7 minute read
8. Conclusioni
profit e con le amministrazioni pubbliche. In tal modo sarebbe possibile superare il problema legato alla qualità dei percorsi di collaborazione, di strumenti propri della partecipazione e di posizionamento strategico del volontariato che ne condiziona l’effettiva decisionalità nell’elaborazione delle politiche sociali e del territorio.
8. Conclusioni
La crisi dello Stato assistenziale, del modello di welfare europeo – tema già emerso nelle considerazioni conclusive svolte sul volontariato europeo – si impone come un punto decisivo di discussione nel compito che ci siamo assegnati, vale a dire quello di definire il nuovo volto del volontariato italiano. Il destino di quest’ultimo, infatti, è legato a doppio filo alla strada che si intende intraprendere per far fronte allo sgretolarsi del vecchio modello di Welfare State. Per questo la riflessione sui dati emersi nei paragrafi precedenti non può non unirsi al tentativo di prospettare una via d’uscita alla crisi del welfare.
Oggi il dibattito sul Welfare State è ancora, nella maggior parte dei casi, imprigionato nell’alternativa statalizzazione/privatizzazione che corrisponde al vecchio schema statalismo/liberismo. Uno schema che condiziona anche il modo in cui si guarda il Terzo settore e in particolare, che è l’interesse specifico della nostra ricerca, il volontariato.
Siamo dunque costretti a scegliere tra i due poli di quell’alternativa? Se il dilemma resta optare per “Stato” o “mercato” sarà difficile trovare una soluzione positiva alla crisi del welfare. Uscire da questo dilemma – è la soluzione adombrata nel corso del capitolo ma che ora proviamo a rendere esplicita – implica una ridefinizione dei rapporti tra Stato e società. La questione centrale posta dalla crisi dello Stato assistenziale, si è più volte notato, è di ordine culturale, ma anche sociologico e politico. Ragionare nei termini schematici di quel dualismo, che corrisponde in altre parole all’alternativa tra pubblico e privato, significa ridurre tale crisi alla sua sola dimensione finanziaria e occultare la vasta gamma di cause, considerando le quali si può veramente pensare a una strategia per la ripresa che certo non sarà immediata ma nella prospettiva del lungo termine.
Quando ad esempio si parla di servizio pubblico, domina l’idea che esso sia sinonimo di “Stato”. Stato, a sua volta, è considerato sinonimo di “assenza di mercato” e quindi sinonimo di “eguaglianza”. Specularmente, domina l’idea che “privato” sia sinonimo di “mercato”, e quindi di “profitto”, e da ultimo di “diseguaglianza”. Eppure i fatti non supportano una tale rigida distinzione. Esistono, infatti, spazi alternativi di risposta e di soddisfazione dei bisogni rispetto a Stato e mercato?
Possiamo pensare a una nuova combinazione di quei due elementi perché abbiamo già segnali o esempi tangibili di un miglioramento dei servizi pubblici qualora si venga fuori da quella stretta alternativa. Una strada che si è affacciata nelle nostre analisi è proprio quella del trasferimento a collettività non pubbliche (associazioni, fondazioni, ecc.) di compiti di servizio pubblico per far fronte ai bisogni sociali emergenti.
Si introduce così un altro aspetto: perché si prospetti un’alternativa allo Stato assistenziale così come lo conosciamo è necessario introdurre o reintrodurre la solidarietà nella società e nei sistemi economici. Che significa? Non si tratta di imporre delle regole etiche dall’esterno o dall’alto ma di favorire l’esistenza di una società civile più corposa, di sviluppare spazi di scambio e di solidarietà al suo interno. Il compito dello Stato può essere quello di favorire e sostenere ma non di operare una tale ricomposizione sociale: è questo un compito della società stessa. Crediamo che il volontariato sia in tal senso una forza trainante. Lo Stato, infatti, rischia di rendere i meccanismi della solidarietà astratti, formali, meccanici appunto. Il che comporta una progressiva diminuzione di efficienza dei servizi, oggi diffusamente attestabile.
Se il suo compito fosse invece quello di favorire il riavvicinarsi della società a se stessa, di permettere il moltiplicarsi di formazioni intermedie, inserire gli individui, o meglio le persone, in reti di solidarietà diretta, forse si andrebbe nella direzione di una reale crescita, accettando l’idea che questa possa accadere con dei nuovi protagonisti.
Riferendo tali considerazioni ai dati sopra riportati sul volontariato italiano, si pensi al fatto che il settore socio-assistenziale è l’ambito in cui le associazioni intervengono prevalentemente: ciò che sorprende è che ciò accade non solo nei territori in cui i servizi sono carenti, come è logico aspettarsi. Nei luoghi in cui i servizi sono più adeguati vi è una maggiore domanda di volontari: mossi da un ideale che si concretizza in una personalizzazione dei servizi, in una relazione attenta, appassionata, con i “fruitori”, i volontari sono quasi sempre in grado di offrire servizi più qualificati rispetto a quelli forniti dall’operatore pubblico, raramente mosso da una spinta ideale oltre che professionale. La motivazione ideale dà un valore aggiunto al servizio che i fruitori percepiscono. In Italia vi è una gran quantità di casi in cui servizi pubblici offerti da associazioni del Terzo settore hanno riscontrato un successo tale e una spinta all’espansione che gli stessi servizi offerti dal pubblico non hanno mai conosciuto.
Un altro dato interessante a questo proposito è la maggiore presenza dei volontari nei luoghi in cui il tasso di occupazione è più alto. Questo dice un’irriducibile positività del volontariato: non si tratta, infatti, solo di risolvere i bisogni ma di dare spazio a un desiderio di realizzazione che non si esaurisce con il lavoro, che pure è un’esigenza fondamentale dell’uomo.
Tuttavia, sostenere le iniziative che provengono dal basso, riavvicinare la società a se stessa, renderla più fitta non vuol dire auspicare il ritorno a forme di comunitarismo rurale, come delle grandi famiglie che agiscono in maniera autosufficiente. Questa non è una vera alternativa alla società di mercato e all’individualismo che questa ha generato: la soluzione non può essere un semplice ritorno al passato. L’avvento dell’“individuo” è la cifra caratteristica della modernità: forse varrebbe la pena prenderne sul serio alcune istanze prima di connotarla semplicemente come negativa. Il passaggio alla modernità non è il passaggio dalla buona comunità, fatta di generosa solidarietà, alla cattiva società dove domina l’egoismo. Alcune forme di sviluppo della società sono apparse come uno strumento di emancipazione, come uno spazio di libertà. Il volontariato comincia a organizzarsi nelle forme che oggi conosciamo proprio con lo sviluppo delle città e della vita cittadina, che offre molte possibilità. Il fallimento di alcuni tentativi comunitari degli anni ’60 e ’70 è legato proprio alla forza di questa ricerca di autonomia e indipendenza. Non si può pertanto disegnare un’alternativa allo Stato assistenziale senza tener conto di questa istanza affacciatasi con la modernità.
D’altra parte è ormai nota l’esistenza di reti sommerse di solidarietà familiare che con lo scoppio della crisi hanno avuto ed hanno una straordinaria importanza dal punto di vista economico. Tali forme di solidarietà esprimono la capacità della società di produrre reti di resistenza ai colpi esterni. Tuttavia, non sono sufficienti: si deve però riconoscere che senza questi “ammortizzatori” la crisi avrebbe colpito molto più duramente di quanto non stia succedendo.
Favorire il riavvicinamento della società a se stessa significa apprezzarne il ruolo e sostenerne lo sviluppo, favorire la moltiplicazione dei legami di appartenenza al suo interno. La solidarietà che parte dal basso è espressione di rapporti sociali più concreti e stabili. È necessario accrescere la visibilità sociale, lasciar affiorare il movimento della società. Questa è una sfida, come più volte si è detto, di natura culturale: perché è più facile considerare la società con rigidi schemi teorici di contrapposizione – pubblico/privato o ancora, individuo/sistema, ricchi/poveri, ecc. – piuttosto che guardare come effettivamente essa si muove, quali soluzioni propone.
La solidarietà non può fondarsi solo su regole e procedure, essa ha una preponderante dimensione volontaria. La solidarietà “istituzionale” dello Stato assistenziale non può funzionare senza la solidarietà immediata di quelle formazioni più prossime al bisogno. La società inglese, che possiede uno degli Stati assistenziali più avanzati d’Europa, conta circa sei milioni di volontari.
La socialità e il benessere che le associazioni di volontariato, o con una forte componente volontaria, realizzano non è solo uno strumento di difesa
dalla crisi ma anche, anzi soprattutto, un fattore di sviluppo sociale. I dati sul volontariato italiano ci mostrano una crescita negli ultimi anni di associazioni indipendenti, cioè non affiliate o federate alle grandi sigle del volontariato nazionale: vi è una prontezza nell’intercettare i bisogni, una lungimiranza rispetto alle istituzioni, e allo stesso tempo una capacità di innovazione nelle soluzioni offerte.
Un welfare più adeguato al nostro contesto, quindi, non può non prevedere l’interazione tra pubblico, privato e realtà non profit portatrici di una mission con forti connotati ideali. Un modello in cui il privato sociale e il non profit non sono più considerati stampelle o supplenti dello Stato ma protagonisti, che lo Stato deve sostenere creando le condizioni per un’effettiva libertà di scelta dei servizi da parte dei cittadini. Purtroppo, ad oggi, l’idea di uno Stato sociale animato dal non profit non è mai stata veramente presa sul serio da nessuno schieramento politico. Lo Stato sembra ancora combattere la logica che questa terza via ha introdotto e che oggi si configura come indispensabile per fare fronte alla crisi economica e stimolare la crescita, e si dimostra il più delle volte incapace di riconoscere tali espressioni della società civile, legiferando in senso contrario al loro sviluppo e quindi soffocandole.