Cultura Commestibile 255

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Numero

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Veramente la Madonna guarda negli occhi il Bambino Gesù sottolineando così che è lui il centro del quadro; ma il Salvatore guarda a noi ed è come se dicesse: so che avete delle difficoltà, ma io sto con voi Valdimir Putin commentando la Madonna Litta di Leonardo da Vinci

La quarta repubblica Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Altra scena di strada, siamo sempre nel quartiere cinese ma la scena non è particolarmente frenetica come spesso accade in questa parte della città quando il brulichio delle persone dà l’impressione di essere all’interno di un alveare in continuo movimento. Le scritte sui muri e sui negozi non lasciano alcun dubbio per ciò che riguarda il quartiere in cui ci si trova. Volti, scritte, insegne e riviste in mostra negli scaffali sono la testimonianza di un’area decisamente vivace e quasi sempre frenetica. Come avevo già accennato nel numero scorso, per la fretta degli amici e per la mancanza di tempo non ho potuto approfondire più di tanto la conoscenza di questa parte importante della città!

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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Riunione di famiglia Scelte giuste Le Sorelle Marx

Per fare un PD ci vuole il seme Lo Zio di Trotzky

Masterchef USA, Firenze edition I Cugini Engels

In questo numero Federigo Tozzi e la lingua della Natura di Roberto Barzanti

Con l’Irlanda nel cuore di Alessandro Michelucci

La fonte e l’anima di Susanna Cressati

Addio Daniele di Laura Monaldi

La disobbedienza di Hanna di Mariangela Arnavas

Il filo e l’infinito di Luisa Moradei

Macbeth con la resolza di Susanna Cressati

La lingua prigioniera di Sandra Salvato

La reggia santuario di Gonfienti, una rivelazione senza precedenti di Giuseppe Alberto Centauro

Gonfienti: la domus si muta in palazzo dei numeri primi di Mario Preti

Kawa, il curdo di Francesca Merz

Elogio della strada bianca di Paolo Marini

Carità e filantropia di Roberto Giacinti

La scomparsa di Stephen Hawking: grandezza e fragilità di Gianni Bechelli

e Remo Fattorini, Andrea Caneschi, M.Cristina François, Cristina Pucci...

Direttore Simone Siliani

Illustrazione di Lido Contemori

Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

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di Roberto Barzanti Sotto il titolo di Fonti son pubblicati una serie di frammenti, alcuni strutturati dallo stesso autore, altri inediti riuniti secondo un criterio di affinità tematica, tutti aventi a oggetto un motivo assai caro a Federigo Tozzi. Quando uscì, nel 1993, la minuscola plaquette, appunto intitolata Fonti – terzo dei “taccuini di Barbablù” proposti da Attilio Lolini –, già era apparsa (1981) presso Vallecchi, a cura del figlio Glauco, la raccolta Cose e persone di Inediti e altre prose. Mentre lo smilzo taccuino che preparai su suggerimento di Attilio si limitava a stampare lo scritto pubblicato su “La ruota” del 25 agosto 1916, le Edizioni degli animali di Riccardo Corsi comprendono ora (2017) l’intera sezione Le “Fonti” del volume vallecchiano (pp. 275292), dando modo di soffermarsi estensivamente su una figura che non a caso ricorre nelle pagine dello scrittore senese con sintomatica insistenza. E nella sala Ferri del Vieusseux il piccolo libro è stato presentato da Marco Marchi, Antonio Prete e Silvia Tozzi con dovizia di acute riflessioni. Alle quali aggiungo qualche chiosa, da lettore semplice criticamente disarmato. Non credo che oggi interessino più di tanto questioni di cronologia. L’attacco del secondo paragrafo della sezione Altre Fonti – “Non tornerò più nel mio orto; ma io non so dimenticarlo…” – colloca gran parte di questo materiale nella stagione del cosiddetto sessennio di Castagneto, anteriore al 1914, cioè al trasferimento a Roma. Benché con Tozzi bisogna andarci piano in fatto di cronologia. Frequenti le riprese di abbozzi, le aggiunte, il montaggio con nuovi ritmi di fogli depositati. Sembra di assistere ad una sorta di diario di sommovimenti psichici, allo snodarsi di stenografici appunti sui soprassalti improvvisi di un’anima: non soggetti ad un ordine prestabilito, né ricercato, fatta eccezione per il pezzo d’apertura e per quello finale, La fonte colma, apparso su “Il Messaggero della domenica” del 21 giugno 1919 in prima pagina. Ricordo le chiacchierate con Glauco, meticoloso editore delle opere del padre. Intendevo esemplificare, in un piccolo omaggio da donare ai convegnisti convenuti a Siena per la celebrazione del centenario della nascita di Federigo, le difficoltà che s’incontrano nel dare alle stampe Tozzi senza cadere in errori di trascrizione, in dubbi correttismi, in autentici fraintendimenti. Ci riuscimmo in parte, solo in parte. Qualche minima svista rimase, anche se il testo era migliorato rispetto a quello già reso noto. Questo singolare insieme di annotazioni probabilmente negli intendimenti dello scrittore do-

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Federigo Tozzi

e la lingua della Natura

veva dar luogo a qualcosa di compiuto. Tentar di dar loro una strutturazione immaginando le finalità non realizzate era un po’ come entrare nel laboratorio artigianale di Tozzi, constatare “Come lavorava Tozzi” per riprendere un celebre titolo continiano adoperato per altri. L’annunciata Edizione nazionale delle opere tozziane che prenderà avvio nel quadro delle iniziative in cantiere per celebrare il centenario della nascita (1883) sarà un valido approdo di un lavoro che ha già al suo attivo acquisizioni notevoli: basti pensare all’edizione critica delle Novelle e a quella dei Ricordi di un giovane impiegato (Cadmo, Firenze 1999) a cura di Riccardo Castellana. Perché ci parvero e ci paiono così coinvolgenti queste Fonti? La città è per Tozzi luogo di ostilità, labirintico e indecifrabile. Nel vagabondaggio campestre l’anima trova una sintonia primordiale con una tensione immaginativa e sognante. Si sa con quale significato Tozzi, e con lui tanti scrittori dei primi del Novecento, pronunciavano la parola anima. Anima sta per grumo di personali e intime sensazioni davanti al visibile. Da questo rapporto non di rado si sprigiona una tristezza che rasenta l’annientamento, altre un incoercibile impulso ad immergersi in silenzi improvvisi, nelle profondità di una perenne e inquieta esplorazione. Contemplazione e disperazione si alternano. Non so se si possa parlare di una sorta di bipolarismo psichico. È certo che Tozzi scrive delle varie fonti che

incontra lungo il cammino con toni di estasiato rapimento. E in diversi momenti gli appaiono, invece, come gorghi in cui annullarsi, annientarsi, naufragare. Si direbbe assalito da un “panismo tragico”. Immedesimazione nella natura e non dolce naufragio nel suo cupo infinito. Ed era compiere un cammino a ritroso negli anni, alla ricerca di un’originaria primordialità. Non era un gusto facile per il rustico che stimolava gli itinerari di un disagiato promeneur solitaire, ma piuttosto il desiderio di sintonizzarsi con le pulsioni animalesche di una nuda vitalità. Ha scritto Tozzi in un passo chiave della sua vena autobiografica, pensando Pari degli antenati: “…io sono nato a Siena, così per caso; mentre la mia anima è di laggiù, di quel paese che non ti voglio né meno nominare. E tu sai che le mie parole vorrei che fossero come le ore che batte l’orologio: tutti le ascoltano e muoiono nell’aria ma restano nell’anima”. Dunque era anche una diversa relazione col tempo a essere sperimentata. La fonte era specchio narcisistico di sé e vibrava di una sensualità da manuale di psicanalisi: Amore e Morte. Memorabile l’attacco dell’abbozzo di Adele (1910?), che si dirige verso Fontebranda trascinata da un incontrollabile destino: “Sotto le volte buie della antica fonte, l’acqua lasciava distinguere il suo fondo di un verde indefinibile e silenzioso. Le ombre enormi dei due pilastri battevano su la parete opposta, tagliando la luce debole di un fanale a gas, la quale penetrava di tra gli archi”. E di seguito: “Le pareva


che la morte fosse prossima, sopra le colline già oscure di Siena, così alta”. Quando Glauco s’imbatte in cancellature riporta il brano tra parentesi quadre, come in questa successiva sequenza: [“La morte che aveva ucciso anche la luna apparsa tra due nuvolette su tra le cime dei cipressi…”]. Non tutte la sparse frasi che modulano il motivo della fonte sono inserite nella sezione ora trasformata in autonomo volume. Questo, ad esempio: “Beati coloro che sono ricchi di fonti […] Tutte queste fonti, che rispecchiano le anime, sono benedette. Ciascun uomo ritrova ivi il proprio fine”. E ancora: “Tutte queste fonti che rispecchiano le anime, sono benedette. Ciascun uomo ritrova ivi il proprio fine”. C’è qualcosa di evangelico, di battesimale e sacro che increspa le acque memori di riti campagnoli e di fecondanti usanze. Sogno, visionarietà, allucinazione originano un universo che una scrittura automatica ha il compito di tradurre in suoni, in musica, in registrazione d’ascolto: “E allora tutto il campo stormiva: i granturcheti si sbatacchiavano con le foglie secche e con le spighe mature; i grani bisbigliavano, meno forte dei fieni però; i frutti, carichi, gemevano e si piegavano: le canne sibilavano come se avessero voluto cantare qualche loro arietta; i cipressi sospiravano; le querci e i castagni crosciavano; qualche greppo di tufo franava; le viti strepitavano; e gli olivi respiravano forte. Mi veniva voglia di mettermi a cantare, e in vece sognavo e basta”. Pagina dove si sfrena un virtuosismo onomatopeico di ascendenza dannunziana. L’autore è in preda a flussi non misurabili. “Chi non sente dentro di sé questa specie di infinito che ci respinge tutte le volte che non ci contentiamo di vederlo soltanto a una certa distanza?”. “Quando si crede di descrivere uno stato d’animo, noi siamo in sua balìa” conclude Tozzi, ed è una dichiarazione di poetica. L’eco leopardiana si rovescia, pur dentro una Natura dominante e inesplicabile. Tozzi amava Maurice Maeterlinck, del quale aveva nella sua biblioteca tre volumi tra i quali spiccava L’intelligence des fleurs, (Charpentier et Fasquelle, Paris 1907). Si attagliano perfettamente a questo Tozzi – quasi in epigrafe – versi del simbolista belga (da Cacce fiacche): Mon âme est malade aujourd’hui, Mon âme est malade d’absences; Mon âme a le mal des silences, Et mes yeux l’éclairent d’ennui”. [L’anima mia oggi è malata, L’anima è malata di assenze; L’anima mia ha il male dei silenzi, E i miei occhi la schiarano di noia.]

La fonte e l’anima di Susanna Cressati Per la seconda volta in pochissime settimane il Gabinetto Vieusseux ha dedicato la sua attenzione a Federigo Tozzi, una figura di narratore italiano largamente desueta, in pratica sconosciuta. La prima occasione era legata al ciclo “Scrittori raccontano scrittori” e la lezione è stata affidata a Antonio Moresco, autore mantovano-milanese che ha trovato parole giuste e forti per parlare di Tozzi agli adolescenti. Parole di uomini tormentati e dolenti, isolati, lacerati. Nella seconda protagonista è stato un libriccino di interesse non solo filologico, la nuova edizione di “Fonti” (Edizioni degli Animali), frammenti tozziani ormai introvabili, esclusi anche dal Meridiano a lui dedicato nel 1987 da Mondadori, a cura di Marco Marchi e con prefazione di Giorgio Luti. Tutto ci dice che è già partito il lavoro per la celebrazione del centenario della morte dello scrittore, che cadrà nel 2020. Oltre che a una “cattedra” di presentatori competenti è toccato a Silvia Tozzi, erede e custode della memoria di famiglia, evocare con efficacia alcune delle condizioni che hanno probabilmente influenzato i pensieri di Tozzi così intitolati. Nel podere Castagneto dove lo scrittore visse - ha spiegato Silvia Tozzi - c’era una vita intensa, ma quasi misteriosa. Una vita di campagna antica, in cui non risuonava nemmeno la voce della radio, ma solo quella che usciva da una discendenza immersa da secoli nel silenzio. Federigo lasciava – ha detto la pronipote - che “l’acqua delle fonti gli attraversasse l’anima”. Cercava anche a livello scientifico le affinità tra umani e piante e l’interconnessione di tutti gli esseri viventi. Attraverso le righe di “Fonti” Tozzi rivela qualcosa di primitivo, e quindi di magico, una sacralità non strutturata in religiosità, un impulso a coltivare una permeabilità dei confini tra il corpo e l’ambiente, tra l’io e la realtà fino all’orlo della follia. E

infatti di quelle esperienze scriveva: “Non ero più un uomo, partecipavo dell’aria e delle nubi”. Il paesaggio protagonista delle sue prose liriche è paesaggio dell’anima (parola chiave nella prosa di Tozzi, come “cuore”, inaspettatamente, nella poesia di Baudelaire); la campagna è luogo di contemplazione e di disperazione, di un senso primitivo dell’esistenza. Tra “Fonti” e “Bestie” Tozzi pratica la moderna violenza della scrittura, gioca tra il trasparente e l’opaco, tra il luminoso e l’oscuro, tra l’apparire e il nascondersi, tra estasi e incubo, in una sorta di giardino della sofferenza dove la fonte scorre sotto buie volte, e la luna è morta.

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Le Sorelle Marx

Scelte giuste

Finalmente il Bomba è tornato! Ci stavamo preoccupando: dalle nevi immacolate dove si era ritirato dopo la debacle elettorale non si avevano notizie (né per la verità si sono avute notizie di slavine e quindi dubitavamo che effettivamente fosse andato a sciare, visto che dove va, son crolli). Ma ieri lo abbiamo rivisto tutti nell’aula del Senato, abbronzato, tirato come una corda di violino, senza un filo di grasso. Ma conservavamo dubbi circa la sua vera identità: chissà che non succeda a lui come per la leggenda sulla morte di Paul McCartney, sostituito da un sosia. Ma come ha aperto bocca, non abbiamo avuto più dubbi. Alla prima bischerata l’abbiamo riconosciuto, lui, l’inconfondibile, l’inimitabile, l’unico. Chi se non lui poteva fare una battuta tanto scema, del resto indotta dal personaggio protagonista? ““Parrini ha fatto la scelta migliore, si è seduto tra i senatori a vita”. Non si sa se fosse una battuta o una infausta premonizione. Ma la frase successiva lo ha identificato come il vero, unico, Bomba, Matteo Renzi: “Ora sto zitto per due anni”. Boom!!!

I Cugini Engels

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Per fare un PD ci vuole il seme

Gira in rete, in quell’ineguagliabile capolavoro del surrealismo che è Matteo Renzi News, una card con una citazione ripresa da Renzi: “Credevano di averci seppellito e non sapevano che noi eravamo semi”. Ora se è evidente l’intento di rivalsa dell’ex segretario occorrerebbe far notare a Renzi che prima di crescere i semi vanno innaffiati e pure concimati. Il che non appare una bella prospettiva per Renzi e i suoi se si pensa che il reggente del partito è l’attuale ministro dell’agricoltura, fautore della fine della chimica nei nostri campi e del ritorno al biologico anche per i fertilizzanti.

Masterchef USA, Firenze edition

In un ameno bilocale nei pressi di Ponte Vecchio, verso l’ora di cena, le tre pigionanti - studentesse americane brillante – si preparano alla prima degustazione del made in Italy. “Emma, I am hungry!!! Fame!!! And you?” “Emily, please, prepare a nice italian dinner” “Samantha, please, parla italiano, così imparare bella lingua di questo paese” “Oh Emily, what the fuck, I don’l like italiano. Non riesco parlare bene. Allora, cucina pasta, spaghetti! Bello sugo a amatriciana... oh excuse me, Bob mi chiama di WhatsApp. Hello, my dear, how are you? Yes, yes, parlo italiano: vieni a casa mia, mangiamo spaghetti & meat balls! No, schiocchino, non tue balls: sugo amatriciana e … how do you say...polpetine! Yes, porta vino, tanto. E anche tuo amico Andrew: he likes Samantha. Ciao, scusa, devo twittare con John...” “Hey Emma, spaghetti o penne?” “Spaghetti, you idiot! Solo spaghetti veramente italiano! Look girls, facciamo sugo

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Lo Zio di Trotzky

finto. “fake”: meat sauce without the meat. Bello rosso, sounds delicious!” “Emily, please, open the door!” “No, Samantha, vai tu: I am on Facbook chatting con Bill: dice che viene da noi con suo amico chitarrista rock. Great!!!” “Ohhhh, my God, Bob sei già arrivato... and your friend Andrew? Come in: senti che profumo meraviglioso di Italia? Stasera, spaghetti!” “Hey Emma, accendi TV: vediamo BBC news!” “Emily, what the fuck: news??? Are you crazy? Cosa importa noi news: tanto parla solo di Trump che ha fired 174° consigliere. Meglio tanta musica: attacco Spotify” “Samantha, cuoci 2 chili di pasta: arrivano anche Johanna e Michael” “Ok Emma, I’ll take care of it. Intanto devo rispondere a 4 email” “Ohhh, Emma che bella festa! Italia è così emozionante: tutto bellissimo qui, aria, panorama, vino e cibo. Posso sentire il profumo di spaghetti, sugo e fresh basil... Oh, suonano alla porta: vado io... Ehi Emily, Emma, stasera abbiamo anche fireman, vigili di fuoco! Entrate abbiamo fabulous spaghetti!”

“Oh signorina, macché spaghetti: qui piglia fuoco tutto il quartiere: ci hanno chiamato i vicini. Ma che combinate?” “Oh non so, mr. Fireman... stavo chattando con amici su WhatsApp, Emily era impegnata su Twitter e Emma su facebook....” “Oh signorina, vi sta andando a fuoco la cucina: dov’è? Ah, ecco, di là ragazzi, con la bombola. Oh signorina, ma gl’è bruciata la pentola con gli spaghetti! O come avete fatto? Ma ce l’avete messa l’acqua?” “Ohhh my Goooood! Acqua? Perché? Non stava scritto niente su confezione: io messo 2 chili di spaghetti in pentola perché su confezione scritto solo tempo di cottura 10 minuti. Ma voi italiani, siete davvero strani: perché non scrivete istruzioni su contenitore? Da noi in US tutto già pronto: apri scatola, apri busta e già pronto per mangiare” “Oh signorina, ma con tutti codesti aggeggi elettronici che vu’ c’avete, una bella ricetta per cocere gli spaghetti un’ siete state buone di trovarla? Vaivaivaivaia” “Ohhh mr. Fireman, I’m sorry, but... che muscoli e che bella divisa...” “Sì, addio. Andiamo via ragazzi, che qui rischia di pigliar foco tutto”


Nel migliore dei Lidi possibili

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

A forza di dividersi la sinistra è diventata un dado per giochi in famiglia

Segnali di fumo di Remo Fattorini Siamo un paese di pessimisti. Vediamo più nero che rosa. Sfogliando le pagine del “Rapporto Italia 2018” - pubblicato recentemente dalla Ipsos – scopriamo che negli ultimi 7 anni l’orgoglio di essere italiani è sceso di 11 punti (dal 71 al 60%); che i tre quarti degli italiani (il 73%) sono convinti che il nostro paese sia in declino (in Germania il 47). Ancora peggio: scopriamo che il 68% pensa che per rimetter a posto le cose serva un uomo forte, disposto ad infrangere le regole. Un paese che, nella sua maggioranza, sopravvaluta la presenza

dell’immigrazione, della criminalità, della mafia, della corruzione. Nessuna nega l’esistenza di problemi, vizzi e difetti, ma il fatto è che tutte queste tegole vengono percepite in maniera distorta ed amplificata. Ad esempio, gli italiani sono convinti che il 30% dei residenti siano immigrati (in realtà sono solo l’8%); così i disoccupati sarebbero il 48% (mentre si fermano all’11%), stesso discorso per gli anziani over 65, che invece sono solo il 21%. Per non parlare dei musulmani che ormai sarebbero il 20% della popolazione, mentre sfiorano appena il 3%. E si potrebbe continuare. Fatto sta che abbiamo una percezione assai distorta del paese in cui viviamo. Sarà a causa della sfiducia che ormai ha raggiunto un livello tale da farci dubitare persino dei dati ufficiali, dall’Istat alla Banca d’Italia. Siccome a volte contrastano con l’idea che ci siamo fatti, pensiamo che siano manipolati. Mentre consideriamo affidabili le cose che ci arrivano dai passaparola, che si leggono su Internet o sui so-

cial, i cui algoritmi - come si sa - ci propongono sempre più frequentemente versioni della realtà in sintonia con le nostre. Viviamo quindi un clamoroso paradosso: nell’era della maggiore diffusione delle notizie siamo disinformati. Nasce da qui una percezione dei fatti distante dalla realtà. Le cause sono molteplici: le modalità con cui viene costruita l’offerta informativa, la costante ricerca del sensazionalismo che porta ad enfatizzare tutto, sia le news negative che quelle positive. E ciò coinvolge tutti: dal governo ai mass media, dalla politica ai social. Tutti enfatizzano tutto, pur di bucare lo schermo, pur di conquistare spazio e attenzione. C’è poi un’altra spiegazione. Siamo molto attratti dai fatti di cronaca, anche brutale. Ci piacciono poco gli stili di vita corretti. Per non parlare della prevenzione. E il principio di precauzione lo viviamo con fastidio. Insomma stiamo per andare a sbattere ma non ce ne accorgiamo.

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di Laura Monaldi A partire dagli anni Sessanta Firenze è stata il centro di un denso panorama di iniziative personali e collettive, in cui arte, suono, gesto e musica hanno dato importanti contributi estetici al rinnovamento culturale dell’epoca, con un forte impegno intellettuale e sociale. L’attenzione di musicisti e compositori si è focalizzato sul linguaggio nella sua dimensione comunicativa, avvertendo lo stato di crisi del linguaggio musicale, come conseguenza di una crisi del rapporto musica-cultura, che andava riscoperto alla luce di una maggiore aderenza alla vita reale e quotidiana. L’estetica musicale ha cambiato in tal modo prospettiva, dirigendo l’attenzione verso la riscoperta degli elementi più umili e semplici, decostruendo Daniele Lombardi nel suo studio Foto Carlo Palli

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Addio Daniele la complessità musicale e concentrando la ricerca su singoli temi, sviluppati secondo considerazioni e valutazioni alternative, più vicine ai contesti sociologici e antropologici della contemporaneità. Nell’opera di Daniele Lombardi ritmo sonoro, segno e colore prendono il posto della tradizionale partitura per fornire al pubblico una più ampia percezione della musica e delle sue possibilità interpretative. Le composizioni di nascono in seno alla riflessione sui sistemi di notazione musicale e i rapporti che intercorrono fra il suono e il segno grafico. Da ciò scaturisce l’idea del compositore di ibridare in un unico contrappunto la scrittura cifrata e quella visiva. Nelle sue opere si possono ammirare frammenti sparsi di notazioni tradizionali e un pattern in notazione visiva, che realizza un dialogo musicale armonico, dove le voci strumentali si uniscono e si intrecciano, creando un contrappunto denso di suggestioni. La sperimentazione dell’avanguardia musicale ha portato alla presa di coscienza che l’arte può essere interdisciplinare e che le canoniche notazioni non sono più sufficienti per rappresentare la forza comunicativa

Sopra Senza titolo, 1969, Opera n.37 Sotto Notazione di un fatto sonoro che l’esecutore ricrea nella propria immaginazione, 1971, Opera n.108

della nuova musica: Daniele Lombardi è riuscito in tal modo a portare avanti un’idea multimediale dell’arte, in grado di inglobare segno, gesto e suono in una sola idea di percezione molteplice, tra analogie, contrasti, stratificazioni e associazioni. Un compositore dalle indimenticabili opere come To gather together, Divina.com, Glitch e Nocturnals che il mondo della musica contemporanea non dimenticheranno mai.


Musica

Maestro

Con l’Irlanda nel cuore

di Alessandro Michelucci Nel 1980, quando esordiscono con l’LP Searching for the Young Soul Rebels, i Dexy’s Midnight Runners di Kevin Rowland mettono subito in evidenza il proprio amore per l’Irlanda. La loro musica, comunque, non ha niente a che fare con il folk gaelico, ma è un rock indiavolato, screziato di funk e rhythm and blues. L’isola verde è presente in “Burn it down”, una canzone contro gli stereotipi anti-irlandesi diffusi nel Regno Unito. Questo si deve soprattutto al cantante-leader Kevin Rowland, nato in Gran Bretagna da genitori irlandesi, che veste con abiti fra il bohémien e lo zingaro ed esibisce un’espressione grintosa, quasi strafottente. Nel successivo Too-Rye-Ay (1982), il loro disco più riuscito, il riferimento all’isola verde è ancora più marcato: la ninna nanna “Come on Eileen”, il titolo “The Celtic Soul Brothers”, la trascinante versione di “Jackie Wilson said”, scritta da Van Morrison. Sulla copertina del terzo LP, Don’t Stand Me Down (1985), questa tendenza viene riaffermata da “The national pride”. Al tempo stesso, però, il gruppo ha smesso le tute e i berretti per sostituirli con impeccabili abiti sartoriali. Il disco è interessante, ma si rivela un fiasco commerciale, e l’anno dopo il gruppo si scioglie. Rowland realizza due CD da solista (The Wanderer, 1988 e My Beauty, 1999). Nel frattempo il musicista è scivolato nell’abisso della droga. Seguono anni difficili, ma trova la forza di riemergere. Nel frattempo il suo approccio alla musica è cambiato. Nei dischi che ha realizzato da solo ha ripreso canzoni di altri autori, dai Beatles a Bacharach. My Beauty, in particolare, non contiene pezzi originali. In seguito a questa esperienza, seppur piagata dalla droga, Kevin si è scoperto capace (anche) di cantare da crooner, seppure con toni personali che lo mantengono lontano da Bing Crosby o Frank Sinatra. Il cantante riforma ail gruppo nel 2003 e realizza un paio di singoli che ottengono scarso successo: i tempi non sono ancora maturi per ripartire a pieno ritmo. Bisogna aspettare il 2012, quando il CD One Day I’m Going to Soar segna il definitivo ritorno sulle scene. Insieme al cantante ci sono altri tre membri originari e il

nome è stato abbreviato in Dexys. Gli abiti sono cambiati ancora una volta: ora il gruppo predilige eleganti vestiti in stile anni Trenta-Quaranta. La musica è una sapiente miscela di pop, soul e folk, la stessa che si trova nel successivo Nowhere is Home (2014). “I was born here of an Irish family”, sono nato da una famiglia irlandese, canta Rowland nel brano che intitola il disco. Ma ormai è venuto il momento di realizzare un disco apertamente dedicato all’isola verde. Si tratta di un progetto vecchio che il cantante vagheggia ormai da molti anni: Let The Record Show: Dexys Do Irish And Country Soul (2016) è il disco che lo realizza. La copertina conferma che l’eleganza sartoriale rimane un tratto distintivo del gruppo. In realtà soltanto 4 dei 12 brani hanno a che vedere con l’Irlanda. L’iniziale “Women of Ireland” è un pezzo struggente dominato dal violino di Helen O’Hara e dall’armonica di Graham Pike. “The Town I Loved So Well”, scritta da Phil Coulter, racconta l’infanzia che l’autore ha vissuto a Derry. Ma Rowland si conferma interprete persona-

le anche negli altri pezzi, come “To love somebody”(Bee Gees), “You wear it well” (Rod Stewart) e “Both Sides Now” (Joni Mitchell). Non manca nemmeno un evergreen come “Smoke gets in your eyes”. Tutti i brani vengono riarrangiati in modo originale: “Queste canzoni non sono semplici cover, ma interpretazioni personali” ha detto lo stesso Rowland in un’intervista al quotidiano The Guardian. Naturalmente la qualità dei musicisti svolge un ruolo decisivo. In definitiva il titolo del CD appare fuori luogo: le canzoni irlandesi sono poche, così come scarseggiano soul e country. Ma poco importa: in questa raffinata macedonia c’è tutto Kevin Rowland. Elegante nel canto e nell’abito, un po’autoironico, questo dandy guarda gli anni Quaranta ma è ben conscio di vivere nel ventunesimo secolo. Sempre con l’Irlanda nel cuore.

Pieveasciata e la sua sigla d’arte di Valentino Moradei Gabbrielli

In linea con questo delirio di sigle, che caratterizzano la nostra vita sociale, l’economia, la cultura, la scienza, ho scoperto il BAC, iniziali di Borgo d’Arte Contemporanea. Il B.A.C. è a Pieveasciata in quel di Siena, un piccolo borgo semi abbandonato crocevia di strade poco percorse in un piacevole angolo del Chianti rispolverato e attraversato dalla epica manifestazione ciclistica “L’Eroica”. Poche case, nessun esercizio commerciale, un bel complesso religioso, la Pieve di San Giovanni Battista, abbandonata e purtroppo cadente, tutto rigorosamente costruito in laterizi e pietra chiara a vista. Intorno vigne curate e boschi, a due chilometri, la Villa di Geggiano abitata dal noto archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, in lontananza il Castello di Brolio caro a Bettino

Ricasoli “Il Barone di ferro”. A fianco del borgo un piccolo nuovo insediamento residenziale di 4 o 5 villette. Questa nuova creatura il B.A.C., è frutto di un progetto promosso dall’“Associazione amici del parco”, già perché immediatamente confinante al borgo si trova il Chianti Sculpture Park. Struttura assolutamente privata, che grazie al sostegno del comune di Castelnuovo Berardenga, la provincia di Siena e la regione Toscana, ha iniziato a costellare di “opere d’arte” questa piccolissima frazione. L’operazione a mio avviso un tantino pilotata, appare inopportuna perché non in linea con la riflessione sul degrado diffusissimo delle periferie delle città e il tentativo di recupero che a più livelli viene auspicato. Forse questo risorgimento dell’arte, meglio sarebbe destinarlo a quelle periferie che anche a Siena non mancano, e sono pure molto abitate

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di Sandra Salvato Di recente ho rivisto Il Nome della Rosa, il film di J.J. Annaud che muove dal libro omonimo di Umberto Eco. A parte la trama avvincente, la celebrazione della fantasia, il gioco letterario, mi diverte ancora quel grande lavoro di impuntura lessicale che è Salvatore, l’eretico dolciniano finito al rogo insieme al suo esoterico idioma, “Penitenziagite! Sputa qui, s’il vous plait, thank you”. E’ il paradigma dell’ibridismo contemporaneo, un magma di accenti e lingue tale da richiedere la fermezza finale di Adso davanti alla bella diavola senza nome per essere compreso. C’è chi si inventa le parole e ancor di più chi, come nel libro, si nutre di lacerti, brandelli di varie lingue con cui è venuto a contatto per dire qualcosa. Ma cosa. Se camminiamo per strada il castigo divino pare vicino. Favelle delle più bizzarre, glossari propri – LOL per “ma che risata!”, omg per “oh my god!”, boscata per “sgamata, fatta franca” – codici economici come il linguaggio dei segni, a questo ci ha abituato il web. Il campo di battaglia per un recupero di una comunicazione chiara, di senso, è la pazienza. Sommata all’ascolto, potrebbe permetterci di esercitare la lingua, propria o altrui, con la precisione di uno scrivano medievale sgombrando il campo (oggi più che altro l’ipertesto) dalla selva di acronimi e dalle strambe epifanie lessicali. Tornare a parlare bene, o semplicemente imparare a scrivere bene, attiene alla sfera della volontà di conoscere. Ma in quanti siamo ad esercitare tale volontà? Nel pleistocenico Ottocento ci ha spinto in questa direzione la rivoluzione socialista. Con il Manifesto del Partito comunista, Marx ed Engels videro nella decima misura - educazione pubblica e gratuita per tutti – il riscatto della classe operaia, l’abbattimento di un privilegio fino ad allora esclusivo della classe borghese. Lo sviluppo del sapere come base su cui rivendicare autonomia, libertà da un giogo culturale ed economico che il particolare contesto storico non aveva fino ad allora favorito. Per una parte del mondo la fotografia è ancora la stessa, il ciclico andamento della storia fa correre su due binari paralleli le premesse, con la conseguenza che alle rivoluzioni di piazza di Milano e Berlino, coeve del manifesto, oggi si sostituiscono le primavere arabe e altri imperialismi economici. Risultato, ancora analfabetismo. Parlare non è necessario, scrivere lo è ancora

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La lingua prigioniera meno, segnava ai posteri Tullio de Mauro nella Guida all’uso delle parole, e siccome una vita di silenzi è da escludere dovremo dire che anche se le parole non sono tutto aiutano comunque a vivere. Capita soprattutto in carcere, società nella società che ha regole proprie persino intorno alla lingua italiana. Che è, citando testualmente alcuni detenuti discenti, “fantasia, cultura, bellezza, moda, arte, difficile”.

Tutto vero, come è vero che la lingua è un organismo vivente che si assicura la continuità anche tra gruppi diversi per valori, origini e conoscenza. La convivenza forzata ne genera una che, seppure assomigli di più alle “disiecta membra” del monaco Salvatore, vuole risolversi nella semplicità e nell’immediatezza. Dal burocratichese e giuridichese che governano i corridoi del carcere di Sollicciano, hanno la meglio “appuntato, ispettore, domandina, spesino”, mentre dal quotidiano la spuntano “luce e doccia”. Al di là delle strette necessità, Freud avrebbe detto che c’è un inconscio in cui si sublimano il desiderio di tornare al chiaro di un cielo vero e ad una pulizia morale, di andare verso un uomo nuovo e finalmente libero. E’ sempre grazie ad Alberto Morino, filologo e volontario all’interno del penitenziario fiorentino, che abbiamo la riprova che per almeno un campione ristretto di persone – uomini e donne - l’obiettivo è proprio questo. La rinascita, come anche la difesa o il recupero dell’identità, si avvia con un’offerta formativa che va dai corsi di alfabetizzazione L2 (seconda lingua per gli stranieri), istruzione primaria e secondaria, al prestito librario. Vi sono ben tre biblioteche per celebrare l’antifarheneit, qui possedere o leggere un libro è l’unica cosa che non costituisce reato. Le donne lo sanno meglio degli uomini: 30 su 90 vincono la reclusione con l’intelletto, portano avanti la curiosità verso la lingua ospitante e una cultura di base, quando addirittura non evoluta. Dalle poesie a Fabio Volo, toccando Kafka e Tolstoj. La lettura è favorita da oltre 3000 volumi (per le donne) in varie lingue (russo, albanese, arabo, cinese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese) e dal fatto che le ore di lezione si svolgono in una delle aule adiacenti alla biblioteca. Solo per passare il tempo o per crescere in cultura, il quadro che emerge è che l’interculturalità non osta all’apprendimento dell’italiano, diventando per i più lungimiranti il bagaglio più importante su cui ricostruire l’inserimento in società.


di Luisa Moradei L’impegno delle Gallerie degli Uffizi nel far emergere la figura della donna come artista si conferma quest’anno con la mostra, inaugurata simbolicamente l’8 marzo, Maria Lai,”Il filo e l’infinito”. La mostra, curata da Elena Pontiggia, è allestita nell’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti e resterà aperta fino al 3 giugno. Maria Lai era un’artista sarda dotata di straordinaria forza creativa, nel corso della sua lunga vita aveva sperimentato vari linguaggi espressivi che possiamo ritrovare nelle opere presenti in mostra e che spaziano dal realismo alle scelte informali passando per i lavori polimaterici e le opere concettuali. Prima di inoltrarsi nelle sale espositive è opportuno soffermarsi su un filmato molto interessante che fornisce la chiave di lettura per comprendere il messaggio artistico della Lai e che si riferisce alla prima opera relazionale mai compiuta in Italia “Legarsi alla montagna” del 1981. Le immagini documentano lo svolgersi dell’azione collettiva realizzata con il coinvolgimento di tutta la popolazione di Ulassai (il paese sardo in cui Lai è nata). L’origine di questa azione trae spunto da una leggenda del luogo che narra di una bambina rifugiata in una grotta durante un temporale ma che attratta da un bellissimo nastro librato nel cielo esce dal riparo per seguirlo; il gesto, apparentemente avventato, la sottrae ad una terribile frana. Seguire la bellezza si è dimostrato salvifico. Maria Lai ripropone il tema della bellezza associandolo ai legami che uniscono una comunità. Il nastro della leggenda è sostituito da tantissime strisce di tela azzurra, lunghe complessivamente 26 chilometri, che vengono annodate dagli abitanti di Ulassai, vecchi e bambini compresi. Le lunghissime strisce vengono poi tese da tetto a tetto, da terrazzo a terrazzo legando fra loro porte, finestre e ringhiere e soprattutto intrecciando fra loro case e famiglie del paese creando così una vera e propria tessitura umana. Il senso del legame viene esteso anche al territorio e i capi di queste strisce vengono ancorati alla roccia della montagna che sovrasta il paese, in attesa di essere consumati dai venti e dagli agenti atmosferici. Con questa opera effimera che ribadisce il suo messaggio artistico fondato sul legame e sulla relazione Maria Lai viene proiettata nel panorama artistico internazionale. Nella prima sala della mostra troneggia l’opera totemica Oggetto-paesaggio, realizzata nel 1967 con parti di telaio assemblate, percorse da fili di spago che si rincorrono tra licci e subbi ignorando ogni regola tessile. Il telaio, strumento dell’arte casalinga delle donne sarde, qui scomposto e privato della sua ragione funzionale, sembra voler alludere, o più

Il filo e l’infinito

direttamente suggerire, possibilità relazionali fondate su intrecci e legami. In questa e altre opere i telai funzionali diventano concettuali avvicinando Maria Lai al movimento dell’arte povera tenuto a battesimo da Celant. In un’altra sala vengono presentate numerose pagine incorniciate, pagine di stoffa su cui la scrittura si materializza mediante cuciture a macchina che utilizzano il sopraggitto, il punto occhiello, la filza o lo zig-zag. I punti tracciati si arrestano lasciando che i fili fuoriescano dalle cornici e si aggroviglino fra loro. Stoffe di materiali e colori diversi ospitano scritte cucite con fili differenti rappresentando così una sorta di meditazione sul linguaggio che viene riproposta nell’opera “Lenzuolo”. L’indagine sul linguaggio si conclude quando le singole pagine o le parti del “Lenzuolo” vengono assemblate per diventare libri. Con questo percorso Maria Lai si inserisce nelle ricerche del libro d’artista che aveva-

no interessato tutto il secolo, da “Contemplazioni”,il liber mutus di Arturo Martini, ai libri oggetto futuristi, fino al concettualismo degli anni ’70. I libri della Lai si caratterizzano per un suggestivo valore tattile conferito dalle diverse consistenze delle stoffe e dei filati che lasciati sciolti costituiscono sempre un elemento variabile dell’opera. Molti di questi libri si compongono di fiabe visive le cui illustrazioni realizzate con la stoffa si presentano come una sorta di collage cucito. Ci si sposta da una sala all’altra, si torna ad osservare ripetendo il percorso, si indugia ad uscire come trattenuti da una forza sottile, da un filo invisibile che ha finito per irretirci; al medesimo tempo ci accorgiamo di aver tessuto, con il nostro reiterato percorso attraverso le sale, un intreccio ideale con le opere in mostra, osservatori e protagonisti di una “relazione”, di quel metaforico “legame” che costituisce il tema principale della poetica di Maria Lai.

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di Mario Preti La mia analisi segue i quattro elementi di Progetto che ho illustrato negli articoli precedenti proprio per dare credibilità alle conclusioni che trarrò da questo sito. Essi sono: Le Figure Geometriche con le simmetrie; l’Orientamento; i Numeri; la Misura. Le tracce archeologiche di costruzioni e strade ritrovate sul sito di Gonfienti sono sparsi per un’estensione (attuale) di circa 400x400 mt, che possiamo considerare un’area compatibile con quelle di molte città etrusche e con la figura base della loro divisione spaziale che in epoca arcaica era basata sul rettangolo Bur di 360x720 cubiti (180x360 mt) e poi sul quadrato-doppio Bur di 720x720 cubiti (360x360 mt). Fra questi spiccano i resti delle basi murarie di un edificio imponente di circa 30-35x35-40 mt ubicato nella parte terminale del cono detritico di deiezione che accoglie l’abitato, non lontano dello sbocco del torrente Marinella nell’alveo del Bisenzio. Ho avuto a disposizione per l’analisi soltanto le foto aeree (Google Earth) da cui ho tratto le misure sommarie e l’orientamento, più preciso delle misure. Ho usato per anni in molti altri casi le foto aeree, sviluppando metodologie geometriche che mi hanno sempre fornito buoni risultati. Le foto aeree sono fondamentali per gli orientamenti, perché troppo spesso i rilievi archeologici non li hanno precisi, che è stranamente un altro degli strumenti che oggi è poco considerato nelle analisi archeologiche. L’edificio, che risale al VII-VI sac, è stato definito una “domus di un’agiata famiglia etrusca”, ma la mia analisi non concorda. Vediamone i motivi. Se sovrapponiamo delle griglie geometriche alla planimetria, si può agevolmente scoprire che quella che meglio concorda con le strutture murarie è composta da 5 quadrati nella parte corta e 6 in quella lunga (all’interno delle murature). L’angolo SE è retto; il lato W è leggermente piegato in fuori; quello N, un poco piegato all’interno. Il cortile interno non rispetta le simmetrie generali. Un approfondimento sulle misure porta a una maglia quadrata di 12x 12 cubiti, e quindi le misure interne del rettangolo teorico 5x6 sono di 60x72 cubiti, cioè misure delle classi 5, Terra e 6, Sottoterra. 72 cubiti è un Acnua etrusco poi Actus latino (120 piedi). Ho esposto nei precedenti articoli che 5x6 sono le dimensioni del tempio vitruviano e che sono riservate a un luogo sacro, non a una domus. Io penso piuttosto al parallelo Palazzo di Murlo, di 120x120 cubiti, diviso in una scacchiera principale di 8x8 quadrati di 15x15 cubiti, con il cortile riservato ad un culto ctonio, che probabilmente è posteriore a Gonfienti; quindi si tratta di un Palazzo o una

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Gonfienti: la domus si muta in palazzo dei numeri primi Reggia, antecedente al tempio Capitolino del VI sac; un unicum in Etruria, per ora; testimone di una tipologia anteriore al Tempio. Il rettangolo 5x6 è conosciuto sacro fino dall’epoca dei Sumeri, cioè dal IV mac, riprodotto perfino nello Shar, la loro misura di 2100x1800 mt che forma anche la divisione spaziale etrusca della Valle dell’Arno. In questi edifici, come a Murlo, il cortile era il luogo di culto, aperto al cielo (come i Templi delle Piramidi in Egitto): per riti solari e forse anche lunari (come nel tempio di Artemide-Uni di Myrina nell’isola tirrena di Lemnos); mentre in altri ambienti si praticavano riti ctoni. La presenza nel Palazzo di Gonfienti delle misure vitruviane 5x6 del tempio etrusco significa semplicemente che erano misure sacre originarie che precedevaDall’alto. Fig.1: rettangolo 5x6 moduli con maglia 12x12 cubiti. Cortile disassato. (CR Mario Preti) Fig.2: cortile 4x5 che genera numeri primi. (CR Mario Preti) Fig.3: livello planimetrico del Cielo. Tutte misure in numeri primi. Orientamento N5:2E. (CR Mario Preti)

no la tipologia templare e sono state adattate a questa per continuità cultuale. Mi sembra un elemento sensazionale. Il cortile di 4x5 (4, come in Cielo; 5, così in Terra), con una maglia di 16x20 cubiti, esprime un culto solare, non uno ctonio ed è stato progettato asimmetrico senza tener conto della scacchiera di base di 12x12. Perché? e perché due muri laterali sono inclinati? Le risposte riguardano i significati delle strutture matematiche dell’edificio, di cui abbiamo conosciuto solo la prima, 5x6 (rapporta la Terra al Sottoterra). Per capire la seconda dobbiamo tracciare le linee di simmetria del cortile fino a incrociare i lati dell’edificio e poi leggere le misure: sul lato corto abbiamo 29+31 cubiti (invece di 30+30), due numeri primi; sul lato lungo, 37+35 (invece di 36+36) dove 37 è il terzo primo consecutivo ai precedenti e 35 va inteso 5x7 dove il 7 rappresenta sempre il passaggio dalla terra 5 al cielo 4. Quindi questo secondo layer è elemento divino, la struttura del Cielo fatta di numeri primi: 5,7,29,31,37. Noi siamo laici e non riusciamo forse a capire la bellezza (Armonia) che i popoli antichi attribuivano alla struttura matematica che garantiva che quel cortile e l’edificio fossero divini. Vorrei segnalare che gli esempi come questo sono innumerevoli in molte culture antiche. Ad esempio la struttura matematica dei tumuli micenei è identica a quelli etruschi. Anche i tre imponenti tumuli della Valle dell’Arno, coetanei al nostro Palazzo mostrano strutture matematiche complesse. Ora vediamo la ragione delle due inclinazioni osservate sulla parte W: quei due lati che si incontrano nell’angolo NW, hanno misure in numeri primi: il lato lungo misura 71 cubiti e quello corto 61. Cioè, con questa operazione, la planimetria divina è composta di lati tutti definiti da numeri primi: 61,71,(31+29), (5x7)+37. La terza griglia, il sottoterra, è composta di (10x6) x (12x6) moduli quadrati. Tre griglie, una per ognuno dei tre elementi del cosmo. È l’Armonia che ricercavano. L’orientamento del Palazzo è N5:2E, forse addirittura coincidente con quello dell’abitato e probabilmente progettato organico con altri del territorio intorno: la Piana è N5:3E; l’inclinazione della via appenninica è N5:1E. Può essere un caso? Lascio a un’altra volta le considerazioni sui modelli originari del nostro Palazzo e su altri elementi della suddivisione interna che qui non trovano posto.


di Giuseppe Alberto Centauro L’identificazione di Mario Preti che per la domus di Gonfienti riconosce su inconfutabile base matematica, geometrica e dimensionale, trattarsi di un palazzo fondato su precisi canoni architettonici, ovvero di uno spazio proporzionato sui “numeri primi”, quelli stessi che Vitruvio indica essere riferibili all’edificazione di un tempio, dimostra una volta di più la straordinaria rilevanza delle strutture etrusche rinvenute nel Lotto 14. Una simile caratterizzazione la può avere solo una reggia che nel progetto antico delinea o contiene per definizione lo spazio del sacro da dedicare alla divinità protettrice del luogo. Per comprenderne meglio l’importanza si pensi che il Palazzo di Gonfienti è il doppio per estensione della più o meno coeva (VI sec. a.C.) “Domus regia dei Tarquini” a Roma, nel Forum Magnum sotto il Palatino. Questa rivelazione apre indiscutibilmente nuovi orizzonti di ricerca, di grandissima valenza culturale e storico-urbanistica, per promuovere le future introspezioni archeologiche. Infatti, come ben si evince dalla ricostruzione cartografica dell’assetto territoriale a nord dell’insediamento di Gonfienti, in particolare tra Pizzidimonte e la conca di Travalle, si sviluppa il lucus (bosco sacro) che ospitava il santuario dell’Offerente, potendosi trattare di porzione di un più vasto “temenos”, appezzamento di terreni recinti di spettanza regale, che dai piedi della collina arrivava fino all’acropoli situata in cima al poggio, come già suggerivano le osservazioni in situ e gli studi di topografica antica e geo-antropici condotti qualche tempo fa di cui tratteremo in successivi articoli (cfr. G.A. Centauro, Ipotesi su Camars in Val di Marina. Dalla città etrusca sul Bisenzio all’identificazione di Clusio, NTE 2004).

La reggia santuario di Gonfienti, una rivelazione senza precedenti

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di Simonetta Zanuccoli La vera verità, la paura e la miseria e cosa veramente ci hanno fatto io non te lo posso raccontare, non risesco a trasmettertelo... Ceija Stojka aveva 11 anni quando il filo spinato del campo di sterminio di Bergen-Belsen venne divelto da un carro armato inglese. Era là da pochi mesi trasferita insieme alla madre da Auschwitz, dove era stata rinchiusa a 7 anni, e sarà una delle poche sopravvissute al genocidio degli zingari (Porrajmos – Olocausto in lingua Rom). Suo padre era morto a Dachau nel 1941, sua madre aveva cercato di nascondere i suoi 6 figli ma, due anni dopo, anche il resto della famiglia venne deportato. Divenuta grande Ceijna si era trasferita a Vienna, aveva avuto 3 figli e campava vendendo tappeti nei mercati. Per tutta la sua vita era rimasta in silenzio fino a quando una giornalista, Karin Berger, che stava facendo una ricerca sulle donne nei campi di sterminio non la contattò e la persuase a rompere il muro che aveva costruito intorno alla sua tragica storia e a raccontare. E lei, che non aveva mai studiato, comincerà a narrare la storia dell’orrore ma anche del potere della vita attraverso un libro, Forse sogno di vivere? (pubblicato in Italia nel 2007), la poesia, la musica, i quadri, a volte realizzati in una notte, spesso con le sole dita o con macchie d’inchiostro. E sul retro delle tele, quasi per far comprendere meglio quello che raffigurano, scriveva i suoi sentimenti infantili mescolati agli ordini delle guardie e al ricordo di brevi dialoghi con la madre. La testimonianza pittorica di Ceija Stojka è così sconvolgente che il fondatore della Maison Rouge, Antoine de Galbert, non appena scoperto i suoi lavori ha deciso di rimandare alla prossima estate la chiusura definitiva di questo prezioso e unico spazio espositivo parigino, per dedicarle una mostra fino al 20 maggio. I 130 quadri esposti sono come un unico racconto dalla lettura non facile perchè la commozione per quello che occhi di bambina hanno visto richiede spesso una pausa. All’inizio una vita semplice, immersa nella natura, quando i vecchi cantano e raccontano storie, una roulotte come casa, un campo di girasoli gialli dove lei si nascondeva con il fratellino Ossi (morto a 7 anni nel campo di sterminio, come annota sul retro della tela), papaveri rossi, la neve. Ceija è abituata a vivere libera, le piacevano la pioggia, il vento e il fulmine, le nuvole che nascondono il cielo. All’improvviso tutto cambia.

14 24 MARZO 2018

La biancheria da asciugare pende ancora sui fili ma i carri sono vuoti e silenziosi. Gli squillanti colori dei rom contrastano con quelli scuri dei nazisti, le forme umane, ormai senza volto e identità, vengono premute le une contro le altre, un treno con la svastica corre lontano in un cielo rosso, il filo spinato, gli stivali delle guardie, enormi e minacciosi agli occhi di una bambina così piccola, le baracche con i letti a castello, i corpi nudi che avanzano verso i forni crematori, il fumo del quale ti sembra quasi di sentirne l’odore. Annota Ceija spesso quando si rientrava dopo l’appello mia madre diceva di pulirmi le labbra annerite dal fumo. E poi il freddo e la morte c’erano pile di morti e io ci camminavo in mezzo come un topino...era il solo posto dove c’era calma e dove mi potevo

proteggere dal vento. Ma anche i corvi che volano liberi nel cielo e le erbe selvatiche che crescevano vicino al filo spinato e che, mangiate con avidità, avevano il sapore dello zucchero. Nel bellissimo filmato di un’intervista a Ceija che accompagna la mostra lei dice oggi sono libera e metto fiori sul mio balcone. Ma perchè mi hanno fatto questo? Perchè mi hanno rubato l’infanzia? Perchè trattarmi come un rifiuto sociale?...Noi comunque li consideravamo esseri umani creati da Dio. Ma loro non provavano nulla. Bruciavano persone vive o li gassavano senza neanche capire cosa stessero facendo. Fino alla sua morte nel 2013, Ceija Stojka contribuì attraverso la sua arte a diffondere la conoscenza dello sterminio degli zingari.

La commovente testimonianza Ceija Stojka rom sopravvissuta ai nazisti


di Danilo Cecchi Nella fotografia di strada, che molti si ostinano a chiamare in maniera più sofisticata ”street photography”, adottando la comune dizione anglo-americana, forse per esibizionismo e snobismo, o forse perché in italiano il termine “di strada” conserva un che di dispregiativo, o almeno di poco nobile (mercante di strada, musicista di strada, artista di strada, e così via fino alla vituperata donna di strada), fra i molti autori noti che hanno operato nelle maggiori città europee o statunitensi, si trova il nome di Tony Marciante, un personaggio di cui le cronache non hanno conservato molto, né una data di nascita, né altri dati biografici, ma le cui immagini continuano ad essere proposte con una certa frequenza e diffusione, almeno in quella sorta di enciclopedia della fotografia mondiale che è diventato il web. Di Tony Marciante si conosce pochissimo, si sa che sua nonna è arrivata in America nel 1909, e si intuisce una origine italiana, si sa che è nato a Brooklyn, si immagina negli anni Trenta, o comunque fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Quaranta, e si sa che ha operato a New York negli anni fra i Sessanta ed i Settanta, vivendo nell’East Village sulla Settima strada, per poi ritirarsi sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Si immagina anche un personaggio schivo e riservato, uno che non ama parlare di sé, né che si parli troppo di lui, un fotografo che lascia che siano le sue immagini a parlare, a raccontare la città, con i suoi abitanti, comuni o stravaganti, con i suoi momenti, quotidiani o straordinari, e che siano ancora le sue immagini a parlare del loro autore, del suo modo di relazionarsi con gli altri e con il mondo. Perché anche in fotografia, benché sia la meno calligrafica e la meno auto narrativa delle arti, l’opera racconta comunque qualcosa del suo autore. Nel caso della fotografia di strada le immagini raccontano di come il fotografo si muove fra la gente, di come avvicina le persone, di come le inquadra, di come le considera, di come le giudica, di come le astrae o le inserisce nel contesto urbano e narrativo. Raccontano come si muovono i suoi piedi, ma soprattutto di come si muovono i suoi occhi, di come inseguono lungamente un personaggio, oppure di come se lo trovano davanti improvvisamente, delle sensazioni che da questi personaggi e da questi incontri vengono suscitate. Le immagini di Tony Marciante raccontano un fotografo che si mescola con la gente, si pone al loro livello, racconta le loro storie con semplicità, senza artifici, enfasi o forzature, cercando la loro complicità piuttosto che la loro indifferenza, senza molestare o prevaricare, senza provocare, schernire o distorce-

Tony Marciante Street Photographer

re, ma anche senza chiedere, mettere in posa o interferire con la vita che scorre, le azioni che si compiono, i rapporti che si intrecciano. Il fotografo è sempre presente nelle sue immagini, anche se non compare fisicamente, egli si avvicina alle persone, sole o in piccolo gruppi, guarda i comportamenti, i gesti, le espressioni, fa sentire la sua presenza senza disturbare, a volte raccoglie un sorriso o un mezzo sorriso, a volte una smorfia o uno sguardo interrogativo o perplesso, quasi mai uno sguardo infastidito o adirato. I personaggi di Tony Marciante sono inseriti nell’ambiente della strada, sui

marciapiedi, davanti alle vetrine o nei negozi, fanno parte della scenografia urbana, sono i protagonisti della vita che scorre nelle strade, sono coloro che animano la scena, non sono le comparse di un film immaginario, non sono le marionette di uno spettacolo scritto da altri, sono gli attori principali ed indiscussi di quel grande teatro che è la strada, un teatro in cui si alternano dramma e commedia, in cui non si ripetono mai le stesse scene, in cui i racconti si rinnovano sempre, un teatro senza tempo e senza confini. Un vero e proprio teatro “di strada”.

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di M.Cristina François Riprendendo il mio articolo sulla Cappella Capponi [“Cultura Commestibile” n.254] vorrei qui ricollegarmi all’immagine dei due giovani nell’atto di calare il corpo di Cristo sulla Mensa d’Altare come evocazione del Mistero salvifico (A.Natali); Altare che è “la residenza del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo” [S.Ottato di Milevi, “Adversos Donatistas”, Libro IV]. Poiché i due cristofori che fissano fuor del dipinto il riguardante - sia esso l’Officiante o il Fedele che assiste alla Messa - sono da considerarsi figure ‘guida’ che conducono l’attenzione verso il principale soggetto del dipinto, mi sembra essenziale, per indagare il messaggio che l’artista e i suoi committenti hanno inteso trasmettere, prendere in esame ciò che i due angeli “senz’ali” stanno facendo e perché. Sarà inevitabile “riandare alla crisi religiosa che a quell’epoca devastò l’universo cristiano” [A.Natali, “Pontormo. la Deposizione”, Cinisello Balsamo, 2003, p.18]. Aggiungerei che, considerata la critica luterana nei confronti del significato profondo della Messa, sarà altrettanto inevitabile esaminarne rito e parole che lo accompagnano proprio al momento del ‘Canone’ quando il Sacerdote cattolico recitava: “Onnipotente Iddio, noi Vi preghiamo con umiltà di comandare, che queste cose siano portate dalle mani del Vostro Santo Angelo al Vostro sublime Altare” [Editio Princeps Missale Romanum, 1570]. Ammesso - almeno a parer mio - che Natali abbia ragione quando, seguendo la sua esegesi agostiniana, riconosce nei giovani cristofori delle figure angeliche anche se prive di ali [Natali, pp.41-55], occorre in relazione a questo punto della Messa ricordare la contestazione di Lutero relativa a tale preghiera: “Quaeso, num Corpus Christi iam non in Cœlis, et quidem dudum est?”, obiezione che i teologi Luterani continuarono a formulare, tant’è che un Professore di Tubinga in una sua “Dissertazione” pubblicata il 21 febbraio 1749, ribadisce a favore dei “Novatori” (cioè i Luterani) che: “Bisogna dunque che un Angelo porti il Corpo di Cristo al Cielo? Questo Corpo non è lassù da gran tempo?”. E la polemica su questo punto è tanto importante che essa viene ripresa successivamente dal Padre Gesuita Thomas Seedorf che così scrive: “Con questa preghiera non dimandiamo già, che un Angelo venga a levare il Corpo di Gesù Cristo per portarlo al Cielo: Lutero, che vuole assolutamente farci passare per istolti, ci presta questa ridico-

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“Bene me pinxisti, Jacobe”

la idea […] cioè che per render grata a Dio l’oblazione del Corpo e del Sangue del Suo Figlio, fa d’uopo impiegarvi il ministero d’un Angelo?” [P.Thomas Seedorf, “Lettere sopra diversi importanti punti di controversia”, Firenze, Tip. Andrea Bonducci, 1754, pp.5-6] e si collega, per confermare la sua fede canonica, al “De Sacrosancto Missæ Sacrificio” del Papa Benedetto XIV. Da

queste riflessioni si ricava che la presenza nel dipinto del Pontormo di Angeli che servono sulla Mensa durante la liturgia, vuole significare in termini agostiniani, “Cristo pane dell’Altare, pane degli angeli, pane del cielo” [Natali, p.55] e vuole essere un messaggio esplicitamente antiluterano, tanto più che le figure angeliche si ripeteranno “nelle pale eseguite da pittori della contro-


Pontormo e i novatori riforma, che della presenza di Cristo, in corpo e in sangue, nell’eucarestia faranno uno dei soggetti più frequentati. E lì gli angeli saranno i quasi onnipresenti comprimari” [ivi, p.54]. Quanto alla raffigurazione di un Cristo morto, ma privato di tutti i segni cruenti delle atrocità subite come vittima sacrificale (fatta eccezione per le ferite simbolicamente qui appena accennate: al costato, alle mani e ai piedi, ferite che non potevano ‘canonicamente’ essere del tutto ignorate), anche questa è una chiara risposta a un’altra critica luterana di fondo, ripresa e contestata dal Padre Gesuita: “La Messa va considerata secondo la sua parte essenziale, che è l’oblazione del Corpo e del Sangue adorabile di Gesù Cristo, deve essere riguardata come un vero Sagrifizio della Nuova Legge […]. Io dico in poche parole, che nella Chiesa di Gesù Cristo vi dee essere un vero Sagrifizio del Corpo e del Sangue adorabile di questo divin Salvatore, sotto le specie di pane e di vino. Or nella Chiesa Luterana non si offerisce punto questo Corpo e questo Sangue adorabile in sagrifizio sotto le specie di pane e di vino. Dunque la Chiesa Luterana non è la Chiesa di Gesù Cristo” [P.Seedorf, pp.2-3]. Lo stesso Gesuita continua citando proprio le Sacre Scritture (Profezia di Malachia I, 1011 e anche il Salmo L, 19). Malachia dice che Dio rigetta i sacrifici dell’Antica Legge per uno più puro che sarà offerto per tutta la terra, cioè si intenda - nell’ottica del Gesuita e della Chiesa di Roma - la Messa cattolica. Questo sacrificio più puro, però, non è come dicono i Luterani solo “un sagrifizio interiore”, dal momento che “Il Sagrifizio interiore dello spirito, e del cuore, non è un Sagrifizio nuovo: esso è stato offerto dai Giusti dell’antica Legge [come testimonia il Salmo L, 19]”. Un sacrifizio solamente puro e interiore era già nell’Antica Legge e quindi non è “un Sagrifizio nuovo, del Nuovo Testamento, come quello di Gesù in Croce”. Perciò in tale prospettiva Lutero si contraddice quando non vuole credere che nel-

la Messa cattolica il Sacrificio si rinnovi realmente in Corpo e Sangue sotto le specie del Pane e del Vino. Più tardi, all’“errore” di Lutero per cui non avveniva Transustanziazione e perciò “non si faceva alcuna mutazione di sostanza”, dei Luterani “meno rigidi” aggiungeranno un altro “errore” che consisteva nel fissare “la presenza reale nel solo momento della manducazione” [ivi, p.38]. Pontormo, quando dipinge un Cristo morto privato dei crudi segni di una morte temporale, cioè di un contesto storicizzato, rappresentato “in una figurazione astratta (e non solo formalmente astratta; ma anche avulsa da qualsiasi resoconto scritturale)” [Natali, p.37], raffigura un Cristo ‘eternamente immolato’ per le celebrazioni di tutte le Messe di tutti i tempi e di tutti i luoghi, come fa intendere appunto la Profezia di Malachia citata dagli anti-luterani: “Non mi compiaccio di voi, dice il Signore degli eserciti, non accetto l’offerta delle vostre mani! Poiché dall’oriente all’occidente grande è il mio nome fra le genti e in ogni luogo è offerto incenso al mio nome e una oblazione pura, perché grande è il mio nome fra le genti, dice il Signore degli eserciti”. Il Gesuita Padre Thomas Seedorf ribadisce queste antiche tesi anti-luterane portandole avanti nelle sue “Lettere” del 1754. Quando Natali sottolinea che il titolo di “Cappella della Pietà” voluto dai Capponi “era pertinente all’intenzione di farne la cappella funebre di famiglia” e aggiunge che “ovviamente si può ben comprendere la compatibilità delle scene legate alla morte di Cristo con l’intenzione del committente” [Natali, pp.23-24 e M.C.François “La Cappella Capponi: oltre Pontormo”, Cultura Commestibile n.230] rievoca un’altra grande controversia antiluterana e addita, insieme a chi commissionò la Cappella Capponi e le sue opere, una delle grandi questioni dei “Novatori Luterani”: la celebrazione delle Messe Cattoliche per la salvezza delle anime dei defunti. A loro volta, per difendersi da questa accusa, i Cattolici

ricorrevano tra l’altro ai testi di San Cipriano: infatti, questo Santo Vescovo aveva attestato come fin “dai tempi suoi e, molto avanti lui, vi era la pratica costante d’offerire il Sagrifizio per li Fedeli morti nella pace della Chiesa” [S.Cipriano, Libro II, Epistola 3]. Dunque, osservare le pratiche della Chiesa primitiva non doveva essere motivo d’accusa da parte di Lutero. Padre Seedorf ribadisce ancora alcuni secoli dopo: “l’uso di offerire il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo in sagrifizio per li vivi e per li morti è stato sempre riguardato ne’ primi Secoli della Chiesa, e ne’ tempi più vicini agli Apostoli, come l’azione la più sagrosanta, la più rilevante di nostra Religione” [P.Seedorf, p.15]. Così la Cappella Capponi diventa di per sé - almeno su questo tema - un ‘manifesto’ anti-luterano. Infine, sempre esaminando il Canone della Messa, i ‘Novatori’ contestano ai Cattolici “d’offerire il Sagrifizio alla SS.Vergine, a S.Pietro, a S. Paolo, e agli altri Santi”. Nell’ambito di quello che sarà un secolare dibattito, Pontormo non esita a fare del dolore della SS. Vergine l’immagine centrale del dipinto, a proclamarne il Suo lutto e - senza per questo voler raffigurare una Latrìa agli occhi dei Luterani - privilegiare la Madonna sfidando qualsiasi loro possibile critica.

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di Bruno Lombardi Per interpretare la situazione politica del nostro Paese e per tentare di prevederne l’evoluzione propongo un paragone irrispettoso nei tempi e nelle conseguenze. Propongo un paragone irrispettoso così come irrispettosi sono stati i “whatsapp”, diffusi in rete, canzonatori di questo o quel politico di rilievo o, talvolta, di tutti insieme. Nel 1949, dopo la sconfitta dell’esercito giapponese a Guandong, da parte dell’armata rossa sovietica, viene proclamata la repubblica popolare della Cina. Dopo alcuni (pochi) anni di cooperazione fra l’URSS e la Cina, per aiutarla a risollevare un’economia ed un’organizzazione sociale allo stremo; nel 1957 i rapporti fra i due Paesi si incrinano e la Cina prova “a fare da sola”. La Cina è essenzialmente un’economia agricola e gli sforzi si concentrano sull’industrializzazione. Nel 1958 Mao annuncia ed avvia il Gran balzo in avanti che in pochi anni manifesta i limiti, e le gravi conseguenze, dell’utopia che basta volere per raggiungere un obiettivo di ambizioso cambiamento. Un obiettivo ambizioso si raggiunge, certo, avendolo definito e comunicato a chi lo deve produrre, ma soprattutto se esistono, nelle persone che devono produrlo, le capacità, i mezzi e l’organizzazione necessari ad una così grande impresa sociale. La Cina aveva alle spalle un impero chiuso su sé stesso e, poi, una guerra in casa contro i giapponesi per non prendere in conto la contesa interna e, poi, la guerra civile fra il Kuomintang di Chiang Kai-Shek ed il PCC e l’armata rossa cinese di Mao Zedong. Insomma, la Cina di Mao, con il Gran balzo in avanti, avrebbe voluto un rapido progresso dell’economia, ma non ne aveva le capacità (che richiedono tempi lunghi per costruirle). L’illusione venne mantenuta con la comunicazione, dalle periferie a Pechino, di successi e dati quantitativi che non avevano riscontro nella realtà La constatazione dei danni prodotti dal (fallito) Gran balzo in avanti, e l’indebolimento della sua posizione politica, inducono Mao, con il supporto logistico di Lin Biao, a “far nascere spontaneamente” la Rivoluzione culturale che produrrà certo dei cambiamenti, ma anche la decimazione dell’elite culturale della Cina, e che terminerà nel 1976 con la morte di Mao e l’arresto della “Cricca dei quattro”. A fine 2001 la Cina divenne membro del WTO dopo un lento, ma progressivo, periodo di accordi e scambi commerciali iniziati all’inizio degli anni ’80. L’ingresso nel WTO avvenne solo dopo l’impegno della Cina a modificare

18 24 MARZO 2018

Il paragone irrispettoso (liberalizzare?) i settori dei servizi, della distribuzione, delle banche, …. In questi ultimi anni la Cina appare, nelle relazioni internazionali, più liberale di altri Paesi che vantano una più antica tradizione liberale. Ma si può fare un paragone fra la Cina e l’Italia? Solo in parte, con un po’ di fantasia, e raffrontando i due Paesi in epoche diverse (Cina dal 1958 ad oggi. Italia dal 2008 ad oggi), ma ci sono spunti interessanti, a mio parere, per intravedere dove l’Italia può andare se la politica la indirizza verso ciò. Annunciare grandi e tangibili miglioramenti nella vita delle persone va spesso a cozzare contro il sentimento delle stesse persone che si confrontano, ogni giorno, con le stesse difficoltà, limiti ed insicurezze che esse provano da circa 10 anni. Durante la campagna elettorale 2018 non ho constatato una forte e decisa volontà di alcun partito o movimento a disegnare un obiettivo ambizioso per l’Italia; solo promesse con effetti a breve termine. Un obiettivo ambizioso si raggiunge avendolo definito e comunicato a chi lo deve produrre, ma soprattutto se esistono, nelle persone che devono produrlo, le capacità, i mezzi e l’organizzazione necessari ad una grande impresa sociale. Se non c’è una proposta di obiettivo sociale di medio-lungo periodo non ci sarà sicuramente alcun risultato di medio-lungo periodo. Se c’è l’obiettivo e non esistono le condizioni materiali per raggiungerlo l’esito negativo è scontato. Da tempo si assiste ad una certa “liquidità” delle elite culturali (i giornali vendono di meno, le TV fanno audience con programmi di intrattenimento, la scuola e l’università perdono i migliori docenti, molti ricercatori emigrano, …), mentre si assiste ad un accelerato ricambio dei personaggi politici per i quali il nuovo non sempre è meglio. La rete diffonde informazioni errate o, almeno, incomplete, che inducono a creare delle (anche) involontarie “fake news” (ove non sono delle vere fake news). Le “fake news” somigliano molto ai Dazibao della Rivoluzione culturale perché, pur essendo spontanee e provenienti da varie origini, sono molto diffusive e colpiscono più l’opinione pubblica (che deve votare) che il soggetto di cui si tratta. Nei fatti, come i Dazibao in epoca di Rivoluzione culturale, essi non possono essere rimossi senza il consenso dell’autore (perché la loro diffusione è virale).

La cooperazione internazionale, in particolare con l’Europa UE, è difficoltosa e mal percepita perché impone vincoli che da soli non ci si impone; la Cina è riuscita da sola ad emergere anche dopo la conclusione delle relazioni di cooperazione con l’URSS, ma ci ha messo poco meno di 50 anni! Allora, cosa proporre dopo questa succinta analisi della situazione nella quale si trova l’Italia? L’Italia deve avere un progetto a due livelli, ma con forti interconnessioni fra i due livelli: Livello interno

Economia: migliorare la scuola, l’università e supportare fortemente la ricerca in alcuni settori (es.:farmacologia, medicina, intelligenza artificiale, robotica, sicurezza, …). Convivenza civile: ripensare l’organizzazione e la struttura territoriale delle forze di polizia, anche cittadine, per migliorare il controllo diffuso del territorio ed eliminare inciviltà e piccola delinquenza. Continuare e monitorare il contrasto alle mafie. Immigrazione: selezionare e preparare gli immigrati con diritto di asilo e quelli utili all’economia ed alla convivenza civile con programmi di formazione utili alla politica economica del Paese. Livello Europa (UE)

Economia: sostenere progetti e programmi europei il cui obiettivo sia di creare delle capacità coordinate a livello europeo per produrre ed esportare nel mondo tecnologie competitive, quali quelle derivanti da un esercito europeo (armamenti), quelle della cura ai malati e l’assistenza agli anziani, quelle dell’entertainment (cinema, tv, data base, …) Convivenza civile: definire ed attuare programmi di gestione, selezione e formazione di un numero definito di immigrati in Europa, ripartiti per Paese. L’Italia ha una cultura sociale e scientifica per potercela fare a creare migliori condizioni economiche e sociali di medio-lungo periodo, ma non ha i mezzi finanziari da investire sul medio-lungo periodo, prima di avere un ritorno di tali investimenti. L’Itali è parte rilevante dell’UE e i nostri rappresentanti presso codesta istituzione devono identificare come trarre vantaggio da ciò e neanche pensare un momento ad uscirne! Quindi, la politica in Italia, se vuole dare un progetto concreto di futuro a medio-lungo termine ai suoi cittadini, deve proporre come ed in quanto tempo è possibile migliorare l’economia, la convivenza civile e gestire l’immigrazione, il tutto in cooperazione attiva con l’UE.


di Gianni Bechelli Stephen Hawking è stato celebrato come un’icona pop al momento della sua morte, del resto è stato protagonista di cartoni animati nei Simpson, sketch televisivi, parodie fra celebri scienziati Dai tempi di Einstein non si assisteva ad fenomeno simile. Molta della popolarità è legata senz’altro alla divulgazione di concetti complicati, testimoniato dal successo planetario di “Dal big bang ai buchi neri”, presentati in modo più concettuale che matematico. Celebre anche per il suo realismo circa il rischio della fine della civiltà per responsabilità umana, ma anche per le grandiose possibilità e potenzialità della scienza, fughe in un futuro animato da suggestioni non certe, ma possibili. Un cervello tra i più brillanti del secolo rinchiuso in una situazione di immobilità quasi assoluta, che parlava tramite impulsi muscolari trasmessi ad un computer , eppure sposato due volte con tre figli ,una voglia di vita incredibile, che lo portava a schierarsi . Lui a cui, a poco più di vent’anni, avevano pronosticato due anni di vita, ha contraddetto la scienza, quella medica , ma qualche volta anche quella uscita dalla sua testa di fisico geniale, che pagò dopo decenni una scommessa fatta con un collega circa la perdita d’informazione di ciò che cade in un buco nero. Difensore tenace, a volte quasi presuntuoso, delle proprie idee, ma in grado di ammettere la sconfitta. Quel corpo ossuto e fragile, seduto da decenni su una sedia a rotelle quasi rinvolto in sé stesso, dava contemporaneamente un senso di fragilità e grandezza, di fine prossima e grande futuro, che più che commosso, ci ha turbato nel profondo. Ci ha spiegato una delle cose più incredibili dell’universo: come funziona un buco nero, una spirale di tempo e spazio prodotta da un collasso gravitazionale, di una forza incredibile e a cui niente può sfuggire neppure la luce e in cui tutto precipita dentro un raggio delineato dall’ orizzonte degli eventi, così chiamato, presumo, per il fatto che fin lì le cose si possono conoscere, poi si possono solo presumere con modelli matematici. E gli oggetti che vi cadono quasi immediatamente si distruggono, ma rimane l’informazione su di essi? e cosa c’ è alla fine della spirale? Altri universi prodotti dall’inverso del buco nero e cioè un buco bianco che produce nuove realtà? Lui e stato a lungo scettico sulla possibilità che l’informazione dell’oggetto si mantenesse, salvo ripensarci almeno in parte ragionando sempre più colla fisica quantistica

, che gli ha permesso di dare un nuovo impulso alla termodinamica di un buco nero, scoprendo che in realtà c’è la possibilità che il buco nero emetta una radiazione denominata appunto “radiazione di Hawking” che lo fa evaporare sia pure talmente lentamente che i buchi neri saranno, forse, l’ultima cosa che resterà prima della fine termica dell’universo (almeno stando alle ultime teorie sperando che si sbaglino o che ci sia scampo da qualche altra parte). Questa interazione fra il cosiddetto modello standard, la teoria della relatività e la fisica quantistica lo ha rafforzato nell’idea di cercare e scoprire l’unificazione delle massime teorie scientifiche moderne, e lo ha spinto a pensare un modello di universo che non nasce dal nulla assoluto, ma da una fluttuazione quantistica di un universo senza contorno o confine; pensare di andare oltre, diceva, era come cercare di andare al nord del polo nord, perché lì tutto comincia e finisce

probabilmente da sempre, tanto da pensare alla nascita continua e contemporanea di universi. E’ la legge dei grandi numeri che ci spiega il perché di questo specifico universo che di tutte le storie possibili e passate seleziona solo quelle che portano a questo presente. E ci ha detto che questo modello non ha bisogno di un Dio creatore, in quanto si auto crea. Da laico non dice che Dio non esiste (anche se si è alternativamente definito ateo o panteista non trascendente), ma che il cosmo non ha bisogno di Lui per esistere. L’ eredità scientifica che ci lascia è enorme perché si e davvero spinto con audacia dentro le grande incognite della scienza e il vero valore ce lo dirà ancor più il futuro, ma questa sfrontatezza è il segno di una vita al limite di sé stessa, vissuta colla ferocia di chi ha subito un torto, e che siccome “la vera intelligenza è adattarsi al cambiamento” come lui ha detto, lui si è adattato per andare infinitamente oltre.

La scomparsa di Stephen Hawking: grandezza e fragilità 19 24 MARZO 2018


Bizzarria degli

oggetti

Dalla collezione di Rossano

Bertolini

a cura di Cristina Pucci Grande manifesto, serigrafia su faesite, che pubblicizza un prodotto desueto, credo, tanto quanto l’aspetto grifagno, da strega di Hansel e Gretel, della vecchina che ce lo propone: estratti per liquori e sciroppi Bertolini, che, “per l’economia della famiglia” servono per produrli in casa, e che, forse per questo, necessitano di una vaga nuance di magia. In basso a destra compare “d’aprés Maga Paris”. Proviene infatti da questa famosa “agenzia pubblicitaria” il cui nome deriva dal cognome di Giuseppe MAGAgnoli che la fondò a Bologna nel 1920. Era una agenzia di comunicazione integrata, si occupava di tutto, dalla ideazione e realizzazione grafica alla affissione sui muri delle città, vere “piazze social” per le aziende che si volevano mettere in luce. “Il manifesto è un grido tra la folla. Deve essere raccolto da lontano, sia pure sommariamente. Deve fermare chi passa, deve tirare per la giacca; deve conficcarsi nei casellari della memoria come una sassata. Deve essere il pugno nell’occhio! Il manifesto è la voce dei muri.” Così scriveva un ignoto redattore sulla rivista “Il pugno

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nell’occhio” gestita dalla Maga. Essa aveva come collaboratori i migliori grafici del tempo, fra cui il famoso Cappiello, anche se, per tradizione, non mostrava mai nomi degli artisti, essi preparavano disegni vari ed aspecifici su cui poi veniva inserito il nome della ditta da pubblicizzare ed infine il solo marchio di agenzia. Magagnoli, che aprì una succursale a Parigi e rappresentava la francese Vercasson in Italia, allestì una mostra di tutte le “Maga Creature” ad una Fiera di Milano, aumentandone fama e prestigio. I manifesti pubblicitari del tempo sono una vera e propria forma d’arte. Ora passerei a Bertolini. Nel 1911, età dell’oro dell’industria torinese, il genio di Antonio Bertolini ebbe l’intuizione di lanciare una bustina monodose di lievito per dolci, fino ad allora le massaie si affidavano al loro personale occhio o a quello del droghiere di fiducia per dosare il bicarbonato per far lievitare i loro prelibati impasti. Strepitoso e duraturo successo, interrotto soltanto dalle due guerre. La distruzione e le novità che arrivarono con e dopo la seconda

guerra indussero la Bertolini a grandi spese per rinnovare macchinari e modalità di produzione e distribuzione e anche, e soprattutto, per aggiornare la promozione e la pubblicità. Nel periodo fra le due guerre la Bertolini promuoveva il suo marchio facendo sfilare per le città bellissime macchine d’epoca che lo esibivano, nel dopoguerra si affida alla radio ed al cinema. Nasce così una canzoncina, delicata e dal semplicissimo ritmo che diventerà una specie di tormentone “Per fare buoni dolci che cosa ci vuol? Ci vuole Bertolini!”L’azienda, sempre attenta alle esigenze dei consumatori e stabilmente orientata all’uso di materie prime di ottima qualità, alla fine degli anni ‘40 lancia il “ricettario Bertolini” e inventa “Mariarosa” una bambina brava e semplice, buona e genuina come le torte che insegna a preparare, che lo propone. Esso si diffonde rapidamente e diventa un punto fermo per le donne che amano cucinare dolci ricchi, gustosi e belli e non solo. In alcune pagine di questi ricettari, conservati con cura, consultati con attenzione e tramandati di madre in figlia, compare, oltre le bustina di lievito e di Vanillina anche la magica “boccetta della streghetta” procacciatrice di aromi particolari. Negli anni ‘70 Mariarosa approda in TV, a Carosello ovvio, le sue avventure sono accompagnate da altre accattivanti canzoncine “Mariarosa brava brava, ogni cosa sai far tu, qui la vita è sempre rosa solo quando ci sei tu”


di Paolo Marini Sento da sempre un’attrazione per la strada bianca (o sterrata). Un tempo era la regola nelle nostre campagne. Grazie probabilmente al controesodo dalla città, con il loro ripopolamento, le cose sono cambiate. Andavan bene l’aria buona, la lontananza dai rumori, la vista di ridenti paesaggi, il culto di una vita sana; ma il pacchetto doveva essere setacciato, depurato, proprio perché in campagna (almeno in una prima fase) non si tornava per trarne sostentamento di vita, cioè per fare i contadini; bensì per essere diversamente cittadini e guardare dall’alto i miasmi urbani, il logorìo della vita moderna. E anche tornandovi a lavorare, l’esigenza era (ed è) di portarvi tutti i comfort della vita di città. Così le strade bianche, una ad una, poco a poco venivano trasformate per rendersi consone ai nuovi abitanti, alle loro idiosincrasie e - di più - ai nuovi veicoli, che non erano trattori o altre macchine agricole. Beh, tutto questo si può in parte comprendere ma non si taccia la verità: non c’è paragone tra una via di campagna piena di sassi e sassolini, bianca e magari polverosa, e l’asettica pulizia di una strada col manto d’asfalto. Quando cammini sull’asfalto, il piede presto si stanca, con qualunque scarpa. Mentre lo stradello bianco, con il continuo scontro-attrito sul terreno, genera suoni e sensazioni che conferiscono vigore al marciatore di qualunque tempra, e gusto del procedere, contatto con la terra. E’ altrettanto vero che con la strada bianca c’è sempre il rischio di veder sfrecciare uno che con la sua auto prova il piacere di farti ingoiare tanta ma tanta polvere. Per esperienza, è sempre rigorosamente italiano. Ma a te questo non dà noia, fai spallucce - se non addirittura sorridi di gioia -, perché la polvere è già in preventivo, è parte del cammino, anche senza bisogno dell’intervento dell’italiano al volante. Basta una folata di vento robusto. All’opposto, le auto con targa straniera (soprattutto tedesca, francese e olandese) ti passano accanto come felpate (debbono avere un marchingegno per elevarsi a 2 millimetri da terra), lente e silenziose, e i passeggeri alcune volte ti sorridono, altre ti osservano come se fossi un marziano; riprenderanno velocità, quando si troveranno ormai a debita distanza. Tutto questo t’infonde a sua volta un senso di rispetto, di pacificazione con il genere umano, da ripagare senz’altro alla prima occasione utile. E’ evidente che queste e altre differenze – con i pensieri (da camminatori, più che altro) che ne scaturiscono – sono azzerate sull’asfalto. Si fa anche buio, lungo la strada bianca, senza

che venga meno la chiara percezione del suo snodarsi tra e sulle colline. La luna conferisce a quel bianco una luce particolare, che divide il tragitto da tutto l’oscuro contorno, ormai divenuto insondabile, misterioso. La strada bianca, quando sei in marcia, è punto di congiunzione tra il giorno e la notte, il noto e l’ignoto; tra il silenzio che c’è intorno e la sollecita, felice apprensione che percorre la tua mente. Molte volte, quando ti fermi in luoghi panoramici, osservi la campagna dinanzi o sotto di te, con i suoi colli dolci e multiformi – ai quali ti ha profondamente abituato la bella terra di Toscana – e cerchi di lontano, tramite il colore, di indovinare le strade: asfaltate o sterrate? Forse, un giorno, verrà di nuovo il turno del-

la strada bianca. Cioè, per meglio intendersi: se ne riscopriranno le virtù, i buoni attributi. Magari all’inizio sarà una trovata solo ‘estetica’ e un po’ snobish; tanto meglio, così susciterà facilmente l’entusiasmo degli emuli, si propagheranno le imitazioni e alla fine le campagne saranno pervase da una riscoperta di un non so che di antico e di bello. Sì, perché la strada bianca contribuisce al carattere, alla bellezza delle nostre campagne, è in armonia con tutto ciò che la circonda: con le mura delle coloniche e i muriccioli, con gli alberi d’altro fusto, con l’erba, con gli olivi e i filari di vite, con i corbezzoli, le piante di ramerino e gli altri arbusti, che il trionfo dell’asfalto fa apparire quasi stranieri, come in esilio.

Elogio della strada bianca

Arte e psicanalisi si incontrano al Museo Carlo Zauli Il museo, storicamente deputato alla produzione artistica con Carlo Zauli prima e gli artisti contemporanei oggi, diventa anche luogo in cui, guidati da un gruppo di professionisti selezionati a livello nazionale, è possibile fermarsi, pensare, creare, cercare le proprie risorse e trovare le parole per raccontarsi, attraverso il mezzo simbolico dell’arte come voce narrante. Il 10 marzo 2018 il Museo presenta alla cittadinanza e a terapeuti, insegnanti e professionisti del settore socio-sanitario, il nuovo Dipartimento Arteterapia. Il progetto, nato da una intuizione di Laura Zauli, figlia dello scultore Carlo Zauli e vicepresidente dell’istituzione a lui dedicata, è coordinato da Anna Maria Taroni, arteterapeuta faentina, che ha riunito negli storici spazi che furono del noto artista, una serie di professionisti da tutta Italia, che si occupano a vario titolo della cura della persona. Durante il pomeriggio

vi sarà occasione di ascoltare, dalle voci dell’equipe di lavoro, il programma del dipartimento e le applicazioni di questa disciplina, l’Arteterapia, che in Gran Bretagna è stata ufficialmente ammessa all’interno del Servizio Sanitario Nazionale nel 1981, e i cui benefici potranno essere direttamente sperimentati partecipando, su prenotazione, ad uno dei due workshop gratuiti.

21 24 MARZO 2018


di Mariangela Arnavas Nel cinquantesimo anniversario del ’68, vale la pena riflettere su questo breve saggio di Hanna Arendt, pubblicato per la prima volta il 12 settembre 1970 sul New Yorker, nel quale si sente l’eco e quasi la tangibile vibrazione di energia delle grandi manifestazioni antigovernative contro la guerra in Vietnam negli Stati Uniti di quegli anni. Si tratta della rielaborazione di un intervento al Convegno “La legge è morta?”, indetto dalla Bar Association di New York il 1 maggio 1970, data oltremodo significativa; a questo interrogativo la Arendt nel saggio risponde in modo chiaro che la legge è morta “per l’enormità del male espresso dalla moderna tirannia”, rispetto alla quale resistere è necessario, come dice Camus, “per il benessere e la salute mentale dell’individuo”. A muovere la riflessione dell’autrice intorno alla legittimazione della disobbedienza civile sembra essere la sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva rifiutato di pronunciarsi sulla legalità del conflitto in Vietnam, delegittimando di fatto tutte le forme di protesta civile di quel periodo. Per Arendt esiste un obbligo morale del cittadino verso la legge nelle società basate sul consenso tale per cui “chi sa di poter dissentire sa anche che, in qualche modo, quando non dissente, esprime un tacito assenso”, in questo senso il suo è un importante manifesto per la partecipazione attiva contro gli abusi dei governi e le dittature politiche. Nel saggio è analizzata con estrema chiarezza la differenza tra obiezione di coscienza e disubbidienza civile; vengono citati e analizzati i casi di Socrate e di Thoreau, che trascorse una notte in carcere per aver rifiutato di pagare l’imposta elettorale dato che lo Stato che la richiedeva ammetteva la schiavitù umana; l’obiezione di coscienza attiene per l’autrice strettamente alla sfera individuale, al rapporto dell’uomo con se stesso, mentre “coloro che praticano la disubbidienza civile non esistono come singoli individui, possono agire e sussistere solo in quanto membri di un gruppo”, la forza dell’opinione non dipende in questo caso dalla coscienza, ma dal numero di coloro che la condividono. La disubbidienza civile è sempre indiretta; si violano leggi incontestabili (per esempio il Codice Stradale) per protestare contro leggi ingiuste ed è contro una politica governativa anche qualora essa goda dell’appoggio della maggioranza; la disubbidienza civile si muove all’interno del sistema e, visto che solo la

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La disobbedienza di Hanna violenza come mezzo potrebbe far giustificare l’appellativo di ribelli a chi la pratica, la sua seconda prerogativa generalmente accettata è la non violenza. Anche in una società democratica la necessità di questa modalità di opposizione sembra nascere dal l’incapacità dei governi e relative maggioranze di tener dietro ai cambiamenti; il bisogno di cambiamento e quello di stabilità devono bilanciarsi a vicenda perché nessuna civiltà, secondo Arendt, può reggersi senza un quadro di stabilità, ma l’autrice si

rende conto che ormai la velocità di cambiamento del mondo ha superato quella dei suoi abitanti e siamo al punto che bastano cinque anni per creare un divario generazionale. Nel saggio sono poi analizzate diverse forme di Contratto Sociale tra cui quella definita da Locke come alleanza di tutti gli individui che solo dopo essersi reciprocamente vincolati formano un governo; questa è la modalità che Arendt definisce “orizzontale” ovvero gli individui sono legati non da un’entità che li sovrasta ma dalla forza delle reciproche promesse, che sono l’unico mezzo di cui dispongono gli uomini per ordinare il futuro rendendolo prevedibile e affidabile per quanto sia umanamente possibile. Ma dato che la prevedibilità del futuro è limitata e il cambiamento sempre più forte e veloce ecco che il patto rischia di saltare e, dato che questo tipo di contratto basato sul consenso presuppone una pluralità che non si dissolve ma assume la forma di un’unione “e pluribus unum”, i cittadini che costituiscono la minoranza possono associarsi per mostrare la loro forza numerica e diminuire il potere morale della maggioranza o in altri termini ostacolare la tirannia della maggioranza laddove si manifesti perché i principi ispiratori della democrazia sono il consenso e il diritto al dissenso. Si avverte sul fondo la consapevolezza dell’autrice sulla inesorabile banalità del male sia quando afferma che “in condizioni di permissivismo giudiziario e sociale tendono ad adottare un comportamento criminale persino quegli individui che in circostanze normali non avrebbero mai pensato di infrangere la legge” o quando cita W.C Mac Williams “quando le istituzioni falliscono, la società politica dipende dagli uomini e gli uomini sono canne al vento, inclini ad accettare l’iniquità se non a praticarla”. Il saggio si conclude con la proposta, ritenuta necessaria, di riconoscimento della disubbidienza civile all’interno dell’ordinamento giuridico americano, garantendo ad essa lo stesso riconoscimento che viene accordato ai numerosi gruppi d’interesse, riservandole altresì lo stesso trattamento cioè che i loro rappresentanti ufficiali possano influenzare e assistere il Congresso “ con l’arma della persuasione, il peso della loro opinione informata e il numero dei loro aderenti”. Arendt ritiene quindi che nonostante il turbamento che può arrecare alla legalità, la disubbidienza civile costituisca una valvola di sicurezza nei momenti in cui le istituzioni fanno naufragio; l’attualità di questa riflessione mi pare non abbia bisogno di commenti.


Oman

Le tartarughe di Sur

di Andrea Caneschi Prima del deserto, il mare. Lasciamo Muscat dirigendoci a sud est senza allontanarci dalla costa e facciamo tappa brevemente per visitare un piccolo lago naturale, formatosi in una dolina a poca distanza dal mare. Il sito è protetto e l’ingresso è a pagamento. C’è la possibilità di fare il bagno nell’acqua trasparente sul fondo della dolina, ma le complicazioni legate al vestirsi e svestirsi, mostrare e coprire, ci dissuadono; in più siamo ancora a metà mattinata e la temperatura esterna non ci incoraggia. Scendiamo però in fondo al cratere fino al bordo della piscina naturale, aggrappati al corrimano di una bruttissima scala di cemento, misurando con attenzione ogni gradino, molti altissimi, quasi da scalare, altri improvvisamente più bassi, capaci di far inciampare gambe non allenate, per una vistosa approssimazione di cui ci sfugge la ragione, pensando alle belle geometrie che abbiamo ammirato a Muscat. Ritroveremo questo curioso aspetto nelle fortezze che vedremo nei giorni successivi, spesso restaurate “alla francese”, con coerenza e precisione, ma di nuovo con scale irregolari e faticose. Bellissima la fortezza di Nakhl; imponente, articolata, grandiosa quella di Nizwa; affascinanti entrambe, certamente per il romantico richiamo estetico alla leggenda cinematografica della Legione Straniera, che su mura come quelle abbiamo più volte visto sacrificarsi per difendere la civiltà del colonialista francese dai malvagi predoni del deserto, ma di più per la ingegnosità delle soluzioni architettoniche per il confort degli abitanti o per le necessità della difesa. Sorprendente la frescura nelle sale interne, garantita da finestrature a graticcio poste in alto, vicino al soffitto, che permettono una sensibile e continua circolazione d’aria tra le stanze e minimizzano l’ingresso dei raggi solari in una terra in cui d’estate si raggiungono i 50 gradi. Ben studiata l’articolazione di stanze e stanzette, a volte cieche alla fine di un complicato percorso su più livelli, utilizzate come magazzini o spesso - ci dice la guida - semplicemente disposte come trappole per il nemico invasore, che disperso per cortili e cortiletti all’interno della cinta muraria, poteva essere aggredito dall’alto delle numerose torri fortificate. Oltre le mura incombono, mai troppo lontane, le aride montagne dell’Oman, che sembrano

imprigionare il forte, che da quelle si difenda. Ma se ci affacciamo, possiamo ammirare il verde diffuso dei palmeti e la città distesa nell’oasi sottostante; dall’alto degli spalti si vedono bene anche le aree coltivate a palma da dattero, con le piante allineate in rigorose geometrie, come da noi gli oliveti (in Oman si producono oltre cinquanta varietà di datteri, con i quali si prepara uno sciroppo anticamente usato anche dalle mura sugli assedianti, come da noi l’olio bollente). Ci fermiamo poi in un villaggio di pescatori e ammiriamo le barche in secco sulla lunga spiaggia che costeggia l’abitato: semplici barche a remi o con piccoli fuoribordo, utili per una pesca sotto costa, in un mare ricco di pesci. Il nostro obiettivo è Sur, antichissima cittadina, forse originata da un insediamento fenicio duemila anni prima di Cristo, conquistata dai portoghesi all’inizio del ‘500 per controllare la via delle spezie e dell’incenso e tenuta per 150 anni. Le fortificazioni che oggi vediamo, ristrutturate recentemente, furono costruite a difesa dell’entroterra e del porto dal Sultano Nasser

Ibn Murrshid, dopo che ebbe riconquistato la città, da allora al centro di una importante rete commerciale verso l’India e l’Africa, in concorrenza nella seconda metà dell’ottocento con le compagnie di navigazione inglesi. Quando arriviamo ci attende la motobarca di un pescatore locale per portarci nella laguna interna, dove al riparo dai predatori del mare si rifugiano le tartarughe. Non potremo assistere alla schiusa delle uova e alla fuga dei piccoli nati verso il mare, perché i tempi del nostro viaggiare non lo permettono; ma nel lento passaggio attraverso la laguna nascerà una gara tra noi ad avvistare le tartarughe, numerose, che affiorano improvvisamente per respirare e si immergono rapidamente, allarmate dal motore dell’imbarcazione. Trascorriamo del tempo ad incrociare nella laguna contando emozionati gli avvistamenti, mentre il sole del primo pomeriggio si riflette sulla linea bianco ocra delle case di Sur, che disegnano un affascinante ricamo senza tempo tra il verde della laguna e l’azzurro del mare su cui la città sembra distesa.

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di Valerio Dehò La grande installazione dà un senso di imponente gravità e nello stesso tempo di potenziale dinamismo. Oltre alla simbologia delle Acque Alte/Acque Basse è interessante che in uno spazio così sotterraneo e con una visione obbligata, l’artista abbia scelta di figurare una profondità marina. Una forma di presa di coscienza particolare perché nasce nel ventre della città. Il mare è una dimensione interiore e Di Cocco non solo ha predisposto un telaio teorico di grande spessore, ma ha realizzato un acquario silente. I garage sotterranei sono simboli di una modernità che non rifiuta di scontrarsi con gli archetipi. Le grotte e le caverne restano degli elementi di riparo e di rifugio ancestrali. L’idea di ambientare in questi spazi le immensità marine popolate da pesci predatori non solo spiazza il pubblico con un acquario fuori posto, ma ricorda il fascino e i pericoli del viaggiare. Scendere dall’alto al basso del parcheggio, diventa un breve percorso iniziatico, ma anche un’avventura alla Jules Verne in cui si fondono insieme due suoi celebri romanzi come “20.000 leghe sotto i mari” e “Viaggio al centro della terra”. L’arte è sempre ricca di sorprese e di idee. Questa installazione di Giampaolo di Cocco mette insieme il piacere della scoperta dei bambini, con riflessi di una cultura “alta” che sono parte integrante della cultura mediterranea.

L’acquario silente nel parcheggio della Stazione

di Giampaolo di Cocco Mi sono meravigliato per lungo tempo di questo spazio così ampio e così vuoto all’interno del parcheggio alla stazione di Santa Maria Novella, lo spazio dei cortili A e B; spazi di queste dimensioni del tutto inutilizzati sono introvabili nella città di Firenze, in questo caso si tratta probabilmente di uno spazio di sfogo antincendio ed è tuttavia suggestivo e affascinante. Così m’è venuta l’idea di usarlo per l’arte, che forse riempie ma certo non soffoca. Una prima idea di che cosa farci mi è venuta in mente mentre volavo da Berlino a Firenze per incontrare i responsabili della Firenze Parcheggi: avrei realizzato delle grandi creature marine per mettere in evidenza la vastità dello spazio del cortile B. Più avanti mi sono divenuti chiari il significato e la forma dell’intera installazione: avrei messo in scena la divisione Acque Alte/ Acque Basse, ispirandomi al misterioso ed affascinante mosaico del duomo di Monreale, a Palermo. Un gruppo di “onde” di acciaio corten, in basso, rappresentano le Ac-

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que Basse, un altro gruppo di “onde” racchiuse in una corona circolare, in alto, le Acque Alte. I “pesci”, grandi oggetti metallici, avrebbero completato l’installazione. Che cosa significa questo lavoro? I Babilonesi vedevano nel passaggio dalle Acque Basse del fiume Eufrate alle Acque Alte del Tigri, una metafora della vita umana tesa all’iniziazione, alla autocoscienza: Acque Basse=non coscienza di sé, Acque Alte=raggiungimento dell’autoconsapevolezza. Il pesce è tradizionalmente l’essere che ci può aiutare ad uscire dalle Acque Basse della non –consapevolezza, dato che si trova a suo agio in questo elemento. Ho curato particolarmente il montaggio dell’opera in modo che si integrasse nel modo più efficace con le caratteristiche del grande spazio, così da raggiungere un effetto di coinvolgimento ed emozione dello spettatore. Anche in questo caso lo spazio resta comunque il protagonista dell’opera, come sempre è successo nei miei lavori.


I pensieri di

Aiutate la signora Iole (adottate una buca a distanza)

Capino

A Firenze, come si sa, il Comune aveva lanciato una iniziativa davvero nuova nel suo genere che, certamente, sembrava esser destinata a coinvolgere la cittadinanza in una meritoria opera sia di segnalazione all’Ente Locale di quelle noiose, e spesso profonde, abrasioni del manto stradale che a migliaia creano qualche disagio alla circolazione e sia di coinvolgimento (quanto meno ideale) nella lenta, ancorché meritoria, opera di ripristino In primo luogo, erano stati coinvolti i Quartieri ed anche le Scuole per trovare il miglior design da riprodurre su un adesivo che gli automobilisti avrebbero potuto esporre sul lunotto delle proprie autovetture e, come è noto risultò vincitore il Gruppo Alcolisti Anonimi di Quaracchi che aveva proposto la frase: “Non guido così perché ho bevuto; sto solo cercando di scansare le buche”. E, poi, fu lanciata la campagna: “Adotta una buca a distanza”. Era sufficiente chiamare il numero verde 055055, dire il proprio nome e indicare, con precisione, quale buca si sarebbe voluto adotdi Rossella Seniori Tri denavo vo septembri di Darijan Pejovski è un film, che ha avuto diversi riconoscimenti internazionali (ma che purtroppo non circola in Italia) e che ha vinto il “Balkan Florence Express 2018. Alla seste edizione del Festival sono stati selezionati i migliori lungometraggi e cortometraggi che raccontano storie di vita quotidiana, i conflitti e le violenze subite, ma anche il desiderio di cambiamento e di riscatto e le speranze di uomini e donne che hanno subito una guerra che sembra incombere ancora sui loro destini. Il festival è promosso dall’organizzazione non profit “Oxfam Italia, dalla “Fondazione Sistema Toscana” e da “Passaggi di Storia” e si avvale del contributo artistico del “Trieste Film Festival”. “Tri dena vo Septembri” è ambientato in un piccolo villaggio della Macedonia e narra la storia di due donne che si incontrano casualmente in treno. Apparentemente molto diverse: Marika è una giovane prostituta che cerca di fuggire dal suo passato. Ha alle spalle il ferimento di un cliente che l’aveva aggredita (poi si saprà che è morto). Jana

tare. L’Operatore verificava, all’istante, nella apposita banca dati l’esattezza della segnalazione e, sempreché nessun altro cittadino avesse già adottato la buca cui la segnalazione si riferiva, essa veniva all’istante assegnata a chi aveva chiamato. L’operatore completava la procedura, digitando il Nome del Cittadino che aveva adottato la buca e così, da qual momento, chi si fosse collegato all’apposito link della Rete Civica, avrebbe potuto (con il giusto riguardo alla privacy) scorgere nella esatta posizione indicata la scritta: “Buca Mario”, oppure “Buca Aldo” o anche “Buca Luisa”. E, dal mattino seguente, la Società esterna che si era aggiudicata l’apposito appalto, avrebbe provveduto ad apporre la stessa scritta sulla segnaletica che avrebbe posizionato sull’asfalto, nel luogo indicato. All’iniziativa aveva dedicato attenzione anche la testata regionale del TG3 e ne aveva parlato anche qualche quotidiano nazionale, tanto che anche dal Comune di Roma si erano interessati per lanciare la stessa campagna anche nella intera Città Metropolitana. Insomma, tutto filava liscio e, questo diffuso coinvolgimento della cittadinanza aveva anche consentito di implementare, giorno dopo gior-

no, non solo il numero delle buche censite, ma – di pari passo – anche quelle adottate, sì che la segnaletica con i nomi degli “adottanti”, faceva bella mostra di sé e i percorsi cittadini assomigliavano sempre più a delle piste di Slaloom, fino a far sì che nessuno più si meravigliasse delle stranezze fatte dagli automobilisti (che un tempo si sarebbero creduti ebbri di vino). Poi, un giorno, tutto si fermò. Fu quando riuscì a prendere la linea del Call Center quella Signora che (abitando fra via Maggio e via Guicciardini, dopo aver indicato, con estrema precisione la buca che avrebbe voluto adottare, ed a cui avrebbe dato il proprio nome, non disse di chiamarsi Iole Innocenti. Fu lo stesso impiegato del Call Center, fiorentino da generazioni, a ritenere inopportuno che quella buca fosse, dall’indomani, transennata con un cartello recante una scritta solo apparentemente simile alle tante altre. Era vero che, al momento, le tante buche non avevano fatto male a nessuno, ma non parve opportuno che proprio in Piazza della Passera il Comune di Firenze sistemasse un cartello con la scritta: “Buca Iole Innocenti”. E fu così che quella buca non poté essere adottata e la povera signora Iole ci rimase male davvero. Proprio lei, che aveva creduto di fare un bel gesto, dando il suo nome ad una buca.

Tre giorni a settembre Marika segue Jana pensando di poter trovare

ha fatto studi di medicina e sta tornando al villaggio della sua fanciullezza dopo avere vissuto molti anni nella capitale, Skopje. Non appaiono subito i motivi del ritorno a questo piccolo villaggio ove non ha più parenti e nessuno che l’aspetta e ove vivono poco più di 200 persone (una sola donna) in case sparse nel bosco. Nel villaggio la vita scorre apparentemente tranquilla ma riecheggiano antichi conflitti e rancori.

un rifugio sicuro. L’incontro tra le due donne si sviluppa tra simpatia e diffidenza. Le vediamo muoversi con disinvoltura e circospezione in un ambiente patriarcale, malevolo, ostile. Bravissime (e belle) le due protagoniste che riescono a creare un’atmosfera di sospensione, di attesa, di mistero. Bruscamente si palesa il motivo per cui Jana è tornata e Marika lo fa suo. In un’ultima scena che le vede assieme, sembrano due amazzoni, due combattenti decise a vendicare le brutalità e la violenza subite. Violenza cui anche loro non potranno sottrarsi per poter riprendere la propria strada con la speranza di tornare a vivere (se si vuole, una sorta di femminicidio alla rovescia). Tri Dena vo Septembri è un intrigante thriller che si basa sul disvelarsi della personalità e dei sentimenti delle due donne. Sullo sfondo il contesto violento e corrotto di un paese e di una società che a distanza di 20 anni dalla guerra appare ancora non pacificata

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di Bernardino Pasinelli Mentre in Polonia entra in vigore la controversa legge sulla Shoah che prevede fino a tre anni di carcere per coloro che attribuiscono alla nazione polacca o allo Stato polacco la responsabilità dei crimini del nazismo tedesco, in Italia ci si dimentica dei luoghi che perpetrarono la guerra civile, le rappresaglie, le torture, le deportazioni e l’orrore della Shoah. Addirittura si confonde la verità storica e si permette ad alcuni di usare il tricolore della Repubblica Italiana per omaggiare i caduti della Repubblica Sociale che fu una dittatura militare per l’occupazione nazifascista dell’Italia. Nel cimitero di Edolo (Bs) ci sono le lapidi di una ventina di militari dell’antidemocratica Repubblica Sociale Italiana. Di recente alcune associazioni combattentistiche hanno posato sulle lapidi e su vasi di fiori dei nastri tricolore con la scritta “Edolo ai suoi caduti” e “Alpini di Edolo”. In un cimitero della Repubblica italiana, nata dalla guerra di Liberazione antifascista e antinazista non è lecito abusare della bandiera tricolore. Quei nastri tricolore andrebbero rimossi. Non dovrebbe essere necessario spiegare che occorre distinguere tra chi è morto per Liberazione dell’Italia e chi è morto perché la guerra, la dittatura e l’occupazione nazifascista continuassero a mietere vittime innocenti e a calpestare ogni diritto di libertà. Portare fiori ai morti è un atto di pietà, ma il nastro tricolore spetta solo a chi ha combattuto ed è morto per la difesa della Patria. Durante le battaglie del Mortirolo, che è una montagna nelle vicinanze di Edolo, combattuta tra febbraio e maggio del 1945, i militi fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana furono sconfitti dai partigiani delle Fiamme Verdi, formate in maggioranza da Alpini. A loro va l’onore del tricolore e non ai fascisti che hanno rinnegato la libertà e la dignità del popolo italiano. Tra i principi fondamentali della Costituzione italiana vi è l’articolo 12: la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano e, come è stato sottolineato dalla Corte costituzionale, secondo la nostra democrazia rappresenta «simbolicamente un certo Paese, l’identità di un determinato Stato e se mai, anche l’ideologia che la maggioranza del popolo di quest’ultimo accetta e propone al confronto democratico» (sent.189/1987). Perciò serve un’opera di studio, ricerca e approfondimento storico che faccia luce sulle colpe degli italiani. Fra queste vi è la Repubblica Sociale Italiana, la RSI, una macchia incancellabile e tragica, da cui deriva la responsabilità di molti italiani nei crimini nazifascisti in Italia, con cui non abbiamo ancora fatto i conti. La Me-

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Desenzano del Garda Itinerario storico sui luoghi della Rsi moria dei luoghi è un importante passo su questa strada di civiltà e consapevolezza del nostro passato, di una dittatura fascista durata vent’anni che ha schiacciato la libertà e che ha avuto un epilogo terribile con la RSI, la delazione e la collaborazione di molti italiani con i nazisti. Serve un’educazione alla verità che, sola, permette di isolare l’ignoranza, la violenza dei nuovi fascismi, il pericoloso negazionismo che riprende forza. Per contrastare il sorgere di nuovi nazionalismi, l’unica “arma” è quella della conoscenza. Occorre ricordare e ribadire il monito di Pertini: “Disarmiamo le nostre mani ed armiamo le nostre menti”. Questo è l’invito accorato di Gaetano Paolo Agnini del Centro studi Guido e Alberto Dalla Volta: “Portiamo scuole, associazioni giovanili, persone che desiderano conoscere, a percorrere l’itinerario storico sui luoghi della RSI a Desenzano del Garda”. Non basta recarsi ad Auschwitz e negli altri luoghi di stragi, deportazione e sterminio. È necessario conoscere il ruolo dello Stato dell’Italia fascista, conoscere la “Repubblica nera” tra Brescia e Verona, Desenzano e Salò. Solo questa consapevolezza impedirà che altre Shoah si verifichino. Per questo Agnini ha ideato un itinerario storico che bisogna conoscere e diffondere per edificare una “memoria” vera, che non consideri solo le conseguenze, gli effetti della “Banalità del male”, ma come si è giunti a quelle conseguenze. Per questo è necessario lo studio storico e una vera conoscenza che porti a scoprire come venne organizzata in Italia la persecuzione razziale, l’eliminazione degli avversari e la deportazione da parte fascista e nazista. L’Itinerario storico sui luoghi della Repubblica Sociale Italiana si prefigge lo scopo di far conoscere la storia e di trarne un utile insegnamento. La verità che disvela è formativa, utile a iniziare un nuovo dialogo, a costruire una cit-

tadinanza democratica, multiculturale, legata ad un giusto amor di patria. Occorre conoscere alcuni aspetti fondamentali dell’ultimo fascismo che, al tempo della RSI, aveva “occupato” e sistemato i comandi intorno al Lago di Garda perché ben collegato con la Germania nazista. La città di Desenzano, alla fine del 1943, venne “occupata” da una serie di strutture che da Roma si erano trasferite sul Garda per dare vita alla RSI, mentre altre presero sede nei paesi disseminati nell’area gardesana. L’organizzazione di questo minuscolo Stato fascista ebbe come perno Brescia, mentre l’apparato nazista gravitò su Verona. Il punto d’incontro stava proprio a Desenzano. C’è da chiedersi perché questa storia è stata tenuta nascosta. E quanti conoscono i tanti misfatti organizzati dalla RSI? L’itinerario storico rivela vicende scomode, accantonate, volutamente tenute nascoste che devono essere viste nella giusta luce affinché la verità ci porti a comprendere la triste eredità del fascismo. Questo itinerario tocca cinque punti cardine del nazifascismo della RSI, ed è un momento importante per conoscere dal vivo la storia, per cercare di capire gli errori del passato. Questo ci servirà per costruire, con l’impegno di ognuno, la Repubblica Italiana Democratica, in una visione più ampia e globale dei diritti, in un orizzonte europeo. Il Memoriale della Shoah dello Yad Vashem di Gerusalemme ha scritto una lettera a Gaetano Paolo Agnini, per ringraziarlo di quanto ho fatto con il libro “La Repubblica nera” e di quanto sta facendo con l’itinerario storico a Desenzano, perché Desenzano fu il “perno”, il centro di comando dell’organizzazione della deportazione nazifascista dal1944 al 1945. La storia della Repubblica Sociale Italiana - non bisogna chiamarla soltanto di Salò perché è una banalizzazione semplificatrice e falsa - è una storia “volutamente” di-


menticata. Persino esaltata e celebrata da alcuni. Questo Stato venne studiato a tavolino dai tedeschi molto tempo prima della sua nascita. Rispondeva alla necessità di uno Stato cuscinetto a protezione del fronte sud della Germania. Avrebbe dovuto essere solo tedesco e nazista oppure “misto”, se fosse stato possibile avere un “sostegno” italiano. I servizi di informazione nazisti sapevano dei dissapori tra gli ufficiali italiani, alcuni dei quali giudicavano fallimentare e perdente la strategia militare di Mussolini, chiamato “il caporale”. Allora Hitler ideò questo “Stato” occupato e controllato direttamente dai tedeschi. In breve, dopo la destituzione di Mussolini del 25 luglio 1943, il Führer decise che bisognava passare all’azione e dare il via a questo progetto. La liberazione di Mussolini dalla ridicola prigionia sul Gran Sasso fu lo strumento per costruire il nuovo Stato e dare continuità al fascismo attraverso la disponibilità del Duce e dei suoi fedelissimi. La “Repubblica Sociale” aveva un baricentro tedesco a Verona ed uno fascista a Brescia. Mussolini venne relegato, serviva come paravento per l’opinione pubblica italiana. A Desenzano si stabilirono molti comandi nazisti e fascisti, in particolare i “due poli del male”: l’Alto comando delle SS del gen. Wolff, nominato personalmente da Hitler come plenipotenziario politico e militare per l’Italia e

l’Ispettorato della razza diretto dal ministro Giovanni Preziosi, anch’egli personaggio gradito al Fuehrer. Ebbene, proprio dall’azione combinata dei due enti si ebbe un inasprimento nella caccia all’ebreo, ai politici dissidenti, ai renitenti alla leva. Si incentivò il processo di delazione, si unirono le azioni dei militi fascisti e delle SS nella caccia ai partigiani, nelle stragi di civili, negli incendi dei paesi dove erano nascosti i ricercati. A partire da questa “organizzazione” si arriva a Fossoli, il “Durchangslager” (Campo di transito) e poi ai vari “Vernichtungslager” (Campi di sterminio). Questo, però, è l’anello mancante, in parte ignoto, di cui purtroppo abbiamo tralasciato di approfondire il ruolo. Da qui scaturisce la necessità di conoscere la verità storica. “In questa faccenda non basta avere globalmente ragione: bisogna lavorare instancabilmente, cioè dimostrare i fatti, non per coloro che li conoscono e che scompariranno, ma per quelli che saranno particolarmente esigenti riguardo alla qualità delle prove. Il lavoro di scavo archeologico era inutile nel 1945 perché le rovine fumavano ancora e i testimoni gridavano. Ora è diventato indispensabile” (Pierre Vidal Naquet). L’itinerario ideato da Agnini ha uno scopo didattico, far conoscere una pagina di storia volutamente tenuta nascosta per educare alla libertà e alla democrazia. Parte dal Monumen-

to alla Resistenza di Desenzano, raggiunge la centrale piazza Malvezzi con le lapidi ai partigiani caduti e ai deportati di guerra, poi tocca l’Albergo Mayer che fu sede dell’Alto comando delle SS, quindi la palazzina Polidoro Ostali che fu sede dell’Ispettorato della razza dove venivano custodite le schedature di tutti gli ebrei italiani, censiti a partire dalle leggi razziali del 1938, per recarsi infine alla villa di Guido e Alberto Dalla Volta che vennero deportati e morirono ad Auschwitz. Alberto è “l’amico Alberto” citato da Primo Levi in “Se questo è un uomo”. Dopo il percorso cittadino in Desenzano, l’itinerario porta al vicino Bosco della Memoria, all’interno del Parco Comunale Laghetto. Il tema principale dell’itinerario è la Memoria. Vengono letti dei testi e si medita ad ogni sosta sui luoghi della Memoria dimenticata del fascismo italiano. Viene messa in risalto la figura della donna che seppe tener saldo il tessuto sociale antifascista. Tra gli ulivi disposti a cerchio nel “Bosco dei Giusti”, si leggono le storie molto significative di sei donne. Anche in occasione della Giornata Europea dei Giusti del 6 marzo si sono organizzate delle letture nel Bosco della Memoria di Desenzano (http://www.6marzo.eu). I “giusti” di Desenzano furono le donne che seppero opporsi al male, rischiando e facendo il bene. Aiutarono coloro che si gettavano dai carri bestiame per scampare alla deportazione, aiutarono intere famiglie di religione ebraica, spesso madri e bambini, che lasciavano le città per cercare di mettersi in salvo. I testi sono stati letti da alcune alunne del Liceo Bagatta di Desenzano. Per questo Il riconoscimento dello Yad Vashem di Gerusalemme, che conferma gli ottimi rapporti con il “Centro studi Guido e Alberto Dalla Volta”, è di grande prestigio. Ma questo riconoscimento, così si augura Agnini “non è mio, ma è per tutta l’Italia antifascista e deve servire a dare vita ad una sempre maggiore “conoscenza” del ruolo italiano in quella orribile pagina di storia.” L’Itinerario storico dura circa due ore ed è gratuito. Nel 2017 sono state superate le 700 presenze di scuole e circoli culturali. L’Itinerario e il Bosco della Memoria sono inseriti nel circuito internazionale “Gardens of the Righteous Worldwide”. Per informazioni contattare Gaetano Paolo Agnini: agninigae@ libero.it https://storiedimenticate.wordpress. com/2017/05/06/itinerario-storico-sui-luoghi-della-rsi-a-desenzano/ La pagina dedicata al “Boschetto della Memoria” è presente sul sito internet di Gariwo: https://it.gariwo.net/giardini/giardino-di-desenzano-del-garda/desenzano-del-garda-6402.html

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di Michele Morrocchi Va in scena questa sera, sabato 24 marzo, al teatro Dante Carlo Monni di Campi Bisenzio, Io so e ho le prove, testo scritto, diretto e interpretato da Giovanni Meola liberamente ispirato al libro omonimo di Vincenzo Imperatore. Il libro è un atto di accusa di un ex manager bancario al sistema delle banche e alle sue malefatte che Meola trasforma in un monologo personale ed intenso. Giovane autore napoletano da sempre impegnato in un teatro che è denuncia ma anche socialità, arriva per la prima volta al teatro campigiano che ci permettere così di conoscere una figura rilevante della nuova drammaturgia italiana e partenopea. Autore di testi si di impegno civile che di introspezione Meola è autore che ha in sé una profonda conoscenza dei massimi autori senza però mai sconfinare nel plagio ma anzi mostrando una cifra stilistica propria e sapiente, spaziando tra l’italiano e il dialetto, tra eroi e antieroi, portando in scena un giudizio che parte dalla comprensione, mai dal preconcetto. di Roberto Giacinti Avvicinandosi la scadenza della dichiarazione dei redditi riparte la richiesta di devoluzione “caritatevole”. L’impoverimento generalizzato rende sempre più preziose le attività solidali. Eppure tutta la società si regge attraverso la solidarietà, familiare prima di tutto, e poi dei vicini, dei volontari, delle associazioni, dello Stato. L’accreditata classifica sulla beneficenza redatta dalla britannica Charities Aid Foundation vede l’Italia in una posizione assai mediocre fra i paesi “avanzati”. Si calcola infatti che nel mondo l’insieme di attività che appartengono al Terzo settore (organizzazioni non governative, onlus, fondazioni, ente caritativi, enti umanitari, cooperative) valgano una fetta importante dell’economia. Sul pianeta sono operative circa 50 mila organizzazioni non governative (ong), che ricevono molti mi-liardi di dollari annui di finanziamenti, occupando anche un elevatissimo numero di volontari. Purtroppo specie nelle grandi Ong una parte rilevante delle entrate serve per le spese di mantenimento e di promozione delle organizzazioni, alcuni enti spendono più di 1/3 delle entrate per mantenere in vita l’associazione. Esiste anche una sproporzione tra fondi dedicati all’emergenza, rispetto a quelli destinati allo sviluppo, a cui alcune associazioni si erano dirette da quando sono stati chiusi i rubinetti

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Per fortuna esistono ancora bravi autori

Attivo anche nella propria realtà con laboratori, è direttore artistico del progetto Teatro e Legalità. Al termine dello spettacolo è previsto un

Carità e filantropia per i progetti di sviluppo. La carità è cosa diversa dalla filantropia: è come dare un pesce all’affamato, o insegnargli a pescare. La vecchia Europa “socialista” ha contrapposto la propria idea di “redistribuzione” della ricchezza sociale alla “restituzione” cui si ispira la filantropia americana, affidandosi la prima all’equità del governo, la seconda alla benevolenza dei privati. Una differenza particolare riguarda l’Italia, infatti la nostra carità ha un’impronta più cattolica, infatti la beneficenza è stata essenzialmente affare della Chiesa, cui lo Stato delegava volentieri per convenienza e per servilismo. Diversa è anche la gratificazione del riconoscimento pubblico, da noi la discrezione, così spesso ipocrita, che sta a metà fra la modestia evangelica (non sappia la tua mano destra, fai il bene e scordalo ecc.) e la vergogna di essere ricchi. Alla discrezione di precetto lo Stato aderisce con entusiasmo, astenendosi dal tassare solo una piccola percentuale della ricchezza devoluta in beneficenza dai singoli.

incontro confronto con l’autore a a partire dalla raccolta di alcuni suoi testi teatrali dal titolo per l’appunto Teatro (Homoscrivens, 2017)

Benché la facilitazione fiscale incida, non è la causa principale dell’impulso alla donazione, che è piuttosto culturale e, in senso lato, religioso. Nel cristianesimo, il termine “carità” rappresenta l’amore nei confronti degli altri, ma carità e filantropia non sono sinonimi, anche se parlano ambedue del medesimo oggetto, e cioè l’uomo nel bisogno. Per lo più è la compassione che rende un uomo sensibile ai bisogni degli altri ovvero l’essere filantropici, è con questa visione che il filantropo si sostituisce, o complementa lo stato, nel dovere di rendere l’uomo sempre in grado di provvedere per sé. Le organizzazioni del Terzo Settore hanno lo scopo di rispondere ai bisogni sociali, ma lo fanno con difficoltà anche perché sono troppe e troppo piccole. Solo un’alleanza per il cambiamento che unisca le migliori forze delle organizzazioni non profit, imprese e pubblica amministrazione può far uscire il Terzo settore dalle secche della crisi e rigenerare le istituzioni. Occorre finalmente mettere questi tre attori in grado non solo di parlarsi e dialogare, ma anche di progettare e gestire insieme i bisogni della collettività, secondo i principi della cosiddetta “sussidiarietà circolare”, che viene posta a fondamento di un ridisegno dal basso del sistema di welfare.


di Francesca Merz “Prima si diceva ciò che era; e tutto ciò che era veniva detto. Per primo Zohak mentì sul mondo, per conformarlo alla sua volontà […] in seguito, ciò che veniva detto senza essere, diventava più reale di ciò che era senza venir detto“ La favola è di quelle belle, quelle che fondano le radici in una terra di magia e abbondanza, “mezzaluna fertile” la chiamavano una volta, per la grazia delle sue colline, il profumo dei datteri maturi, il sole che irradiava quelle terre, in cui molto fu inventato, in cui molta civiltà fu, quando altrove nulla era. Ma anche in quelle terre si annidava il maligno: Zohak (o Zahhak o Azhi Dahaka) nella mitologia iranica, tramandata dai testi dell’Avesta, era l’archetipo del maligno, il demone simbolo del dominio Assiro-Babilonese sui Persiani. Nei testi che si tramandano nell’immensità del patrimonio narrativo iranico, e in particolare ne “Il libro dei Re” di Ferdowisi, Zohak, il maligno, si incarna nel principe arabo usurpatore e patricida. Egli diventa, nella mitologia e nel folklore persiano, il simbolo della conquista Araba della regione ed emblema della tirannia. Ha spalle potenti, da cui si diramano due serpenti affamati, affamati di cervelli umani, di sangue di umanità, ogni giorno si ripete lo stesso macabro rito: le sue spie devono catturare due giovani da sacrificare alla voracità dei terribili rettili, a loro volta tiranni del tiranno. Ma la favola narra che i cuochi di Zohak, Armail e Ghirmail, presi dalla commozione per la sorte dei giovani, per evitare il quotidiano massacro dei persiani, decidono di mescolare cervella di montone a quelle umane. Ogni giorno, segretamente, i due cuochi salvano uno dei sfortunati catturati, facendolo fuggire in montagna. La leggenda narra che da quei giovani sarebbe nato il popolo dei curdi, protetti dalle loro montagne, e da null’altro, contro i soprusi del tiranno. Viveva a quel tempo Kawa, un umile fabbro, che in questa carneficina per sfamare le spalle possenti del tiranno aveva già perduto sedici dei suoi diciassette figli, soffocando il suo dolore nel silenzio della sottomissione al re. Quando anche Karen, l’ultimo dei suoi figli rimasto ancora in vita, venne catturato e portato nelle segrete del tiranno, Kawa sente nascergli dentro una forza più grande di lui. Innalza su un’asta il suo unto grembiule da fabbro, che diventa vessillo della rivolta popolare che rovescerà Zohak, inchiodandolo a una rupe del vulcano dormiente Damavand. Fin qui la leggenda, raccontata in splendidi versi da Ferdowsi e poi, come tutte le favole

Kawa, il curdo

piene di significato, tramandata, pellegrina per secoli, sulle labbra dei cantastorie: la storia della rivolta di un umile fabbro contro il tiranno che si nutre dei cervelli dei giovani e del loro futuro. Intellettuali e attivisti curdi, in Turchia e in Iraq, a partire dagli anni ’60 fecero della ribellione di Kawa i simboli nazionali di rinascita e di liberazione da celebrare in faccia al giogo coloniale di quegli stati che non riconoscevano, bensì sanguinosamente reprimevano, l’identità curda.

Oggi la leggenda di Kawa è uno dei principali miti fondativi del moderno nazionalismo curdo. La sua statua stava là, al centro di Afrin, una statua di un fabbro ribelle al centro di una piazza, ora non c’è più. “io scrivo questa storia che avvenne all’inizio del mondo..” – in modo che il lettore riconosca la tirannia di Zohak e il fervore ribelle di Kawa come forze ataviche sempre attive, come figure archetipiche tuttora in gioco nella storia. La nostra e quella dei discendenti di Kawa.” Sandrine Alexie “Kawa il curdo” ed. Pentagora

29 24 MARZO 2018


1982 Carlo Cantini a New York

Museo Guggenheim

30 24 MARZO 2018

di Carlo Cantini


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