Numero
7 luglio 2018
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Voi sapete a che partito appartengo, cioè la Lega, e mi auguro che la magistratura si liberi dalle correnti. Mi auguro in particolare che si liberi di quelle di sinistra Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Chiudete quella porta: c’è corrente
Maschietto Editore
Vinci, 1995
La prima
immagine Siamo a Firenze, in via Ponte alle Mosse. Se non vado errato la trattoria era in mezzo ad altre due trattorie tipiche toscane con l’insegna di “Cucina Casalinga”. Era un momento di grande curiosità da parte dei fiorentini e la maggior parte dei clienti erano giovani e famiglie che abitavano nella zona. Anch’io ogni tanto quando passavo di lì mi fermavo per pranzo, incuriosito e affascinato da alcuni piatti che erano molto invitanti, come gli Involtini primavera, le varie zuppe, i bei piatti di carne tagliata a striscioline sottili. Anche il pollo la faceva da padrone, tanto pollo, con tante insalate colorate. Il tutto era sempre accompagnato da germogli di soia e annaffiato, per ciò che mi riguardava, da abbondanti bevute di ottima birra cinese. Alla fine prendevo quasi sempre alcuni dei loro dolcetti per terminare con una bella tazza di thè caldo.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
7 luglio 2018
Turismo di campagna Le Sorelle Marx La Saga del Promesso Assessore I Cugini Engels
Nardellik Lo Zio di Trotzky
337
270
Riunione di famiglia
In questo numero Il pensiero di Basaglia e la medicina di Rocco Canuso
Una donna all’opera di Alessandro Michelucci
Per un nuovo ecosistema linguistico di Susanna Cressati
Disegnare la Toscana di Andrea Ponsi
Come in un mare di ghiaccio di Anna Lanzetta
Palazzo dei Pittori, esempio di coworking space di Valentino Moradei Gabrielli
Il coretto granducale Ieri, oggi e domani di M.Cristina François
Leonardo Foujita, artista, dandi, evasore fiscale di Simone Zanuccoli
Sergio Larrain Fotografo vagabondo di Danilo Cecchi
Il mistero di Berta Isla di Mariangela Arnavas
Le trasformazioni del paesaggio di Biagio Guccione
Il mito trasformato in carnale cronaca di Francesco Cusa
e Capino, Remo Fattorini, Gianni Bechelli, Luisa Moradei
Direttore Simone Siliani
Illustrazioni di Lido Contemori e Massimo Cavezzali
Redazione Progetto Grafico Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Emiliano Bacci Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
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di Rocco Canosa L’operazione di Basaglia è un’operazione utopica. E perciò sarebbe errato considerare la chiusura dei manicomi, sancita dall’intervento a suo modo rivoluzionario della legge 180 del 1978, come il risultato maggiore dell’opera e delle intenzioni di Basaglia. Il cammino che Basaglia voleva avviare era un sommovimento della società e una rivisitazione dei rapporti sociali a partire dalla clinica psichiatrica, proprio quella clinica che a suo tempo era nata per tutelare la cattiva coscienza della società, la quale, per garantire la sua quiete e i rapporti di potere in essa vigenti, non aveva trovato di meglio che incaricare la clinica a fornire le giustificazioni scientifiche che rendessero ovvia e da tutti condivisa la reclusione dei folli entro mura ben cinte. Per rendere il suo servizio, la clinica ridusse la follia a malattia che, per essere curata, deve essere sottratta al mondo in cui essa ha origine che è poi il mondo della vita. La chiusura dei manicomi non era lo scopo finale dell’operazione basagliana, ma il mezzo attraverso cui la società potesse fare i conti con le figure del disagio che la attraversano quali la miseria, l’indigenza, la tossicodipendenza, l’emarginazione e persino la delinquenza a cui la follia non di rado si imparenta. E come un tempo la clinica aveva messo il suo sapere al servizio di una società che non voleva occuparsi dei suoi disagi, Basaglia tenta l’operazione opposta, l’accettazione da parte della società di quella figura, da sempre inquietante, che è il diverso. Nelle Conferenze brasiliane Basaglia dà due definizioni di follia. La prima: “La follia è diversità, oppure aver paura della diversità”. La seconda: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’ essere”. Trattato come uomo, il folle non presenta più una “malattia”, ma una “crisi”, una crisi vitale, esistenziale, sociale, familiare che sfuggiva a qualsiasi “diagnosi” utile solo a cristallizzare una situazione istituzionalizzata. E, scrive Basaglia: “Una cosa è considerare il problema una crisi, e una cosa è considerarlo una diagnosi, perché la diagnosi è un oggetto, la crisi è una soggettività”. E cosa diventa la cura quando i rapporti sono intersoggettivi e non rapporti oggettivanti? La risposta di Basaglia è: “Io cerco di curare una persona, ma non sono certo se la curo o no. E la stessa cosa quando dico di amare una donna. È molto facile dirlo, e talvolta è
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Il pensiero di Basaglia e la medicina
persino falso, perché l’uomo tende ad un tipo di relazione e la donna a un altro. Quando si crea una relazione d’ amore, questa non è altro che una crisi, una crisi in cui c’è vita se non c’è dominio dell’uomo sulla donna o della donna sull’uomo”. Basaglia propone di inserire la medicina in un pensiero che tenga conto dell’uomo nella sua globalità per liberarla dalla natura oggettuale del suo rapporto con il paziente. Il malato e la malattia non possono essere considerati come ‘dati’ oggettivabili della scienza nella misura in cui coinvolgono tutta la personalità del paziente, così come quella del terapeuta nella relazione di cura, e insieme i loro sistemi di credenze e di valori. In fondo, il pensiero fenomenologico di Husserl, nato come risposta alla crisi delle scienze e alla disumanizzazione in cui era entrata l’Europa, riportava alla ribalta il problema dell’uomo, non come categoria astratta, ma come soggetto-oggetto di una diffusa sofferenza sociale. Questo portava Basaglia ad avvicinare il malato mentale senza i diaframmi impliciti delle rigide tassonomie sintomatologiche delle sindromi, attraverso la comprensione delle sue diverse modalità di esistenza. In questo modo metteva quindi in crisi la validità della definizione classica di malattia, dei limiti della norma che tale malattia trasgredisce, del concetto di cura, e criticava l’Istituzione Totale in quanto strumento di contenimento e di controllo degli elementi di disturbo sociale. Per Basaglia l’approccio naturalistico-classificatorio del modello medico fa dell’osservazione un momento di definizione e non di comprensione (l’esempio di questo tipo di approccio è dato dalla classificazione delle malattie mentali fatta dallo psichiatra E. Kraeplin). Pensare ad un catalogo dei sintomi è inutile, vista l’impossibilità di spiegare come e perché si verifica un determinato «fatto anomalo», e non di un «fatto anormale»; in questo il suo punto
di vista assomiglia a quello di Georges Canguilhem, che vedeva nel concetto di «anomalia» un pensiero descrittivo-conoscitivo, mentre quello di «anormalità» esprimerebbe un giudizio di valore. Il nodo centrale diviene allora l’analisi del rapporto tra salute e malattia. La netta separazione tra l’una e l’altra è individuata per quel che è: il diretto prodotto dell’ideologia medica.”Nel momento in cui la salute viene assunta come valore assoluto, la malattia si trova a giocare un ruolo di accidente che viene ad interferire nel normale svolgersi della vita come se la norma non fosse racchiusa tra la vita e la morte. L’ideologia medica, per il suo rifarsi ad un valore astratto e ipotetico qual è la salute come unico valore positivo, agisce da copertura a quella che è l’esperienza fondamentale dell’uomo: il riconoscimento della morte come parte della vita assumendola su di sé come oggetto di una esclusiva competenza. Essa cioè distrugge il malato nel momento in cui lo guarisce defraudandolo del suo rapporto con la propria malattia (quindi col proprio corpo) che viene vissuta come passività e dipendenza. In questo senso il medico diventa responsabile all’insorgere di una relazione reificata tra l’uomo e la propria esperienza inducendo il malato a vivere la malattia come puro accidente oggettivabile della scienza e non come esperienza personale”. Nello stato relativamente arretrato della nostra società l’ideologia della diversità, dove il positivo si afferma e si conferma sull’esistenza e l’esasperazione degli opposti (salute e malattia, norma e devianza, ragione e follia), fonda il valore e la valorizzazione dei primi attraverso la svalorizzazione del negativo. Qui si pone la questione centrale della riflessione di Basaglia, centrale sia dal punto di vista epistemologico che pratico, la questione dell’incontro e delle sue implicazioni psicorelazionali. Non ci può essere cura se non c’è reciprocità,
non c’è reciprocità se non c’è riconoscimento (di sé e dell’altro), non c’è riconoscimento possibile se non c’è incontro. Tutto l’approccio terapeutico basagliano può essere definito come tecnica dell’incontro comprensivo. Il medico, ma possiamo anche dire lo psicologo, l’antropologo, il pedagogo, non può restare estraneo alla situazione di relazione che si crea, poiché «unisce la nostra esistenza a quella del soggetto che ci sta di fronte». Lo stabilirsi del «rapporto» quindi diviene possibile attraverso la comprensione dell’elemento umano che ci unisce all’altro essere: da ciò deriva che l’esame dell’«incontro» esige un doppio orientamento: da un lato conoscere empiricamente la maniera nella quale «questo» uomo entra in rapporto con il mondo e con gli altri, scoprire, cioè, le «situazioni di fatto», ricavando da esse i progetti e le loro strutture; dall’altro la conoscenza di queste modalità d’incontro dev’essere diretta da una comprensione essenziale dell’esistenza umana. Il sogno di Basaglia era che la clinica potesse divenire un laboratorio per nuove forme di relazioni sociali, diceva: “la qualita’ delle prestazioni erogate in un Servizio e’ in stretta correlazione con la concezione che dell’uomo si ha in quel Servizio”. A questo proposito, come movimento antistituzionale, per troppo tempo abbiamo enfatizzato la “diversità” del matto. Se da una parte questo ci ha consentito di difendere la diversità come ricchezza, come valore, dall’altra ha confermato paradossalmente che la persona che soffre psicologicamente è “altro” rispetto ai più, ai cittadini e ai pazienti “normali”. Questa idea ha investito anche gli operatori psy e i loro servizi, che sono stati visti dal mondo della medicina come “estranei” da se stessa. Forse abbiamo sottovalutato l’importanza che proprio quel mondo andava attraversato con più pazienza e attenzione, svelando nel contempo i meccanismi opprimenti delle “istituzioni morbide”, molto simili a quelli del manicomio.
Sarebbe giunto il momento, ad esempio, di analizzare i dispositivi umilianti dell’ospedale generale e non limitarsi solo a lamentarci quando i nostri pazienti sono rifiutati dai medici di un reparto. Non va rivendicato solo il diritto che, in un ospedale, il paziente psichiatrico sia trattato come gli altri malati, ma lavorare affinché tutti gli operatori della medicina siano consapevoli che i loro atti possono essere di riguardo o, al contrario, di mortificazione della sofferenza. Quando parliamo di “integrazione”, dunque, vogliamo riferirci non tanto all’accettazione caritatevole del “matto”, quanto all’incontro della cultura della tecnica (quella sanitaria in particolare) con la cultura del rispetto, della comprensione, della tolleranza. Da tempo, ormai, gli scenari della sofferenza psy sono mutati. Tossicodipendenti, dementi, autistici, minori a rischio, anziani soli, divorziati impongono la loro presenza e la loro drammatica richiesta d’aiuto. Anzi accade spesso che le istituzioni (scuole, tribunali) deleghino ai servizi di salute mentale situazioni che di psichiatrico hanno ben poco e che invece sono gravati di ben altri problemi: sociali, economici, lavorativi. Ancora una volta ci troviamo di fronte al dilemma: li prendiamo in carico, rischiando la psichiatrizzazione di problematiche sociali o li scarichiamo per “non competenza”? La nostra storia, la nostra cultura è quella della presa in carico e certamente non li rifiutiamo, ma dobbiamo analizzare in quale circuito assistenziale vengono immessi e quanto possiamo fare affinché la risposta assistenziale sia il meno escludente possibile. E ciò è praticabile se rimaniamo chiusi nella nostra cittadella di “specialisti della diversità”? E’ possibile se pensiamo che siamo gli unici ad essere “specialisti delle Istituzioni”? Confrontandoci con la cultura medica, anche quella più tradizionale (vedi i rapporti con i medici ospedalieri) abbiamo conosciuto colleghi che hanno aperto la loro mente alla riflessione sui rischi di istituzionalizzazione in un ospedale generale, geriatri diventati molto attenti per evitare che una RSA divenisse un piccolo manicomio, pediatri che hanno preferito valorizzare il ruolo della “famiglia che cura” e non inviare sbrigativamente il bambino autistico in centri specialistici. Abbiamo impiegato molte energie, nei decenni passati, a costruire modelli di servizi di salute mentale di buona qualità. Sicuramente quello del servizio aperto 24 ore sette giorni su sette è vincente. Ma non basta. Poiché pensiamo che i percorsi di cura non possano esaurirsi all’interno dei servizi di salute
mentale, siamo chiamati ad un nuovo impegno culturale e politico. L’impegno culturale –crediamo- consiste nell’analisi e svelamento dei dispositivi degradanti e di rinnovato controllo sociale delle istituzioni soft e in una continua opera di controinformazione. Riteniamo che sia giunto il momento di attrezzarci per diffondere informazioni contro i luoghi comuni delle cosiddette “cure per il bene dei pazienti” (anche l’elettroshock era propagandato così), a cominciare dagli effetti devastanti degli psicofarmaci. Le informazioni critiche, però, dovrebbero riguardare anche le conseguenze deleterie di centri diurni che assomigliano più a ghetti per matti che a luoghi di accoglienza, di case-famiglia che di “famiglia” non hanno neanche l’ombra, di centri di salute mentale che sono ambulatorietti per la “piccola psichiatria”. In quest’azione forse ci potrebbe servire fare più spesso riferimento alla letteratura e alla bibliografia indipendenti piuttosto che far ricorso a posizioni (sia pure corrette) autoreferenziali. Insomma, dopo aver costruito oltre trent’anni fa i nuovi servizi, dobbiamo cominciare a smontarli, per evitare di affermare una “ideologia di ricambio”, utile solo a controllare intere masse di uomini e donne, sotto l’orpello della novità. E l’ideologia di ricambio attuale può essere definita “la salute ad ogni costo” (inclusa la salute mentale): è il “biopotere” come definito da Michel Foucault, una forma di potere della postmodernità che si esercita sulla vita delle persone attraverso dispositivi che orientano e controllano i comportamenti di intere popolazioni, tesi ad evitare la malattia. La persona con handicap sia fisico che psichico è l’esempio che ci fa ben capire questa concezione. E’ l’espressione tangibile, visibile della nostra fragilità e tutta l’ideologia del salutismo individuale si fonda sul rifiuto della fragilità. Ed ecco che si approntano una tecniche seriali più o meno sofisticate per azzerare l’anormalità. Anche la psichiatria, benché di nuovo vestita, non si sottrae a questa idea e ha nel suo DNA le pratiche di normalizzazione. Di questo siamo convinti da tempo, ma dobbiamo ridimensionare l’approccio ideologico, per rilanciare la consapevolezza che la “follia è una condizione umana”. Il vero delirio è pensare di poterla eliminare. Il nostro compito è quello di starle accanto, umilmente, anziché combatterla, presuntuosamente. Forse questo è il nostro attuale impegno “politico”, come possibilità del cambiamento nel senso non tanto dei comportamenti, quanto dei sentimenti.
5 7 LUGLIO 2018
Le Sorelle Marx
Turismo di campagna
Le prime avvisaglie del cambiamento nel Governo del Cambiamento si intravedono nel cambio di targhette e di indirizzo di alcune fondamentali strutture ministeriali. Così, appena due giorni fa, il Ministro per i Beni Culturali e il Turismo Bonisoli ha deciso, sua sponte, di cambiarsi cedendo il Turismo al collega Centinaio, Ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, apportando il cambiamento del nome. Il perché di questo cambiamento rivoluzionario non appare immediatamente evidente. Forse che il Turismo e i suoi operatori sono considerate braccia rubate all’agricoltura e che, dunque, debbano ad essa essere prontamente restituite? Forse che con questo cambiamento si voglia incentivare l’agriturismo? Forse che il Bonisoli pentastellato sia stato “caldamente consigliato” di cedere la delega al Centinaio leghista? Tutto può essere. Ma a noi sembra più plausibile che la decisione sia stata
I Cugini Engels
La Saga del Promesso Assessore (continua)
Non c’è che dire. C’è del Genio a Palazzo Vecchio. Gli osservatori politici e anche i semplici cittadini erano rimasti interdetti quando era stato annunciato l’accordo per il nuovo assessore Massimo Fratini. Infatti tutti sapevano che la giunta di Firenze non può avere per legge più di 10 assessori e i posti erano tutti presi. Chi avrebbe fatto posto al nuovo assessore? Ingenui e poco fidati commentatori! Massimo Fratini non è un nuovo assessore ma un nuovo “quasi assessore”. Ma voi direte: che potere ha un quasi assessore se non può sedere nella Sala degli Otto? Ed è qui il grande colpo di Genio (frutto senza dubbio del capo della segreteria del Sindaco)! Il quasi assessore è infatti il responsabile delle cose quasi fatte ma ancora da definire completare, iniziare, pensare ecc ecc. E come capirete bene la
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suggerita dalla competenza peculiare che il Centinaio ha mostrato sull’argomento quando ha affermato in una intervista ad Agcult (era ancora parlamentare) che “Governo e classe politica sono assolutamente carenti nella mancanza di programmazione. Il turismo vive di fasi e bisogna saper prevenire e programmare nel momento delle vacche grasse, cosa che non si sta facendo”. E allora buttiamola in vacca! E, dunque, Turismo e Agricoltura stiano naturalmente insieme! In fondo, tutte vacche sono: grasse, magre, pazze soprattutto. D’altra parte Centinaio faceva il tour operator e, dunque, se c’è da trovare un albergo, cioè una sede per il nuovo Dipartimento del Turismo, chi meglio di lui. Lui l’idea ce l’ha già pronta: tutti all’Enit, dove c’è posto per tutti; belle stanze, arieggiate, climatizzate, 4 stelle (non 5, visto che gliel’ha portata via al Bonisoli pentastellato).
lista è infinita. E quindi anche il potere del quasi assessore è infinito. Non ci credete! Eccovi un limitato elenco. La tranvia è quasi fatta ma non del tutto e quindi c’è bisogno del quasi assessore. Lo stadio è quasi fatto ma ancora non si sa bene se si farà e quindi ecco che entra in campo il quasi assessore. La nuova pista dell’aeroporto é quasi approvata ma ancora c’è da fare la Conferenza dei Servizi, poi il passaggio nei consigli comunali ecc ecc. Chi sarà l’artefice del completamento del procedimento amministrativo? Ma che diamine il quasi assessore Fratini. Insomma non c’é che l’imbarazzo della scelta. A pensarci bene anche le prossime elezioni rischiano di essere quasi perse e anche per questo é indispensabile il quasi assessore. Lungimiranza della politica.
Lo Zio di Trotzky
Nardellik
Il nostro buon sindachino Dario Nardella ha subito una trasformazione genetica: ha dismesso i panni del bravo ragazzo, mai stato giovane, nato vecchio, ma innocente, col ciuffetto sbarazzino e ha indossato quelli dello spietato fustigatore di costumi degradanti e degradati. Lo ha dichiarato lui stesso in una intervista al Corriere della Sera: “Se vogliamo dirla tutta: il “buonismo” ha lasciato il campo al “cattivismo”” e nel mezzo deve stare il Pd. E per un attimo ha luccicato il canino allungato a causa di una goccia di saliva. Pare che lo stesso Nardella sia stato intravisto, nei dintorni di un campo Rom in smantellamento, travestito da Cattivik, il personaggio dei fumetti creato da Bonvi nel 1967. Solo che il Cattivik di Bonvi, nonostante alla fine dei suoi colpi, paghi sempre per le sue colpe, in realtà «contesta (...) la borghesia, la guerra, il sistema in generale» ed era l’unico a farlo nella stampa per ragazzi di allora. Ma oggi, paradossalmente il Nardella Cattivik al contrario è il prodotto più matura (quasi marcio, diremmo) del sistema. Secondo una definizione data dallo stesso Bonvi, Cattivik era «una macchia d’inchiostro: poco importa cosa sia esattamente, l’importante è che sporchi molto!». Un personaggio che compariva sempre vestito con una calzamaglia nera attillata, che viveva nelle fogne cittadine dalle quali usciva di notte, muovendosi saltellando e sghignazzando, per perpetrare furti e rapine che molto spesso non riusciva a portare a termine. Aveva un modo di parlare caratterizzato dal troncamento dell’ultima lettera della parola che pronunciava («n’n rispond’ senza il mio avvocat’»). L’interpretazione nardelliana moderna del personaggio è invece sempre saltellante, vestito con improbabili giacchette blu elettrico, implacabile con chi sgarra la legge, fanatico della legalità (tanto da assumere come suo consulente legale la figlia della presidente della Corte dei Conti) e della sicurezza. Più ampolloso nella favella ma, come il personaggio di Bonvi, ugualmente indefinito: cosa sia esattamente, ancora oggi, ben poco importa.
Nel migliore dei Lidi possibili
Indumento casalingo con tutti gli accessori necessari per ogni qualsiasi tipo di legittima difesa
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Segnali di fumo di Remo Fattorini Bombe d’acqua, alluvioni, frane, ondate di calore e siccità. Fenomeni estremi che si ripetono in maniera sempre più intensa. Colpa – dicono gli esperti – dei cambiamenti climatici che provocano danni su danni, a partire dalle realtà dove le politiche di adattamento vengono ignorate. Tra il 2005 e il 2016 le ondate di calore hanno provocato 23.880 morti. Sono 199 i Comuni italiani dove, dal 2010 ad oggi, si sono registrati gravi eventi meteo, con alluvioni e ben 157 vittime. La Toscana è tra le realtà più ferite, con 18 Comuni a rischio e 11 vittime. Solo qualche esempio, per non dimenticare. Nel
2010 a Prato un nubifragio provoca allagamenti e 3 vittime; a dicembre la neve imbianca Firenze mandando in tilt treni e bus. Ottobre 2011, Aulla va sott’acqua con edifici evacuati e 3 scuole distrutte. A Grosseto nel novembre 2012 si registra una piena record dell’Ombrone con allagamenti di abitazioni e danni alle coltivazioni, così anche a Carrara dove intere zone abitate finiscono sott’acqua, Aurelia compresa. Nel 2013 anche peggio: a Pontassieve una tromba d’aria manda all’aria tetti e abbatte alberi; a Monteroni d’Arbia una bomba d’acqua causa l’interruzione di strade e ferrovia; a Pontedera viene inondata e chiusa la FiPiLi; in Versilia a settembre piogge e vento causano allagamenti e danni agli stabilimenti balneari. Ad ottobre tocca a Lucca con allagamenti ed evacuazione di numerose famiglie; ferita anche Pistoia con 26 frane e allagamenti di abitazioni. A novembre 2014 ancora Carrara con evacuazioni delle famiglie alluvionate e poi a Grosseto
dove una bomba d’acqua provoca 2 vittime e allagamenti con danni all’agricoltura, evacuazioni e chiusura di strade. A settembre 2017 si registrano diverse tragedie, quella più drammatica colpisce Livorno, dove 250 mm di pioggia in sole 2 ore provocano al morte di 9 persone, allagamenti e forti danni alla città; piogge intense con allagamenti e danni anche ad Arezzo. Il 2018 non è da meno: a maggio esonda l’Ema provocando allagamenti a Greve in Chianti, mentre a San Giuliano Terme una tromba d’aria scoperchia tetti di oltre 40 abitazioni con evacuazioni delle famiglie; in Alta Valdera un nubifragio provoca esondazioni con strade interrotte e allagamenti. Nella lotta ai cambiamenti climatici è tempo di passare dalle parole ai fatti, con un piano straordinario per la sicurezza idrogeologica, interventi rapidi e politiche di adattamento. Come hanno già fatto a Glasgow, Copenaghen e Bologna, con il loro piano urbano sul clima. Per chi suona la campana?
7 7 LUGLIO 2018
di Susanna Cressati L’avvento della Lega al governo ha dato nuovo vigore (non bastasse quello che già aveva) alla parola “buonismo”, coniata alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso da Ernesto Galli della Loggia e rapidamente dilagata a destra, con effetti tra il clamoroso e il grottesco, fino a diventare (ha scritto Leonardo Bianchi su www.vice.com) l’insulto preferito degli italiani. Una cosa logica. Continua invece a farmi una certa impressione e a suscitare in me un vivo senso di ripulsa sentire usare con disinvoltura questo termine da esponenti politici che si collocano a sinistra, in questo momento all’opposizione. Dovrei ricordarmi Antonio Gramsci che, lucidissimo, scriveva nel febbraio del 1918: “Le parole si adagiano nella realtà ideologica dei tempi, si plasmano e si trasformano col mutarsi dei (cattivi) costumi degli uomini”. Eppure mi ribello al senso di disprezzo che la parola comunica. Perchè per me essere “buono”, laicamente buono, è una qualità talmente difficile e rara che bisognerebbe, quando fosse riconosciuta in qualcuno o in qualche azione, onorarla senza riserve. Buono è chi fa il bene, con forza e costanza, chi pur apparendo modesto, mite e riservato è aperto alle relazioni umane, è abile e paziente, lungimirante e tenace. Una cosa magnifica. C’è chi minimizzerà: è solo un modo di dire, una sintesi sbrigativa. Ma non è così. In primo luogo perchè questo “modo di dire” non ha perso negli anni un grammo della sua originaria valenza negativa e della sua virulenza. E poi perchè, come diceva Roland Barthes, “il linguaggio è una pelle”, ci riveste ed è il tramite, la membrana osmotica con cui il nostro essere, il nostro “io”, si presenta al mondo, per trasmettere e ricevere messaggi. Resta la domanda: perchè questa parola si usa anche a sinistra come se essere buoni (o cattivi) fosse una categoria politica assoluta? Mi viene in soccorso il linguista Giuseppe Antonelli, con il suo utilissimo libro “Volgare eloquenza” dedicato alle parole della politica contemporanea, in Italia e non solo. Scrive in sostanza Antonelli che, se un tempo c’erano parole di sinistra e di destra, oggi dominano solo parole comuni, in una spietata deriva di omologazione. Parole che sono “emologismi” , termini, frasi, formule che funzionano come emoticon, parole icona, linguaggio elementare, emozionale, refrattario al ragionamento, alle idee, loghi al posto del “logos”. Un linguaggio infan-
8 7 LUGLIO 2018
tile, prepolitico, semplicistico e aggressivo, che rinuncia a interpretare la complessità del mondo. Penso, numeri alla mano, che l’immigrazione non sia una disastrosa invasione? Sono buonista. Penso, anche se non sono credente, che i praticanti delle religioni debbano poter pregare in luoghi dignitosi? Sono buonista. Che i campi rom non debbano esistere in una città civile? Sono buonista. Che il lavoro non debba essere schiavismo, che le galere debbano essere luoghi che rispettano la dignità delle persone, che i malati di mente siano appunto malati e che non debbano risorgere i manicomi? Sono buonista. Desiderare la pace, la giustizia, l’umanità per tutti, fare il possibile perchè (come dice il noto spot pubblicitario) i figli di tutti abbiano il diritto di sognare e di crescere è buonismo? L’esperienza storica mostra, dirà qualcuno, che quasi sempre il mondo lo cambiano i cattivi. Ma di certo in peggio. Così sempre più palesemente queste categorie si dimostrano come minimo insufficienti. E usarle, da parte della sinistra, significa solo e soltanto accodarsi, assumere la visione del mondo dell’avversario, come
dice Antonelli, accettare il suo frame, la sua “inquadratura” dei problemi. Nè giova rivendicare il proprio “buonismo” o ritorcerlo contro il “cattivismo”. Piuttosto sarebbero necessarie parole nuove, cariche di significati e valori diversi, più accurate, più rispettose, a formare un nuovo, dice sempre Antonelli, “ecosistema linguistico”. E’ una responsabilità che spetta a tutti. Da giornalista mi viene in mente quanto i colleghi più impegnati e sensibili alla qualità e alla deontologia della loro professione hanno messo in campo per combattere le fake news, senza arrendersi all’ineluttabilità della loro diffusione. Sono le cosiddette tecniche di “debunking” (to debunk = smontare) a cui si dedica chi crede ancora (scrive Craig Silverman, un pioniere in questa attività) che “il principio fondamentale del giornalismo è che fornisce informazioni per aiutare le persone a vivere le proprie vite e comprendere il mondo che le circonda”. Rispetto al linguaggio, analogamente, c’è bisogno di una politica e di una cultura che stracci il velo ipocrita di una retorica bullista “generica e violenta” (Christian Raimo, su Internazionale) che è leghista ma non solo.
Per un nuovo ecosistema linguistico
Musica
Maestro di Alessandro Michelucci In questa rubrica dedicata alla musica abbiamo sempre cercato di dare spazio alle figure femminili, dalla Gran Bretagna all’Australia, dalla Catalogna alla Nuova Zelanda. Ma finora ci siamo concentrati sulle compositrici e sulle cantanti, mentre abbiamo trascurato quelle che dirigono. Si tratta comunque di una storia piuttosto recente: le donne hanno dovuto lottare a lungo per indebolire il radicato maschilismo degli ambienti musicali. Tanto è vero che la prima donna a dirigere un’orchestra, la famosa Nadia Boulanger (1887-1979), ha potuto farlo soltanto negli anni Trenta del secolo scorso. Oggi, per fortuna, le cose sono cambiate. Basti pensare a direttrici come Marin Alsop, Kaija Saariaho e Simone Young. Anche l’Italia contribuisce a questo fermento. Una delle figure più interessanti è quella di Silvia Colasanti, la compositrice e direttrice che il 29 giugno ha aperto il Festival di Spoleto col suo Minotauro. La parabola artistica dell’artista romana si è sviluppata negli ultimi anni, ma vanta già traguardi che ne fanno un’artista di grande rilievo. Nata a Roma nel 1975, Silvia Colasanti si forma al Conservatorio Santa Cecilia. Approfondisce gli studi con compositori di grande livello, fra i quali Azio Corghi e Wolfgang Rihm. Quindi si segnala in vari concorsi internazionali. Presto diventa una strenua sostenitrice dell’educazione musicale infantile. Lo conferma Il sole, di chi è?, un’opera per bambini con testo di Roberto Piumini e regia di Francesco Frongia, che viene rappresentata in prima nazionale nel 2009 al Teatro Ponchielli di Cremona. Fin dall’inizio, quindi, appare chiaro il suo interesse per l’opera, che secondo lei deve rinnovarsi coniugandosi con la contemporaneità: “non stiamo qui a far copie di linguaggi che non ci appartengono più”, ha detto in una recente intervista alla Repubblica. I teatri, sostiene giustamente, dovrebbero essere più coraggiosi, dando maggiore spazio alle nuove produzioni e limitando quello per le opere che piacciono ai turisti: “troppe Aida e Traviata”.
Una donna all’opera
In-Canto (Dynamic, 2011) segna il suo esordio discografico. Il CD contiene varie composizioni, fra le quali spicca il primo quartetto d’archi, “La rosa que no canto”, eseguito dal Quartetto di Cremona. Nel 2012 presenta la sua prima opera lirica, La Metamorfosi, al Maggio Musicale Fiorentino. Tratta dal racconto di Franz Kafka e diretta da Pier Luigi Pier’Alli, questa è la prima opera che il prestigioso organismo fiorentino commissiona a una compositrice. Negli anni più recenti Silvia Colasanti partecipa più volte al Festival di Spoleto. Qui dirige la prima assoluta di un’altra composizione propria, Tre risvegli, (2015), alla quale segue Requiem. Stringeranno nei pugni una cometa (2017, CD omonimo Dynamic, 2018), di Massimo Cavezzali
quest’ultima dedicata alle vittime del terremoto che nel 2016 ha colpito varie località dell’Italia centrale. All’ultima edizione, come abbiamo già visto, dirige Il minotauro. Artista moderna, profonda conoscitrice del bagaglio musicale contemporaneo, Silvia collabora regolarmente con artisti e orchestre di grande levatura. Il suo amore per la musica non si esaurisce nell’opera, ma si estende alla danza e alla didattica (inssegna al Conservatorio di Benevento). Spesso parliamo di artisti che ci sembrano interessanti e che definiamo “promesse”. Ma non è certo il caso di Silvia Colasanti, che ormai è una realtà consolidata del panorama musicale italiano e internazionale.
Il senso della vita
9 7 LUGLIO 2018
di Anna Lanzetta Alla luce degli ultimi avvenimenti non posso non pensare a quel quadro che aveva suscitato in me un profondo sgomento e che mi aveva indotto a spiegare ai miei studenti che il diritto alla vita è sacro e inviolabile. Quel quadro, infinite volte analizzato, si rivestiva di pietà cristiana, di fratellanza, di solidarietà, di civiltà, perché essere civili vuol dire acquisire il senso della comunanza e allungare l’occhio verso il bisognoso in un incrocio continuo di mani. “La zattera della Medusa” di Géricault appare oggi in tutta la sua crudezza e modernità. Con una struttura ascensionale sono rappresentati i corpi di coloro che chiedono aiuto e in cima un uomo di colore che tenta di richiamare l’attenzione dei soccorritori, che purtroppo non arrivarono. La scena è agghiacciante: corpi seminudi, corpi che si reggono a vicenda, corpi con la parola spenta per sempre. Basta poco per rapportarsi alla nostra realtà. Allora eravamo nel 1816 e a distanza di anni quella triste vicenda si ripete. Il nostro Mediterraneo pullula di cadaveri il cui numero si perde tra le onde travolgenti, affannate dal pianto di bambini cui la vita è negata. Tra continue risacche, il mare custodisce migliaia di corpi senza nome, mentre ogni possibilità di vita si chiude col divieto di accesso. Eppure veniamo da una cultura dove l’accoglienza era un elemento primario. Dove è finita la nostra cultura classica pregna di valori, oggi, costantemente elusi?. Memori del nostro passato, quando eravamo costretti a lunghe file in altri porti, in terre lontane, delle sciagure che ci hanno devastato in nome della razza o di altre terribili elucubrazioni, della parola “Libertà” che tante vite e sacrifici è costata; consapevoli che nessuno, con parole o fatti, potrà mai toglierci la dignità di sentirci pari agli altri, nè potrà ergersi a giudice a nome di tutti, che mai potrà cancellare in noi i principi di uguaglianza e di solidarietà (oggi purtroppo opinabili) tanto desiderati e ottenuti, che hanno cambiato il corso dell’umanità, dobbiamo uscire dal lungo letargo e riprendere in mano la nostra cultura e i suoi valori, base della nostra civiltà, consapevoli che chiunque si arroghi tali falsi diritti non lavora per la comunità, non conosce le radici della nostra storia, nefando al genere umano, avanza con prepotenza e tracotanza, privo di quel “rispetto” che ci ha reso e che ci rende uomini di sano intelletto.
10 7 LUGLIO 2018
Come in un mare di ghiaccio
L’Italia in questo momento è come una nave frantumata dal ghiaccio, che ci chiede di spezzare gli argini del disorientamento e di dialogare con il nostro passato contro chi tenta di affossarlo. La storia ce lo impone e ci richiama alla salvaguardia dei nostri valori, contro chi vorrebbe ridurci tutti ad albatri con le ali spezzate: Per dilettarsi, sovente, le ciurme / catturano degli àlbatri, marini / grandi uccelli, che seguono, indolenti / compagni di viaggio, il bastimento / che scivolando va su amari abissi. / E li hanno appena sulla tolda posti / che questi re dell’azzurro abbandonano, inetti e vergognosi, ai loro fianchi / miseramente, come remi, inerti / le candide e grandi ali. Com’è goffo / e imbelle questo alato viaggiatore! /
Lui, poco fa sì bello, com’è brutto/ e comico! Qualcuno con la pipa / il becco qui gli stuzzica; là un altro/ l’infermo che volava, zoppicando / scimmieggia. Come il principe dei nembi /è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,/ si ride dell’arciere: ma esiliato/ sulla terra, fra scherni, camminare /non può per le sue ali di gigante. ( C. P. Baudelaire, L’albatro da I fiori del male) Dobbiamo forse credere che non abbiamo più armi per difenderci e per recuperare l’identità perduta? Che nulla più ci attrae di quel corpo dell’Italia che erano i suoi valori? Che siamo albatri-naufraghi ciechi, assuefatti, sepolti da un cumulo di immondizia e da muri che si sgretolano e che malauguratamente si elevano, tristi metafore della realtà che ci circonda? Vogliamo forse che la cultura resti senza difesa nelle mani di chi da troppo tempo non riesce a capirne l’importanza vitale, quale spirito del nostro Paese?. Quando i giovani gridano e a ragione la propria rabbia, per la mancanza di una giusta collocazione; quando i lavoratori reclamano tutela e diritti; quando i nostri monumenti cadono a pezzi e crolla con essi la nostra storia e la nostra identità; quando all’essere si preferisce l’avere; quando gli interessi di uno solo o di pochi sopravanzano e di gran lunga il bene del paese; quando territori e persone, colpiti da cataclismi, vengono abbandonati; quando la scuola, senza adeguati sostegni, non assolve il compito di educatrice; quando si cerca un’informazione che sia specchio reale del paese, quando si raccoglie per strada la morte dei più deboli e il lezzo dell’abbandono, quando ci guardiamo intorno e non ci riconosciamo, allora ci rendiamo conto con amarezza che questo è il paese dell’apparenza che ha fatto dell’immagine e delle false promesse, la propria sostanza, e che bisogna con urgenza risvegliarsi, recuperare l’orgoglio e l’autostima e agire consorziati per risolvere i veri problemi , iniziando dalla povertà e dal futuro dei giovani. È tempo, alla luce della ragione, di riascoltare ognuno la propria coscienza e di sentirci accomunati, contro subdoli cambiamenti, in un’unica e ampia famiglia, perchè nella la sorte di ogni singolo vive l’intera collettività, nell’infinito concetto di umanità. Alla luce di quanto sta avvenendo, il “Bel Paese” oggi appare come un’utopia velata di malinconia, un mare di ghiaccio in frantumi, che per sottrarsi alla deriva, chiede a ciascuno di noi di disgelarsi.
di Biagio Guccione Con questo primo articolo Biagio Guccione, docente di Architettura del paesaggio, presenta in 5 brevissimi saggi i principi base della trasformazione del paesaggio. “Il paesaggio è ciò che resta della patria ciò che resta dopo lo straripare dell’urbanizzazione, la fine dei dialetti, la scomparsa dei luoghi e dei nomi di luogo, dei comportamenti e della comunicazione legati all’abitare e all’insediamento territoriale, all’interno dei processi della globalizzazione e del pensiero unico. ‘Dicendo ciò che resta della patria è evidente il richiamo al volto amato della patria’, ‘alla carità del natio loco’, ‘alla divina foresta spessa e viva’, ‘alle chiare, fresche e dolci acque’, alle locuzioni amate dalla borghesia colta, a cavallo del secolo, che si poneva, per la prima volta, il problema della conservazione del paesaggio italico di fronte ai primi processi di trasformazione legati all’industria”. Questa definizione di Gianfranco Di Pietro ci appare bellissima, struggente e densa di evocazioni, ma al tempo stesso fragile, consapevoli come siamo che solo una foto può fissare l’immagine di un paesaggio; dopo, c’è il suo evolversi nel tempo. Oggi più che mai la Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze 2000) ci impegna a proteggere il paesaggio indirizzando le trasformazioni e creando nuovi scenari e nuovi assetti che salvaguardino la memoria e la peculiarità dei luoghi. Il paesaggio è complesso, necessita di risposte articolate, mai semplificate, dove convivono esigenze diverse e talvolta opposte: tradizione e innovazione, natura e cultura, ecologia e forma, arte e tecnologia. Pertanto è necessario progettare e pianificare gli spazi aperti realizzando un calibrato equilibrio tra la struttura ecologica e gli elementi artificiali, tra valenze naturalistiche e valenze estetiche. Questa è stata la mia risposta alla domanda posta da Franco Zagari qualche anno fa a 48 studiosi del paesaggio. Un gioco colto e raffinato che ha prodotto un gustoso libretto ricco di spunti, riflessioni e suggestioni. Certamente un discorso sul paesaggio non può esaurirsi in una definizione di poche righe. La consapevolezza che il paesaggio sia un valore che va salvaguardato è oramai nella coscienza della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Così come il fatto che contemporaneamente bisogna prendere atto delle sue trasformazioni nel tempo, e
Le trasformazioni del paesaggio che sulla qualità delle trasformazioni si possa giudicare una comunità. Certamente l’immagine che lascia oggi la società contemporanea non è molto felice: essa si muove tra la devastazione di intere regioni e gli ecomostri. In ogni caso, preso atto che il paesaggio si evolve nel tempo e che è ineluttabile la sua trasformazione , il dibattito si sposta sulle regole della trasformazione. Sappiamo tutti che il vincolo non serve a nulla. Il paesaggio muta continuamente, è sempre cambiato, basti andare a rileggere la Storia del Paesaggio italiano di Emilio Sereni. Oggi, si pone il problema di pilotare questo cambiamento: per questa ragione è
indispensabile avere paesaggisti competenti che conoscano la storia e l’evoluzione del paesaggio, che conoscano le regole ecologiche per creare nuovi assetti. Per questo noi paesaggisti disapproviamo chi dice no alle trasformazioni. Bisogna dire no alle trasformazioni sbagliate. All’ignoranza dobbiamo opporre anni di studi nel settore che molti ricercatori hanno messo a punto. Con 5 interventi, molto brevi e con taglio divulgativo, vorremmo in modo elementare ed essenziale tracciare quali sono i fondamentali per affrontare il problema della trasformazione del Paesaggio. Eolico nel paesaggio toscano - foto E. Campus
11 7 LUGLIO 2018
di Danilo Cecchi Lo hanno definito in molti modi, fotografo vagabondo, invisibile, poeta, fotografo degli invisibili o dei bambini, cacciatore di miracoli, pescatore della fotografia. Il suo conterraneo ed amico Pablo Neruda lo chiamava “il vagabondo di Valparaiso”, ma lui, faticava perfino a definirsi un fotografo, parlava poco di se stesso, e si considerava un semplice viaggiatore con il gusto di osservare. Sergio Larrain (1931-2012) nasce a Santiago del Cile in una famiglia benestante in cui si sente a disagio, a diciotto anni va a studiare ingegneria forestale a Berkeley, ben presto rinuncia agli studi ed acquista una Leica di seconda mano, senza avere davvero l’intenzione di usarla. La passione per la fotografia arriva quando frequenta un laboratorio con la camera oscura e comincia a sviluppare e stampare il bianco e nero. A vent’anni torna in Cile, va a vivere da solo ed inizia a fotografare i “meninos de rua” che vivono nelle strade dei quartieri poveri di Santiago. Nel 1953 tiene la sua prima esposizione e spedisce alcune foto a New York, dove Edward Steichen ne acquista due per il dipartimento di fotografia del MoMA. Viaggia attraverso il Perù, la Bolivia e l’Argentina, in Brasile fa conoscenza con René Burri e nell’inverno del 1958 va a Londra, dove gli viene assegnata una borsa di studio per fotografare la città. Le immagini scattate a Londra e quelle dei bambini di strada attirano l’attenzione di Cartier-Bresson, che gli chiede di entrare nella Magnum, primo fotografo latino americano a ricevere questo invito. Viene mandato a fotografare le nozze dello scià con Farah Diba, la guerra di liberazione dell’Algeria, ed in Italia a fotografare i musei ed il festival del cinema di Venezia, ma anche con il compito impossibile di fotografare il capo della mafia siciliana Giuseppe Genco Russo. Rimane in Sicilia per oltre tre mesi, passa molto tempo a Corleone, e riesce ad entrare in contatto con la famiglia Russo. Dalla Sicilia riporta oltre duemila fotografie, di cui una settantina sono dei ritratti del capomafia scattati all’interno della sua abitazione. Nel 1961 diventa socio effettivo della Magnum, ma presto decide di tornare in Cile, a Valparaiso, dove si sente libero di fotografare al di fuori di ogni incarico ufficiale. La notorietà ed il denaro guadagnato con i suoi lavori fotografici lo infastidiscono, non sente come sue le foto fatte su commissione, ed i rapporti con la Magnum si raffreddano. Fotografa il suo paese, le città, le strade, le piazze, i mercati ed i bordelli, torna ai suoi vecchi progetti ed alla sua vecchia poetica: “Non devi mai sforzarti a fare delle foto, perché così si perde la poesia e la vita si ammala, è come forzare l’amore o l’amicizia, non si può”. Dal rapporto di
12 7 LUGLIO 2018
lavoro e di amicizia con Cartier-Bresson matura una nuova maniera di guardare il mondo e di fotografare. Non cerca il documento, non cerca il racconto, cerca il momento magico in cui lo sguardo incontra la visione inaspettata, in cui il reale si trasforma in poesia. Il suo modo di fotografare consiste in “Vagare tutto il giorno per le strade, per posti sconosciuti, quando ci si affatica sedersi sotto un albero, comprare una banana o del pane e prendere il primo treno, guardare, disegnare anche, e tornare a guardare, uscir fuori dal conosciuto, entrare nel mai visto, lasciarsi guidare dal piacere, trovare cose che suscitano immagini, da prendere come apparizioni”. Ed ancora “Non lasciarsi prendere da ciò che è convenzionale, lasciarsi portare solo per il gusto di osservare, le apparizioni si faranno più chiare e fotograferai con più attenzione”. “Una buona immagine è generata da uno stato di grazia. La grazia si esprime quando uno è libero dalle convenzioni, libero come un bambino durante la sua prima scoperta della realtà. Il gioco è quindi
quello di organizzare il rettangolo”. Il “rettangolo” è la cornice del mirino, e nel 1963 in occasione di una mostra pubblica un libro di poche pagine, “Il rettangolo nella mano”. Nel 1966 illustra con le sue fotografie il testo di Pablo Neruda “La casa sulla sabbia”, nel 1970 esce dalla Magnum e si ritira in un eremo sulle Ande, dedicandosi alla meditazione, alla pratica dello yoga ed all’insegnamento. Dopo il colpo di stato di Pinochet si isola ancora di più, rinuncia quasi completamente alla fotografia, incapace di cambiare il mondo, e distrugge la maggior parte dei suoi negativi e delle stampe. Solo con fatica alcuni amici e vecchi collaboratori riescono a convincerlo a far pubblicare nel 1991 “Valparaiso”, nel 1998 “London” e nel 1999 “Sergio Larrain”, tutti libri che vengono rieditati in diverse lingue dopo la sua morte. Il suo insegnamento può essere sintetizzato in pochi consigli: Togli dalla realtà il velo dell’illusione. Liberati dalle convenzioni. Inizia la tua avventura. Non forzare le cose e segui i tuoi gusti. Non tentare di adattarti al mondo commerciale. Isola te stesso in modo creativo. Evita la fama
Sergio Larrain Fotografo vagabondo
Disegnare la Toscana Gorgona e Capraia
di Andrea Ponsi
13 7 LUGLIO 2018
Disegno di Paolo Marini
Attualità
di Paolo Marini “L’Italia – e non solo l’Italia del Palazzo e del potere – è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue: ‘contaminazioni’ tra Molière e il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti in folla a Ferragosto. Erano l’immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di ‘raptus’: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti”. Pier Paolo Pasolini in “Lettere luterane”
14 7 LUGLIO 2018
L’Arno si tinge di rosa di Luisa Moradei In questi giorni il volto di Firenze ha assunto le tinte del rosa, in tutte le sue sfumature, per focalizzare l’attenzione sul grande festival che si svolgerà in Arno dal 6 all’8 luglio. Si tratta della quinta edizione dell’International Breast Cancer Paddler’s Commission Dragon Boat Festival che, dopo aver esordito in Canada nel 2005 ed essere passato per Australia e U.S.A., approda per la prima volta in Europa proprio qui a Firenze. Lo scopo di questa manifestazione è quello di divulgare l’importanza della prevenzione del tumore al seno e incoraggiare corretti stili di vita coadiuvati dalla pratica sportiva. Fra le varie discipline, quella del dragon boat è una delle più seguite in tutto il mondo perché, grazie al movimento del pagaiare, ha prodotto esiti molto vantaggiosi nel percorso riabilitativo post-operatorio e nella prevenzione del linfoedema. Ma la caratteristica principale consiste nell’essere uno sport di squadra e quindi particolarmente adatto a creare rapporti interpersonali fra le varie atlete che confrontandosi tra loro, sulla medesima esperienza di malattia, possono trarre benefici effetti psico-fisici. La manifestazione è promossa e organizzata dall’associazione Firenze in Rosa Onlus e si svolgerà tra il parco delle Cascine e le acque dell’Arno. Le 120 squadre che si avvicenderan-
I pensieri di
Capino
In fondo, viene da rimpiangere i “bei tempi” in cui un Ministro capì (dopo che qualcuno “a sua insaputa” gli aveva comprato una casa con vista sul Colosseo) che era il caso di tornarsene in Liguria e a rimettersi in coda per poter ricominciare dalla “casella di partenza”. Mi riferisco al neo (ri)eletto Sindaco di Imperia, già Ministro della Repubblica. Sia chiaro: non mi auguro che una volta “rottamato” a Roma, qualcuno (che, forse, potrà arrivare a concludere l’acquisto di una Villa con vista su Firenze, grazie –come si usava fare
no sul nostro fiume, in un’avvincente gara non competitiva, sono formate da donne e uomini operati di tumore al seno la cui età è compresa tra i 20 e gli 80 anni. Se da un lato è preoccupante la presenza di donne giovanissime, dall’altro è incoraggiante la testimonianza coraggiosa di persone, non più giovani, che con la loro presenza vogliono affermare l’importanza di un approccio positivo dopo un’esperienza traumatica, dimostrando quanto possano incidere la volontà e la determinazione nel riappropriarsi della propria vita dopo il tumore. Le donne sono già arrivate in città, da tutte le parti del mondo, e sono davvero tante, circa 3.000 oltre i supporters; è facile riconoscerle perché la loro maglia rosa, col dragone in campo, occhieggia festosa nel brulichio della folla di turisti. La squadra fiorentina Florence Dragon Lady LILT è la più numerosa d’Italia (60 iscritte) e rappresenterà la città con ben due armi. Martedì scorso, nella prestigiosa sede dell’Accademia Italiana arte moda design, si è svolta la cerimonia di consegna delle divise che indosseranno le nostre dragonesse in occasione della Parade of Nations, la passeggiata che vedrà sfilare le 120 squadre da piazza Pitti a piazza della Signoria. L’evento ha avuto luogo nella suggestiva altana del palazzo di John Temple Leader alla presenza del presidente dell’Accademia Vincenzo Giubba, del presidente della LILT di Firenze
Alexander Peirano e dello sponsor ufficiale Roberto Giannelli della ditta Giannelli Firenze. Il bellissimo completo bianco e rosa fucsia, che indosserà la squadra fiorentina, è stato disegnato da Alice Fruendi, brillante studentessa del corso di Fashion Design dell’Accademia. Oltre all’abito, la ditta Giannelli ha realizzato anche le calzature in pendent, creando un modello particolare con la tomaia intercambiabile; starà a ciascuna dragonessa scegliere l’accostamento di colore preferito, “Fashion is a game” suggerisce Giannelli. In questo gioco di colori il “roseo” allestimento della location, frutto della fantasia di Benedetta Tosi, ha contribuito a creare un festoso clima d’attesa negli animi delle nostre dragonesse che, siamo sicuri, riusciranno a piazzarsi ai primi posti…. hanno già guadagnato il titolo di campionesse italiane, non lo dimentichiamo! Con i nostro augurio, viva la Florence Dragon Lady! Are you ready? Go!
Bei tempi andati in un quiz televisivo di qualche anno fa- ad un “aiutino da casa”) pensi di poter esser votato per tornare in Palazzo Vecchio. E questo non perché più che con la prospettiva di essere votato, dovrà fare i conti con la conseguenze (purtroppo non solo sue) di essere stato... svuotato, ma perché è utile si ricordi che la sua casella di partenza, nell’ideale Gioco dell’Oca cui spesso si cimentano coloro che non paiono capaci di rassegnarsi a non aver più seguito in politica, sarebbe quel Palazzo Medici Riccardi in cui un tempo c’era la Provincia. E credo, che nemmeno Paperino (Donald Duck) potrebbe pensare di tornare a sedersi su quel ramo che lui stesso ha, in precedenza, tagliato. Ma, parafrasando quell’antico cronista medio orientale di nome Luca (IX, 51-62), “lasciamo che i morti seppelliscano i morti” e guardiamo che cosa sta succedendo, ora, attorno a noi. Sarà per via dell’età, ma non ci tranquillizza
che Trump (un Capo di Stato, e di che Stato!), dopo aver partecipato ad un Summit mondiale, con tanto di strette di mano, sorrisi a beneficio di fotografi e telecamere, e firme ostentate, sia salito sull’aereo e, con un “twitter”, abbia smentito tutto, compresa la buona fede del Capo di quello Stato dal cui suolo l’Air Force One era appena decollato. Il fatto è che non è facile collocare, in una ideale scala discendente (verso dove, non si sa, pur temendo di intuirlo) più in basso una qualsiasi delle immagini che ci rimbalzano, e colpiscono, dalla Casa Bianca, o le parole con cui –poche ore dopo aver affabilmente, sembra, cenato assieme in una complice serata romana e dopo aver sottoscritto, assieme ad altri 26 Capi di Governo un “sudato” Documento), Conte e Macron si smentendosi l’un altro. “Il mio amico Emanuel non ha capito; era stanco...”. Arriveremo a leggere: “Io non c’ero e, se c’ero, dormivo”?
15 7 LUGLIO 2018
Il coretto granducale di M.Cristina François Questo articolo è un complemento di quanto già pubblicato nei nn.229, 232, 268 di “Cu. Co.”, relativamente al Coretto Granducale di S. Felicita e alle sue adiacenze. Credo che potrebbero essere ancora utili per gli addetti ai lavori alcune notizie documentarie e precisazioni che darò qui in aggiunta. Per quanto riguarda “ieri” e la stagione medicea del Coretto, rinvio ad un articolo da me pubblicato in “Bollettino di Pitti 2012” (on line) e intitolato “Il Coretto dei Sovrani in S. Felicita: documenti e ipotesi”. In epigrafe del “Bollettino di Pitti 2013”, scelsi di dedicare la mia ricerca sul tema all’Amministratore Parrocchiale appena nominato, con l’augurio che quanto da me raccolto in Archivio fosse “in funzione degli imminenti restauri che interesseranno proprio i locali dell’ex-monastero, e si svolgeranno […] in sintonia con i Funzionari della Sovrintendenza”. Ricordato questo, intenderei ora partire dal 6 marzo 1779, quando Pietro Leopoldo ottenne dai Conti Capponi la cessione del loro Coretto. Si venne così a formare un unico grande Balcone come lo si vede oggi. Ricollegandomi al n.269 di “Cu. Co”, ricordo inoltre che i due grandi Armadi per Reliquie, costruiti in stile neogotico nel 1858, presenti attualmente nel Coretto dove furono collocati per desiderio del Card. E. Dalla Costa, erano in origine collocati nella Sala Capitolare detta anche “Cappella delle Reliquie”. Quanto all’Armadio a vetri, esso fu costruito dopo il 1966 e ivi assemblato per albergare le Reliquie di S.Jacopo sopr’Arno scampate all’alluvione. Agli anni ’70 del Novecento risale, invece, il rifacimento in marmo della scaletta in pietra serena del primo ‘600 che univa il Camminamento Granducale intra muros con il Coretto: alcuni gradini sono ancora visibili nel vano del sottoscala. Riguardo all’altare ligneo effimero, in appoggio nel Coretto al di sotto dell’affaccio dal Corridoio Vasariano, esso va identificato col secondo altare costruito nel 1841 per la Sagrestia, altare precedente a quello odierno in pietra serena del 1889 [“Libero”, La sagrestia di S. Felicita, n.27-28, a.2006]. Le “Griglie a finta tela per il Palco Reale” vengono rifatte a trompe-l’œil “in tutto e per tutto a nuovo a regola di arte” e inaugurate da Vittorio Emanuele II nel 1872
16 7 LUGLIO 2018
Ieri, oggi e domani
[Ms.384]. Ancora oggi in situ, queste griglie finte furono rinnovate per due ragioni: evitare durante il periodo invernale la dispersione di calore della stufa lorenese attigua al Coretto e, una volta ben serrate, creare un ambiente ‘privato’ per il sovrano che fumava volentieri il sigaro pure in Chiesa. Nel 1872 anche le due “gelosie ferrate” ai lati del Balcone centrale sono rifatte ex novo in legno dorato. Per quel che concerne l’assito del pavimento del Coretto, dal 1936, conseguentemente alle indagini eseguite per la Cappella Barbadori-Capponi dagli arch. Piccoli e Niccoli, esso consente tramite alcune assi sollevabili di visionare l’ultima copertura scapitozzata della Cappella stessa. Questi gli aggiornamenti circa il Coretto di “ieri”. Per ciò che riguarda informazioni riferibili all’“oggi”, occorre menzionare un progetto intitolato “Dal Palco del Granduca: per un’esposizione permanente della quadreria, degli addobbi e delle oreficerie della Chiesa di S.Felicita”. Il progetto, mai realizzato, fu presentato, sovvenzionato ed approvato con Nulla Osta della Soprintendenza del 18 agosto 1998. Un altro progetto dell’ottobre 2013 fu intitolato: “Camminamento e Palco del Granduca”. Ancora in fieri, avrebbe lo scopo di recuperare questi spazi di S.Felicita per un’Esposizione permanente o Percorso museale. Fra questi due progetti si situa un’interessante soluzione più facilmente realizzabile, risalente ad un sopralluogo del Coretto e degli ambienti adiacenti effettuato il 12 ottobre 2010. In questa occasione l’allora Direttore degli Uffizi Antonio Natali intravide per questi ambienti un allestimento con oggetti, opere d’arte e arredi che si rapportassero ai Granduchi lorenesi i quali avevano dato al Coretto l’assetto attuale. A. Natali non pensava a un vero e proprio Museo in cui collocare le opere migliori come in un “salotto bòno” secondo, invece, le previsioni degli altri due progetti citati. Si trattava più precisamente di inserire il Coretto in un percorso temporaneo, legato ad eventi correlati con quegli spazi; quindi, non un “Museo sempre aperto e a entrata fissa”. Infine propose l’apertura del varco di comunicazione tra il Vasariano e il
diverticolo costituito dal Camminamento con accesso al Coretto: una soluzione naturale che riportava quei luoghi a memorie autentiche, non falsate da progetti alieni. Naturalmente tutto questo era da realizzarsi nel rispetto reciproco delle proprietà del Demanio e della Curia. Come già accennato in “Cu.Co” n.229, in un documento - costituito da due Fascicoli fuori Inventario - riguardante le trattative intavolate fra il 1912 e il 1914, si legge che il Parroco e gli Operai dell’Opera di S.Felicita chiedono “la cessione in uso temporaneo” dei due Coretti, del Camminamento e dello Scalone Granducale valida “fino a che o dalla Real Casa o dalla Direzione delle Reali Gallerie non fosse creduto opportuno per sopraggiunti motivi di disporre in contrario […] fatta in via precaria ed essere sempre revocabile a beneplacito della Real Casa e della Direzione delle Reali Gallerie quando avvenisse che a questi Enti riuscisse conveniente di tornare in possesso dei locali in parola”. I due Fascicoli contengono, fra le altre carte, l’Atto di Cessione datato 29 ottobre 1913: Cessione dall’Amministrazione della Real Corte del Re V. Emanuele III alla Chiesa e Parrocchia di Santa Felicita, la cui stipula fu redatta dall’Ing. Alfredo Corsi Segretario dell’Intendenza di Finanza presso il Palazzo Demaniale dell’Intendenza di Finanza, Via della Fortezza, 8. Le Coordinate del Contratto sono le seguenti: Protocollo Speciale Contratto n.3342 e Repertorio n.1905. Così, la lungimirante esperienza e professionalità in campo museale dell’ex-Direttore degli Uffizi avrebbe da tempo potuto ridar vita pure a due storiche decisioni: quella del 26 febbraio 1842 per la quale si stabilisce di aprire ai visitatori il Corridoio, previa richiesta alla Guardaroba e accompagnati da “assistenti”, e quella del 1866, quando anche i Savoia concessero il passaggio a pubblici visitatori delle opere d’arte “visitabili” nel Corridore. Questi potrebbero essere verosimilmente il Coretto Granducale e i suoi spazi adiacenti di “domani”, ivi compresa la terza uscita di sicurezza per il Vasariano in fondo allo Scalone Granducale, uscita che si apre - come all’origine - su Piazza de’ Rossi.
di Gianni Bechelli Il 5 giugno si è svolta all’INAF, Osservatorio Astrofisico di Arcetri, la cerimonia di presentazione del vincitore del premio Magini. Stefano Magini (1957-2014) è stato progettista e realizzatore di strumenti scientifici e titolare di una piccola, ma prestigiosa azienda, fornitrice di materiali dell’Osservatorio. Il premio è stato istituito grazie alla volontà di Maria Grazia Magini, persona di rara sensibilità per il suo interesse per una scienza così strategica ma anche così lontana dal nostro quotidiano, in ricordo del proprio cugino. E’ il secondo anno che il premio viene assegnato, nel 2017 era andato a Elisa Bortolas con la ricerca Dynamics of Massive Black Hole in Calactic Merger Remnants . Quest’anno la palma di miglior ricerca presentata tra oltre venti proposte è andata ad Andrea Zannoni dell’Università di Milano con una interessantissima ricerca dal titolo ” Rivelazione di atmosfere di pianeti extrasolari mediante spettroscopia di trasmissione ad alta risoluzione”. Si è trattato di una giornata molto piacevole ovviamente per il luogo delizioso e l’atmosfera coinvolgente per le persone che frequentano un posto così particolare a cominciare dalla direttrice di Arcetri dott. Sofia Randich. La ricerca vincitrice riguarda qualcosa di tecnicamente complicato ma assai meno di quanto il titolo possa lasciar pensare ; l’obbiettivo di ricerche di questa tipologia, che hanno conosciuto negli ultimi anni una notevole crescita di interesse con l’affinarsi di tecnologie di osservazione , hanno cominciato a farci intravedere l’enorme complessità di tipologie di pianeti extra solari che proliferano nelle nostra galassia. L’interesse in primo luogo è capire di cosa sono composti questi esopianeti: elementi che testimoniano evoluzioni simili dei sistemi interplanetari oppure dinamiche molto variegate che ci danno anche nuove chiavi interpretative. Inutile negare che è primario, anche se non esclusivo, capire come per alcuni pianeti e satelliti del nostro sistema solare, se esistono forme di vita e come questo è reso possibile sia dalla posizione dei pianeti rispetto alla propria stella di riferimento sia per gli elementi che li compongono. La spettroscopia serve a capire e a definire proprio questi elementi. La corsa cominciata anni fa alla scoperta di questi pianeti extra solari ci ha portato in poco tempo da qualche pianeta a circa i quasi tremila di adesso, e la corsa sembra destinata a moltiplicarli velocemente. La vita è certamente presente da qualche altra parte oltre il nostro pianeta, se si trova-
Premio Magini ad Andrea Zannoni
no gli elementi fondamentali che ne consentono la nascita, anche in situazioni estreme e a volte oltre i limiti che conosciamo come è già avvenuto in luoghi improbabili della Terra. E’ tuttavia difficile trovare una combinazione di elementi così variegati che consentano una qualche forma di vita, ancor più difficile che questa abbia una qualche forma di intelligenza. Eppure si può contare su qualcosa per questa complicata possibilità e sta nella legge dei grandi numeri, nel numero incredibile di stelle della nostra galassia intorno ai cento miliardi e nelle centinaia di miliardi di galassie. La probabilità è elevata ma anche la distanza e le variabili , la possibilità sta nel trovare sempre più pianeti che aumentino questa probabilità. Se il numero è decisivo lo è anche il tempo e la fortuna che non sono variabili prevedibili. Ma nemmeno possiamo pensare che questa quantità di spazio e materia sia servita solo per la vita
di questo granellino di sabbia di una spiaggia immensa che è la Terra e l’universo, per chi ha fede perché Dio non può essere così sprecone ed esagerato, per chi è laico per le semplici leggi di probabilità, e comunque per sentirsi meno soli in questa immensità. Una menzione d’onore è stata data alla ricercatrice di Arcetri Chiara Mininni per la ricerca Interstellar Phosphorus in High Mass Star Forming Clouds: Multi-line Observations of the PN Molecule, questo il titolo della tesi di laurea presentata sotto la supervisione di Francesco Fontani dell’Inaf di Arcetri, ha ricevuto la menzione “sia per la rilevanza delle misure che per la chiarezza dell’esposizione. Nonostante l’importanza del fosforo per la vita, soltanto due molecole, il PO ed il PN, sono state rilevate in tempi abbastanza recenti in regioni di formazione stellare. E questa tesi indaga proprio sul meccanismo di formazione di una di loro, il PN”.
Maria Grazia Magini e Andrea Zannoni
17 7 LUGLIO 2018
di Simonetta Zanuccoli A Parigi la mostra Foujita: peindre dans les Années folles al museo Maillol sta ottenendo un successo strepitoso e forse sarà prorogata di qualche giorno la data di chiusura del 15 luglio. Eppure Tsuguharu Fujita (1886/1968), uno dei maggiori protagonisti negli anni 20 della vita artistica di Montparnasse, personaggio singolare dai molti talenti (pittore, designer, fotografo, ceramista, illustratore, stilista), ammirato all’epoca anche per il suo personalissimo dandismo, è stato dimenticato per un lungo periodo e solo da qualche anno è possibile riammirare i suoi splendidi quadri. Al museo Maillol, in occasione del cinquantenario della morte, ne sono esposti più di 100 provenienti da collezioni pubbliche e private che coprono il suo primo periodo parigino, molto produttivo, dal 1913 al 1931. Le tele sono tutte bellissime con linee precise, ondeggianti, sensuali, l’estrema attenzione ai dettagli, l’uso del sumi (inchiostro nero giapponese) ma anche della tempera, dell’acquarello, della foglia d’oro che rendono i fondi, in genere relegati a un ruolo secondario, così incisivi da sublimare il soggetto rappresentato. Un equilibrio perfetto tra classicismo e modernità. Foujita nasce da una famiglia ricca e nobile. I suoi antenati hanno regnato sul Giappone dal VII al XII secolo. Suo padre è un generale di brigata ma nonostante il conformismo dovuto al suo ruolo e alla sua cultura favorisce subito il talento artistico del figlio dando il suo assenso quando questi, a 18 anni, seguendo il rigido codice di comportamento, gli scrive per chiedere il permesso di diventare pittore con la promessa di riuscirvi. Dopo aver completato gli studi alla Tokyo School of Fine Arts parte quindi, nel 1913, per Parigi. All’arrivo, data l’importanza della sua famiglia, trova ad attenderlo un comitato d’accoglienza in pompa magna, ma lui, dopo poche ore, riesce a sfuggire ai festeggiamenti e a incontrare Picasso nel suo studio dietro il cimitero di Montparnasse e a conoscere molti dei suoi vicini artisti come Soutine e Modigliani. Il giovane giapponese, sempre elegantissimo con la sua pettinatura a caschetto, gli occhiali tondi e i grossi anelli come orecchini, attraverso loro comincia a confrontarsi con una nuova estetica e un nuovo stile di vita. Si tuffa, quasi in segreto, in un lavoro artistico incessante nel quale mescola con originalità Oriente e Occidente, sacro e profano. Poi incontra al caffè Dome, meta di tutti gli artisti, Fernande Barrey e 17 giorni dopo la sposa (sarà la prima delle 5 mogli). E’ lei che procura a Foujita il contratto con
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Leonardo Foujita,
artista, dandi, evasore fiscale il mercante d’arte Chéron e, attraverso questo, la prima mostra. Grande successo. Le sue opere cominciano a circolare non solo in Francia ma in tutta Europa, negli Stati Uniti e persino in Giappone. Diventa uno dei pittori più ricchi di Parigi. La nobiltà e la grande borghesia corrono a farsi ritrarre da questo geniale pittore esotico. Lui dipinge, sempre con poesia e precisione, anche i suoi amati gatti, i nudi (genere quasi sconosciuto in Giappone), bambini, nature morte, lavorando anche 15 ore al giorno. Questo non gli impedisce di vivere una vita sociale intensissima e piena di eccessi. Foujita ha un altro colpo di fulmine: si innamora di Lucia Badoud, soprannominata Youki. Per la sua pelle bianca come il latte ritratta in splendidi nudi lascia Fernande. Passato in pochissimo tempo dall’anonimato alla notorietà e all’opulenza spende molto e non paga sempre le tasse. I guai con il fisco e i debiti con gli amici travolgono la carriera di Foujita proprio durante la terribile crisi economica del ‘29. Riesce momentaneamente a resistere vendendo le sue opere in un’esposizione di grande successo a Tokyo ma poi, la vita troppo dispendiosa e l’amore dichiarato
della bella e libera Youki per un amico della coppia, il poeta Robert Desnos, lo spingono a lasciare la Francia con una bella lettera d’addio e di auguri di felicità ai due. Torna in Giappone. La sua nuova compagna Madeleine Lequeux, splendidi riccioli rossi, occhi chiari bistrati, ballerina del Casino de Paris, muore a soli 27 anni tragicamente. Lui piange disperato in pubblico, fatto raro in Giappone, sulla bara ricoperta di crisantemi. Ma poi, dopo poco, si risposa con Kimiyo Horiuchi, bellezza tipicamente orientale. Con lei affronterà gli anni difficili della sua vita: la guerra giapponese contro i cinesi come pittore al seguito delle truppe, un breve periodo negli Stati Uniti, il suo sognato ritorno a Parigi nel 1950. Ma i luoghi della gioventù vissuti con tanta intensità sono cambiati, la sua Montparnasse è diventato un brutto quartiere senza personalità, gli artisti si sono trasferiti a Saint Germain e molti di quelli conosciuti sono morti. In crisi mistica, nel 1959, diventa cattolico e si fa battezzare con il nome di Léonard (in onore di da Vinci). Le sue ultime opere sono firmate Lèonard Foujita.
di Valentino Moradei Gabrielli E’ da sempre che accompagniamo, come facevano già i nostri avi, il parlare e il nostro scrivere con parole di origine straniera. Una volta il francese, da qualche decennio con parole di lingua inglese, sempre più numerose grazie allo sviluppo dell’informatica e alla popolarità dell’economia e della finanza. Parole coniate recentemente che non trovano un’immediata corrispondenza nella lingua italiana, per definire nuove professioni per esempio o sostituire perché più “attuali” le parole italiane con lo stesso significato. Il presentare in lingua diversa pensieri, modi di fare o di dire, perfino attività, azioni, ci fa immaginarli cosa nuova e inesistente prima. Penso per esempio alla parola “Coworking space”, esplosa negli ultimi tempi come idea attualissima e di grande rinnovamento nel campo dell’organizzazione del lavoro, che definisce nuovi modi di condivisione di spazi e collaborazione. Il coworking, detto così appare cosa nuova, un’invenzione recente, almeno in Italia. Mi piace invece pensare che la ragione che aveva portato nel diciannovesimo secolo, i numerosi artisti residenti nella città di Firenze a riunirsi prima nei conventi diventati privati a seguito delle soppressioni napoleoniche, poi riunitisi per costruire edifici con finalità specifiche quali gli studi di artisti attorno al costruendo piazzale Donatello, fosse l’aver intuito l’importanza che avrebbe comportato il condividere gli spazi di lavoro, stimolando lo scambio di esperienze e sommando le competenze, anticipando, di fatto, l’idea del coworking. Gli studi degli artisti costruiti attorno al piazzale Donatello, furono i primi esempi, ai quali seguirono la costruzione di altri due edifici con le stesse specifiche finalità lungo il corso del torrente Mugnone oggi Viale Giovanni Milton. Dei due uno fu demolito e sostituito da una costruzione più recente nel dopoguerra, l’altro, il “Palazzo dei Pittori”, chiamato così perché, come nelle intenzioni del suo committente il pittore inglese Lemon, destinato a studi di pittori. Chiamato anche “Palazzo Swertschkoff”, fu progettato dall’architetto Tito Bellini e edificato attorno agli anni ‘80 dell’Ottocento, per ospitare artisti di varie nazionalità quali inglesi, tedesca, russa, svizzera e italiana che operavano a Firenze, rivestendo un ruolo storico e culturale importante. Tra i suoi più illustri ospiti, il pittore svizzero Arnold Böcklin (Basilea 1827, Fiesole 1901) ospite dell’amico e pittore russo Wladimir Swertschkoff (Lovisa,
Palazzo dei Pittori esempio di coworking space Finlandia1821, Firenze 1888), pittore di vetrate molto attivo, che abitava e aveva ampi studi al piano terreno del palazzo e laboratorio per la lavorazione del vetro al piano interrato. In questi studi Böcklin concepì la sua opera più nota “Die Toteninsel” meglio conosciuta come: “Isola dei Morti”. Dalla sua costruzione ai giorni nostri, sono stati tanti gli artisti noti e meno noti, che hanno abitato il palazzo, dallo scultore siciliano Domenico Trentacoste, al pittore macchiaiolo Egisto Ferroni, Giovanni e Romeo Costetti, lo scultore Giuseppe Graziosi, e nella migliore tradizione fiorentina, fu sede anche di una prestigiosa scuola di pittura, la “Scuola Fiorentina di Pittura” diretta dai professori Giuseppe Rossi e Alberto Zardo. In tempi più recenti i pittori Gianni Vagnetti, Arrigo Dreoni
e Giorgio Gentilini, Renato Alessandrini, Bruno Bartoccini, Carlo Galleni, Silvano Galletti, Remo Squillantini. E insieme agli artisti residenti troviamo anche i loro amici come lo scultore Donatello Gabbrielli, frequentatore come Giovanni e Guido Spadolini degli studi di Rossi e Zardo. Tra gli altri anche poeti e scrittori, dei quali troviamo traccia negli scritti di Giovanni Papini, che per esempio, racconta del suo primo incontro con Gabriele D’Annunzio nello studio del Trentacoste, appunto, o di Mario Luzi in visita all’amico pittore Carlo Galleni. Tuttora il palazzo è animato da uno spirito collaborativo che permette di organizzare eventi che coinvolgono importanti istituzioni cittadine pubbliche e private con l’intento di condividere la passione e la curiosità del vivere.
Velieri e grandi storie di mare in mostra a Cecina
Alle 18 di sabato 7 luglio alla Fondazione Geiger si inaugura la mostra Velieri. Grandi storie di mare. Fino al 16 settembre, tutti i giorni dalle 18 alle 23, le sale di piazza Guerrazzi a Cecina accoglieranno i visitatori in un’atmosfera affascinante, grazie al suggestivo allestimento che fa da sfondo a modelli e diorami di navi celebri, strumenti scientifici, oggetti legati alla navigazione e installazioni a tema. Così, tra l’Endeavour di James Cook, la Victory dell’ammiraglio
Nelson e il velocissimo clipper Cutty Sark, si potranno ammirare una vera polena, bussole e cannocchiali, la ricostruzione di un cannone, e persino odorare le fragranze delle spezie, merci per secoli commerciate sui velieri.
19 7 LUGLIO 2018
di Francesco Cusa Accogliamo con gioia il ritorno del cinema alle sue origini surreali e visionarie grazie a questo pregevole ultimo lavoro di Yorgos Lanthimos. Finalmente un film che non “spiega”, che si muove sul piano “distorto” che governa le esistenze (e dunque tra realtà e assurdo), un film in cui il sonoro è parte attiva e non “colonna sonora”, elemento imprescindibile della narrazione, come nei migliori capolavori kubrickiani e hitchcockiani, e in cui spiccano i graffi acustici di Ligeti, Raettya ecc. Lanthimos violenta ripetutamente il connotato formale di tutta l’estetica borghese penetrando fino alla radice più profonda dei valori intimi della nostra civiltà, ne estrae il celato mefitico nettare per trasformare il mito in carnale cronaca. Per compiere tale operazione si serve del messaggero oltremondano per eccellenza, dell’avvento dell’ennesimo Angelo Sterminatore. La grandezza del regista di “The Lobster” sta tutta nel non preparare didascalicamente lo spettatore, il quale vive lo straniamento della trama con la stessa immediatezza del “disturbo
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Il mito trasformato in carnale cronaca sonoro” che giunge a mordergli le orecchie dell’anima senza preavviso. Come al solito non faremo cenni alla trama se non per qualche indizio pregnante. Agli esorcismi della scienza, ai disperati tentativi del chirurgo Steven Marty/ Collin Farrell di salvare i figli dall’anatema della divinità impersonata dall’adolescente Martin, occorrerà far fronte (in pura tradizione cinematografica di matrice “à la Von Trier”) con l’officiarsi del rito e della celebrazione del sacrificio come atto espiatorio. Lanthimos non conduce lo spettatore con mano, non indica un percorso edificante: apre squarci sull’essenza brutale della Realtà che si decompone e frammenta a seconda della prospettiva, dell’opportu-
nità e della necessità. Ecco la razionalità cedere il passo e lo scettro della sua stessa superstizione alle superne vie dell’Osceno che (ri)prende a governare le sorti delle discendenze “striscianti”, dando “visione” ai non più deambulanti, conferendo al padre il carattere biblico del giustiziere-strumento dell’onnipotenza. Così il chirurgo ritorna a essere stregone e la medicina torna a essere onnipotenza della scienza esoterica. Nella splendida fotografia de “Il Sacrificio del Cervo Sacro” si inscrivono pagine memorabili di puro cinema, di arte visionaria e dialettica feroce. Un film che rimane a pulsare per giorni, come lo squarcio sul cuore aperto della meravigliosa scena iniziale.
di Mariangela Arnavas Berta Isla è l’ultimo romanzo pubblicato in Italia (Einaudi 2018), nella traduzione ottima e mimetica di Maria Nicola, di Xavier Marias, lo scrittore spagnolo nato a Madrid nel 1951, di cui ricordiamo Domani nella battaglia pensa a me e Cosi’ ha inizio il male. È la storia misteriosa e talora rimandata e sospesa di una donna, Berta Isla, prima studentessa e poi docente universitaria di letteratura inglese a Madrid e dell’uomo che sposerà e da cui avrà due figli, Tomas Nevinson, per metà inglese e per l’altra metà spagnolo, costretto da un’oscura vicenda a divenire un agente segreto di Sua Maestà Britannica. Un romanzo sul potere, sulla morte e sull’amore, (del resto di cos’altro si può parlare?) e dove il mistero, i segreti di ogni esistenza hanno un ruolo fondamentale perché dice in un’intervista lo stesso autore : “Bisogna avere del coraggio per rinunciare ogni tanto a sapere…..”, e ancora “ Nulla ha peso senza mistero, senza una nebbia che lo avvolga e noi siamo avviati verso una realtà priva di tenebre, senza chiaroscuri. Tutto ciò che è conosciuto è destinato a essere inghiottito e banalizzato, a tutta velocità, e a non avere quindi nessuna vera influenza”. Berta ha questo coraggio e riesce, pur con un intenso travaglio interiore a non separarsi da un marito sporadicamente presente e spesso immerso in vicende delle quali, per sicurezza e necessità d’ufficio, deve rimanere all’oscuro. Shakespeare è sempre molto presente nei romanzi di Xavier Marias, in questo caso lo è sia esplicitamente nella citazione di Riccardo V, quando il re la sera prima della battaglia si mescola, avvolto in un mantello e irriconoscibile, ai suoi soldati, scoprendo opinioni poco lusinghiere sul suo conto, ma soprattutto implicitamente, visto che tutta la vicenda ruota intorno alla scelta tra essere e non essere o meglio sulla constatazione di essere e non essere: “Ci siamo ma non esistiamo, ed esistiamo però non ci siamo. Facciamo però non facciamo, Nevinson, o non facciamo quello che facciamo, o quello che facciamo non lo fa nessuno. Accadiamo, semplicemente.”Questa la filosofia dei servizi segreti britannici, esposta dal capo di Tomas, il multiforme Tupra; que-
Il mistero di Berta Isla
ste le contraddizioni su cui ruotano le riflessioni introspettive, costanti, profonde e tormentate di entrambi i protagonisti, mai prive d’ironia, in una scrittura bril-
lante e complessa, che spesso torna su se stessa, senza mai annoiare perché la tensione non abbandona la storia dalla prima all’ultima pagina del libro, in sospeso sul filo di un iniziale inganno che, come in Cosi’ ha inizio il male, muove tutte le vicende. La storia di Berta comincia con una manifestazione a Madrid nel 1969, dopo l’uccisione da parte della polizia franchista di uno studente che distribuiva volantini antifascisti e si snoda per oltre due decenni, sullo sfondo di vicende come quelle legate all’Ira in Irlanda, quando la folla inferocita arriva letteralmente a spellare un soldato inglese, e alla notte del 19 marzo del 1988, la cosiddetta del Caporals Killings quando due soldati, finiti per sbaglio nel funerale di due morti irlandesi, vennero letteralmente linciati e passa per la guerra delle Falkland, con la contrapposizione di Margaret Thatcher ai sanguinari generali argentini; un pezzo di storia occidentale dagli anni ’70 ad oggi che si immette nella vicenda dei protagonisti con la vivezza di uno sguardo lucido ma assolutamente non distaccato. Il rapporto con il potere dello Stato è uno dei leitmotiv del romanzo:”La Corona vince sempre, è troppo in alto, troppo forte, ha leggi che cambia o ignora, le elude impunemente. E ti schiaccia”. In fondo questo è il motivo oggettivo per cui Thomas diviene un agente dell’MI6 che si coniuga però con la sua segreta speranza di esercitare una qualche reale influenza sul mondo. E anche il rapporto con il popolo è centrale, quel popolo che è “ spesso meschino e vigliacco e insensato” e i politici “ non si azzardano mai a criticarlo, non lo rimproverano ne’ gli rinfacciano come si è comportato, anzi, invariabilmente lo esaltano, per quanto poco sia degno di essere esaltato in nessun paese. Ma è stato eretto a intoccabile è ormai è come gli antichi monarchi dispotici e assoluti.” Molta storia, molto pensiero e anche letteratura; di Shakespeare si è già detto, ma è giusto ricordare anche Conrad e il suo romanzo L’agente segreto e soprattutto Eliot, il libricino intitolato Little gidding, che precede e accompagna la scelta di Thomas, rimanendo sempre sullo sfondo con il verso: “ e ogni azione è un passo verso il blocco, verso il fuoco, nella gola del mare o verso una pietra illeggibile”. Un libro da non perdere, assolutamente.
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Venere ritrovata
22 7 LUGLIO 2018
di Carlo Cantini