma) in Una giornata particolare. 1. L’artista indossa il teorema di F.P. Ramsey; 2. particolare della azione.

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Ilija Soskic, Bonsai (progetto TRAPHOS), installazione, dittico, partic. (pianta pino bonsai, sabbia, foto e testo manoscritto), 2003, Bomarzo. Ilija Soskic, CENERI, installazione ambientale, 2004

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Intervista a Boris Groys a cura di Eva Frapiccini, Elisa Tosoni e Massimo Marchetti per UnDotv. Camera e editing Eva Frapiccini, voce e traduzioni Elisa Tosoni. 4 giugno 2011. Trascrizione dal video di Simonetta Lux. Trascriviamo il testo in italiano dalla rubrica Video Pool‐immagini in movimento sul confine fra arte e documento, di “Undo Net” (una rivista on line che è una vera e propria creazione di Chiarandà), l’intervista a Boris Groys, docente di Filosofia e Teoria dell’arte all’Accademia di Karlsruhe, curatore del Padiglione russo alla 54 Biennale di Venezia, dove presenta Empty Zones di Andrei Monastyrski e the ‘Collective Actions’ Group (Nikita Alexeev, Elena Elagina, Georgy Kizevalter, Igor Makarevich, Andrei Monastyrski, Nikolai Panitkov, Sergei Romashko, Sabine Hänsgen). È particolarmente interessante, per il tono da under statement – in un momento in cui in Russia come in altri paesi post‐east neo‐autoritari i giornalisti scompaiono o vengono uccisi e dove artisti vengono minacciati di morte. Paesi nei quali, come nella Russia di Breznev, il grande Dmitri Prigov recentemente scomparso (che è ora presentato a Venezia all’Università di Cà Foscari, nell’ambito di una collaborazione con “The Dmitri Prigov Foundation for the Advancement of Innovative Art, Literature and the Humanities”) passò anni tra prigione e internamento in manicomio. Interessanti la idea dell’arte come “zona franca” e l’idea del permanere di attualità del progetto diciamo “antisistemico” di oltre trenta anni fa di Andrei Monastyrski, del suo carattere quasi di modello per le ultime generazioni. D. In Russia, l’arte contemporanea come interseca la politica? R: Direi che in Russia l’arte è una delle zone franche della discussione politica e pubblica. Sai, questo titolo “artista“ o il termine “arte” in molti modi, protegge gli artisti e le opere d’arte dalla censura, perché se tu sei l’artista, nei mass media ti devi confrontare con pratiche che influenzano la gente, e il mondo dell’arte è visto come qualcosa più per specialisti sì, qualcosa di più chiuso… e questo dà all’arte la possibilità di esistere praticamente senza censure . E se si guarda al mondo dell’arte in Russia, è un luogo, un territorio di dibattiti politici molto intensi, e questo di certo influenza la società e i media. D. Quindi in tal senso, ritieni che gli artisti debbano scendere a qualche compromesso nella loro pratica, o non del tutto? R. Penso che gli artisti debbano scendere a compromessi con il fatto che vivono nel mondo, questo è davvero un enorme compromesso perché certo è meglio essere – come abbiamo già detto – fuori dal mondo… la “pura luce”… quindi nel momento in cui sei nel mondo, devi conoscere e fare i conti anche con cose poco piacevoli, come l’economia, il denaro, delle condizioni lavorative non proprio buone, il fatto che sia troppo caldo o troppo freddo… sai tutte queste cose… il mondo è una gran seccatura, ma poi dall’altra parte il mondo è un ottimo materiale grezzo! Come farebbero gli artisti se non avessero il mondo come materia prima? E poi la politica, una qualche forma di censura, un certo tipo di repressione, e un certo tipo di pressione economica sono tutti materiali grezzi per l’arte… Quindi si tratta di una relazione fortemente ambivalente. D. Ora un’altra domanda sugli artisti russi: ci chiedevamo se potessi parlarci, o meglio, individuare un cambiamento nell’ultimo decennio in come gli artisti si relazionano alle problematiche politiche in Russia? R. Sì assolutamente! Direi che nell’ultimo decennio l’intera scena artistica si è spostata verso sinistra, prima era diverso… non che fosse di destra o qualcosa del genere, piuttosto mancava un interesse pronunciato per la politica… vi era un interesse nel costruire un sistema artistico come infrastruttura nella società russa, in quanto tale fenomeno non era presente a livello sociale… ma nell’ultimo decennio, essendosi ormai formato un sistema, l’arte contemporanea ha un forte orientamento a sinistra, una sorta di reazione a quelle pressioni, disuguaglianze… L’avere a che fare con un capitalismo multi classista produce ovviamente molta tensione, d’altro canto, in Russia abbiamo una lunghissima esperienza dell’operare oltre il mercato dell’arte sotto le condizioni tipiche del socialismo, quindi c’è questa nostalgia che è molto forte e un certo impegno di sinistra.


D. Ritieni che questo impegno sia onesto? Ritieni che gli artisti siano abbastanza coerenti rispetto al messaggio che offrono? R. Sì beh, non è molto conscio, né molto teoretico. Non è che abbiano dei modelli, più che altro tendono a dar voce a certe proteste contro il mercato, contro, sai, le pressioni legate al mercato e alla commercializzazione e mercificazione dell’arte. E questo è nuovo per la Russia, molto nuovo… poi penso che sia presente un certo tipo di disuguaglianza economica che è anche nuova e non era sviluppata così. Quindi è una sorta di reazione psicologica ed emotiva che una visione propriamente teoretica, o per dire un discorso alla Rancière o alla Badiou… Ovviamente poi queste persone leggono Rancière e Badiou… D. L’ultima domanda concerne la scelta degli artisti per il tuo padiglione, ci chiedevamo se potessi dirci qualcosa a riguardo… R. Certamente. Andrei Monastyrski iniziò la carriera artistica nella metà degli anni Settanta, ancora ai tempi dell’Unione Sovietica: cercava di creare spazi pubblici alternativi, modalità alternative per individuare diverse possibilità anche per la distribuzione dei propri lavori, di scritti, di pubblicazioni non ufficiali, eccetera. È interessante per me il fatto che lui non sia cambiato molto attraverso gli anni. Ancora oggi, nonostante tutti quegli stravolgimenti, opera al di fuori del mercato dell’arte. Appena prodotto un video, lo carica su You Tube, per un pubblico commerciale, non generico… è un esempio di artista che ha attraversato molti cambiamenti sistemici rimanendo però sempre fedele a se stesso e al suo progetto iniziale, e penso che sia interessante guardare alla sua posizione come significativa. D. Intendi guardarlo come un modello… anche per la generazione più giovane? R. Sì, in un certo senso. Ad esempio. Hai visto, Claire Bishop ha scritto un testo su di lui. Le interessa molto l’arte partecipativa, e direi che per lei, come per molti artisti coinvolti in essa, direi che può essere considerato come una figura paterna in quanto ha iniziato questo tipo di pratica artistica molto presto in un modo ben formulato e seguendo un buon format. All’epoca c’era qualche esempio ma non molti, anzi, pochissimi se effettivamente si analizza quel periodo. Certo, non è un artista molto conosciuto nell’Occidente, non avendo mai esposto in grandi mostre qui, ma a mio parere è estremamente contemporaneo! D. Perfetto, ti ringrazio molto.


Io è /un Altro: la Verifica #2 del progetto dell’artista brasiliano César Meneghetti alla 54 Biennale di Venezia. Di Eleonora Carbone (storica dell’arte e membro del team del progetto) Illuminazioni > In‐luminare, dar lume, ragione, ma anche rischiarare attraverso l’arte ogni forma di emozione e di comunicazione in una sinergia che vede l’incontro tra normale e diverso, tra disabile e persona al fine di una comprensione intellettuale dell’io e dell’altro. È questa la forza dell’opera di César Meneghetti, un work in progress dell’artista italo‐brasiliano iniziato nel marzo 2010 ed ancora in corso tra Roma e Venezia con il nome di IO E’/ un ALTRO; un lavoro relazionale tra arte, nuove tecnologie ed azione sociale in collaborazione con un gruppo di 120 adulti disabili mentali impegnati nei 9 laboratori sperimentali d’arte della Comunità romana di Sant’Egidio: gli Amici. Verifica #2, 1, 2, 3 giugno, 54 Biennale di Venezia. Per le immagini: Courtesy César Meneghetti

Per circa un anno l’artista segue gli Amici1 organizzando dei workshop e restringendo successivamente la cerchia a circa 30 persone, le quali entreranno definitivamente a far parte dell’opera di César Meneghetti su‐, con‐ e di‐, protagonisti e attori di se stessi. Meneghetti vuole dare luce a percorsi alternativi accantonando qualsiasi pregiudizio e cercando di raggiungere un modo diverso di vivere e vedere la vita senza la retorica dell’arte che talvolta erroneamente viene chiamata terapia, piuttosto offrendo ai disabili gli strumenti necessari per la loro chiamata ad essere riconosciuti come artisti e come persone. Meneghetti conosce il forte legame che il gruppo ha con la pittura, in un processo che giunge al culmine di un complesso lavoro della Comunità con i suoi colti volontari e specialisti, un processo raccontato nel libro di autori vari SLAZAC, Con L’arte da disabile a persona (Roma, Gangemi, 2007). A coloro che si rappresentano attraverso il colore, la pittura, la scultura, le installazioni, l’artista introduce anche gli strumenti proprio del suo mestiere d’artista ipercontemporaneo, il video ‐ la fotografia ‐ il web, invogliandoli non solo alla ricerca, ma soprattutto alla sperimentazione dei media al fine di produrre delle risposte. Una zona di imprevedibilità dove persino coloro che non riescono ad esprimersi verbalmente e a comunicare a causa di alcuni deficit neurologici, hanno riacquistato la comunicabilità per mezzo della tecnologia digitale, pronunciando racconti intelligenti sul loro modo di percepire il mondo e di percepirsi, in un contesto di esclusione pregiudiziale che va dai familiari stessi agli estranei: un “E assai mi duole ancora”2 1 “Gli Amici” é il nome con il quale si fa chiamare il gruppo di disabili della comunità. 2 È il nome di un’opera in mostra nella Verifica#1 al MLAC ma anche di una frase scritta attraverso il computer da Sonia Sospirato, una disabile mentale con problemi di linguaggio che finalmente è riuscita ad esprimersi.


segno di una sofferenza taciuta, di un ricordo di vita nascosto. È ciò che è emerso nella Verifica #1 del progetto IO E’ UN ALTRO in mostra al MLAC, Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza” il 28 Febbraio 2011. Meneghetti intervista gli Amici all’interno di una Videocabina, un non luogo in cui i protagonisti si siedono per parlare di loro, per raccontare con parole semplici ma acute, significative, i disagi della disabilità, il significato della vita e della ragione attraverso la conoscenza di ciò che è per loro Dio, l’amore e la normalità. La Verifica #2 si è svolta l’ 1, 2, 3 giugno a Venezia. Alcuni dei disabili sono entrati nel mondo ufficiale dell’arte durante i giorni dell’Inaugurazione della 54. Biennale d’Arte Internazionale, dove il glamour e l’identità del Sistema chiuso dell’arte domina e sovrasta l’opera d’arte e gli artisti prescelti. I protagonisti, dotati di un cellulare touch screen di ultima generazione, hanno prodotto la loro visione dell’evento attraverso delle fotografie in giro tra i Giardini, l’Arsenale e gli Eventi Collaterali. Verifica #2, 1, 2, 3 giugno, 54 Biennale di Venezia. Per le immagini: Courtesy César Meneghetti

Se nella Verifica#1 l’artista osserva Gli Amici e attraverso le domande cerca di esplorare il loro mondo nascosto mostrando allo spettatore come si convive con la disabilità, una verità sconosciuta, a volte ricca di privazioni segnata dal malessere ma sicuramente arricchita dal lavoro con la Comunità di Sant’Egidio, qui nella seconda esperienza a Venezia c’è un cambiamento totale del punto di vista. I disabili ora artisti hanno prodotto autonomamente una risposta che potremmo definire come opera dopo gli studi di laboratorio e di workshop. Non siamo più noi spettatori ad osservarli passivi mentre si raccontano con un sottile imbarazzo davanti alla camera, poiché nella Verifica#2 hanno conquistato un punto di vista evoluto, dove il loro sguardo sulla Biennale più antica del mondo si fa anche nostra vista, in uno sviluppo dell’apprendimento e della consapevolezza che li ha resi più forti e soprattutto capaci di creare. Verifica #2, 1, 2, 3 giugno, 54 Biennale di Venezia. Per le immagini: Courtesy César Meneghetti


IO E’ UN ALTRO troverà un ulteriore luogo di comunicazione della ricerca in atto all’interno della Biennale Session del 14 Ottobre, che si terrà nella sala conferenze dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia con sede ai Giardini, un incontro in collaborazione con La Comunità di Sant’Egidio, il centro di ricerca MLAC‐Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza di Roma e le Università di Roma e Venezia. Si riuniranno intorno a César Meneghetti gli Amici della Comunità e i docenti e studenti universitari, filosofi, poeti, storici dell’arte e curatori, psichiatri ed esperti di disabilità: per parlare dei risultati eclatanti del progetto IO E’ UN ALTRO, di una visione alternativa accolta ufficialmente come gesto artistico. Un campo di prova – una verifica – per analizzare la sinergia delle persone che oltre all’artista lavorano da lungo tempo all’interno di IO E’ UN ALTRO, un team di eccellenza, i cui membri potranno dire quanto hanno appreso, più di quanto hanno insegnato. Verificare vuol dire accertarsi la verità, una verità non abile, ma una verità, nel dipingere, scrivere e fotografare. Gli Amici sono artisti perché si sentono persone normali che hanno scelto un mezzo per parlare di sé e del mondo, mostrando inconsapevolmente una verità purissima, non ostacolata dal pregiudizio di tutto ciò che è normale e partendo dal presupposto che una normalità non c’è davvero mai. Il lavoro di CÉSAR MENEGHETTI, artista e film‐maker italo‐brasiliano, ruota attorno alla riflessione sociale attraverso un’estetica sperimentale e l’interazione dei media tra emisferi Nord e Sud. Utilizza il mezzo cinematografico, cosi come il video, la fotografia, la pittura e l’installazione. Attraverso il mix dei mezzi tecnici, tradizionali e nuove tecnologie, si avvale dal dispositivo elettronico/digitale, del supporto fotografico/pellicola per estrarre e isolare fotogrammi della realtà e poi rielaborarli digitalmente (film/video) reinserendoli in un contesto diverso dall'originario. Ha esposto in più di 39 paesi. Ha realizzato numerosi lavori audiovisivi, tra cui 1 lungometraggio, 7 documentari, oltre 100 cortometraggi e film/video sperimentali. Negli ultimi anni ha ricevuto 61 premi, menzioni, borse di studio e altri riconoscimenti per il suo lavoro. Vive e lavora tra Roma e São Paulo. La Comunità di Sant’Egidio ha collaborato a promuovere o direttamente promosso nell’ordinamento italiano leggi per il diritto alla integrazione scolastica di alunni con handicap e modifiche a leggi preesistenti, con la finalità di garantire l’accesso, superando la concezione escludente delle classi differenziali e speciali. Nel libro di autori vari Slazac‐ Con l’arte da disabile a persona (Roma, Gangemi, 2007), alle pp. 335 sgg, vengono riportate le caratteristiche delle principali leggi, a partire dal ribaltamento dell’indirizzo vigente avvenuto agli inizi degli anni settanta. Si è trattato di un ribaltamento epocale, altrettanto importante internazionalmente quanto la legge Basaglia. Oggi i recenti governi hanno quasi cassato, per ragioni finanziarie, tutto l’eccellente e avanzatissimo sistema di sostegni e dotazioni organiche di insegnanti. Un’altra eccellenza dell’Italia – tra le tante‐ quasi annullata, ma che certamente sarà compresa e riaffermata dalle nuove generazioni.


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