Cultura Commestibile 192

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

“I risultati dei sondaggi sono diventati una sorta di realtà superiore, oppure per dirla diversamente: sono diventati la verità.” Milan Kundera

The apprentice editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Simone Siliani s.siliani@tin.it di

Q

uando diversi anni fa conobbi per la prima volta Lara Vinca Masini, fu per me – giovane assessore regionale e certamente non legato ad alcun coté culturale – una esperienza straordinaria: mi trovavo di fronte ad un mito della critica dell’arte contemporanea; una che aveva organizzato fra le più importanti mostre internazionali e scritto saggi memorabili anche per chi, come me, non era un addetto ai lavori. Aveva curato e scritto libri fondamentali per la storia dell’arte italiana (includendo in questa l’architettura, l’urbanistica, il design oltre che tutte le arti visive) e aveva ricevuto così tanti riconoscimenti pubblici e partecipato a tante giurie e progetti artistici, che non si può neppure farne un elenco minimamente rappresentativo qui. Eppure, questo gigante della storia dell’arte, stava lì piccola donna fragile a discutere con me amabilmente nella sua incredibile casa in cui i libri avevano ormai invaso ogni anfratto, forno e fornelli della cucina compresi. Racconto questa storia, ora, perché è giusto dare conto di come talvolta la burocrazia ministeriale perda il senso della misura o, semplicemente, abbia perso quel po’ di competenza necessaria per svolgere il ruolo di guida della cultura italiana che spesso rivendica. Ecco, in pillole, la storia. Il Consiglio Regionale della Toscana, in data 3 giugno 2014 approva una mozione che impegna il Presidente della Giunta Regionale “ad attivarsi affinché venga applicato quanto previsto dalla legge n.440/1985 detta “Bacchelli” e riconosciuto il contributo vitalizio utile al suo sostentamento alla dottoressa Lara Vinca Masini”. Ho potuto seguire direttamente, lavorando al Gabinetto del Presidente, la preparazione del dossier con il quale il Presidente della Regione, ottemperando al mandato ricevuto dal Consiglio, fece richiesta al Ministero per i Beni e le Attività Culturali affinché a Lara Vinca Masini fosse accordato il sussidio previsto dalla Legge “Bacchelli”, cioè un importo massimo di 24.000 €

Una legge per

Lara

l’anno. Il DPCM 4.2.2010 che determina i criteri e le modalità per la concessione dei benefici economici previsti dalla legge, stabilisce che per assegnare il vitalizio a “cittadini italiani che abbiano illustrato la Patria attraverso meriti acquisiti nei campi delle scienze, delle lettere, delle arti, dell’economia, del lavoro”, essi debbano essere “in possesso di documentazione che attesti la chiara fama ed i meriti acquisiti a livello nazionale ed internazionale” e “versare in uno stato di particolare necessità”. Abbiamo così predisposto il dossier per la richiesta composto dalla dichiarazione dei redditi della signora Lara Vinca Masini per attestare lo stato di necessità e un curriculum vitae che seppure sinteticamente potesse dar conto con quale attività Lara Vinca Masini avesse acquisito chiara fama e avesse acquisito meriti a livello nazionale e internazionale.

L’8 agosto 2014 viene inviato il dossier alla Presidenza del Consiglio dei Ministri dove ha sede la Commissione consultiva, istituita con il Decreto del Segretario Generale del 15.11.2013, che supporta gli uffici della Presidenza nell’attestare la “chiara fama” ed i “meriti acquisiti” delle persone proposte per il vitalizio. Passano un po’ di mesi – per la verità ben 14 – senza una risposta alla Presidenza della Regione, nonostante alcuni solleciti, fino a quando veniamo a sapere direttamente da Lara Vinca Masini che il Ministero aveva risposto a lei, che non aveva fatto alcuna richiesta, e non al Presidente della Regione che, invece, aveva avanzato la proposta. La risposta era purtroppo negativa. La lettera, a firma del coordinatore dell’ufficio dott. Tiziano Labriola, le comunicava apoditticamente che la Com-

missione “dopo aver ampiamente ed attentamente esaminato tutta la documentazione fornita, ha ritenuto che, nel Suo caso, non risulta comprovato il requisito della chiara fama”, motivo per cui il vitalizio non poteva essere concesso. Ora, qui vi sono due elementi che rilevano e pongono qualche intrigante interrogativo. Per quale imperscrutabile logica burocratica il Coordinatore niente di meno che dell’Ufficio del Segretario Generale del Dipartimento per le Politiche di gestione, promozione e sviluppo delle risorse umane e strumentali della Presidenza del Consiglio dei Ministri (che solo per scriverlo ci vogliono tre righe della carta intestata), ha pensato di rispondere non al richiedente ma alla diretta interessata? Mica gli sarà passato per la mente che una lettera del genere avrebbe potuto offendere o deprimere una persona che ha dedicato l’intera sua lunga vita (Lara ha oggi 92 anni) all’arte contemporanea e che si vedeva negata da una oscura Commissione consultiva il senso stesso di tutto il suo lavoro, che il mondo le riconosce? E forse poteva anche riflettere, per un guizzo di umanità, che negare questa “chiara fama” avrebbe avuto l’effetto di negarle anche un minimo di tranquillità economica negli ultimi anni della sua


Da non saltare

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vita? Macché, lui è andato giù diritto come un treno, sbagliando anche dal punto di vista burocratico, perché la risposta era dovuta non alla beneficiaria bensì al richiedente, il Presidente della Regione Toscana. La seconda domanda riguarda questa Commissione consultiva. Non sappiamo quale tipo di “ampio” e “attento” esame abbia compiuto sulla documentazione fornita, ma ci permettiamo di contestare la serietà di questo esame. Dal novembre 2013 la Commissione ha bocciato 78 richieste e ad oggi l’elenco dei beneficiari ne comprende solo 28. Alcuni di questi sono personaggi di sicura chiara fama, altri invece di dubbia. Certo non appare che vi sia molta omogeneità nelle scelte, dalla traduttrice e autrice di volumi di grammatica russa Julia Dobrovolskaja, al disegnatore e illustratore Renzo Calegari, fino alla signora Silvana Areggasc Savorelli che qualcuno forse ricorderà con il nome d’arte della cantante pop Lara Saint Paul. Niente contro queste persone, ma cosa avrebbero esse in più quanto a “chiara fama” rispetto a Lara Vinca Masini? E, allora, che cosa è per questa Commissione, “chiara fama”? Uno dei membri della Commissione, Gian Arturo Ferrari, ha dichiarato a “il Venerdì di Repubblica” il 14 giugno 2016 che “il nostro compito è verificare che i candidati abbiano svolto un lavoro utile per il Paese, valutando elementi obiettivi: le attestazioni pubbliche, i premi, i convegni”. Ma, allora i premi e i convegni, o i volumi o le mostre realizzati da Lara Vica Masini, come vengono considerati dalla Commissione? Solo per ricordarne alcuni, Lara Vinca Masini ha ottenuto il Premio dei Lincei per la critica 1986; è membro effettivo dell’Associazione Internazionale Critici d’Arte dal 1967; è stata membro della Commissione italiana per le arti visive e per la sezione architettura alla Biennale di Venezia 1978; ha fatto parte della Giuria Internazionale della Biennale Architettura 2000 insieme a François Barré (Direttore per l’Architettura e il Patrimonioa Artistico del Ministero della Cultura e della Comunicazione

ben misere pagine di una rivista online, vorremmo fare qualcosa per onorare questo debito. Vorremmo rivolgerci al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, al Presidente del Consiglio dei Ministri perché riconsiderino la decisione negativa della Commissione consultiva e degli uffici, perché almeno sia lavata l’onta (non su Lara, ma sullo Stato italiano) della negazione della “chiara fama” al lavoro di Lara. Si dica piuttosto che non si vuole concedere un beneficio economico per carenza di risorse, ma non che non esistono i presupposti della “chiara fama”! Ci rivolgiamo al mondo della cultura perché dicano qualcosa, sottoscrivano questo nostro appello con loro parole e considerazioni. Non solo i critici e gli storici dell’arte, perché se c’è una cosa che Lara ci ha insegnato, è che l’arte non sopporta confini accademici, separazioni e distinzioni di discipline: c’è

Una proposta per concedere la legge Bacchelli a Lara Vinca Masini francese) a Peter Noever (direttore del MAK – Oesterreichisches Museum fur Angewandte Kunsy di Vienna) e a Deyan Sudjic (direttore di “Domus”). Ma soprattutto parlano per le le centinaia di pubblicazioni sulla storia dell’arte contemporanea e di critica, come quelle nate dalla collaborazione con G.C.Argan, o i due volumi “Arte Contemporanea. La linea dell’unicità” (Firenze, 1989), “Art nouveau” (Firenze, 1975) e il “Dizionario del fare arte contemporaneo” (Firenze, 1992). Così come le centinaia di manifestazioni e mostre che Lara ha curato, quali la “Prima Triennale Itinerante di Architettura Contemporanea” (1966-67), “Ipotesi Linguistiche Intersoggettive” (mostra itinerante 1966-67), “Umanesimo, Disumanesimo nell’Arte Europea 1890-1980” (Firenze 1980). Qui non è neppure immaginabile dar conto seppur sommariamente dell’importanza che ha avuto l’attività di critico

e di storica dell’arte contemporanea di questa donna, che tuttavia viene cancellato con un burocratico tratto di penna: non si riscontra la “chiara fama” Ecco, la storia è questa. Resta il sapore amaro di una ingiustizia perpetrata, con l’aggravante di una ottusità burocratica che credo abbia ferito Lara Vinca Masini, certamente il sottoscritto e dovrebbe ferire tutti noi. Ma Lara Vinca Masini non si abbatte di sicuro: è sempre lì, solida come la rocca di Gibilterra nella sua fragilità fisica, a coltivare il campo dell’arte con il suo lavoro, i suoi scritti, i suoi libri, che andranno – fra tanti anni – al Centro per l’arte contemporanea “L.Pecci” che, evidentemente, le riconosce una fama chiarissima. Però tutti noi, consapevoli o meno dell’apporto di Lara Vinca Masini alla storia dell’arte moderna e contemporanea, abbiamo un debito di riconoscenza verso di lei. Da queste

l’arte, nelle sue infinite modalità di espressione, che è la capacità dell’uomo e della donna di plasmare lo spazio intorno a sé, di immaginare relazioni fra vuoto e pieno ancora non concepite nella realtà, di rappresentare il dramma del passaggio della nostra specie sul pianeta. Arte che è perenne, costante consapevolezza di una condizione di crisi della società contemporanea; come scriveva Walter Benjamin, “non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, moderna, e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità”. Lara Vinca Masini ha interpretato per tutta la sua vita la critica e il lavoro storico sull’arte in questa ottica e questo ne fa un gigante nella cultura italiana, che non può essere oscurata da nessuna Commissione ministeriale.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

McNardel’s

Palazzo Vecchio. Il sindaco Nardella ha una delle sue frequenti giornate d’eccitazione. “Presto ragazzi, fissatemi un tavolo al McDonald’s di via Cavour per le ore 13 che ho una importante riunione con il Lotti e la Serracchiani per il referendum. Fate preparare un Crispy McBacon per me, un McVeggie per la Debora e tre BigMac per Luca, che quello è uno d’appetito”. La segreteria esegue con la consueta efficienza, con fare consuetudinario e rassegnato. “Manuele, via andiamo a fare colazione al McDonald’s della Stazione che ho proprio voglia di un Pancake con sciroppo d’acero e un bel Muffin”. “Ma Dario, il caffè da McDonald’s fa schifo!” “Ma no, Manuele, ti prendi un bel caffè americano e un orange juice e starai bene e sano”. Il fido Braghero scuote il capo mormorando “fulatrum!” che in piemontese vuol dire “rimbambito” e si avvia verso la triste colazione americana. Dopo il pranzo con Lotti e Serracchiani al McDonald’s di via Cavour (dove alla Debora sono stati consegnati palloncini colorati e un Happy Meal in omaggio), Nardella ha un intenso pomeriggio di lavoro, ma non si fa mancare una merenda con uno Sweety con Nutella (ribattezzato in suo onore) al ristorante di via Talenti. Torna stanco la sera a casa: “Chiara, bambini, forza allegri, si va a mangiare al McDonald’s stasera!” “No, dai babbo, non ne possiamo più! Tutte le sere questa storia! Andiamo al ristorante vegetariano di via delle Ruote?” “Niente storie, ragazzi, si va al McDonald’s di via Nenni che ci sono anche i giochi e poi in offerta con gli Happy Meal ci sono i dinosauri da colorare e fissiamo per la festa di compleanno di Cosimo della prossima settimana!” “Va beh, ma che palle, babbo!” Il giorno dopo bello pimpante, Nardella convoca una riunione di staff presto la mattina al McDonald’s della Stazione con menù MyBreakfeast per tutti. Lo staff è rassegnato ormai.

Ma a metà giornata ‘autorevole capo di gabinetto Manuele Braghero prende da parte il sindaco per un chiarimento politico della massima importanza: “Senti Dario, qui siamo allo sfinimento. Da quando la McDonald’s ci ha fatto causa per 18 milioni di euro per quella tua cazzata di avergli rifiutato il permesso per aprire un ristorante in piazza Duomo, non si fa che mangiare queste schifezze! Non si può andare avanti così!” “Manuele, lascia stare tu non capisci niente. Io sono un giurista e so quello che faccio. Se noi dimostriamo di aver mangiato, in capo all’anno, un paio di quintali in più di hamburger, quelli non possono dimostrare di aver avuto un danno dall’Amministrazione. Io sto conservando tutti gli scontrini, mica come Matteo, e al momento giusto glieli sbatto in faccia ai loro avvocati. Vedrai, si fa un figurone! Vieni, via, che si va a farci un McFlurry Chocomix”. “Te sei tutto grullo, Dario. Io prendo un tüpin [pitale in piemontese] di MilkShake e te lo rovescio in capo! Balengo! Ora vado a farmi fare un frullato di verdura al mercato di S.Lorenzo, Bòja Fàuss!”

I Cugini Engels

Il feto renziano

Era il 2011 l’orco era Berlusconi e i “professori” dell’antiberlusconismo si riunirono al palasharp di Milano dove in un sussulto di maoismo giovanile di molti di loro, fecero salire sul palco un ragazzino di 12 anni che, come i giovani della rivoluzione culturale, sciorinò i vizi morali del vecchio satrapo di Arcore. Oggi che la truppa di allora si è accampata, più o meno con i medesimi mezzi e argomenti, contro Renzi, viene però scavalcata da quest’ultimo nell’uso dell’infante

per ragioni politiche. L’ultima Leopolda ha visto infatti niente meno che un nascituro, o meglio una nascitura, ancora nel pancione, fare la dichiarazione di voto, seppur per interposta persona della mamma. A parte gli auguri alla piccola e al suo analista, non vorremmo addentrarci in rischiose discussioni sul feto e l’embrione o in pericolosissime virate pro life dei leopoldini, ma semplicemente segnalare che oggi come allora, siamo andati oltre. E non è un bell’andare.

Lo Zio di Trotzky

Giani e il tamburello Non c’è più speranza! Anche il mitico Eugenio Giani, ormai l’unico possibile candidato vincente dei Democratici per le presidenziali 2020 #Eugenio2020, si è messo in modalità “tappetino”. I suoi ultimi post sul profilo Facebook segnalano una pericolosa deriva adulativa ovviamente del premier Renzi che francamente non ci aspettavamo da un uomo così integro e indipendente. Con foto da rotocalco anni ‘50, Giani posta frasi grondanti adulanti inni a onore e gloria dell’amato leader. Come quello sulla Leopolda (“Stazione #Leopolda, la freschezza dei giovani e non, provenienti da tutt’#Italia, delle idee innovative, dell’esperienza a

servizio del rinnovamento, sostiene #MatteoRenzi nel suo intervento a conclusione dei lavori!”), oppure quello sulla manifestazione per il Sì a Roma (#Roma, Piazza del Popolo, #Italia. Solare manifestazione per il #Sì con l’orgoglio di una #Toscana molto presente! Sulla piazza si affaccia Villa #Medici, oggi proprietà di #Francia, ma per secoli tenuta e presidio per gli esponenti della dinastia provenienti da #Firenze, impegnati a Roma. In ogni contesto la Toscana è presente quando lo deve, oggi per sostenere il concittadino #MatteoRenzi!”). No, non è questo il Giani che conosciamo. Caro Eugenio, non cadere nella trappola omologatri-

ce; non perdere la tua unicità! A noi piaci di più, ti riconosciamo quando sei ruspante. L’impareggiabile Eugenio che, ad esempio, per animare una spenta conferenza stampa (senza buffet!) sui 90 anni della Federazione Italiana Palla Tamburello spiega che “Il tamburello veniva praticato parecchio, in Italia, alla fine dell’800”; quello che mostra una foto del 1895 di una partita giocata davanti a 15.000 persone nella quale “vedete? Ci sono anch’io, con qualche capello bianco in meno...”; e soprattutto con il bracciale di legno del tamburello si esibisce in un paio di lanci. Pregevole iniziativa, unico e inimitabile Eugenio Giani!


12 NOVEMBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

E

sprimere a parole il concetto di buddità è un’operazione estremamente difficile e complessa, figuriamoci farlo con le immagini. Non è affatto sufficiente, e risulta anzi decisamente fuorviante, illustrare questo concetto con immagini di templi, statue e giardini, oppure di monaci o fedeli assorti in preghiera, in meditazione od in altre occupazioni rituali quotidiane. Molti fotografi hanno tentato questa strada con dei risultati modesti ed un successo tiepido. La buddità non risiede in questi luoghi ed in queste attività, ma altrove. Il concetto di buddità, secondo la definizione corrente, ma insufficiente, è la condizione più alta in assoluto, caratterizzata da altruismo e compassione, ma di fatto è un concetto indefinibile e non trasmissibile, qualcosa che può essere conosciuta esclusivamente attraverso l’esperienza diretta. E tutti sappiamo quanto le parole, ma anche le immagini, siano inappropriate nel trasmettere una qualsiasi esperienza. Lontana dalla spiritualità quanto dalla corporeità, la buddità pervade tutto quanto il reale, sia quello costituito da esseri animati che da cose inanimate, sia quello costituito da oggetti fisici che da oggetti mentali, specchio gli uni degli altri, e viceversa, costituenti di fatto un tutto unico formato da contrari. Buddità significa riconoscere un’anima in tutto ciò che esiste, ma anche riconoscere che non esiste nessun tipo di anima da nessuna parte. Buddità può essere affermazione del tutto, ma anche negazione del tutto, momento in cui si ha piena coscienza della importanza del tutto, come della nullità del tutto. Il fotografo giapponese Manabu Yamanaka (nato nel 1959) si avvicina a questo concetto, senza la pretesa di trasmettere nessuna verità, senza volere indicare nessuna strada, senza volere essere preso ad esempio, ma solo per portare fino in fondo la propria esperienza, visiva e non solo. Poiché la buddità può essere riconosciuta in qualunque cosa, animale o persona, Manabu sceglie i temi più difficili in cui riconoscere l’armonia del tutto,

La buddità di Manabu Yamanaka ed in cui provare altruismo e compassione. Le sue immagini, implacabilmente in bianco e nero su fondo assolutamente bianco, vengono organizzate, in base al tema scelto di volta in volta, in sei diverse raccolte, i senza tetto (Arakan), i bambini di strada (Doshi), gli anziani (Gyahtei), i cadaveri di animali (Fujohkan), i feti deformi abortiti (Wukong Mang Mang Ran) e le persone fisicamente deformi (Jyoudo). Se è relativamente comprensibile riconoscere la buddità nei senza tetto (Arakan = colui che recide i contatti con la carne per praticare assiduamente l’austerità) e nei bambini di strada, tutti esseri privi di difese nei confronti di una società che li marginalizza, oppure negli anziani (Gyahtei = età) che Manabu ritrae completamente nudi, fragili ed altrettanto indifesi, facili oggetti di altruismo e compassione, è più difficile per noi occidentali riconoscere la buddità nei cadaveri degli animali fotografati nei diversi stadi della decomposizione e della dissoluzione (negazione della vita), oppure nei piccoli feti abortiti e malformati (negazione di accesso alla vita). E’ ancora più difficile, per la nostra mentalità, riconoscere la buddità nelle persone viventi affette da gravissime deformità, che Manabu ritrae, al pari degli anziani, completamente nudi con le loro deformazioni e menomazioni fisiche in piena evidenza. Nella visione di Manabu non si tratta di “mostri” o di “fenomeni da baraccone” da ammirare, e non si tratta neppure di “casi clinici” o di “documenti scientifici” da studiare, tanto meno di soggetti tali da provocare pietà e cristiana commiserazione. Manabu definisce queste persone come Jyoudo, ovvero “la casa del Bodhisattva”, indicandoli come il luogo prediletto in cui risiede ed abita la buddità, la condizione più alta in assoluto, l’esperienza del tutto, senza limitazioni. Come se attraverso queste immagini di forte impatto visuale ed emotivo, volesse dire (abbastanza esplicitamente) che chi non riesce a vedere in queste persone l’essenza stessa della buddità, non ha nessuna speranza di trovarla altrove.


12 NOVEMBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

L

a scultura è un linguaggio artistico complesso ed evocativo, capace di colpire lo sguardo umano con la concretezza propria dell’oggetto fisico tridimensionale, la cui plasticità permette all’opera di articolarsi nello spazio in modo comunicativo, secondo l’ispirazione artistica. La scultura è l’arte creativa per eccellenza; è la manualità nuda e cruda che diviene espressione artistica; è il luogo fisico in cui si concretizzano le intenzionalità estetiche dell’autore, poiché è la prassi che permette di dare forma a un oggetto partendo dal grado zero del materiale originario e scelto per una ben precisa finalità: un modo di dare forma per addizione e modellamento a tutte quelle esperienze, dense di pathos e sentimento che da esistenziali si fanno estetiche. Di fatto il significato del termine non possiede semplicemente una valenza di realizzazione concreta, ma contiene in sé il concetto demiurgico della capacità e della possibilità dell’artista di dare esistenza a un progetto psichico, puramente artigianale/concettuale e dal grande impatto comunicativo. Oggi come ieri la scultura, imponendosi nello spazio, è divenuta un fattore semiologico, una modalità espressiva che trova nella tridimensionalità e nella tattilità dell’oggetto – piccolo o enorme che sia – un fine estetico inimmaginabile, ove le interpretazioni possono moltiplicarsi all’infinito, secondo prospettive sempre inedite e punti di vista inesauribili. È nella scultura che l’artista può interagire con se stesso e con lo spazio circostante, amalgamando le dimensioni nel delicato sentiero estemporaneo della creazione. Adriano Veldorale, in tal contesto, modella il ferro, la pietra e i materiali scultorei, seguendo la propria spiritualità e giocando, fra luci e ombre, sul materialismo che l’azione modellante indaga e realizza alla ricerca dei perché dell’esistenza e della logica che si cela dietro il vano esistere in un mondo caotico e labirintico. Scolpire permette all’artista di riappropriarsi di un’interiorità mistica,

Adriano Veldorale

Forme

trascendente e tesa ad avvalorare i miti dell’attualità, nello slancio vitale di un artista che sa fare della scultura un’evocazione senza tempo e senza spazio, che parte dall’oggetto per giungere all’astrazione piena e consapevole di una concretezza fuori dall’ordinario e dal consueto modo di vedere e concepire l’opera d’arte tridimensionale. L’opera d’arte nasce da un percorso intimo e meditato: lo scultore chiuso in se stesso e nel proprio soggettivismo vede l’oggetto prendere forma lentamente fra infinite variabili. Di colpo la perfezione si fa materia viva e vibrante; si fa estetica tangibile e il Tutto si materializza: per Adriano Veldorale la scultura non è altro che un percorso di ricerca intimistica ed essenziale, in cui far rivivere l’uomo scevro dalle proprie inquietudini e dalle proprie contraddizioni, annullando le aporie e i contrasti che fanno dell’attualità un mistero insondabili che solo un vero artista può analizzare nel profondo, sagomando il proprio pensiero.

La gabbia, 2016 Scultura su oggetto in ferro cm. 215x130x70 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


12 NOVEMBRE 2016 pag. 7 di

Mariangela Arnavas

Un romanzo scritto da una donna, Paula Hawkins, con una donna protagonista, letto da tantissime donne (la maggioranza dei 15 milioni di lettori) e da cui è stato tratto un film attualmente in distribuzione in Italia, che molte donne vedranno, merita una riflessione. Il fascino del libro è legato a diversi elementi; primo fra tutti quella particolare discesa agli inferi che molte donne hanno imboccata e che ne spaventa altrettante di fronte ad un tradimento e a un abbandono. Su questo punto la migliore espressione letteraria italiana degli ultimi anni è sicuramente il romanzo di Elena Ferrante “I giorni dell’abbandono”, da cui è stato tratto un film di Roberto Faenza, ma qui la dimensione del thriller rende più accattivante la lettura. Il secondo elemento significativo è l’osservazione e l’immaginazione ossessiva delle vite degli altri, fatta dal finestrino di un treno, perché guardare le finestre delle case che si oltrepassano dalla ferrovia o da un autobus, fantasticando su quel che succede all’interno è un’esperienza comune. Il terzo è la semplicità del testo che si presta appunto ad una lettura da pendolari, per passare il tempo da una stazione di

Remo Fattorini

Segnali di fumo Un altro mito sulla via del tramonto? In alcuni paesi del mondo si. Da noi siamo ancora alle parole, alle deboli intenzioni e all’assenza di progetti. Sto parlando dell’automobile. Quell’oggetto del desiderio che ha alimentato i sogni dal XX secolo fino ad oggi. Fatto sta che il traffico nelle aree urbane è diventato sempre più soffocante, avvelena l’aria che respiriamo e produce alti costi sociali. Progettare soluzioni alternative diventa un imperativo. Da un po’ di tempo, un numero

La ragazza del treno

all’altra, un libro compagno di viaggio. Il film di Tate Taylor, attualmente in programmazione nelle sale è abbastanza fedele alla trama del libro, salvo che per la localizzazione, spostata da Londra a New York; modifica non felice perché il lento passaggio del treno locale delle 8.04 nei sobborghi di Londra, “appena più veloce di un corridore in buona forma”, appare fondamentale per tutto lo svolgimento della narrazione. Il passaggio si ripete ogni mattina, con ritorno nel

pomeriggio avanzato e la protagonista e osservatrice è una falsa pendolare, che da tempo ha perso il lavoro ma sta sprofondando in una depressione alcolica e si aggrappa a questo andirivieni inutile per cercare di dare un senso alle proprie giornate e un’apparenza di normalità all’esterno. Interessante nella scrittura è il ritmo cadenzato avanti e indietro nel tempo, proprio come quello della protagonista sul treno, che si interseca con il fluire indistinto dalla realtà all’immaginazione, cadenzato dai vuoti di memoria che lo stato di ubriachezza le produce. Tutto questo nel film si perde, così come lo spostamento di sguardo dalla protagonista alle altre donne del romanzo che si alterna nel libro. C’è però un elemento interessante che l’appiattimento sintetico del film fa emergere più del libro ed è una caratterizzazione dei personaggi femminili, tutti alle prese con l’ambivalenza della maternità, con quel particolare intreccio di amore e morte, inscindibile dall’affacciarsi a questa esperienza. La protagonista è distrutta dall’impossibilità di diventare madre, la donna osservata dal treno sta per diventarlo ma si

porta dietro il pesante fardello di una precedente esperienza fallimentare, la nuova moglie del marito della protagonista ha una figlia piccola ma non è capace di rapportarsi a lei, tutte alternano, in un fluire indistinto desiderio e paura. È abbastanza ovvio che, in questo contesto, le figure maschili, risultino opache, incapaci di comprendere la complessità delle situazioni, di un egoismo che finisce per sfociare nella violenza, perché qui di thriller si tratta e una frase che apre la narrazione stigmatizza il pensiero del principale personaggio maschile, una frase che si sente spesso ripetere dagli uomini che arrivano a esercitare violenza sulle donne: “ecco cosa mi hai costretto a fare”. Un tratto della storia che mi è piaciuto particolarmente è che quel che salva la protagonista dallo sprofondo è la curiosità, ma, a differenza della vecchia favola di Barbablù, dove il salvataggio finale veniva dall’esterno e dagli uomini, qui il riscatto è direttamente opera della protagonista, femmina e disperata, ma anche ostinata e coraggiosa osservatrice. Già, dimenticavo la suspence ma, secondo me, non è la cosa più importante.

sempre maggiore di persone, soprattutto nelle città, vi rinuncerebbe volentieri se, poco poco, avesse possibilità alternative per i propri spostamenti. In effetti città sempre più interconnesse e servite da bus, tramvie, metrò, piste ciclabili, car sharing, taxi e Uber, fanno venir meno la voglia di possederla, visto che oltre ad essere un impiccio è anche un bene costoso: dal parcheggio all’assicurazione, poi la manutenzione e tutto il resto. Lo dimostra il rapido successo di Uber che in soli 2 anni negli Usa ha già collezionato più di 160mila autisti. Nelle città cinesi sono quasi 2 milioni e 4 milioni di chiamate al giorno. Basta poco per accorgersi che i bisogni individuali stanno generando nuovi mercati. Sindaci e aziende che gestiscono il

trasporto pubblico dovrebbero riprogettare la mobilità urbana per rendere i servizi affidabili e confortevoli, e lo dovranno fare rapidamente. Ad Helsinki un progetto ce l’hanno. Lì nel giro di dieci anni l’intera mobilità urbana sarà rivoluzionata. Da quello che si legge l’amministrazione sta già lavorando per costruire un sistema integrato di trasporto, tra pubblico e privato. Basterà un solo clic del proprio smartphone per pianificare gli spostamenti grazie alla disponibilità di vari mezzi: per esempio usando una bici in

bike-sharing poi lasciarla un punto per salire su un bus, oppure su una vettura privata o su un treno. La logica è quella della mobilità on-demand, una specie di spotify che, pagando un solo operatore attraverso il cellulare, ti arriva un sms con le soluzioni alle tue esigenze. Già ora, nella capitale finlandese, funziona un sistema di minibus che raccoglie chiamate individuali e un’app dedicata che pianifica il percorso più rispondente alle richieste ricevute. Altrove ci stanno già provando e da noi?


12 NOVEMBRE 2016 pag. 8 Simone Siliani s.siliani@tin.it di

C

ontinua senza sosta e senza argini il “legginificio” gianiano in Regione Toscana: dopo la “leggina” di spesa relativa alla L.R.46/2016 “Città murate della Toscana” con la quale il Consiglio regionale della Toscana si faceva erogatore diretto di contributi una tantum alle città toscane che presentavano progetti di recupero e valorizzazione della mura cittadine, va in approvazione del Consiglio una “leggina”, presentata dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio primo firmatario il presidente Eugenio Giani, “Interventi per la valorizzazione della identità toscana e delle tradizioni locali”. La “leggina” assicura contributi a pioggia alle associazioni di rievocazione e ricostruzione storica, a bande musicali e cori e a centri commerciali naturali che svolgano “attività finalizzate prevalentemente alla valorizzazione delle tradizioni legate alla identità storica”. Prima di entrare nel merito. Davvero singolare di questa legge, occorre rilevare l’incongruità di un Consiglio regionale che svolge direttamente funzioni amministrative e di erogazione di contributi, svolge cioè funzioni tipiche dell’esecutivo. Infatti, è il Consiglio Regionale che “è autorizzato a concedere contributi una tantum a favore dei soggetti di cui all’art.2”(art.3 co.1). Inoltre, la “leggina” del Consiglio di sovrappone, ignorandola sostanzialmente, alla normativa preesistente sull’argomento, la L.R.5/2012 “Valorizzazione delle associazioni e delle manifestazioni rievocative e ricostruzione storica della Toscana. Modifiche della legge regionale 25 febbraio 2010, n.21 “Testo unico delle disposizioni in materia di beni, istituti e attività culturali”. Infatti, la “leggina” cita la L.R.5/2012 solo per identificare le associazioni beneficiarie del contributo una tantum, cioè quelle iscritte nell’elenco regionale istituito ed aggiornato dalla Giunta Regionale ai sensi dell’art.3 della L.R.5/2012; ma ignora completamente tutto il resto della legge, compreso l’art.8 che definisce le forme e le modalità

per le fiere commerciali legate alla valorizzazione di produzioni locali da almeno 100 anni) e per i centri commerciali naturali l’aver ottenuto aiuti in regime “de minimis” in tre esercizi finanziari. Per quali attività questi soggetti ricevono i contributi è del tutto indifferente. Tanto che i “contributi sono concessi con procedura automatica”: tutti i soggetti riceveranno il contributo, “in misura fissa di ammontare predeterminato sulla base del numero delle domande validamente presentate”. Dunque, essendo l’importo massimo del contributo per ciascuna categoria di beneficiari (associazioni di rievocazione storica, Comuni che organizzano il carnevale, bande musicali e cori, centri

te un falso, cioè che gli interventi disposti dalla legge sono “in coerenza con le politiche regionali finalizzate alla valorizzazione delle tradizioni culturali toscane e alla qualificazione e valorizzazione dei luoghi del commercio”. Ciò non è sicuramente falso per la valorizzazione delle tradizioni culturali dal momento che la legge che regola le politiche regionali in materia è la citata L.R.5/2012 che, come abbiamo visto, prevede procedure e contenuti certamente diverse e in parte contrastanti con quelle contenute in questa “leggina”. Quanto alla qualificazione e valorizzazione dei luoghi del commercio, le politiche regionali in materia sono regolate dalla L.R.28/2005

commerciali naturali) pari a € 75.000, più saranno i beneficiari, minore sarà il contributo, che comunque sarà uguale per tutti a prescindere dal merito delle iniziative. Ad aggravare questa incongrua e insignificante procedura, vi è quella prevista per i contributi alle bande musicali e ai cori. Nel loro caso, non esistendo un elenco regionale, si è immaginato di assegnare l’importo complessivo alle due associazioni regionali, quella delle bande musicali (ANBIMA) e quella dei cori, “in misura proporzionale agli iscritti”, le quali provvederanno alla “successiva ripartizione tra i propri iscritti sulla base di specifici programmi di formazione” (art.3 co.2). Ma, allora, questi contributi sono dati per la “formazione” dei membri di bande e cori? In tal caso, appare davvero originale che nessun organo regionale, nella fattispecie quelli della Giunta regionale preposti alle politiche della formazione, stabilisca contenuti dei progetti di formazione o ne valuti il merito. Due ultime considerazioni che accentuano il carattere totalmente incongruo di questa “leggina”. All’articolo 1 sulle finalità si dichiara evidentemen-

Codice Unico del commercio e lo svolgimento nel novembre 2013 degli Stati Generali del Turismo e del Commercio hanno delineato molti elementi strategici e di programmazione delle politiche regionali nel settore, ma di tutto ciò non vi è traccia nella “leggina”. Dunque, essa è completamente avulsa e in parte contrastante con le politiche regionali del settore, non evidentemente “in coerenza”. Infine, non possiamo non stigmatizzare un modo di legiferare quanto meno “emergenziale” che sceglie la strada della “leggina” approvata a novembre per liquidare € 300.000 euro rimasti nel bilancio d’esercizio 2016 del Consiglio Regionale, entro la fine dell’anno. Tutto ciò non fa che mettere in luce la scarsa cognizione del ruolo che di sé ha la Regione, che dovrebbe essere di legislazione e di programmazione, della sua efficienza nella gestione delle risorse, del governo delle politiche che attengono alla propria competenza legislativa, forse spiegando anche il perché del tentativo di recupero al centro del sistema istituzionale di tali competenze attraverso la riforma costituzionale voluta dal governo.

La leggina di Eugenio per l’erogazione di contributi finanziari e per le attività di valorizzazione. Con il bel risultato di avere due diverse e contraddizioni previsioni normative per erogare contributi alle stesse associazioni. Questo avviene quando si procede a legiferare fuori dalla programmazione più complessiva, confondendo i ruoli istituzionali (l’assemblea legislativa si fa organo esecutivo, mentre il vero esecutivo – la Giunta Regionale – assiste silenzioso in disparte) e legiferando per dare (piccoli) contributi a pioggia (prescindendo dal merito delle attività finanziate) che, per dirla in modo diretto, si configurano come (piccole) clientele. Se, infatti, andiamo al merito dell’articolato della “leggina” troviamo che i contributi, sottolineiamo una tantum e quindi destinati a non ripetersi negli anni successivi, vengono attribuiti senza alcuna presentazione di progetti che specifichino le attività svolte, ma ai soggetti che presentino i requisiti che attestino l’esistenza e l’iscrizione all’elenco regionale (per le associazioni di rievocazione storica), le precedenti attività svolte (per le manifestazioni carnevalesche da almeno 5 anni,


12 NOVEMBRE 2016 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

L

’anglofonia dilaga in tutta Italia: dalla pianura padana al Salento, da Trieste a Catania, la lingua di Shakespeare viene usata sempre più frequentemente. I nomi dei negozi e delle ditte, i titoli dei libri, perfino quelli dei film: ormai ben poco si salva dal conformismo anglofono. Naturalmente anche il linguaggio quotidiano è infarcito di anglicismi inutili o ridicoli: verbi come monitorare (al posto di controllare), implementare (perfezionare) e testare (sperimentare) sono all’ordine del giorno. Senza contare che molte parole inglesi vengono usate in un senso del tutto ignoto nei paesi anglofoni: pensiamo a body, outlet, testimonial, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il bisogno di anglofonia è così forte che anche i nomi propri vengono sostituiti da abbreviazioni inesistenti: Gabry, Giusy, Lori, tanto per fare qualche esempio. Perfino la pubblicità, che per definizione dovrebbe essere comprensibile, fa uso di termini inglesi che pochi capiscono. Un’alternativa stimolante al dilagare dell’anglofonia è quella

Contro il conformismo

anglofono

proposta da Gabriele Valle nel libro Italiano urgente (Reverdito, Trento 2016), che porta una salutare ventata d’aria fresca in questo panorama asfittico. Preceduto da una bella prefazione di Tullio De Mauro, il libro coglie nel segno fin dal titolo: intervenire in difesa dell’italiano è una necessità improrogabile. Latino due volte, lo studioso

italo-peruviano ha raccolto 500 anglicismi e ne ha proposto una traduzione italiana traendo spunto dallo spagnolo. Il ricco ventaglio di termini scelti ne include molti che sono ormai radicati nel nostro linguaggio quotidiano: cowboy, intelligence, residence, sex symbol, etc. Crediamo che in certi casi sia difficile, se non impossibile, invertire la tendenza e sostituire certe parole con gli equivalenti italiani proposti dall’autore. In ogni caso la sua non è una battaglia contro i mulini a vento: Valle non difende un purismo anacronistico. La lingua è una materia viva, quindi mutevole: per questo non usiamo più termini come messere, madama o fantesca, ma signore, signora e domestica. Al tempo stesso, l’italiano è ricco di parole importate da altre lingue: basti pensare a bistecca (beefsteak), stoccafisso (stockfisk) e brioscia (brioche), solo per fare

Going home Mi piace parlare con Leonard è uno sportivo e un pastore è un pigro bastardo con un abito elegante ma parla come io voglio anche se questo non gli va a genio perché non gli è stata data la libertà di rifiutare

Vuole scrivere un canto d’amore un inno al perdonare un manuale per convivere con la sconfitta un grido che va oltre il dolore un sacrificio che ci guarisce ma non è questo che voglio che lui realizzi

Dirà parole di saggezza come un sapiente, un lungimirante anche se lui sa bene di essere nient’altro che la sintetica elaborazione di una melodia

Voglio solo che lui sia sicuro di non portarsi appresso un fardello che non gli serva una rivelazione e che gli è solo consentito di eseguire il mio comando dell’istante e cioè di dire esattamente quello che gli ho ordinato di ripetere

Sto andando a casa, senza più dolore me ne andrò a casa prima o poi domani a casa dove tutto sarà migliore torno a casa, senza il mio fardello torno a casa, dietro il sipario torno a casa senza il travestimento che ho indossato finora

Torno a casa senza più dolore torno a casa prima o poi domani a casa dove tutto sarà migliore torno a casa senza il mio fardello torno a casa dietro il sipario torno a casa senza il travestimento

che ho indossato finora Torno a casa senza più dolore torno a casa prima o poi domani a casa dove tutto sarà migliore torno a casa senza il mio fardello torno a casa dietro il sipario torno a casa senza il travestimento che ho indossato finora Mi piace parlare con Leonard è uno sportivo e un pastore è un pigro bastardo con un abito elegante”. (Traduzione a cura di Marie Jolie)

Goodbye Leonard

qualche esempio. Il linguista propone infatti anche questa soluzione. Quello che bisogna evitare è che l’italiano venga progressivamente snaturato da altre lingue – in pratica, dall’inglese – e si trasformi nella caricatura di se stesso. L’autore sottolinea che in questa bulimia anglocentrica l’italiano si ritrova isolato fra le lingue romanze: in Spagna il computer si chiama computadora, in catalano ordinador, in Francia ordinateur. Cosa che molti italiani, paradossalmente, trovano ridicola. Al tempo stesso, però, accettano supinamente che il francese ci imponga pronunce sbagliate come Alesì, Piccolì, Platinì… In sostanza, contestiamo i francesi laddove dove dovremmo imitarli e li prendiamo ad esempio dove sbagliano. Per giunta, anche quando pronunciano nomi italiani…


12 NOVEMBRE 2016 pag. 10 Francesco Cusa francescocusa@gmail.com di

C

ome un immane piano sequenza, il flusso di Malick prosegue, di film in film. Un viaggio infinito nella donna attraverso le donne. Nella vita attraverso i tarocchi. Il rapporto uomo-natura. L’intima essenza. L’ambientazione in quel di Las Vegas, ovvero nella città dell’effimero, dell’artificio, scossa dal rombo del terremoto che riporterà il protagonista alla relazione con la radice del dolore. “Knight of Cups” non è film brutto e non è un film bello. Forse non è neanche un film. Dunque non può essere “recensito”. Riporto alcune mie trascrizioni, degli appunti che ho preso durante la visione e che concedo alla lettura, in sintonia col flusso delle immagini che ancora percorre i territori della mia visionaria notte. LA LUNA. Non ci sono principi ma circostanze. Il mondo è una palude, ci devi volare sopra. In alto. Lá dove tutto sembra un granello. IL GIUDIZIO. LEI: Sei cambiato. Il mondo ti ha assorbito. Sempre di più. Un tempo al mattino cantavi quando scendevi le scale. Eri diventato meno gentile con me. Quasi crudele. Volevi che ti aiutassi a superare i pericoli di chi è giovane, la paura. Avevi la testa girata dal lato sbagliato. Non sei mai voluto mai entrare nel nostro matrimonio. E non volevi neanche restarne fuori. Eri sincero nelle promesse che avevi fatto. Eppure non partivano dal tuo cuore. LUI: mi hai dato la pace. Mi hai dato quello che il mondo non può dare. La gioia. Tutto il resto sono nuvole. Nebbie. Stai con me. Sempre. LA TORRE. Dove altro puoi andare. Altrove sarà la stessa cosa. Pensi che quando arrivi ad una certa età le cose cominciano ad avere un senso. Invece sei perso come prima. Immagino sia questa la dannazione. I pezzi della tua vita che non si uniscono mai. Che sono lì e stanno in giro. IL SOLE. Sognare è bello. Ma non si può vivere in un sogno. Mi ritorna in mente la tenerezza con cui mi toccavi il viso quando avevi quattro anni. Ogni uomo. Ogni donna. Una guida. Un dio. Tu vivi in esilio. Straniero

Knight of Cups

Le forme della memoria di

Pasquale Comegna

in terra straniera. Un pellegrino. Un cavaliere. Trova la tua strada. Dall’oscurità alla luce. Ho passato trent’anni senza vivere la vita. Anzi rovinandola a me stesso e agli altri. Non riesco a ricordare che uomo volevo essere. A nessuno importa più della realtà. Le altezze non si sommano. L’amore vero non si trova facilmente. Come ci sei arrivato? Esco dalla grande nube di polvere che tutti stanno sollevando. L’unica via d’uscita è all’interno. Respira. La tua mente è un teatro. Egli muta l’ombra di morte in aurora. MORTE. Fare attenzione al momento presente. Ed è tutto lì. Perfetto e completo. Così com’è. C’è così tanto amore dentro di noi. E non viene mai fuori. Soffrire ti lega a qualcosa di più elevato di te. Ti porta via dal mondo per scoprire cosa c’è di là. Occorre considerarli dei doni. La sofferenza è dono più prezioso della felicità che cerchiamo per noi stessi. Padre dammi il coraggio. La forza. (Il padre). Sei stato bravo. Più bravo di me. Sono fiero di te. Dovrebbe essere sempre così. LIBERTÀ. Trova la luce che conosci a est. Come un bambino. La luna e le stelle. Sono al tuo servizio. Ti guidano nel cammino. La luce negli occhi degli altri. La perla.


12 NOVEMBRE 2016 pag. 11

Arte e vita senza confini

Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

S

i proclamano i gemelli ermafroditi dell’arte. Quando s’incontrano alle più importanti mostre e fiere d’arte in tutto il mondo il loro look ultra kitsch provoca sempre uno shock estetico e la loro presenza diventa essa stessa un evento. Sono Eva&Adèle, entrambe calve, con il medesimo trucco pesante sul viso bianchissimo, abbigliate alla stessa maniera con tacchi alti e abiti di materiali sintetici dai colori sgargianti e spesso di forme, a dir poco, stravaganti (come, per esempio, delle enormi ali di farfalla applicate nella parte posteriore). A questa coppia di artiste berlinesi il museo d’Art Moderne di Parigi, fino al 26 febbraio, dedica una mostra antologica dal titolo You are my biggest inspiration. Ma chi sono Eva&Adèle che forse qualcuno di voi avrà incontrato in qualche occasione artistica di rilievo? La loro biografia è segreta, non rivelano l’età né l’esperienza di vita e nell’arte prima del loro incontro, 25 anni fa, in Italia. Si sa solo che Adèle è una donna e quando si sono conosciuti Eva era un trasgender che aveva cambiato sesso senza chirurgia. Si sono sposati come coppia di Spela Zidar spelazidar@yahoo.com di

Lo scorso 4 e 5 novembre alla Florence School of Fine Arts in Borgo Santa Croce 8 a Firenze era in programma Contemporary ARt NOvember, un evento espositivo inserito nell’ambito del cinquantesimo anno dell’alluvione di Firenze ed incentrato sulla pluralità della ricerca artistica contemporanea. La mostra coinvolge artisti già affermati di varie discipline, dalle arti visive alla musica e alla letteratura, in dialogo con studenti internazionali iscritti ai corsi di grafica di Florence School of Fine Arts, che animeranno il cortile del palazzo che fu dimora di Giorgio Vasari nella zona di Santa Croce a Firenze, con l’obiettivo di creare nelle nuove generazioni un’importante consapevolezza storica e scambio culturale. Durante le due serate gli artisti e gli studenti presenteranno le

donne. Da artiste indipendenti quali si sono sempre dichiarate, hanno deciso da subito di trasformare la loro singolarità in strumento per abolire i confini tra vita e arte, usando come materiale il loro corpo. Per tra-

sformarsi in sculture viventi ambigue e artificiose dedicano tre ore al giorno, tutti i giorni, per rasarsi completamente il cranio, truccarsi e indossare i vestiti, naturalmente uguali fin nei minimi dettagli, disegnati da loro.

Mangiano le stesse cose alla stessa maniera, non sono mai state, dal loro incontro, un giorno separate. Le loro apparizioni sono coreograficamente studiate in precedenza: appaiono, si fanno notare (impossibile non farlo) e scompaiono rapidamente. A volte indugiano ad una mostra per più di otto ore diventando esse stesse l’oggetto principale dell’interesse del pubblico. Così Eva&Adèle, con grande cura e costanza, vivono la vita d’identità fusa come un’opera d’arte. La loro immagine, senza precedenti ma perfettamente identificabile, però non ha solo un fine estetico ma vuole essere anche un manifesto d’ironia e tolleranza contro i pregiudizi sulla diversità. Dicono “ conoscere l’altro sesso in se stessi è l’inizio della comprensione e la soluzione di tanti contrasti”. Si vestono spesso di rosa perché i nazisti imposero un triangolo di questo colore cucito sulle giacche degli omosessuali. Il mondo dell’arte e della critica le ha spesso ignorate. Oggi il museo d’Art Moderne le omaggia. In mostra anche i 1500 autoritratti scattati con una polaroid quotidianamente con lo stesso sorriso e la stessa posa e le sculture autobiografiche fatte con i loro oggetti personali.

Contemporary ARt NOvember loro opere grafiche, installazioni, video installazioni e libri d’artista accompagnate da ambientazioni sonore e readings. Le opere ripercorrono in chiave contemporanea la tragica memoria dell’alluvione del 1966, proponendo un itinerario suggestivo in cui la pluralità artistica è intesa come disegno unitario e fattore necessario ad operare un collegamento indispensabile tra il nostro passato recente e la volontà di riaffermare ancora Firenze quale centro della cultura e dell’arte di tutti i tempi. Artisti: Stefano Castrucci (pittura); Fabio Chiantini (foto-installazione-libro d’artista) con parole di: Valerio Aiolli, Guido Ariani, Claudio Di Benedetto, Enzo Fileno Carabba, Anna Maria Falchi, Leonardo Gori,

Marco Vichi; Melania Lanzini (video installazione); Paolo Lauri (video installazione), con abientazioni sonore di Alessandro di Puccio e Marco Lamioni; Charles Loverme (installazione – libro d’artista); Antonio Mala-

spina (installazione); Piero Mazzoni (pittura). Studenti partecipanti: Nayeli Aguilar, Jessica Ballerini, Ilaria Barbieri, Georgianne Crummer, Giacomo Folchi, Whitney Oberg, Rachel Stickney (printmedia– installazioni); Monnalisa Bracchi, Dania Menafra (installazioni).


12 NOVEMBRE 2016 pag. 12 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

A

me, “uomo della strada” come avrebbe detto il Cocilovo, prof. di filosofia al Liceo, questa mostra di Ai Weiwei è piaciuta parecchio. Avevo visto il film prima, così, per documentarmi un po’,l’arte moderna non è così facile e non mi piace nemmeno tanto. Ma sono curiosa. Costui mi è sembrato un gran personaggio, un artista che usa una creatività dal forte impatto comunicativo, la cui simbologia è molto chiara, semplice direi, così tanto da correre il rischio di vedere la sua opera banalizzata. I grandi, rossi, gommoni che incorniciano le belle finestre di Palazzo Strozzi parlano indubbiamente di immigrati, disperati o no, che arrivano qui, come fossimo la ’Merica, ed indubbiamente le migrazioni sono, di nuovo, un problema attuale e difficile, però hanno una loro, grande altrettanto, dignità estetica, plastica e vecchia pietra si amalgamano bene, si lasciano guardare. L’enorme, sinuoso, serpente bianco e nero che riveste una parete, nella seconda stanza, è bellissimo, è fatto con degli zainetti. Il video ci mostra il terremoto che distrusse case e scuole di un grande paese, denegato e poco commentato dalle ipercontrollanti Autorità cinesi, tantissimi morti, fra essi tantissimi bambini, quasi tutte le scuole fatte con cemento friabile, crollarono. Ed ecco gli zainetti...nel film si racconta come, grazie ad un Tweet, Ai Weiwei abbia messo in moto migliaia di persone che, nel corso di due anni, sono riuscite ad identificare e nominare ciascun bambino morto. Nel film si vedono i loro nomi scritti su una parete, in una performance web essi sono stati pronunciati uno ad uno, in barba ai segreti di stato. Nel video della sala del serpentone si mostra anche il cammino, faticoso e lungo, attraverso il quale tonnellate e tonnellate di “nodini” provenienti dalle case crollate sono stati raddrizzati ed usati per una commovente e pesantissima installazione che li ha strutturati come fossero uno di quei grafici che i sismografi ci regalano in gran copia in questi giorni e come fossero una enorme crepa che alza e modifica la crosta terrestre. Nella prima stanza si entra dentro e sotto il continuo fluire del Giro

La Cina è vicina

d’Italia che, in Cina, prende il via ad ogni semaforo verde di ogni città, una “stanzata” di biciclette, incastrate, sospese, appoggiate che ci fanno da arco di trionfo, da ingresso, da soffitto, da cornice, che ci avvolgono in un abbraccio che odora forte della gomma delle loro ruote. La Cina, le sue abitudini, le sue tradizioni, ispirano l’artista. Una installazione di sgabelli di legno troneggia in una stanza le cui pareti sono rivestite di una carta da parati decorata da Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Involuzione della specie presidenziale nel Nuovo Mondo

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

geometrie d’oro, in esse si ripetono le telecamere che controllano l’umanità e l’artista, le catene e le manette che imbrigliano le libertà di tutti e il simbolo di Twitter, via di fuga difficile, ma possibile, difficile, ma più volte usata...Belli i granchi di fiume, le rose e l’erba di ceramica, i vasi antichi verniciati con vernici indelebili dai colori accesi che ne snaturano l’essenza, dopo la famosa performance in cui ne distrusse uno lasciandolo cadere per terra con una faccia

di “tolla” che innamora e che è commemorata in una sequenza di autoritratti eseguiti con mattoncini lego. Non è nulla rispetto a tutto quello che hanno distrutto i cinesi nella loro patria seguendo la Rivoluzione Culturale che osteggiava le solite abitudini, le solite idee e la solita cultura e inneggiava a “nuovi dei..nuovi miti… nuovi comportamenti”! Quella dei mattoncini lego mi si dirà che è cosa infantile o chissà banale, o abusata, a me sembra geniale! Il dito medio poi non lo posso tacere, ben prima di sapere di Ai Weiwei ero fedele ammiratrice del suo ampio, silenzioso, potere comunicativo, da anni seguace del suo uso e di fronte o alle spalle di chi non si reputa degno di risposte verbali, di chi passa ogni limite…. Tutto è sacro, nulla lo è. Ciò che si distrugge, si ricostituisce, si modifica e si integra. Dal suo studio costruito e distrutto delle Autorità persecutorie, nasce una installazione, una parete, in mattoni sciupacchiati in cui si incastrano parti di legno di un vecchissimo tetto. Opere belle, pensate e ben costruite, pesanti come lo sono i temi che ci propongono.


12 NOVEMBRE 2016 pag. 13

Tormenti e solitudini in Cesare Pavese

Paolo Marini p.marini@inwind.it di

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onoscere Cesare Pavese e, per esso e con esso, la sua poesia, i suoi scritti. Ovvero, percorrere il tragitto inverso, partendo dalle sue opere. Per chi voglia farlo, il libro di Fiorella Baldinotti (“Di quei giorni mi ricorderò sempre – Desideri e lontananze in Cesare Pavese”, Mauro Pagliai Editore, pp. 120) sarà invariabilmente un buon cominciamento. C’è anzitutto il giovane Pavese, già colmo di tutta la propria sofferenza. Innamoratosi di una cantante e consapevole dell’irragiungibilità del suo desiderio, scrisse all’amico Tullio Pinelli: “Senti: ho trovato questo raffinato strumento di tortura: ogni volta che, confusamente, come fa sempre il mio spirito, aspiro a qualche cosa, mi chiedo: che cosa ne farei tanto? E non trovo più pace”. Il volumetto, denso di richiami alla letteratura contemporanea così come ai classici (con i quali lo scrittore aveva un rapporto speciale), offre il ritratto di un’anima, cadenzato in capitoli, ciascuno facente perno su un tema ad essa congeniale (il sogno e la donna o l’amore, la solitudine, la terra e il sangue) ovvero su alcune figure di amici (tra cui Leone Ginzburg e Italo Calvino) che ebbero una parte importante nella vita di Pavese. Donde nasceva tanto tormento? L’Autrice ipotizza “che la perdita del padre abbia suscitato in seguito l’incapacità di affrontare con forza le vicende della vita”; tanto che dall’infanzia in poi sarebbe stata “una continua fuga in una dimensione altra, attraverso un doloroso processo di espiazione ai limiti del sostenibile”. A chi legge potrebbe sopraggiungere l’idea che il giovane Pavese avesse già fissato in un calendario interiore il proprio appuntamento con la morte, una morte da suicidio – come quella dell’amico Elico Baraldi che certo ebbe su di lui capacità impressiva – e alla quale differentemente da costui sarebbe pervenuto in età matura, ormai “famoso, conosciuto, letto e stimato”. Eppure la sua poetica e la sua scrittura sono intense, come

quel desiderio che pare non potersi mai compiere. Ci sono tratti memorabili, in questo tragitto, anche grazie – mi pare – ad una efficace selezione. E’ “ogni poesia di Pavese (…) come un atto d’accusa contro se stessi”, contro l’incapacità di vivere come gli altri e contro quella “dimensione della non-vita che tocca agli scrittori Nell’ambito del Nono ciclo Fascismo, guerre, antifascismo, L’ististuto Storico della Resistenza e il Museo Novecento presentano tre incontri dedicati allo scontro fra fascismo e antifascismo nel contesto dell’Europa degli anni Trenta. Le guerre del regime, il conflitto epocale degli anni Quaranta non sono solo pagine del passato da ricordare in occasione di anniversari più o meno significativi, ma passaggi essenziali della nostra storia. Le conferenze saranno un’occasione per riflettere sulle radici del nostro presente, discutendo con storici e studiosi qualificati ed esperti della più recente storiografia. Il 15 novembre alle ore 17.00 si presenta il libro di Enrico Acciai, Antifascismo, volontariato e guerra civile in Spagna. La sezione italiana della colonna Ascaso, Unicopli, 2016. Intervengono: G. Santomassimo (Università di Firenze), S. Neri Serneri (Università di Siena – Presidente ISRT), C. Spagnolo (Università di Bari). Abstract del volume: Tra l’estate del 1936 e la primavera del 1937 poco più di seicento an-

e, specialmente, ai poeti”: e qui, volendo, si aprirebbe una voragine di suggestioni e di pensieri. La produzione giovanile è già sintomatica di tutte le motivazioni e le istanze della sua poetica matura. Uomo e artista vocato alla dimensione irrazionale, angustiato dal prevalere della storia e, vorrei rispettosamente dire, incapace di acquisire quello che di buono è dentro la vita. Dirà di lui la bella Romilda Bollati, conosciuta ad una cena con tanti amici, a Torino: “Lui, lo dico con il senno di poi, non aveva il problema di uscire dalla realtà, perché ne era già fuori. Il suo problema semmai era quello di entrare nella vita. Uscirne gli era fin

Antifascismo, volontariato e guerra civile in Spagna

L’anarchico Camillo Berneri

troppo facile.” Sin dalle prime pagine e poi nell’avanzar per esse, ho pensato a questo libro come ad un piccolo testo per l’età più fantastica. Non è difficile rintracciare nei versi, nei pensieri dello scrittore – rimasto così acutamente e acerbamente dolente - molte delle peculiari angosce e delle paure tardo-adolescenziali o della prima giovinezza. Lo consegnerei a quelle generazioni, perché include un po’ tutto ciò che turba e angustia a quella età. Consiglierei di leggerlo perché quel tutto è ciò che, per entrare appieno nella vita, deve sublimarsi in una diversa consapevolezza - amara quanto si vuole – mai però rassegnata, o vinta. tifascisti italiani combatterono in Spagna, sul fronte aragonese, inquadrati all’interno della Sezione Italiana della Colonna Ascaso. Questo gruppo, organizzatosi a Barcellona nei primi giorni di agosto, vide la luce grazie all’azione congiunta dell’anarchico Camillo Berneri e del giellista Carlo Rosselli. La Sezione Italiana si formò tre mesi prima che le celebri Brigate Internazionali apparissero sui fronti spagnoli. In questo lavoro si riflette su questo gruppo partendo dalle vite dei suoi membri e da una domanda banale: cosa portò questi uomini e queste donne in Spagna? Ripercorrere le traiettorie di questi primi volontari italiani ci ha consentito di soffermarci sul mondo da cui questi provenivano, quello dell’esilio antifascista, e di riflettere, più in generale, sulla loro militanza nel campo antifascista sin dai primi anni Venti.


12 NOVEMBRE 2016 pag. 14 Rossella Seniori e Marco Zappa adelesenioricostantini@tin.it di

Tracce di Urss

E

ravamo partiti per la Russia pensando che dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si cercasse di cancellare quante più tracce possibili. Ovviamente non il mausoleo di Lenin che è parte integrante della Piazza Rossa, o i decori della metropolitana di Mosca: troppo belli anche se simbolo dell’era staliniana e dell’arte socialista. O lo skyline dei palazzi popolari squadrati e grigi: troppi per essere cambiati in pochi anni (e poi non così brutti!). Ma per il resto immaginavamo una memoria da nascondere. Poi ci siamo accorti che, almeno per il pezzo di Russia che abbiamo visto, non è così. La nostra prima tappa dopo Mosca è Nizhnij Novgorod. Conosciuta anche come Gor’kij perché patria del grande scrittore, la città ha origini medioevali. Con il suo bellissimo Cremlino, si affaccia sulla confluenza di due fiumi, il Volga e l’Oka e dal percorso lungo le mura che si estendono per circa 2000 metri e dalle 12 torri che arricchiscono il percorso, si godono stupendi panorami. Vi arriviamo dopo poche ore di treno da Mosca, Nella cabina c’è uno schermo televisivo ove si possono vedere film in bianco e nero degli anni ’30 e‘40. Molti di questi raccontavano l’epopea della Rivoluzione d’Ottobre. Non ci aspettavamo questo tuffo nella storia sul treno! Veniamo a sapere che proprio lungo il tragitto (e sui vagoni) della Transiberiana si svolsero episodi importanti della guerra civile che seguì alla rivoluzione e scontri sanguinosi tra i Bolscevichi e i controrivoluzionari appoggiati, questi ultimi da alcuni dei paesi alleati nella prima guerra mondiale che intervennero in Siberia per ostacolare il diffondersi del bolscevismo. Il Cremlino di Novgorod accoglie una grande esposizione permanente delle armi usate dai soldati russi nella seconda guerra mondiale. I ragazzi giocano salendo sulle torrette del carri armati T34 o sopra i camioncini con i lancia-razzi Catiuscia. Nelle arcate sotto il percorso sulle mura, migliaia di foto dei caduti. Già, la seconda guerra mondiale di cui ogni città riporta monumenti in abbondanza, oggi viene ricordata non come la guerra per la difesa

dei Soviet o la guerra anti nazista, ma come la “grande guerra patriottica”. Nel museo dentro le mura due cose ci hanno colpito in particolare: un manifesto di incitamento alla resistenza dove un semplice soldato russo, con la sua divisa marrone veniva messo accanto al principe Aleksandr Nevskij (quello immortalato dal film di Ejzenstejn come il vincitore dei principi teutonici) e al generale Kutuzov (quello che sconfigge le armate Napoleoniche) e una parete dedicata alla commemodi

Francesco Gurrieri

La bella mostra nel Palazzo Mediceo di Seravezza (estate 2016) mi ha riportato ai fugaci incontri avuti con Primo Conti. Ritornò a farsi vedere per Firenze nei suoi ultimi anni, dopo una lunga pausa durata decenni nel dopoguerra. Prima di andarsene, nel 1988, aveva ripreso qualche frequentazione a cui aveva rinunciato in ragione, forse, di una sua reimmersione all’ordine francescano laico, in cui era entrato nel 1948, alla morte del padre; ma ancor più per certa freddezza che avvertiva nell’ambiente letterario e artistico fiorentino. Al solito, era più apprezzato fuori da Firenze, città in cui (fatta eccezione per Ragghianti), per i soliti conflitti ideologici che durano una vita, mai gli si perdonò la sua adesione al fascismo, siglata dalla grande tela del “Duce a cavallo” conservata nei depositi della Banca Toscana. In realtà, Primo Conti fu un protagonista del Novecento, dall’alba (come sottotitola la

razione dei caduti della guerra in Afghanistan così stridente con il nostro sentire attuale. Insomma la storia che diviene comunque elemento identitario anche nelle sue contraddizioni. Ekaterinburg, che raggiungiamo alcuni giorni dopo, è il luogo esemplare di queste contraddizioni. In questa città nel luglio del 1918 venne ucciso dai Bolscevichi l’ultimo zar, Nicola II, con la sua famiglia e alcuni persone della corte. Sul luogo dove avvenne l’eccidio nel 2004 è stata costruita una grande chiesa chiamata “La

cattedrale sul sangue”. Questo è stato possibile perché a partire dagli anni ‘80 i Romanov uccisi a Ekaterinburg vengono canonizzati dalla chiesa Ortodossa come martiri e perché Boris Eltsin, che era di quelle parti, nel 1991 vuole riabilitarne la memoria. Di fronte alla chiesa vi sono delle belle gigantografie (immagini sfumate e melanconiche) che riportano foto dello zar Nicola II in atteggiamento bonario con la sua famiglia e salutato dai cosacchi e le immagini delle bellissime figlie. Ma pochi isolati più in là, il viale principale, come in tutte le città della Siberia che abbiamo attraversato, si chiama проспект Ленина “ Viale Lenin” con annessa gigantesca statua di Lenin che saluta la folla. Non è facile comunicare (di questo diremo poi) ma dai pochi contatti che abbiamo avuto non si è percepito alcun rimpianto del regime che comunque non sembra essere rinnegato ma restare sedimentato come una pezzo importante d’identità nazionale. Come dice Luciana Castellina nel suo “Siberiana” (2012): “Poiché l’Urss era tanto russa, la Russia assomiglia ancora tanto all’Urss”.

Con Primo Conti, dallo scalone di Palazzo Vecchio indietro fino all’alba del Novecento

mostra di Seravezza) fino al tramonto (per lui, l’ottavo decennio). Bellissimi i suoi disegni e le sue tele giovanili (Conti era nato nel 1900), sorprendenti per la loro cifra futurista prima, per la personalissima intensità cromatica ed espressiva poi; in particolare, col “Ritratto di Pirandello” (1928) e con la “Zingara” (1938). Molto ben allestita questa mostra, arricchita da un ottimo catalogo a cui, con la presidente della Fondazione fiesolana Gloria Manghetti, sono presenti scritti di Nadia Marchioni e Andrea Tenerini.


12 NOVEMBRE 2016 pag. 15 Serena Cenni serenacenni@virgilio.it di

I

l 27 ottobre, nell’affascinante cornice di Villa La Favorita in Piazza Edison, il Comando Regionale del Corpo forestale dello Stato, nella figura del Primo dirigente Alberto Bronzi, ha accolto una conferenza organizzata dall’Archivio Storico del Frutto e del Fiore impegnato, da alcuni anni, in un approccio interdisciplinare ai temi portanti della natura e coinvolto nell’interessante progetto didattico “Esplora”, ideato dal Corpo forestale per promuovere attività di educazione e di consapevolezza ambientali rivolte sia alle scuole che alla collettività. Un’immagine raffigurante uno scorcio di folti abeti rossi della Riserva Naturale Orientata e biogenetica di Campolino (Abetone) ha fatto da scenario alla conferenza di Roberto Fedeli dal titolo “Dalle foreste al cielo: un ponte tra natura e spiritualità”, che ha preso in esame alcuni tra i temi che più incisivamente collegano la tutela dell’ambiente alla sopravvivenza umana. In anni in cui solo visioni distruttive (per catastrofi naturali, connivenze politiche o pratiche illegali), sembrano perseguitare i territori italiani e con essi le loro compagini sociali (il recente terremoto, l’avvelenamento del suolo nella terra dei fuochi, gli ecomostri cresciuti a dismisura lungo le coste, la contaminazione dei mari…), le foreste si configurano come una scenografia fondante che accompagna le vicende umane opponendo al perpetuarsi del degrado, stabilità, bellezza, protezione e resilienza. Respirando anidride carbonica ed emettendo ossigeno, al contrario dell’uomo, le piante assicurano il proseguimento della vita e della propria specie, adattandosi ai cambiamenti climatici e ai nuovi ecosistemi; e se zone della terra, come ha fatto notare Fedeli, si surriscaldano, ecco che gli alberi e le altre specie naturali le abbandonano per ‘risalire’, alla ricerca del clima perduto, mutando persino la propria ‘fisionomia’: interessante il caso degli abeti rossi che hanno modificato, nel tempo, la propria chioma per potersi liberare, nei mesi invernali, dal carico della neve. Ma le foreste, così necessarie al respiro dell’uomo e vitali per la sua sopravvivenza e per le sue

necessità primarie (dall’impiego del legname all’utilizzo alimentare), hanno avuto un grande rilievo anche nell’approccio spirituale: si pensi al convincimento dell’abate Bernardo di Chiaravalle che, nel secolo XII, affermava che l’uomo avrebbe trovato più insegnamento e, quindi, più conoscenza, nei boschi che nei libri, nonché al

pensiero teleologico di alcuni ordini monastici quali i benedettini di Vallombrosa, di Camaldoli o di La Verna volti, per esempio, a una lettura sacralizzante degli abeti bianchi percepiti, per la loro maestosità e verticalità, come le colonne portanti delle volte del cielo. Come ha ricordato Fedeli, i monaci vallombrosani che, nei

Dalle foreste al cielo

secoli, si sono prodigati per la salvaguardia delle loro foreste, accostando armonicamente la protezione ambientale al cammino dell’anima, sono stati i veri pionieri della moderna ecologia e hanno proiettato, metaforicamente, un ponte tra la natura e il cielo. Al bel progetto “Esplora” del Corpo forestale dello Stato il compito, ora, di educare i giovani all’osservazione, all’esplorazione, alla fruizione degli spazi naturali che nonostante le contaminazioni antropiche, sopravvivono e con lungimiranza vengono custoditi, proprio perché anche i boschi urbani ci riconciliano con il nostro spirito.


12 NOVEMBRE 2016 pag. 16 Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

Michele Rescio mikirolla@gmail.com di

Orecchiette con gli asparagi

Pulite gli asparagi eliminando la parte più dura del gambo e riduceteli a fettine. Sciogliete il burro in un tegame capiente e fatevi appassire la cipolla tagliata finemente. Aggiungete gli asparagi, irrorate col vino e aggiustate di sale e pepe. Fate cuocere a fuoco basso col tegame coperto. Lessate le orecchiette in abbondante acqua salata, scolatele al dente e fatele insaporire nel tegame con gli

asparagi. Unite la mozzarella tagliata a dadini, il parmigiano e mescolate bene prima di servire.Ingredienti 400 g di orecchiette fresche 300 g di asparagi 80 ml di vino bianco secco 1 cipolla 60 g di mozzarella 60 g di Parmigiano Reggiano grattugiato 50 g di burro Sale q.b. Pepe q.b.

Scavezzacollo

Luciano Ori, Cronaca di un’alluvione Dall’8 novembre fino al 13 dicembre alla Biblioteca Umanistica-Piazza Brunelleschi La mostra espone le tavole a collage scelte dall’artista per il racconto tecnologico visivo, Io c’era, nel 1967. Per questa occasione il Consiglio Regionale della Toscana ha pubblicato il catalogo della mostra, comprendente le 37 tavole già presenti nel 1967, integrate con altre 7 tavole e testi critici. Sabato 12 novembre ore 16 convegno con relatori Ubaldo Fadini, Francesco Galluzzi, Maurizio Guerri, Katia Rossi ore 18 inaugurazione della mostra con gli artisti Massimo Barzagli, Paola Di Bello, Sophie Ko Chkheidze, Carlo Fei, Serena Fineschi, Francesco Lauretta, Franco Menicagli, Paolo Meoni, Giancarlo Norese, Cristina Pancini, Claudio Parrini, Olga Pavlenko, Takashi Yamashita suoni collettivo Blutwurst Frittelli arte contemporanea via Val di Marina 15 Firenze fino al 3 dicembre


L immagine ultima

12 NOVEMBRE 2016 pag. 17

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

Q

uesta è l’ultima immagine di questa piccola serie scattata all’interno del quartiere ebraico. Mi ero riproposto di tornarci con più calma, e senza la presenza di amici premurosi che, nel caso dei fotografi, sono più spesso di intralcio piuttosto che di aiuto! Purtroppo, come capita spesso nella vita gli avvenimenti hanno preso un’altra piega e mi sono ritrovato alla fine del tempo a mia disposizione e non sono più riuscito a tornare sui miei passi prima della partenza. Mi è molto dispiaciuto perché quella breve visita di un paio di ore non aveva certo soddisfatto le mie curiosità e la mia esigenza di completare il mio lavoro su una metropoli così ricca di stimoli e diversità sociali.

NY City, agosto 1969


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