Cultura Commestibile 195

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore redazione progetto grafico simone siliani gianni biagi, sara chiarello, emiliano bacci aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, sara nocentini, barbara setti

Con la cultura non si mangia

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N° 1

Paolo Albani Miele di dubbio 2015 tela con scritte su tavoletta nera cm 15x15 Fondazione Benetton editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare di John

A

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Stammer

lberto Breschi ha, da qualche tempo, smesso di insegnare alla Facoltà di Architettura di Firenze. Ma non ha smesso di progettare. Progettando, e realizzando le sue opere, continua comunque ad insegnare. E a formare architetti che si affermano per il mondo come dimostrò la mostra “Exit” che si tenne alcuni anni fa. Una mostra, e una pubblicazione, che raccoglieva le opere di architetti formatisi a Firenze e che lavorano in giro per il mondo. Che in Breschi vi sia una “intrinseca vocazione” a fare delle sue architetture dei testi dai quali apprendere il mestiere di architetto lo si vede con chiarezza nella sua ultima opera: l’ampliamento della sede del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze nel complesso di Santa Teresa. Il complesso dell’ex carcere di Santa Teresa occupa quasi un intero isolato del quartiere di Santa Croce in prossimità del mercato di sant’Ambrogio. La parte più antica fu realizzata nella prima metà del XVII secolo (la data di costruzione risale al 1628) dalla nobildonna Francesca Guardi che fece erigere un monastero per le monache di Santa Teresa. Ma già con l’avvento di Napoleone il convento venne soppresso nel 1810, ripristinato nella sua funzione nel 1816 e definitivamente soppresso nel 1865 dal nascente Regno d’Italia. Da allora fu adibito a carcere (subendo importanti interventi di ampliamento come i tre nuovi padiglioni dei laboratori) fino al 1985 quando il carcere fu trasferito nel nuovo edificio di Sollicciano. Dal 1990 parte del complesso edilizio fu ceduto in comodato d’uso all’Università di Firenze per farne la sede della Facoltà di Architettura. I primi interventi, dettati anche da urgenze per reperire spazi per la didattica, furono progettati dalle strutture tecniche dell’Università per il riuso dei tre padiglioni ottocenteschi dei laboratori. Il primo progetto organico relativo all’intera porzione ceduta in comodato d’uso fu redatto da Breschi nel 2006. Si trattava di un progetto che, riutilizzando le strutture esistenti già restaurate,

Santa Teresa dell’ architettura ipotizzava “l’inserimento” di un nuovo corpo di fabbrica fra questi padiglioni e la parte seicentesca del complesso, facendo svolgere a questo “elemento di intrusione” la funzione di cerniera dell’intero sistema funzionale. E con ciò ricongiungendo, idealmente e praticamente, le

strutture ottocentesche e quelle seicentesche che erano state sostanzialmente solo giustapposte. Il progetto esecutivo del primo stralcio è stato redatto nel 2008 al quale è seguito l’appalto del 2011 e l’esecuzione dei lavori dal 2012 al 2016. L’intervento ha sostanzialmente confermato

questa impostazione iniziale. Un’impostazione che Alberto Breschi così racconta: “Lo studio attento della storia del complesso e le complesse articolazioni funzionali della Facoltà di Architettura, costretta a nuovi ordinamenti didattici imposti dalla recente riforma universitaria, non permettevano un semplice riadattamento funzionale basato sul mantenimento degli spazi presenti, ma rendevano indispensabile inserire un nuovo corpo di fabbrica che introducesse nel complesso storico un nuovo e riconoscibile impianto distributivo e più che altro fornisse a questa formidabile stratificazione storica di parti diverse il valore di una nuova spazialità, cancellasse l’atmosfera carceraria e arricchisse il luogo della vista della città e quindi del senso di appartenenza e di identità. Ero quindi nelle migliori condizioni in cui può trovarsi un architetto quando inizia un nuovo progetto. La conoscenza del manufatto era stata acquisita non solo con la documentazione storica che avevo raccolto in funzione della presentazione agli organi competenti del progetto di recupero dell’intero complesso, ma di questo ne avevo una percezione diretta avendo insegnato in quegli spazi durante molti anni di attività didattica. Era parso evidente non solo a me, ma ai colleghi tutti e agli studenti, che il recupero attuato precedentemente (a cura degli uffici tecnici dell’Università) se da un lato aveva avuto l’indubbio merito di recuperare spazi per la didattica non era pienamente riuscito a modificarne la percezione ancora pesante della sua funzione precedente: un carcere. L’impianto distributivo, poiché correttamente era stato assunto un criterio di massima conservazione , aveva risentito dell’organizzazione estremamente vincolante del precedente carcere: corridoi e scale non rispondevano a una chiara espressione di comprensione degli ambienti e le aule e gli altri spazi di studio, compreso una sequenza di celle riadattate ma ancora perfettamente visibili, avevano mantenuto quell’atmosfera claustrofobica caratteristica


Da non saltare

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dei luoghi di pena. Le aperture, alte ancora provviste di inferriate, si aprivano su scorci di cielo senza che lo sguardo potesse dirigersi verso l’intorno del contesto urbano. Un luogo di studio con spazi compressi e chiuso ed estraneo alla città. Il nuovo progetto definitivo che era finalizzato al pieno recupero di tutto il complesso carcerario era l’occasione non solo di rifunzionalizzare spazi dismessi ma di attuare una vera e propria metamorfosi che ne cambiasse in primis l’atmosfera”. L’opera realizzata conferma appieno questo assunto progettuale. Alberto Breschi usa tutte le arti e le conoscenze dell’architetto per evidenziare il ruolo di questo nuovo corpo di fabbrica come sistema di cerniera funzionale e di spazio di relazione e di distribuzione. In primo luogo gioca con le altezze e con i doppi e i tripli volumi. Chi entra dall’ingresso di via della Mattonaia si trova davanti uno spazio in cui prevalgono verticalità e chiarezza organizzativa. Si sa, prima di salire i pochi gradini per raggiungere il piano di calpestio originario del convento, di entrare in uno spazio speciale. Lo si percepisce dal fatto che, da subito, si vede l’altezza e la dimensione unitaria di questo corpo di fabbrica alto oltre dieci metri e profondo oltre trenta. Lo si capisce perchè la nuova struttura non aderisce completamente alla vecchia ma vi si discosta di alcune decine di centimetri e per passare dalle scale, contenute nel nuovo edificio, alle aule, situate nel vecchio complesso, si attraversano piccole passerelle. Questo consente di percepire immediatamente la dimensione verticale come elemento centrale dell’intervento e di comprendere che siamo dentro al convento ma in uno spazio nuovo e progettato ex novo. E in questo rapporto fra il nuovo edificio (riconoscibile anche dai colori delle pareti che sono bianco e fumo di Londra) e il vecchio convento (un più classico beige) si gioca l’intero progetto. Progetto che contiene anche alcuni altri importanti elementi di novità. Fra tutti un riconquistato rapporto con la città e con le vedute delle città. È infatti que-

sto il secondo aspetto che coglie immediatamente l’attenzione di chi si addentra all’interno dell’edificio. La dimensione della trasparenza e della continua ricerca

della vista verso l’esterno. Verso i cortili che sono interposti fra i corpi di fabbrica ottocenteschi, e che assumono nuovo valore e nuova dimensione con la grande

parete vetrata del nuovo edificio, e verso l’esterno, la città che sta li a pochi metri e che prima era invisibile. Ora invece gli studenti del Dipartimento di Architettura potranno (e aggiungo dovranno) costantemente confrontarsi con il contesto. Con la città di Firenze della quale si vedono con chiarezza non solo i principali elementi simbolici (come le due cupole della Cattedrale e della Sinagoga e la Torre di Arnolfo) ma anche e soprattutto il suo corpo denso e vitale. Alberto Breschi gioca con attenzione e sapienza su questo rapporto, e sulla necessità di aprire l’edificio al contesto, con pareti completamente vetrate verso il cortili e con pareti ombreggiate da parasole sulle parti alte dell’edificio quasi a voler costruire un „non edificio“ che costituisca un luogo da quale vedere senza essere visti. Un progetto che rappresenta con chiarezza la capacità di concepire il recupero e il restauro come un vero nuovo progetto, capace di dialogare con il passato senza rinunciare ad un linguaggio contemporaneo. Un intervento di “architettura mediterranea” potremmo definire questa sintesi estrema, quasi una simbiosi, fra il restauro filologico di alcune parti del vecchio complesso conventuale e l’introduzione di un elemento architettonico del tutto nuovo come quello che ospita il sistema di distribuzione orizzontale e verticale. Intendendo come architettura mediterranea quella capacità di leggere il contesto e di saperlo trasformare, anche radicalmente e con l’introduzione di nuovi volumi, senza la perdita d’identità storica, simbolica, materica del vecchio edificio. Dalle nuove aule ricavate con questo primo stralcio (costo dell’intervento circa 5 mln di euro) nella parte est del vecchio convento che si affaccia sul chiostro si vedono le altre parti dell’ex carcere che aspettano i finanziamenti per poter essere finalmente restituite alla nuova funzione didattica. Il progetto preliminare esiste già e quindi è auspicabile che si trovino le risorse per completare un progetto degno della grande tradizione della Facoltà di Architettura della città.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

Il tumulto dei Cionchi

Tumulto dei Cionchi ieri a Palazzo Vecchio. Non dei Ciompi, salariati lavoratori della lana che nel Trecento dettero vita ad una delle prime sollevazioni popolari pseudo-sindacali della storia, bensì dei Cionchi che il dizionario etimologico riporta con la dizione ottuso, mozzo. Infatti, il colto direttore del museo “F.Stibbert” dove si trova una delle collezioni più importanti al mondo di armi antiche –si è ripreso armature e spade antiche affidate nei decenni addietro al corte del Calcio Storico in quanto in parte sono sparite e le rimanenti tenute e utilizzate in maniera sciatta. Ciò ha scatenato uno tumulto verbale fra il Presidente del Calcio Storico Fiorentino Michele Pierguidi (fra le altre cose anche presidente del Quartiere 2, presidente toscano di Federbocce, delegato provinciale delle Federbasket, ecc. piccoli Eugeni crescono...) e l’assessore alle tradizioni popolari Andrea Vannucci, i due cionchi della nostra storia. I due si sono scaricati reciprocamente le responsabilità, nel più classico stile renziano (quali entrambi sono), e poi sono venuti alle vie di fatto. “Oh ciccino smilzo, ora tu glielo dici te a ‘i Colla che le armature le si rivogliono, sennò gli mando una accurata selezione di calcianti delle 4 squadre in visita a ‘i su’ museino dei miei...” ha inveito il Pierguidi, noto per essere il più sanguigno. Ma il Vannucci che, nonostante la Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com

Roberto Innocenti

Innocenti e colpevoli

linea filiforme non è certamente uno tenero, ha replicato: “Caro ‘i mi’ panzone, tu sei presidente di quell’accozzaglia [notare, prego, la fine citazione del Supremo ndr.] di buzzurri che ogni anno si pigliano a cazzotti in piazza S.Croce, sicché tu te la vedi te e son c... tua!”. “Sieeee, e avevo ricevuto appena l’altro ieri 15.000 euro da ‘i Giani con la su’ leggina per le tradizioni storiche... ora con questo scherzetto tuo e di’ Colla mi tocca tirarne fori altrettanti per ripagare le armi che son sparite” E così via, son volate parole grosse fino a che il Pierguidi, rosso paonazzo in viso, ha gettato il guanto della sfida: “Ora, caro segaligno, si va dietro in via della Ninna e ti sfido a duello, con le spade di’ caro Stibbert!”. “Ah, ma allora tu sei te che tu le hai rubate... brutto porco! Scegli il tuo secondo, io faccio venire i’ mi professore Carlo Fusaro, se ‘un’è in giro a propagandare ‘ì verbo referendario”. “Va bene, secchino, io scelgo la Titta Meucci, mia predecessora alla presidenza di’ Calcio Storico e si sta a vedere come la va a finire!” La mattina dopo si sono trovati alle 6 davanti alla porta della Sovrintendenza di via della Ninna, naturalmente senza i secondi vista l’ora antelucana, ma pare che la singolar tenzone sia finita nella fiaschetteria di piazza del Grano. E delle spade storiche... nessuna traccia.

Scavezzacollo

di

disegno di

Il Rosso e il Nero I Cugini Engels

Il direttore inascoltato

Sergio Staino è il direttore dell’Unità. Così almeno ci e gli hanno detto, ma evidentemente le cose nel quotidiano fondato da Gramsci e affondato da Bonifazi, non devono andare così. Prima su twitter si dissocia dalla brillante firma del giornale Rondolino, i cui editoriali scritti in punta di manganello indignano gran parte dei vecchi lettori. “Scrive solo sull’online di cui non sono direttore” si difende il padre di Bobo per venire smentito dallo stesso Rondolino nell’arco di un tweet. Non pago di questo il

direttore presunto detta un titolo sulla morte di Castro: “finisce il secolo dei sogni” che il giorno dopo in pagina si legge “finisce il secolo delle illusioni”. Un cambio di senso piuttosto importante del quale Staino da conto (e chiede scusa) ai lettori in una lettera al suo giornale. Non fosse che si tratta di un quotidiano per il quale intere generazioni hanno sospirato e pagato pure prezzi importanti, sui luoghi di lavoro e nella società civile, saremmo di fronte al miglior situazionismo immaginabile.


3 DICEMBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

Paris a Berlino

F

ra le conseguenze della caduta del muro di Berlino, e parlando in campo strettamente fotografico, abbiamo assistito da una parte all’esplosione dei giovani talenti dell’Est, la cui scrematura, passati i facili entusiasmi iniziali, è tuttora in corso, e dall’altra alla scoperta dei fotografi della generazione precedente, quella che ha lavorato per venti o trent’anni entro i confini della DDR, in maniera autonoma, in assenza di committenze pubbliche, assegnate solo ai “fedelissimi”, ed anche in assenza di committenze private, per carenza di un qualsiasi tipo di libero mercato. Spesso i fotografi della DDR, misconosciuti in patria negli anni dai Sessanta agli Ottanta, sono stati glorificati dopo la caduta del muro, ma con motivazioni essenzialmente politiche, in quanto voci “critiche” o comunque “dissonanti” rispetto al regime, e specchio del disagio dell’epoca del “socialismo reale. Per altri fotografi il riconoscimento tardivo corrisponde invece ad effettive capacità artistiche e professionali. Fra questi ultimi merita attenzione la personalità di Helga Paris, che nasce nel 1938 in Polonia come Helga Steffens, dal cognome della madre, con la quale si rifugia nel dopoguerra vicino a Berlino, si diploma nel 1956 e si specializza nel 1960 in “fashion design” a Berlino. Nei primi anni Sessanta Helga, con l’aiuto di alcune zie, diventa una fotografa autodidatta, inizia a fotografare con una Flexaret biottica cecoslovacca costruita ad imitazione delle Rolleiflex e sposa il pittore Ronald Paris. Nel 1966 si trasferisce a Berlino nel quartiere di Prenzlauer Berg ed inizia a lavorare in maniera professionale, avvicinandosi all’ambiente culturale, frequentando pittori ed artisti di teatro, e realizzando i suoi primi reportage sugli ambienti di lavoro e sulla moda per la rivista giovanile Leben. La parte più interessante della sua opera viene invece realizzata al di fuori di ogni rapporto di lavoro, come “free lance”, quando il suo sguardo, affinato da anni di pratica, comincia a posarsi in maniera acuta e sistematica sugli ambienti urbani e sulle persone, isolandole e quasi astraendole dal contesto generale, ma con chiari riferimenti

alle problematiche sociali. Fotografa i pub di Berlino, gli uomini della raccolta della spazzatura, i giovanissimi di Berlino e la vita della cittadina industriale di Halle. Come per ogni artista degno di questo nome, il lavoro di Helga trascende la documentazione o la cronaca di un particolare momento storico, e non si esaurisce nel racconto di una Berlino dimessa e trascurata, con file di Trabant parcheggiate in strada, per rivelare il volto di una umanità varia e composita, senza tempo, persone di cui viene esaltato innanzi tutto l’aspetto individuale e soggettivo. Fra i suoi maestri ideali si citano August Sander, per la compostezza e la potenza espressiva dei suoi personaggi, Albert Renger-Patzsch per il rigore delle inquadrature e la pulizia formale, e perfino Henri Cartier-Bresson per il suo interesse verso la vita vissuta in strada, anche se il suo modo di accostarsi ai suoi personaggi è diretto e coinvolgente, e non è certamente

del tipo “à la sauvette”. Helga viene osteggiata ed isolata a causa del suo modo di operare, ritenuto non troppo allineato rispetto alla immagine “pubblica” della DDR, ed una sua mostra del 1986 viene addirittura annullata a pochi giorni dall’inaugurazione. Helga viene riconosciuta come una delle più

significative fotografe tedesche solo dopo il 1990, quando inizia di nuovo ad esporre le sue immagini. Alla fine del decennio pubblica alcuni fotolibri monografici, fra cui “Diva in Grigio” sulle case di Halle, e viene accettata nel 1996 come membro dell’Accademia delle Arti di Berlino.


3 DICEMBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

I

l futurismo ha posto le basi per una sperimentazione sul linguaggio senza precedenti: suono, segno, significante, significato e aspetto tipografico vennero messi in discussione per sottolineare l’esigenza di una rinnovata libertà comunicativa ed espressiva. Il senso profondo che legava gli aderenti al movimento produsse una poetica priva di limitazioni, ove la macchina, la forza, l’energia, il progresso e il futuro si qualificarono come le basi fondanti di un nuovo modo di intendere l’Arte e la vita. Fortunato Depero sviluppò una prassi dedita a fare dell’Arte un’estetica della vita in senso poliedrico e dissacrante, facendo del manifesto futurista un inno di ricostruzione moderna e svincolata dai dettami di un passato che appariva irriconoscibile e che denaturalizzava il nuovo modo di sentire e percepire la contemporaneità. Nelle sue opere vennero convogliate tutte le speranze pre e post belliche, con la presa di coscienza che qualcosa doveva cambiare e che l’Arte doveva farsi carico delle istanze di rinnovamento culturale e sociale. Da qui la sperimentazione a trecentosessanta gradi sui materiali e sui linguaggi artistici, in virtù di un dinamismo d’eccezione e di un vitalismo che avrebbe dovuto risvegliare le coscienze dal torpore ottocentesco. Fortunato Depero si spinse oltre la tela e i limiti contestuali dell’opera d’arte per porsi nella condizione di un intellettuale che ha solcato i campi d’azione delle avanguardie storiche costruendo una poetica artistica personale e incline all’ironia. Gli automi, i complessi plastici, i balli plastici, l’editoria, la città meccanizzata, le poesie, le tarsie in panno, il design, la pubblicità, le esperienze americane, contraddistinsero l’artista viaggiatore teso al progresso che, esaltando se stesso e la propria produzione, progettò una radicale trasformazione dell’ambiente umano, coinvolgendo tutti gli ambienti della vita: dall’arredo alla moda, dal cinema al teatro, dalla musica alla danza , dal manifesto pubblicitario all’oggetto d’uso quotidiano, sempre in nome della libertà futurista

Il Futurista

che in Depero divenne l’apice ideologico volto all’unificazione di tutte le arti, a cui le generazioni successive guardarono per consacrare lo stile di un’Arte totale e totalizzante che dalla parola all’immagine sperimentò le infinite possibilità del pensiero creativo.

Sopra Aaiii Tatapum-gran, 1932 China su carta cm 27,8x21,7 Dizionario Depero lettera P, 1947 Matita su carta, 4 fogli: pagina 2 di 4 della lettera P del primo abbozzoindice per il “Dizionario Depero”, già in progetto a New York cm 33x22 Courtesy Collezione Carlo, Palli Prato

D e p e r o


3 DICEMBRE 2016 pag. 7 di

Luca Lanzoni

Q

uesta esposizione è fatta per ricordare una caro amico, Paolo Cammelli, Assessore alla Cultura del Comune di Fiesole per 20 anni e appassionato collezionista di arte orientale e africana Perché quindi una esposizione sul buddhismo? Ed in particolare sull’arte buddhista? Perché è questa la principale e la prima forma di collezionismo a cui proprio Paolo mi ha avvicinato. Tentare di dare anche solo una seppur vaghissima idea del Buddhismo e dell’arte ad esso legata in uno spazio limitato (ed

mata da oltre 130 pezzi si basa fondamentalmente sull’interesse per le forma del Buddha in particolare sull’ espressione del volto sulla posizione del corpo su quella delle mani in molti casi, insieme a mia moglie Mirella, che è stata contagiata da questa passione, sull’espressione del viso che quasi sempre emana una dolcezza ed una serenità che in molti casi ci hanno destato emozioni e poi entusiasmo. Poche parole sui pezzi esposti e sul criterio con il quale sono stati scelti: il buddhismo si divide in 3 principali scuole che si diffondono nei territori dell’estremo oriente in momenti

Nel segno di Buddha (e di Paolo)

anche in uno spazio non limitato) è una impresa impossibile; vi sono intere biblioteche e interi musei a questo dedicati. Con questi pochi oggetti intendo soltanto dare un’idea della mia collezione e soprattutto della passione che Paolo mi ha comunicato e della consapevolezza che mi ha trasmesso, ovvero che, anche con mezzi molto modesti, è possibile raccogliere oggetti che hanno innanzitutto valore per noi stessi, che ci fanno sognare popoli terre culture lontane. La mia passione per la filosofia/ religione Buddhista (già questa dizione potrebbe scatenare un dibattito infinito) inizia circa 20 anni fa, mentre da dieci anni è iniziata la raccolta di statue ed oggetti legati al culto buddhista ed è iniziata proprio con un regalo da parte di Paolo e dalla frequentazione con lui di mostre mercati negozi nascosti insomma di tutti quegli angoli dove si può trovare qualcosa di interessante che possa soddisfare la propria curiosità il proprio interesse. La mia collezione for-

ed epoche diverse le tre principali correnti sono Mahaiana, Vajrayana e Theravada e le troviamo distribuite in tutto l’oriente dal Viet Nam al Tibet dalla Mongolia al Giappone, come si può vedere dalla semplice cartina, ma durante i secoli giunsero a toccare l’Iran, l’Afghanistan, la Siberia. Oltre ad esporre quindi i pezzi che, con criterio del tutto personale, ci sono sembrati i più belli e più rappresentativi ho cercato di dare anche un’idea seppur vaga della diversità di forme che si sono sviluppate nelle diverse regioni; infine, poiché sono di fondamentale importanza nel Buddhismo la posizione del corpo e delle mani (mudra) che comunicano gli stati d’animo, abbiamo cercato di fornire delle semplicissime spiegazioni su tali significati. I pezzi non sono facilmente databili appartengono tutti al 20° secolo forse alcuni al 19°, la cosa importante è che nessuno di questi è un pezzo “turistico” ovvero costruito per il mercato sono comunque tutti pezzi originali di culto.

Le terre del Budda In ricordo di Paolo Cammelli a Quadro 0,96 via del Cecilia, 4 Fiesole


3 DICEMBRE 2016 pag. 8 di

Francesco Milanesi

La Galleria il Ponte, ha inaugurato una mostra di Renato Ranaldi nella quale vengono presentati tre nuclei di opere di periodi diversi. Si parte cronologicamente dagli “Angolari” (1973-74) installati al piano interrato della galleria in cui l’accostamento di due tele crea un angolo che funziona da quinta teatrale. Al primo piano le pareti sono “tappezzate” di disegni in nero china su carta, una selezione fra i 32 “Scioperìi” raccolti nel libro omonimo, insieme ad un racconto dello stesso Ranaldi e ad una postfazione di Bruno Corà, pubblicato dalle edizioni Gli Ori nel 2016. Ai margini del foglio bianco l’artista ha articolato disegni o schizzi (denominati appunto scioperìi). Questo, che potrebbe apparirci come un bizzarro termine d’invenzione, è riportato-come testimonia Corà- in un manuale di restauro ad indicare quei disimpegni grafici, fatti per gioco, a margine e commisti alla parte progettuale della sinopia, nonchè ai margini di codici e scritti notarili. Dall’ingresso della galleria infine, sulla parete di fondo, si impone allo sguardo una grande opera creata appositamente per questa esposizione: “Contenzioso”(2016). Due tele bianche di uguale dimensione sono messe in relazione e unite da un agglomerato policromo informe di colori ad olio. Della mostra si apprezza la felice specularità fra la parola di

Remo Fattorini

Segnali di fumo Dice l’Istat: è la mobilità (traffico eccessivo, difficoltà di parcheggio, inquinamento dell’aria e mezzi pubblici inefficienti) la principale causa di insoddisfazione delle famiglie italiane. Basta dare un occhio al traffico nelle nostre città per capire che hanno ragione. Eppure i costi sociali sono alti: ogni anno in Europa sono 467mila le vittime da traffico. L’Italia con 84.400 decessi detiene il record europeo di morti per inquinamento dell’aria. Anche nel nostro

Pochi e stentati segni e l’immagine che si riflettono l’un l’altra senza fine toccando il tema ontologico della rappresentazione e l’intrinseca comicità che da essa scaturisce fino a divenire contemplazione della condizione del vivere, libera da qualsivoglia sbavatura etica. E gli scioperìi ai margini del foglio bianco sono allusivi, creati dalla mano dell’artista che erra e ricorda mani delle quali non è rimasta neppure la polvere. Parafrasando Montale, pochi e stentati segni.

piccolo, a Firenze - indagine del Politecnico di Milano – l’88% delle polveri sottili, quelle che avvelenano l’aria che si respira sono prodotte dal traffico; solo il 10% dai riscaldamenti (responsabili invece del 75% delle emissioni climalteranti, CO2), e il 2% dalle attività produttive. In sostanza Firenze è messa assai peggio di Milano e Genova. Si è scoperto l’acqua calda: basta farci un giro per capirlo. Tutte le direttrici sono sempre ingolfate. Spostarsi da una parte all’altra della città vuol dire perdere ore, con assurdi sprechi di tempo. Situazioni e segnali piuttosto chiari per sindaci e amministratori locali: servirebbero da subito piani radicali a favore della mobilità sostenibile. Scelte precise per facilitare gli sposta-

menti a piedi e in bici, non inquinano, costano meno alla collettività, fanno meglio alla salute oltre a rendere più viva e bella la città; poi ampie zone pedonali ed estese fasce a traffico limitato e, infine, un trasporto pubblico affidabile. Servirebbe tutto questo e altro ancora, ma niente di tutto ciò è all’orizzonte. Unica eccezione: la tranvia. Ci sono città, per esempio Copenhagen, dove nonostante un clima assai più freddo e piovoso del nostro, il numero delle bici in circolazione ha superato quelle della auto: 266mila bici contro 252mila auto. Lì nel 2012 è stata inaugurata la prima autostrada per sole bici, con tut-

ti i comfort per i biker pendolari. Risultato: l’uso della bici è cresciuto del 68%. L’idea ha fatto strada: in Olanda 60 km di autostrade, Francoforte 30 km, Monaco 15, un centinaio nella Ruhr. Esistono persino nella Corea del Sud. Le piste ciclabili sono lo strumento più efficace per ridurre traffico e inquinamento urbano. Discorso analogo vale anche per il trasporto pubblico, dove funziona l’auto resta in garage. Domanda: perché non si possono fare anche dalle nostre parti? Così tanto per migliorare sul serio l’aria che si respira nella città del Rinascimento che, nelle classifiche della qualità, scivola sempre più in basso.


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Rinascimento inglese

Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

I

l referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea dovrebbe aver cancellato il pessimo vizio di definire “Inghilterra” quella che invece si chiama “Gran Bretagna”. Mai come stavolta, infatti, è apparsa chiara la distinzione fra le regioni inglesi e il resto del paese. Ma la riscoperta di un’identità culturale inglese è un fenomeno più ampio, che precede la Brexit e va ben oltre la politica. Trattandosi di un fenomeno culturale articolato non poteva mancare la musica. Nel 1904 lo scrittore tedesco Oskar Schmitz aveva pubblicato un saggio intitolato Das Land ohne Musik (La terra senza musica). La terra in questione era appunto la Gran Bretagna. Secondo Schmitz il paese nordico somigliava a un deserto: come un paese arido dove non piove mai, così la Gran Bretagna era rimasta estranea a qualunque fermento musicale. Parole ingiuste. È vero che fra il Settecento e l’Ottocento la Gran Bretagna aveva avuto un rilievo inferiore rispetto ad altri paesi come la Francia, l’Italia, la Russia e quelli dell’area germanofona. Ma è altrettanto vero che all’inizio del

Novecento erano già emersi Ralph Vaughan Williams e Gustav Holst. Poi ne sarebbero arrivati altri, fra i quali un gigante come Benjamin Britten. Negli ultimi anni del secolo scorso questo patrimonio dimenticato è stato oggetto di una riscoperta attenta documentata da dischi, libri e festival. Il BBC Music Magazine ha cominciato a dedicare ampio spazio ai compositori autoctoni. Questa tendenza è stata favorita da alcuni anniversari, come il cinquantenario della morte

Susanna Cr

essati, gio inviata de rnalist “L’ della Regio Unità” e capo Uf a, è stata ficio Stamp ne Tosca na. a

Simone

Sil

“Sapevo verità, so e so che dicev a una verit prattutto che la fragilità à che parlava diceva all , Comun e che il suo Pa a mia ista pote rtito va un posto dove po sembrarmi tevo sta re. … L’ide aè uomo ve ciò che rende un ramente E noi ci crediam potente. o smettia mo mai e non di creder ci.” Postfazio ne di M aurizio Maggiani

Molti di loro traggono linfa vitale dall’influenza delle culture celtiche. Philip Heseltine (Peter Warlock) scrive alcuni brani corali ispirati alla tradizione cornica. Percy Grainger, australiano, si trasferisce in Gran Bretagna nel 1901. Viaggia a lungo in Inghilterra e nei paesi scandinavi, raccogliendo e trascrivendo oltre 500 canti popolari. Gustav Holst, nato in una famiglia di origine svedese, manifesta un forte interesse per la cultura indiana. Questo gli ispira numerose composizioni, fra le quali l’opera Savitri (1908) e la suite Beni Mora (1909-1910). L’unico limite del libro è l’assenza di figure femminili: una compositrice come Rebecca Clarke, tanto per fare un nome, avrebbe meritato un capitolo. Per finire, una riflessione: la globalizzazione ci ha insegnato a guardare lontano, permettendoci di conoscere scrittori africani, musicisti siberiani, scultori cinesi. Si tratta di un fenomeno positivo che ci arricchisce, a patto che non generi un disinteresse verso le espressioni culturali europee come quella di cui abbiamo parlato.

Susanna Simone Cressati Siliani

iani, am co, politi co e giorna ministratore pu bblilist del Consi glio Regio a, è stato Presid ente nale della sessore alle To Riforme Istituzion scana, Aszione allo ali, Coop Sviluppo erae Politiche Regione Toscana Soc iali della e Assessore del Comu ne alla Cultu ra vista on-lin di Firenze. È dir ettore e “Cultura Commest della riibile”.

di Ralph Vaughan Williams (2008) e il centenario della nascita di Benjamin Britten (2013). In questo panorama si inserisce il libro A New English Music: Composers and Folk Traditions in England’s Musical Renaissance from the Late 19th to the Mid-20th Century (McFarland, 2016). L’autore è Tim Rayborn, un eccellente musicista americano specializzato nel repertorio medievale e barocco. La prefazione è firmata da Em Marshall-Luck, fondatrice dell’English Music Festival. Questa giornalista di vaglia è anche l’autrice di Music in the Landscape: How the British Countryside Inspired Our Greatest Composers (Hale, 2011), per molti versi analogo al libro di Rayborn, ma ancora più ampio e dettagliato. A New English Music analizza l’opera di sette musicisti attivi fra la fine del diciannovesimo secolo e la metà del secolo successivo. Legati alla propria terra, questi compositori trovano ispirazione nell’ambiente naturale: boschi, colline, fiumi, laghi, monti. Ma questo non li confina in un ambito locale.

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Editore Manifesta zione naz ionale del Firenze, piazza del la Signor ia,


3 DICEMBRE 2016 pag. 10 Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com di

Q

uando ho saputo che Angela Davis sarebbe arrivata a Firenze per una conferenza a villa “La Pietra”, residenza storica di Sir Harold Acton, attualmente sede della NY University, ho fatto un grande salto di gioia. L’evento aveva un titolo molto suggestivo “The Industry of Social Rejection” (L’industria del rifiuto sociale). E’ ovviamente un testo che è tutto un programma e non ha certo bisogno di spiegazioni. L’argomento rientrava appieno nei miei interessi culturali e professionali, ma il motivo vero della mia gioia per questa notizia è stato il fatto che, a ben 44 anni di distanza, avrei potuto incontrare di nuovo una persona splendida che avevo avuto il piacere e l’onore di conoscere nel lontano 1972. Mi trovavo da qualche mese in California per motivi familiari e proprio in quei giorni, nel tribunale della Contea di Santa Clara, si stava celebrando il processo a questa giovane intellettuale e attivista nera, nota simpatizzante del Partito Comunista USA, allieva di Herbert Marcuse a Francoforte.in una intervista televisiva del 2007 Angela dichiarò che fu appunto lui a dirle che “era possibile essere docenti universitari, attivisti, intellettuali e rivoluzionari al tempo stesso”. Attualmente Angela insegna “Storia della Coscienza” nell’Università della California A Santa Cruz, dove dirige anche il “Women Institute”. in questo periodo è a giro per l’Europa assieme alla collega Gina Dent, anche lei docente nella stessa università dove tiene lezioni sulla cultura e la letteratura africana. Recentemente ha pubblicato un libro dall’emblematico titolo “Prison as Border”. Seguire le relazioni di queste due donne di notevole talento e caratura e il dibattito che ne è scaturito è stato un grande piacere. Purtroppo, dato ii grande affollamento di studenti e docenti siamo stati costretti assieme a un sacco di altre persone, a seguire l’evento da un’altra sala collegata con schermo e altoparlanti al locale in cui si stava svolgendo l’incontro.

Angela Davis 44 anni dopo

Alla fine siamo scesi anche noi nel grande salone dove si era svolta la conferenza/dibattito e finalmente sono riuscito ad avvicinare Angela e scambiare con lei quattro parole in mezzo alla confusione del caso. Senza avere la pretesa che lei si ricordasse di me le ho parlato del mio ultimo libro, il mio primo in forma digitale, realizzato recentemente assieme all’amico Sandro Pintus, dal titolo “My Seventies in California - I primi anni Settanta visti da un fotografo italiano”. Credo che il colloquio sia durato al massimo 5 minuti poiché lei era assolutamente assediata da tutti gli studenti e i docenti presenti. Non c’erano le condizioni per una conversazione come avrei voluto io, ma mi sono reso perfettamente conto che in quella situazione non era possibile sperare in qualcosa di diverso. Angela mi ha comunque confermato di aver ricevuto dalla Dott.sa Toscano, direttrice

della NY University, l’unica copia attualmente esistente in versione cartacea del nostro libro “My Seventies in California”. Ovviamente averle potuto donare questo volume, in cui le prime 23 pagine sono dedicate proprio a lei ed al suo processo, ha fatto molto piacere sia a me che a Sandro Pintus. E come si dice a questo punto? … e siamo rientrati tutti a casa “felici e contenti”.


3 DICEMBRE 2016 pag. 11

Labirinti di poesia

Mariangela Arnavas

I

l Labirinto a Volterra è un insieme di viuzze che dalla famosa Porta all’Arco arrivano fino ad una parte delle Mura, da cui in lontananza si vede il mare; è un intrico carico di storia; contiene un piccolissimo vicolo, giusto pochi scalini sotto un pesante arco formato dalle case, chiamato “Degli abbandonati”, dove si rifugiavano quelli che non avevano più nulla, per chiedere soccorso alle Suore Vincenziane e c’è una strada, appunto Via de’ Laberinti, ritrovo di artisti, che ha ispirato il volume di poesie di Roberto Veracini. Roberto è un poeta, che riesce con equilibrio funambolesco a rimanere legato alle proprie radici, a Volterra, sempre fonte d’ispirazione, “città - nave arenata sul poggio a guardare il mare”, come ricorda nella postfazione Bernard Vanel, un luogo dove, di regola, ci si chiude o si scappa, essendo però davvero cittadino del mondo, capace di scovare nell’ultimo caffè operaio di Parigi un enorme jukebox con tutte le migliori canzoni degli storici cantautori francesi da Georges Brassens a Jacques Brel a Léo Ferré, del resto suoi ispiratori. Non è un caso, infatti, che Veracini, nato a Volterra nel 1956 dove vive, sia uno dei pochissimi autori italiani pubblicati da Gallimard nel 2010 in un’antologia dal titolo “Le Poetes de la Mediterranee”. Fra le sue preziose abitudini c’è quella di dialogare costantemente con altri artisti, spesso appunto in Via de’ Laberinti, dove molti hanno il loro studio. Così la presentazione del suo libro a Livorno, pochi giorni fa, è diventata quasi una collettiva cui fa da sfondo un pannello dell’artista Ivo Lombardi su cui risulta lievemente incisa una delle poesie nel testo, che si può vedere in foto. Nel 2014, lo sbocco sulla vista del mare dalle mura di Volterra, apertura del Labirinto, sprofonda sotto le forti piogge: “E non sembrava vero, quel silenzio, li’ davanti, Il vuoto nero, dopo la pioggia e la pioggia che restava prigioniera sulla soglia”. Le Mura sono state da poco rico-

struite, ma la ferita resta nell’aria come le presenze che “A volte si sentono nella stanza, segnano i passi, si allontanano, leggere e poi ritornano..... Sono presenze mobili, aeriformi, non codificabili. Così vicine, a volte sembra proprio che vogliano farsi riconoscere.” Anche qui Veracini coglie pienamente lo spirito della sua città, della città’/nave in secca nelle rocce da cui si può guardare il mondo, dove tutte le stratificazio-

ni dalla preistoria agli Etruschi, dal Medioevo alle installazioni del 2000 sembrano contemporanee, in una sorta di globalizzazione temporale e spirituale, in cui la materia e le aeree presenze coesistono, passando per la pietra e la roccia e per le mani degli alabastrai: “Fra lui e la pietra uno sguardo, un’intesa un riguardo gentile e mani grandi,smisurate per capire “; e ancora passando per le vicende

Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

dei ribelli e dei briganti del primo Novecento: “A quei nomi, Oscar, Tito Ida, Ines, arcaici nomi di famiglia povera ma ideali grandi, anarchici, di rivolta e giustizia vera, negli anni Venti la gente povera rendeva omaggio, pur essendo i maschi briganti, ricercati in tutta la Valdelsa e il Volterrano,loro che nati erano a Certaldo e contro i fascisti si erano fatti un nome, eroico (come si diceva allora, nella foga popolana) e disperato...” Ma se avesse ragione Roberto Saviano quando dice che, nell’era digitale, la fortuna dei poeti non è più legata alla loro opera, nemmeno alla loro poesia, ma solo ad un verso, io direi che in questo caso sarebbe la chiave di lettura di questo libro, ovvero: “Solo un’ultima fede fra le macerie bruciata offesa, la poesia, come fosse oggi l ‘ultima impresa o l’unica,necessaria, follia....”

Nuova tecnologia per la distribuzione automatica della ricchezza


3 DICEMBRE 2016 pag. 12 Il Monastero Macarenko

Sulla Transiberiana 3

a

di

Rossella Seniori e Marco Zappa

A

Nizhnij Novgorod abbiamo dedicato un giorno intero a una gita sul Volga con l’obiettivo di riposarsi un po’ e di visitare il monastero di Makarevo (di Macario). Non si poteva tornare dalla Russia senza essere stati sul Volga! Makarevo è un monastero fortificato costruito a metà del XVII in una zona strategica per il commercio sul fiume. Oltre a luogo di culto è stato anche un vivace centro economico e culturale. 12 ore di battello in compagnia di gitanti del posto (nessun “straniero” oltre a noi). “E’ una delle mete favorite degli abitanti di Novgorod” ci dice Andreij, un fisico-matematico riciclatosi a traduttore di libri per bambini, che incontriamo sul battello con cui parliamo a lungo. Era molto contento di incontrare degli italiani (“amici della Russia” dato che l’Italia contrasta le sanzioni e l’embargo commerciale). I russi hanno molto in comune con gli italiani, ci dice. Anche se la qualità del cibo non è paragonabile alla nostra, non c’è dubbio che stare a tavola ai russi piace molto. Sul battello

erano disponibili solo bevande, ma i tavoli erano stracolmi di ogni tipo di vivande portate da casa. Sul ponte del battello una fisarmonica e un impianto stereo mandano musica continuamente. La gente interrompe il mangiare per andare a guardare alcune coppie, spesso di donne, che distrattamente ballano. Il battello va lento, scorrere sull’acqua è piacevole. Dal fiume si intravedono le cupole di qualche chiesa. Poi, lontano da Novgorod, non ci sono più tracce di abitati. Sulle sponde vediamo qualche tenda da campeggio e qualche motocicletta. Alcuni prendono il sole sulla riva. Ma l’acqua è marrone e fa impressione l’idea che ci si possa fare il bagno. Il fiume via via si allarga, si insinua nelle sponde formando mille insenature e isolotti. In vista di Makarevo l’atmosfera è rarefatta, la quiete totale. Il monastero ci appare da lontano, una meraviglia, con le sue cupole verde e oro. E’ tenuto da giovani suore che coltivano anche un orto e un bel giardino e che ci fanno da guida. Non comprendiamo nulla naturalmente, ma Andrej ci traduce e così riusciamo a capire qualcosa di questo luogo.

A Novgorod, Kazan e a Ekaterinburg eravamo arrivati facendo tratte di treno relativamente brevi. Poi viaggiamo per 2 giorni e 2 notti da Ekaterinburg a Irkutsk. Ed è proprio in questo ultimo tratto di oltre 3000 chilometri che assaporiamo davvero la Transiberiana. Avevamo preso diversi libri e un e-book pensando che avremmo avuto molto tempo per leggere (forse ci annoieremo a vedere solo betulle, pensavamo, meglio attrezzarci). Ci allettava però l’idea che sul treno avremmo potuto parlare con altri passeggeri, magari in un confortevole vagone ristorante ove prendere il thè e gustare qualche piatto di cucina russa. Invece né l’una cosa né l’altra. Viaggiare ore e ore attraverso il fluire infinito di betulle, abeti, prati, corsi d’acqua non è stato per niente noioso, anzi, un piacere per gli occhi. Il verde non stanca e la monotonia non leva nulla alla bellezza del paesaggio, che sta proprio nel suo ripetersi. Ma le aspettative erano maggiori per quanto riguarda la vita sul treno. Innanzi tutto non si poteva andare da un vagone all’altro. Motivi di sicurezza? Probabilmente sì. Peraltro per salire sul treno bisognava esibire

parte

i documenti al capo carrozza che aveva la lista dei passeggeri. Il vagone ristorante è stato una delusione, pochi piatti serviti senza garbo. Quasi sempre vuoto. Vi incontriamo un giovane russo desideroso di parlare. Ma il suo inglese è troppo scarso e soprattutto le birre bevute troppe perché si possa intavolare una conversazione fatta di qualcosa di più che di sorrisi. Tra Ekaterinburg e Irkutsk il treno fa molte fermate. Sui binari è possibile rifornirsi di pane, frutta, focacce, bibite e altro, venduti in piccoli chioschi o su carrettini come da noi non si vedono da anni. In alcune stazioni ci si ferma per una mezz’ora e ciò permette di scendere e camminare lungo i marciapiedi ove ai pochi provenienti dall’Europa e dagli USA si mescolano i molti viaggiatori “locali”. Al procedere verso Est si nota il cambiare della fisionomia dei passeggeri via via più orientali. La Russia è un mondo. Anche a Mosca si percepisce questa mescolanza di Europa ed Asia, ma viaggiare sulla Transiberiana ti dà la sensazione quasi di entrare in questo mondo. A Irkutsk siamo ai confini con la Mongolia….


3 DICEMBRE 2016 pag. 13 Giacomo Aloigi giacomo.aloigi@tiscali.it di

E

ccoci qua, l’evento della settimana è il quarantesimo anniversario di Controradio e il trentacinquesimo del Tenax. Non rimetto piede nel locale da vent’anni e l’ultima volta è stato per suonarci io stesso. Faccio la fila per entrare, come ai vecchi tempi. Il deja-vu è forte, come il freddo che ci attanaglia. Non ci vuole molto a capire che il pubblico della serata è agée. Di giovanotti e giovanotte quasi non se ne vedono. Ho tirato su i capelli con il gel, indosso un completo nero con cravattino rosso fuoco. Ma sì, dai, siamo un po’ come le comparse di un film in costume. Dentro noto subito cambiamenti ed era inevitabile. Soprattutto mi accorgo che il mitico ballatoio è stato ridotto a un solo lato, quello sinistro. Io andavo sempre a destra e non per scelta politica. Incrocio volti conosciuti, la frase più in voga è “ero sicuro di trovarti qui”. Il terrore di ognuno è di fare la figura del Fabris di “Compagni di scuola”, ricordate? “Tu c’hai avuto un crollo, ma dell’ottavo grado della scala Mercalli”. Va beh, pazienza. Alla consolle del dj, Nicola Vannini rinverdisce i fasti della Rokkoteca Brighton. Jimmy Tranquillo come sempre sorride sornione ed è quello più a suo agio. La sala si va riempiendo, c’è davvero tante gente, ma me lo aspettavo. Suoneranno i Tuxedomoon, che furono tra i primi a calcare il palco del Tenax e non a caso ho raccontato di un loro meraviglioso concerto del 1983 nel mio libro “Gotico Fiorentino”. Sono tra i più longevi e originali esponenti della new wave, un’etichetta che comunque gli ho sempre trovato stretta. Si sa che eseguiranno per intero “Hal Mute” il loro album del 1980, una delle punte della loro produzione. Mi isso su un gradone davanti al banco del mixer e la cosa che più mi colpisce sono i crani maschili, per la stragrande maggioranza glabri. I più compensano con la peluria meridionale, infatti c’è un gan proliferare di barbe bianche. Salgono sul palco Jimmy e Romero per un saluto. Romero esordisce subito con una gaffe. “E’ bello vedere che ci siamo ancora tutti” urla nel microfono mentre alle sue spalle sul maxischermo campeggia la scritta “In loving memory of our friend Bruce Ge-

Auguri Controradio

Auguri Tenax di

Giovanni Pianosi

Ve la ricordate la “rododaktulos Eos” – l’Aurora dalle rosee dita – dei lontani anni di liceo? Da Omero in poi, in tutta la poesia greca dell’antichità, l’Aurora fu sempre e comunque “rododaktulos”, come se fosse stato stipulato un contratto la cui clausola centrale prevedesse: hai detto “Aurora”? e allora devi dire “rododaktulos”. Lo scrittore italiano che di questi tempi leggo più volentieri, e con maggior profitto, forse perché, nonostante le apparenze, per motivi che mi sono ancora misteriosi trovo in lui qualcosa di Proust – sto parlando di Paolo Nori – si è divertito a elencare un bel numero di “aurore dalle rosee dita” che ogni giorno impreziosiscono, si fa per dire, i nostri discorsi. “...se c’è un quadro, è allarmante, se c’è uno stupore, è infantile, se c’è uno sciopero, è generale, se c’è una folla, è oceanica, se c’è un lupo, è solitario, se c’è un cavallo, è di Troia, se c’è una botte, è di ferro, se c’è un terrorista, è islamico, se c’è un porto, è delle nebbie, se c’è un silenzio, è di tomba, se c’è un’ombra, è di dubbio, se c’è una morsa, è del gelo, se c’è una resa, è dei conti, se c’è una verità, è sacrosanta, se c’è una salute, è di

duldig (1953-2016)”. Sì, ci siamo ancora tutti. Eccetto quelli che mancano. Poi arrivano i Tuxedo, i quattro rimasti, Reininger, Brown, Principle e Van Lieshout. Come da programma eseguono tutto Half Mute. Nonostante siano passati trentasei anni il loro suono rimane attuale, non sa di revival come tutto il resto intorno a noi. Come noi. Regalano anche qualche estratto da Desire per poi chiudere, nell’unico bis, con The Waltz, forse il mio pezzo preferito (anche questo guarda caso lo cito nel libro). Lo considero un regalo personale. Anche se non lo è. Tanti applausi, meritati. Poi Nicola Vannini riparte con Blue Monday dei New Order e decine di splendidi cinquantenni si danno alle danze. La serata volge al termine, me ne vado stretto nel cappotto perché il freddo morde ancora di più. Il freddo della gioventù che non ritorna.

Appunti sulla scrittura di Proust ferro, se c’è una svolta, è epocale, se c’è un genio, è incompreso, se c’è un ok, è del senato, se c’è uno sciame, è sismico, se c’è un consenso, è informato, se c’è un secolo, è scorso, se c’è una dirittura, è d’arrivo, se c’è un pallone, è gonfiato, se c’è un cervello, è in fuga, se c’è una repubblica, è Ceca, se c’è un battesimo, è del fuoco, se c’è un dispiacere, è vivo, se c’è un carattere, è cubitale.” Di segno completamente opposto è l’uso che Proust fa degli aggettivi. Intanto, spesso, non si limita a impiegarne uno solo ma ne mette in fila parecchi in relazione allo stesso sostantivo. Inoltre, ed è la cosa più interessante, capita di far fatica a cogliere il nesso tra certi aggettivi e il sostantivo cui si riferiscono e Proust non si preoccupa se mette, uno vicino all’altro, aggettivi che, a prima vista, sembrano al lettore, oltre che strani, anche contraddittori, persino incompatibili. Per fare un solo sintetico esempio, nel descrivere l’atmosfera delle stanze in cui viveva reclusa zia Léonie, Proust scrive:

“...tornavo sempre con inconfessata bramosia a invischiarmi nell’odore mediano, appiccicoso, insipido, indigesto e fruttato del copriletto a fiori.” Se l’Aurora è scontatamente “dalle rosee dita”, gli aggettivi di Proust molto spesso ci sorprendono fino a sembrare, talora, strampalati. Si può escludere con assoluta certezza che il suo scopo fosse quello di épater les bourgeois. Piuttosto c’è da ricordare che ai suoi tempi, al tramonto della Belle Époque, il mondo perde compattezza, regolarità, prevedibilità: Freud da una parte, Einstein dall’altra, ci conducono verso nuovi mondi, insospettati e insospettabili, fin dentro di noi. C’è qualcosa di assolutamente nuovo nell’aria, che Freud suggerisce coi suoi casi clinici, Einstein con le sue equazioni, Proust, forse non meno cripticamente degli altri due, coi suoi aggettivi. È l’aurora di un tempo nuovo ma, almeno nei cieli d’Europa, di Aurore dalle rosee dita non se ne vedranno più.


Bizzaria degli oggetti

3 DICEMBRE 2016 pag. 14

Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it a cura di

Barbisio che tal GioBatta Bonessio, nel 1755, chiese ed ottenne di “tenere aperta la sua bottega alle autorità dell’Università dei Maestri cappellai”, giurando sulle sacre reliquie di tener segretato il percorso produttivo. Questa ditta fu incaricata della prima fornitura di cappelli da alpino per gli ufficiali del Regio Esercito Sabaudo. Nel 1897 i maestri Cappellai si riunirono in una

C

alendario perpetuo Roy Vercelli 1952 che pubblicizza la fabbrica di cappelli Barbisio...e qui si aprono strade in salita direi. Di questo nome, Roy Vercelli, non si trova nulla, solo Roy, piccolo paese con 24 abitanti, nel comune di Fobello e in provincia di Vercelli, con il quale manca comunque qualsivoglia collegamento, nemmeno il più grande collezionista di questi calendari, molto molto ambiti e carissimi, malgrado la sua enorme competenza, è riuscito a svelare il mistero di questo nome. La sua “conoscenza” è avvenuta attraverso Facebook, miracolo comunicativo contemporaneo. Il coniglio è opera di tal Giovanni Mingozzi, disegnatore e grafico, fondatore negli anni ‘20 del ‘900 di una agenzia pubblicitaria, Atla, cui si devono manifesti di prodotti vari e tutti quelli dei cappelli Barbisio. Trattasi di una azienda italiana, nota per la produzione di cappelli di feltro di pelo, leggerissimi, che si trova nel Biellese, in una zona detta Valle Cervo, dal nome del fiume che la definisce, divenuta culla dell’arte del cappello dopo

cooperativa il cui marchio è oggi stato assorbito dal Cappellificio Cervo che ingloba anche il marchio Bantam. È proprio la forza della tradizione dei mastri artigiani biellesi a fare di questo Cappellificio una delle più prestigiose aziende del settore a livello mondiale, il feltro, ottenuto da peli sceltissimi, viene lavorato con gli originali macchinari via via modificati ed adeguati ai progressi della tecni-

L’intrusa a Rifredi In scena al Teatro di Rifredi, da mercoledì 7 a domenica 11 dicembre, due toccanti racconti di Eric-Emmanuel Schmitt per la signora della scena italiana Lucia Poli, impegnata ne L’intrusa preceduto da È una bella giornata di pioggia; la regia è di Angelo Savelli e lo spettacolo è prodotto da Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi. “Lezioni di felicità”, così è stato opportunamente tradotto in italiano il film di Eric-Emmanuel Schmitt “Odette Toulemonde” da cui il regista stesso ha poi scritto, una volta tanto al contrario, il suo omonimo libro di racconti da cui sono tratte L’intrusa e È una bella giornata di pioggia. Unite da una sorta di fil rouge le due storie vedono protagoniste due donne diverse anche se entrambe eleganti, sofisticate, sempre sorridenti;

probabilmente unite dal mal di vivere, da una quotidianità che sembra in bilico sull’orlo della notte, da un avvenire che è tutto dietro le spalle.

dalla collezione di Rossano ca moderna. Mi fa piacere parlare di una Ditta tuttora viva e vegeta e non sparita o venduta a stranieri come spesso è capitato parlando delle grafiche pubblicitarie di Rossano. Tra i fatti storici e di costume più curiosi dell’azienda vanno certamente ricordati l’incremento di capitale del 1924 a cui contribuirono ,con il proprio salario, gli stessi dipendenti, le esportazioni, che già negli anni ‘30 raggiungevano la Turchia e il Sudamerica e i 1300 cappelli al giorno prodotti negli anni ‘50. Rossano possiede della Barbisio un espositore da banco, piccolo cartoncino pubblicitario, verosimilmente opera sempre di Mingozzi che aveva come l‘esclusiva della pubblicità di questa Ditta ed un grande medaglione di ottone decorato, una specie di stemma o insegna, in cui compare in basso la data di fondazione. I cappelli e il grandissimo stabilimento Barbisio Cervo, situato a Sagliano Micca, Biella, sono stati utilizzati in almeno due fiction televisive, una , il “Signore della truffa” aveva come interprete Gigi Proietti, l’altra , “Il sogno del maratoneta” , girata in gran parte all’interno dello stabilimento, Laura Chiatti e Luigi Lo Cascio.

La Galleria Tornabuoni festeggia 60 anni Si inaugura il prossimo 15 dicembre a Firenze alla Galleria Tornabuoni, nella ricorrenza dei sessant’anni dalla sua nascita (1956-2016) e in ricordo del suo fondatore, la mostra Artisti Italiani dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta alla Galleria Tornabuoni, per Piero Fornaciai gallerista fiorentino a cura di Mirella Branca. La Galleria ha iniziato l’attività il 15 dicembre 1956 al n. 74 di Via Tornabuoni, in quegli anni considerata la strada dell’eleganza fiorentina e del turismo d’élite, a fianco della storica libreria Seeber. Dal 2007 ha lasciato la sua sede storica per trasferirsi in Borgo San Jacopo, nel cuore dell’ Oltrarno.. La mostra, promossa dal figlio Fabio, che dal 1980 è responsabile della Galleria, è un omaggio alla figura del fondatore Piero, ma anche il primo evento che vede l’

Gino Severini – Composition, 1955

ingresso nell’attività di Gregorio, figlio di Fabio e terza generazione, al suo fianco nel proseguimento della mission della Galleria


Per

3 DICEMBRE 2016 pag. 15

Lara Vinca Masini

Tante, veramente tante persone hanno aderito al nostro appello al Presidente del Consiglio dei Ministri affinché riconsiderasse la decisione dei suoi uffici di non concedere a Lara Vinca Masini i benefici della Legge “Bacchelli”. Architetti, storici dell’arte, operatori della cultura, cittadini; una pluralità di persone con backgroung culturali così diversi che te-

stimoniano la vastità degli interessi e del contributo che Lara ha dato alla cultura umanistica italiana. Lo potete verificare voi stessi scorrendo l’elenco delle prime 85 adesioni che pubblichiamo qui di seguito. Manteniamo aperto l’appello per le adesioni che porteremo all’attenzione del Presidente Renzi e del Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (da cui era

Signor Presidente, signor Ministro siamo assolutamente certi che i vostri uffici sono incorsi in un errore, in un equivoco quando hanno rifiutato i benefici della Legge “Bacchelli” alla nota studiosa Lara Vinca Masini per assenza dei requisiti di “chiara fama”. È l’unica spiegazione plausibile perché gli uffici e la Commissione Consultiva che istruisce queste pratiche non possono non comprendere quale decisivo apporto gli studi critici, il lavoro di organizzazione culturale e la valorizzazione delle arti contemporanee di Lara Vinca Masini hanno dato alla cultura, e a quella italiana in particolare, nel mondo. Infatti, Lara Vinca Masini ha ottenuto il Premio dei Lincei per la critica 1986; è membro effettivo dell’Associazione Internazionale Critici d’Arte dal 1967; è stata membro della Commissione italiana per le arti visive e per la sezione architettura alla Biennale di Venezia 1978; ha fatto parte della Giuria Internazionale della Biennale Architettura 2000 insieme ai maggiori critici e direttori di musei di arte contemporanea del mondo; e soprattutto parlano per lei le centinaia di pubblicazioni sulla storia dell’arte contemporanea e di critica, come quelle nate dalla collaborazione con G.C.Argan, o i due volumi “Arte Contemporanea. La linea dell’unicità” (Firenze, 1989), “Art nouveau” (Firenze, 1975), così come le centinaia di manifestazioni e mostre che Lara ha curato, quali la “Prima Triennale Itinerante di Architettura Contemporanea” (1966-67) o “Umanesimo, Disumanesimo nell’Arte Europea 18901980” (Firenze 1980). Per questo ci permettiamo di fare appello a Voi, affinché questa incomprensibile equivoco e questa ingiustizia prima di tutto morale vengano riparati, riconsiderando la vostra decisione e rimettendo l’onore a Lara Vinca Masini riconoscendone la “chiara fama”, perché Lara ha certamente “illustrato la Patria attraverso meriti acquisiti nei campi delle scienze, delle lettere, delle arti” come prevede la Legge “Bacchelli”. Fiduciosi nell’accoglimento di questo nostro appello, formuliamo i nostri più calorosi saluti.

partita l’iniziativa) non appena sarà passata la vicenda referendaria. Certamente altre importanti firme si aggiungeranno all’appello che, ovviamente, confidiamo possa avere un riscontro positivo. Ma questa stessa mobilitazione dimostra che la cultura, quella vera e profonda non quella che si pretende tale manifestandosi in eventi, epifenomeni superficiali. Lara Vinca

Albani, Paolo, Scrittore Alberti, Rosella, Docente di storia dell’arte Accademia di belle arti di Firenze Alibrandi, Andrea, Gallerista Allegri, Giuliano, Gallerista Allegrini, Giosuè, Critica d’arte Amendola, Aurelio, Fotografo Andreani, Giuseppe, Già direttore dell’Accademia di belle arti di Firenze Bacci, Andrea, Ingegnere Bagnoli, Paolo, Storico dell’arte Banchi, Eleonora, Restauratrice Baraldi, Bona, Pittrice Barlozzetti, Ugo, Storico dell’arte Bempord, Pier Luigi, Commerciante Berlincioni, Maurizio, Fotografo Bertolani, Lorenzo, Poeta Bimbi, Adriano, Scultore Borsetti Venier, Alessandra, Artista Bove, Antonino, Artista Bramanti, Vanni, Critica d’arte Branca, Mirella, Storica dell’arte Branzi, Andrea, Architetto Brizzi, Marco, Docente universitario Brugellis, Pino, Architetto Cangioli, Silvia, Critica d’arte Castagno, Laura, Architetto Cauteruccio, Giancarlo, Regista Celle, Lucia, Architetto Centauro, Giuseppe Alberto, Docente universitario Chiarantini, Andrea, Artista Cini, Silvia, Artista Contemori, Lido, Disegnatore Conti, Anna, Architetto Cosma, Claudio, Collezionista

Cuppini, Carlo, Editore De Alexandris, Sandro, Artista De Poli, Fabio, Pittore Della Bella, Paolo, Artista Di Cocco, Giampaolo, Artista Di Franco, Elio, Architetto Faccenda Luca, Architetto Falletti, Franca, Storica dell’arte Filardo, Daria, Critico d’arte Fornaciai, Fabio, Gallerista Franceschi, Kiki, Artista Francini, Carlo, Storico dell’arte Frittelli, Carlo, Gallerista Fusi, Danilo, Artista Gaglianò, Pietro, Critico d’arte Giacinti, Roberto, Docente universitario Godoli, Ezio, Docente universitario Granchi, Andrea, Artista Guarneri, Riccardo Guasti, Marcello, Scultore Guerrini, Fabrizio, Storico arte Gurrieri, Francesco, Docente universitario Heimler, Daniela, Docente universitario Innocenti, Raimondo, Architetto Levo Rosemberg, Margherita, Artista Liscia, Dora, Docente universitario Lohr, Christiane Manghetti, Gloria, Direttrice Gab. Viesseux Marcetti, Corrado, Coordinatore F.ne Michelucci Marini, Paolo Maschietto, Federico, Editore Maschietto, Titti, Architetto Maschietto Vittoria, Editore Masi, Paolo, Pittore Mazza, Salvatore Menichetti Marta, Editore Merz, Francesca, Storica

Masini, nei suoi novanta indomiti e tempestosi anni, ci regala anche questa ultima, estrema speranza: che la cultura conta, ha un valore di permanenza e di continuità proprio nella più innovativa delle sue frontiere, quella del momento presente, e che ad essa possiamo ancora affidare un messaggio forte per il futuro. Così come Lara ha fatto durante tutta la sua vita. dell’arte Michelizzi, Achille, Architetto Monaldi, Laura, Storica dell’arte Montanari, Tomaso, Storico dell’arte Mosso, Leonardo, Architetto Nardi, Claudio, Architetto Natali, Antonio, Storica dell’arte Natalini, Arabella, Critica d’arte Noferi, Andrea, Architetto Oreglia D’Isola, Aimaro Paba, Giancarlo, Docente universitario Palli, Carlo Palterer, David, Architetto Panichi, Virginia, Artista Parri Marco Piccardo, Emanuele, Direttore di archphoto.it Pierallini, Beatrice, Architetto Pierallini Salvini Elena, Pittrice Ponsi, Andrea, Architetto Porcinai, Anna Pozzi, Gianni, Storico e critico d’arte Pucci, Cristina, Psichiatra Rescio, Michele, Esperto di cucina Ricci, Aldo Risaliti, Sergio, Critico d’arte Romitti, Ines, Architetto Salmoni, Vittorio, Architetto Staccioli, Paolo, Ceramista Terpolilli, Carlo, Architetto Tesi, Rossella Torres, Elda Ulivieri, Luigi, Architetto Vannicola, Andrea, Storico della chiesa Vanzi, Daniela, Impiegata pubblica Virdis, Davide, Fotografo Viscoli, Artemisa, Scultrice Visconti, Federica, Docente universitario Zangheri, Luigi, Architetto


3 DICEMBRE 2016 pag. 16 di

Laura Morelli

I

chierici regolari di S. Paolo, più conosciuti come Barnabiti, s’insediarono nel 1629 in via Sant’Agostino, a due passi dalla basilica di Santo Spirito, e presto cercarono di ampliare il piccolo oratorio, sorto sulla casa donata alla congregazione da un sacerdote fiorentino, affidando il progetto a Gherardo Silvani. La peste di manzoniana memoria rinvia i lavori al 1640 che, realizzati, presentava un’unica e semplice aula rettangolare, la cui severa facciata corrispondeva al pragmatismo teologico di un ordine nato in seno alla Controriforma unitamente ai principi diffusi da san Carlo Borromeo di ‘gravibus ac modestis ornamentis’. Precettori e teologi nelle corti europee, i Barnabiti entrarono nelle grazie di Ferdinando II che li scelse per l’educazione del futuro Cosimo III, facendoli diventare l’ordine di riferimento per l’istruzione e formazione religiosa della miglior nobiltà d’Oltrarno. Per la frequenza della famiglia granducale e della nobiltà fiorentina, la chiesa si arricchì di nuovi altari e decorazioni parietali, rinnovati e sostituiti nel corso del ‘700. Auliche lesene corinzie cadenzano lo spazio parietale della navata, arredato da altari ‘marmorizzati’ e da nicchie illusorie per finte statue monocrome, e s’innalzano fino al cornicione dal quale esplodono le quadrature prospettiche di Domenico Stagi (1757/1758) che, avide di metri quadri di superficie, si inerpicano in un susseguirsi di mensole a volute, balconate con balaustri marmorei dipinti, finti parapetti aggettanti, fino a raggiungere e contornare la grande Gloria della Vergine che contempla la Trinità alla presenza di San Paolo e San Carlo Borromeo, affrescata nel 1721 da un fresco e brioso S. Betti. Rilievi reali si alternano a quelli dipinti in un gioco di sapiente illusionismo ottico che sfrutta le naturali pieghe delle superfici per amplificarne le dimensioni e dilatare gli spazi. Con artifici scenografici la raffigurazione pittorica del Betti prosegue senza soluzione di continuità oltre i bordi assegnatele svilup-

La Sempre Avanti Juventus ai Barnabiti

pandosi tridimensionalmente negli stucchi. Ecco che la cupoletta virtuale dipinta dallo Stagi nella volta della navata anticipa quella reale della tribuna nata dal più ampio ammodernamento strutturale di Bernardino Ciurini (1741-1743) e dipinta nel 1747 da Giuseppe Zocchi, il vedutista che qui si cimenta in uno dei suoi primi affreschi. Preziosi decori eseguiti per indurre i fedeli a una maggiore devozione tramite la contemplazione della bellezza; ma il periodo aureo volgeva alla

catastrofe. Le soppressioni leopoldine, che allontanarono i Barnabiti dalla Toscana nel 1783, la vendita dell’immobile a privati, il passaggio agli Scolopi, defenestrati anch’essi dalle leggi sulle espropriazioni della Firenze capitale, il definitivo passaggio al Comune nel 1870 e la perizia di assenza di valore artistico dell’ispettore Guido Carocci sigla la distruzione della Chiesa che, smantellati gli altari e scippate le pale d’altare, dal 1904 fino al 1995 divenne una palestra, in cui, per il piacere

dei fiorentini, si riuniva anche l’associazione sportiva Sempre Avanti Juventus. Tolta la palestra si auspicava un ripristino completo e organico della prestigiosa sede di S. Carlo dei Barnabiti, mai avvenuto, e che la presentazione del progetto di restauro della parte strutturale dell’edificio presentato dagli architetti Claudio Mastrodicasa e Simone Montecchi al recente Salone dell’Arte e del Restauro di Firenze, fa sperare di rivederla risorgere nel suo antico splendore.


3 DICEMBRE 2016 pag. 17 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

A

Torino è stata inaugurata lo scorso 19 novembre “RoccaVintage”, galleria dedicata alla fotografia d’epoca che muove i primi passi con “Vedute del Grand Tour: l’Italia fra Ottocento e Novecento nella fotografie degli Archivi Alinari”, in mostra fino al 24 dicembre 2016 (www. roccavintage.it e www.alinari.it). Antesignano del Grand Tour fu probabilmente il filosofo Michel de Montaigne, nel XVI secolo, poi la moda – inizialmente aristocratica – si diffuse nei secoli successivi grazie ad artisti, filosofi e scrittori come Montesquieu, Goethe, Stendhal, Byron, Heine, Corot. In mostra si espongono fotografie delle città d’arte e dei luoghi monumentali, ‘ritratti’ sul finire dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, quando le fortune del Grand Tour erano già in fase discendente. Nel complesso, per secoli si era sviluppato un vero e proprio movimento, una sorta di pellegrinaggio alla ricerca di esperienze d’arte, di cultura, di educazione e di vita. Intervistiamo l’architetto Federico Bollarino, ideatore del progetto “RoccaVintage”. Grand Tour: che cosa attraeva tanta bella gente nella nostra penisola? Il Grand Tour era un fenomeno culturale che rispondeva ad un atteggiamento di grande modernità: la necessità di apprendere la conoscenza attraverso l’esperienza diretta. Oggi i guru della realtà virtuale hanno coniato il termine

Roberto Giacinti rogiaci@tin.it di

L

a Compagnia di Babbo Natale ha avviato il programma di Natale 2016 con tante iniziative benefiche ed un portafoglio di donazioni direttamente a favore dei bambini delle famiglie e solo in parte ad enti che sostengono comunque giovani bisognosi. L’associazione, fondata nel 2007, cresce nelle adesioni che hanno superato le centocinquanta unità; sono Amici che ogni anno si autotassano da destinare a chi si trova in stato di sofferenza, in un peroro gioioso che unisce “solidarietà e gioco”. Per il Natale 2016 la Compagnia promuove la raccolta dei fondi pubblicando un volume, da collezione, arricchito dalle filastrocche originali di Renato Conti, dal titolo ”Cotti

Un Grand Tour per immagini di “esperienza immersiva” per intendere una modalità di percezione in grado di coinvolgere tutti i sensi. All’epoca del Grand Tour l’Italia era il territorio dove questa “esperienza immersiva” poteva essere più efficace, per il concentrato di memorie storiche di epoche diverse e per la varietà di paesaggi e fenomeni naturali. L’invenzione della fotografia si collocava perfettamente in questa logica. Uno strumento che consegnava ai viaggiatori la memoria di quei luoghi, con un’intensità molto simile all’esperienza diretta. Considerato che oggi la promozione si costruisce a suon di campagne e di slogan, con impiego di risorse in numerose agenzie spesso in competizione tra loro, talora contraddetta da scempi e inefficienze nei territori, qual è – se per lei c’è – la ‘lezione’ del Grand Tour? I giovani intellettuali che potevano permettersi lunghi soggiorni nella nostra penisola, non si limitavano a visitare i monumenti, ma cercavano di aggiungere alla conoscenza del passato quella della società italiana a loro contemporanea. Da Stendhal, a Goethe a Nietsche il soggiorno in Italia era occasione di confronto con altri intellettuali o artisti locali. Ecco qui la lezione per noi contemporanei: l’offerta turistica dell’Italia deve poter coniugare le meraviglie del passato con la realtà del presente. Un sito archeologico, un monumento, un borgo antico devono poter essere vissuti come spazi di modernità. Alcune immagini della mostra colpiscono per la loro ‘lontananza’,

Biscotti di Natale

e Biscotti”. Un simpatico libro di ricette speciali che ci ricordano la nostra infanzia, che potrà essere richiesto a compagniadibabbonatale@gmail.com. La Compagnia si materializzerà a dicembre “in carne ed ossa”, in varie iniziative che saranno rese note sul sito: www. compagniadibabbonatale.com È confermato l’evento dell’8 dicembre ovvero la partenza del trenino elettrico di Babbo Natale da Piazza Signoria per Piazza Duomo per l’accensione dell’albero di Natale e ai giardini della Gherardesca eccezionalmente aperti per i bambini domenica 18 dicembre. La Compagnia si è costituita in ONLUS per consentire ai donatori di beneficiare delle agevolazioni

quasi mitica. I luoghi/ monumenti di allora sono in buona parte quelli di oggi, eppure nell’era di internet e della comunicazione digitale sembrano finiti dietro le quinte, sono diventati sfondo. E’ vero, secondo lei? Credo che la fotografia, dal momento della sua invenzione ad oggi, abbia modificato sensibilmente la nostra percezione di realtà. Siamo ormai abituati a riconoscere nel singolo attimo ritratto nella fotografia un’azione, un processo, un’evoluzione. Piazza San Marco ritratta da Brogi in quel dì del 1890 è molto più che veduta monumentale. C’è una naturale relazione tra lo spazio e i personaggi che lo animano, che rende quel momento autentico, poetico e rivelatore. Le fotografie esposte sono analogiche e sono arte. Nella fotografia digitale c’è spazio per l’arte? Così come non è la penna che fa il romanzo, altrettanto sono convinto che ci sia spazio per l’arte nella fotografia digitale. Le nuove tecnologie offrono strumenti che i pionieri della fotografia avrebbero utilizzato senza indugio. L’arte visiva è intuizione e ritengo che ogni strumento sia lecito per dare forma all’idea: anche l’attività di postproduzione di una fotografia. Poi ciascuno di noi può essere attratto più o meno dalla genialità dell’artista rispetto ai limiti che possiede o che liberamente si impone. Se c’è un valore aggiunto nella

fotografia analogica, è nel processo o nel prodotto? Appartengo ad una generazione che per anni ha scattato fotografie con l’ansia di commettere qualche errore che avrebbe vanificato l’intenzione di fissare un preciso attimo. Questo sentimento, provato soprattutto nelle circostanze di un evento irripetibile, consegna alla fotografia analogica un valore che oggi le nuove generazioni di fotografi digitalizzati, vivono con minore intensità. Nella fotografia analogica il processo influiva inevitabilmente sul prodotto: il rischio di fallimento, o quanto meno di insoddisfazione, era insito nel sistema. Qual è la missione di “RoccaVintage”? Mi piace pensare che RoccaVintage possa essere un luogo in cui ripercorrere l’evoluzione del linguaggio fotografico, esaminando di volta in volta un tema o un autore. L’ambizione è condurre gli appassionati di fotografia che frequenteranno RoccaVintage alla consapevolezza del significato artistico di un’opera fotografica oltre al mero valore collezionistico. Vorrei che la passione per la fotografia diventasse anche per noi italiani non solo una moda ma una forma di cultura.

inerenti la detraibilità dal reddito e per il 5 per mille è iscritta tra le associazioni di volontariato con il C. F. 94242500489 Donazioni su Banca di Credito Cooperativo di Cambiano Filiale 3 – Agenzia 17 Viale Gramsci, Firenze, sul c/c: IBAN: IT 58 R 08425 02804 0000 31146640 intestato a La Compagnia di Babbo Natale ONLUS. Un biscotto speciale di Renato Conti Ecco arriva anche quest’anno un libretto prestigioso Che sarà certo apprezzato da un lettore un po’ goloso O da chi ha per passione di far dolci a profusione Sento già, mentre qui scrivo, un profumo molto vivo

Di un biscotto ch’e’ speciale E vien fatto per Natale. A Natale, per magia, ogni giorno è una scoperta Per svegliare i tuoi ricordi ogni porta adesso è aperta Giri l’angolo ed un suono, un’immagine, un odore Fa svegliare all’improvviso un ricordo nel tuo cuore Se leggendo una ricetta la memoria si risveglia Corri subito in cucina e prepara la tua teglia O se invece vuoi lasciare un ricordo nella mente Di chi guida ormai ti vede o ti segue inconsciamente Metti in forno, alza il profumo, Resterà poi per degl’anni nella mente di ciascuno.


L immagine ultima

3 DICEMBRE 2016 pag. 18

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

U

n’amica portoricana, Yvonne Bastide Miranda, assieme al suo cugino Mario. Se la memoria non mi tradisce Mario era molto più giovane di lei. Era una famiglia molto disponibile e simpatica che mi ha ospitato per un paio di settimane. Anche il figlio più grande viveva assieme alla madre nello stesso appartamento. Nello stesso palazzo dei “Projects” viveva, in un altro appartamento, anche la sua sorella maggiore con i suoi figli. Queste persone sono sempre state molto gentil con me. Non ne sono sicuro ma credo che fossero ambedue delle ragazze madri, cosa abbastanza comune in quell’ambiente. A 47 anni di distanza ho ancora dei bellissimi ricordi del loro calore e della loro ospitalità.

NY City, agosto 1969


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