Numero
18 novembre 2017
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Vogliamo vincere i mondiali di Russia 2018 Renzi a Putin nel 2015
Previsioni e realtĂ
Ostia è un municipio bellissimo, non è come lo raccontano, io ci ho fatto i domiciliari Domenico Spada, cugino di Roberto Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Un’altra scena di strada, siamo ancora a Spanish Harlem e tanto per cambiare il caldo afoso e umido la faceva sempre da padrone. Ero quasi sempre immerso in un bagno di sudore, ma nella mia ingorda voracità di immagini e cercavo di rimuovere la sofferenza per questo clima davvero perverso, continuavo a passeggiare in lungo e in largo alla ricerca di situazioni e soggetti che soddisfacessero la mia curiosità pensando a come avrei potuto poi ricucire tutti i pezzi di questo mio puzzle cittadino.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
18 novembre 2017
306
239
Riunione di famiglia Mao Tze Ferragamo Le Sorelle Marx
I non professionisti alla costituente Lo Zio di Trotzky
Il ritorno di Vittorio I Cugini Engels
In questo numero Serenità teutonica. Intervista esclusiva a Eike Schmidt a cura della Redazione
What we are talking about where we are talking about art (?) di Claudio Cosma
Nozze d’argento per i nipotini di Duchamp di Laura Monaldi
Mappe di percezione: San Francisco di Andrea Ponsi
Disegni sonori di Alessandro Michelucci
The Place di Mariangela Arnavas
23 novembre per un’altra S.Felicita di M. Cristina François
Fiesole non gareggia proprio di Alessandro Pesci
Il museo è morto W il museo di Simone Siliani
Uno stile d’amore di Simone Zanuccoli
Las Vegas e il Louvre di Valentino Moradei Gabbrielli
In-canti orfici di Dino Castrovilli
Anarchico, sociologo, poeta di Susanna Cressati
Ejzenštejn agli Uffizi di Luisa Moradei
e Cristina Pucci, Danilo Cecchi...
Direttore Simone Siliani
Illustrazioni di Lido Contemori
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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a cura della redazione Un uomo “sereno”, così ci appare il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt. Più volte durante l’intervista esclusiva che ci ha concesso questo stato d’animo è stato da lui richiamato. Nonostante qualche polemica che si è succeduta alla sua dichiarazione del settembre scorso in cui annunciava di voler lasciare l’incarico al termine del mandato a fine del 2019 per candidarsi a dirigere il Kunsthistorisches Museum di Vienna, Schmidt continua il suo lavoro “serenamente”, convinto di aver rilanciato il museo fiorentino. Iniziamo, dunque, da qui: a due anni dalla sua nomina, quale è la sua valutazione del suo lavoro agli Uffizi? È riuscito a fare quello che si era ripromesso di fare? Molto di più. Direi che in questi due anni su molti fronti siamo andati molto più velocemente del previsto. Per questo sono anche molto tranquillo che in quattro anni riuscirò, anzi riusciremo perché è un lavoro di squadra, a fare quello che mi sono ripromesso di fare in otto anni. Di questo sono sicuro. D’altro canto, andando avanti si scoprono anche nuovi problemi che vanno risolti, alcuni più facilmente, altri con maggiore difficoltà. Ma, di base direi che ciò che si può risolvere in otto anni si può fare anche in quattro. Sono molto sereno che alla fine di questi quattro anni lascerò questa grande nave in condizioni migliori. Una metafora, quella della nave, più indicata questa rispetto a quella usata da alcuni giornalisti, cioè quella della macchina di formula 1, perchè così come l’ho trovato questo museo non era nemmeno da formula 3, sembrava piuttosto un carretto con un asino o forse qualche cavallo ma di sicuro non una macchina da formula 1. Abbiamo riportato la moda, la musica a Palazzo Pitti; abbiamo iniziato a risistemare i quadri nelle nuove sale Botticelli e questo ha funzionato meglio di quanto speravamo e quindi questo vale come modello per tutte le altre sale che vanno riallestite, perché oggi lo sono secondo criteri troppo rigorosamente topografici e non tengono in considerazione abbastanza la storicità della collezione,
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Serenità teutonica Intervista esclusiva con il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt
la storia dell’arte e soprattutto il visitatore, cioè la necessità di dare ai visitatori degli stimoli nuovi. Proprio su questo punto, il visitatore, vorremmo proporle una riflessione. Un museo ormai preda del turismo di massa, quale sono le Gallerie degli Uffizi, in quale misura riesce a svolgere ancora alcune delle funzioni fondamentali dei musei moderni, come quello di ricerca e crescita culturale della comunità in cui è inserito, oltre quella di attrazione turistica? Anna Maria Luisa de’ Medici aveva definito tre funzioni che i musei devono svolgere: quella di “ornamento dello Stato”, quella dell’”utilità del pubblico” e quella della “curiosità dei forestieri”. Direi che tra la prima funzione, da quando Pietro Leopoldo nel 1769 apre il museo a tutti, è passata in secondo piano. Questa funzione però esiste ancora, anzi noi la rinnoviamo soprattutto attraverso i depositi esterni: vi sono migliaia di quadri che sono sparsi per tutta Italia e per tutto il mondo per decorare uffici dello Stato, della Polizia, uffici dei Ministeri, delle Ambasciate italiane nel mondo. Inoltre ci sono molte richieste per visite di capi di
Stato di altre nazioni che vengono in visita ufficiale nel nostro Paese. Questa funzione, in un senso molto più metaforico è sempre importante anche oggi perché tutta la diversità, la ricchezza delle collezioni rispecchia la diversità culturale che è caratteristica dell’identità culturale dell’Italia. La nostra identità di oggi è basata sulla diversità e non è un’identità monolitica. Questo è importante anche se alcune persone non lo hanno ben compreso. Per questo motivo gli Uffizi sono anche un simbolo dello Stato. Tanto che il 27 maggio 1993 la mafia siciliana colpì la parte centrale delle collezioni degli Uffizi. Per questo motivo anche oggi noi siamo nel mirino del terrorismo di ispirazione islamista: lo sappiamo con certezza. Per le altre due funzioni – utilità per il pubblico e curiosità dei forestieri – nel corso degli ultimi due secoli e in particolare dagli anni ‘90 del Novecento in poi; la funzione della curiosità dei forestieri, ovvero quella di attrattore turistico, ha preso il sopravvento. Mentre quella che è veramente centrale, l’utilità per il pubblico, che vuol dire l’educazione culturale e civica, il museo come centro di conoscenza e di educazione e auto-educazione sociale e di dibattito, purtroppo è passata un po’ troppo in secondo piano. Anche perché dopo grandiose aperture negli anni ‘70 quando gli Uffizi insieme a Brera erano i primi musei in Italia a sviluppare una didattica come oggi esiste al Louvre, alla National Gallery di Londra, a Vienna o alla National Gallery, già dagli anni ‘80 in poi furono tagliati i posti di lavoro e anche i fondi. Quando sono arrivato qui erano rimaste tre persone nel Dipartimento didattico. Questa però è la funzione
principale del museo! Per questo ho subito triplicato il numero degli addetti e ora siamo più di 20 persone nei quattro Dipartimenti didattici: Scuola e giovani, Accessibilità e mediazione culturale, Comunicazione digitale, Curatela. Chiaramente le funzioni curatoriali ci sono sempre state, però adesso nell’ambito della didattica e dell’educazione e della ricerca, è stata rafforzata questa attività grazie ad una riforma amministrativa all’interno degli Uffizi, togliendo dei compiti puramente amministrativi ai curatori storici dell’arte che così possono dedicarsi maggiormente alla ricerca. Questo è fondamentale: il museo come istituzione sopravvive solo se torna a concentrarsi sulla sua vera funzione. Il modello Ronchey, per cui il museo doveva funzionare un po’ come la Società delle Autostrade, cioè di assicurare gli accessi e svolgere una minima vigilanza nellasale e poi lasciare tutto il resto al mercato libero, tradisce l’identità stessa del museo. Se si seguisse questa impostazione, forse potrebbe anche funzionare per qualche anno, ma poi decade completamente. Noi lavoriamo in direzione opposta e quindi sono anche qui molto sereno per aver riportato gli Uffizi nella direzione giusta. Ma oltre alle realizzazioni che ci ha elencato, può dirci quali sono gli obiettivi dei prossimi due anni? Ha in programma una riorganizzazione complessiva degli allestimenti e della sistemazione delle opere nelle diverse sale? Quello che si vede sul proscenio e che i visitatori vedono è una cosa, ma quello che c’è dietro il palcoscenico è pure fondamentale per permettere al museo di svilupparsi. In otto anni si possono e si devono fare molte
cose: la riforma, come la rivoluzione, non si deve fermare mai, come del resto ogni processo socio-economico. Però dal momento in cui la struttura è sanata, dopo tutto dipende meno dalla figura che sta a capo dell’istituto. Funzionerà quasi con un automatismo. Logicamente non significa che i futuri direttori avranno minori responsabilità e chiaramente ci saranno sfide nuove, ma potranno concentrarsi ancora di più su concreti progetti scientifici che, soltanto per mancanza di tempo, ho seguito meno. Anche se ho potuto scrivere un saggio per la mostra su Sergej Ejzenštejn e ho partecipato alla curatela, oppure la prossima mostra su Leopoldo de’ Medici che seguirò riprendendo materiale che ho studiato a partire dagli anni ‘90, quando ero a Firenze prima come borsista e poi come ricercatore all’Istituto Germanico in via Giusti. Ma i futuri direttori potranno sicuramente concentrarsi di più su questo aspetto. Ed è importante che si riuniscano queste funzioni di ricerca ed educazione anche a quelle di direzione, perché solo così rimaniamo con i piedi per terra. Usciamo dagli Uffizi: Lei ha parlato del riordino delle sale, ma come si possa risolvere la questione dell’uscita degli Uffizi, secondo lei? Anzi tutto abbiamo sviluppato delle idee molto concrete su come si possa realizzare l’uscita lì dove Isozaki, prima del progetto dei Grandi Uffizi, aveva pensato di realizzarla. È un po’ assurdo che negli anni ‘90 si sia pensato prima all’uscita che a tutto il resto. Ma quando è partito il progetto dei Grandi Uffizi nel 2003, l’uscita non era nemmeno più prevista lì. Quindi sarebbe
stata una struttura non funzionalmente collegabile al resto, invece oggi abbiamo realizzato il progetto dei nuovi Uffizi consentendo di farlo coincidere con il progetto Isozaki. Nel frattempo sappiamo anche che oltre al concorso per il progetto vinto negli anni ‘90, Isozaki ha vinto anche il ricorso e quindi dal punto di vista legale, se non viene qualcuno con i soldi per pagare una diversa soluzione (visto che il vero crimine sarebbe lasciare la struttura così com’è) e se non c’è una volontà politica di ribaltare una sentenza giudiziaria che ha validità, quel progetto deve essere realizzato. Ciò che occorre per adeguare il progetto sono minimi ritocchi, che non riguardano neppure la loggia bensì la situazione a terra. Ho parlato con l’architetto e preso contatti politici: la questione è risolvibile e io sono per risolvere i problemi e non lasciarli ai posteri. Quindi ci lavoriamo, anche se la decisione dovrà essere a livello più alto di me per iniziare concretamente i lavori. Che cosa pensa della politica di esposizione di arte contemporanea nelle piazze storiche perseguita a Firenze? Noi, come rivista, avevano proposto di collocare temporaneamente una turbina della Pignone in piazza della Signoria quale opera dell’ingegno e della storia tecnologica e scientifica della città: cosa ne pensa? Meglio “Big Clay #4” di Urs Fischer o la tartaruga gigante di Jan Fabre? Io ho difeso la tartaruga a spada tratta. Comunque è importante pensare sia al valore storico delle piazze (di nuovo pensando a Maria Luisa de’ Medici, come “ornamento dello Stato”), sia a elementi molto pratici. Cioè se la piazza è già troppo affollata di gente, aggiungere altro non mi sembra pro-
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prio molto indicato; anche dal punto di vista della sicurezza. Questo vale per tutte le piazze. Io sono responsabile di piazza Pitti e, come avete visto, io sono molto favorevole al dialogo fra arte contemporanea e arte antica: l’arte del passato non deve essere soltanto ammirata, ma deve essere assorbita anche per la creatività dei nostri tempi e anche da ambiti diversi. I quadri possono essere ispiratori per ingegneri, e non penso soltanto ai quadri di Leonardo da Vinci che è più ovvio, ma ci sono anche altri casi. Poche persone sanno che Steve Jobbs per sviluppare il primo Iphone della Apple si è ispirato al corso di calligrafia cinese e giapponese all’Università in California. L’arte ha un fortissimo potere su tutti i settori; l’arte non genera soltanto arte, ma realtà. Molto frequentemente l’arte precede la realtà. Per questo il dialogo con l’arte contemporanea è fondamentale. Senz’altro è bene fare eventi nelle piazze in bassa stagione: a Firenze non abbiamo una stagione media, abbiamo quella alta mentre il 33% dell’anno è bassa stagione dal punto di vista turistico. É straordinario il fatto non tanto che siamo pieni da maggio ad agosto compreso (negli anni ‘90 Firenze era vuota per il semplice motivo che gli alberghi non avevano l’aria condizionata, ma oggi è diverso), ma che tra inizio novembre e fine febbraio la città è vuota (a parte il ponte dell’Immacolata e Natale). Gli alberghi hanno dunque lo stesso problema dei musei: per questi ultimi si potrebbe dire che non è poi così problematico se ci prendiamo una pausa, ma anche per i musei ci vuole una fruizione più equilibrata. Cercheremo di aggredire questo problema a partire dall’anno prossimo anche con la politica dei prezzi, dando un incentivo concreto a venire durante i quattro mesi della bassa stagione, oppure a Palazzo Pitti ogni giorno, invitando ad accedere al museo prima delle 9: chi comprerà il biglietto entro le ore 8,59 avrà lo sconto del 50%. Per una famiglia, svegliandosi mezz’ora prima e arrivando al museo entro le 9, sarebbe un buon incentivo, credo. Riprendendo il tema dell’attività nell’area urbana, lei non pensa che molti spazi del centro storico di Firenze siano conclusi in termini di collocazione di opere d’arte, mentre altrove questo può essere più interessante? Insomma, gli interventi dell’arte contemporanea nelle piazze riguardano sempre una piccola porzione di territorio che è il centro storico, mentre Firenze è molto più grande. Noi abbiamo fatto qualcosa negli aeroporti di Firenze e Pisa abbinando la mostra di
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Helidon Xhixha ai due cataloghi fatti con gli aeroporti della Toscana. Questo era solo un segno, ma noi abbiamo riscontrato che le persone che venivano agli Uffizi, ci dicevano di aver notato la comunicazione all’aeroporto. Naturalmente, gli aeroporti sono solo un primo passo, ma abbiamo altri progetti su diverse zone di Firenze. Abbiamo nuclei originali di pittura in altre zone nei dintorni di Firenze, dove peraltro molti
E ora si apra il dibattito Il direttore Schmidt ci ha dedicato una lunga e impegnata intervista, all’insegna dell’ottimismo. Un clima certamente in linea con quello che si è registrato nell’incontro che il Ministro Franceschini ha tenuto il 13 novembre con i direttori dei musei nati dalla riforma, durante il quale il Ministro ha trionfalmente presentato numeri in aumento per i musei italiani. Crescono incassi e visitatori (i primi ben più dei secondi), sicuramente in concomitanza con l’aumento del turismo. Bene, ovviamente: era ciò a cui era improntata la riforma, crescita quantitativa. Noi manteniamo riserve, infatti, sulla impostazione della riforma che tende a fare dei musei un driver dello sviluppo economico invece che delle istituzioni culturali volte alla formazione del pubblico, allo studio e alla conservazione. Ma la sfida è capire se le due cose possono essere compatibili e stare in equilibrio. Vogliamo però aprire una discussione sulle nostre pagine a partire dalla intervista di Schmidt. Perché, oltre l’ottimismo restano problemi aperti e questioni nuove che un museo moderno si trova sempre a fronteggiare. Perché per quanto storico e tradizionale, anche gli Uffizi sono un museo moderno. Il dibattito è aperto.
dei nostri dipendenti vivono, che dobbiamo attivare. Occorre una programmazione e una comunicazione comune fra mostre di arte contemporanea e il museo su Firenze e dintorni. Soprintendente Schmidt, quando lei ha comunicato di essere intenzionato a lasciare gli Uffizi per candidarsi a dirigere il Kunsthistorisches Museum di Vienna, ha fatto accenno anche ai freni posti da varie parti alla riforma Franceschini. Vuole dieci cosa pensa solo stato dell’arte di quella riforma? A qualche anno dalla sua entrata in vigore è possibile trarne un primo bilancio? Quella fu più una forzatura dei giornalisti che non un mio pensiero originale. C’era una famosa frase di Erwin Rommel che giovane ufficiale prussiano all’indomani della disfatta di Caporetto, ebbe a dichiarare dell’esercito italiano e, dunque, del Paese: “soldati ottimi, ufficiali mediocri e generali pessimi”. Il Ministro, sostituendo subito i direttori dei musei, aveva un giudizio un po’ simile: cambiare i direttori è fondamentale. Per fortuna i funzionari non sono così mediocri, e comunque sarebbe impossibile cambiarli così. Quello che posso dire è che la nostra seconda linea, quella dei soldati, è piena di energia, di voglia di fare e, se noi abbiamo potuto fare questi progressi durante i primi due anni (e ne faremo altri nei prossimi due), questo è grazie all’impegno, allo spirito di squadra e anche allo spirito di sacrificio della seconda linea. Non basta cambiare il direttore perché tutto si risolva: la gran mole di lavoro per il funzionamento del museo dipende da loro. Anche da questo punto di vista sono piuttosto sereno e fiducioso che si possa portare avanti il lavoro, anche nello spirito della prima riforma museale mai fatta, quella realizzata a Firenze nel 1769 da Pietro Leopoldo. Perché ha già annunciato che fra due anni lascerà gli Uffizi? Non è in qualche modo qualcosa che indebolisce la sua funzione? Avrei dovuto prima leggere per intero “Il Principe” di Machiavelli, ma non l’ho fatto. Non avrei certamente potuto tenere nascosto per due anni il progetto del mio trasferimento a Vienna. E forse avrei potuto tenere questa cosa come jolly da potermi giocare al momento opportuno, ma io non sono per questi giochetti: mi piace piuttosto essere sincero. In ogni caso dipende anche dalle diverse abitudini nei vari paesi: gli austriaci se non sanno esattamente quello che succede fra 2, 3 5 anni diventano nervosi. Qui si può anche non sapere con chi giocherà nella Fiorentina la prossima domenica.
di Simone Siliani Il museo è morto, lunga vita al museo! Nonostante la più volte annunciata dipartita di questa antica infrastruttura, sviluppatasi particolarmentenell’età moderna per conservare e rappresentare storia e identità di civiltà e popoli, essa continua ancora oggi a svolgere molteplici e per ora insostituibili ruoli nella vita culturale, sociale de economica delle città contemporanee. Senza voler qui sviluppare compiutamente una riflessione teorica su questa funzioni contemporanee, si intende piuttosto svolgere qualche considerazione rapsodica sui cambiamenti in corso nel mondo dei musei a partire da qualche caso recente. Non che non via sia bisogno anche di un approfondimento teorico sul ruolo che i musei possono svolgere nelle società moderne, giacché altrimenti si rischia di procedere per slogan o contrapposizioni fra visioni autoreferenziali e forse ormai anacronistiche dei musei. Per esempio Patrizia Asproni, che pure nella sua rubrica “Museo Quo Vadis?” su “il Giornale delle Fondazioni” propone riflessioni critiche mai banali sull’argomento, il 15 maggio scorso nel suo “Musei: l’evoluzione della specie” sembra volerci rappresentare una dicotomia fra “ispirazioni (e aspirazioni) elitarie” (di cui i musei si stanno liberando) e i “musei 4.0” in cui i nuovi media e linguaggi tecnologici consentono di superare l’immobilismo delle collezioni, nonché le classificazioni artificiose e portare i visitatori, “in fila (sperabilemnte) per entrare”, in nuove dimensioni dell’esperienza culturale. Noi crediamo che la cera dicotomia non risieda più qui, bensì nella distinzione fra musei che servono la funzione economica e entrano nel mainstream del turismo globale e quelli che scelgono una funzione sociale e culturale più legata alle comunità di riferimento (che non sono necessariamente quelle territorialmente contigue). So bene che anche questa rischia di essere una classificazione ancora troppo vaga. E per evitare quanto possibile questo rischio, mi soffermo su un piccolo/grande caso tedesco: lo spostamento del museo delle collezioni di arte extraeuropea dal quartiere di Dahlem (Berlino ovest), collocate oggi in un edificio modernista dell’architetto Bruno Paul, all’Isola dei Musei in un nuovo edificio, l’Humboldt Forum (ricostruito alla modica cifra di 630 milioni di euro per ripristinare un simulacro dell’antico Palazzo di Città prussiano, danneggiato durante la guerra e demolito nel 1950 dalle autorità tedesche dell’Est per tagliare con il passato, con la brillante idea di realizzare una facciata finto-antica, un vero ologramma architettonico, davanti ad un contenitore modernissimo). Non avendo progettato una funzione coerente di questo edificio (che evidentemente non può pretendere di ricostituire il perduto cuore storico della città), si è allora deciso di portarci le collezioni di arte extraeuropee del museo di Dahlem per immetterle nel grande flusso del turismo globale. A parte le polemiche berlinesi circa la contraddizione nel collocare queste collezioni in un (finto) palazzo
Il museo è morto W il museo prussiano che rappresenta anche il passato coloniale tedesco, mi sembra che il vero tema sia: a cosa servono le collezioni? A quale funzione debe assolvere il museo? Qui sembra di poter dire che la giusta esigenza di consentire l’accesso al museo ad un pubblico più vasto, ha scelto una scorciatoia, cioè quella di portare le collezioni dove il flusso del turismo globale già si trova (con il rischio di congestionare ancora di più la zona già satura della città, proporre una fruizione più distratta e superficiale delle opere, impoverire zone più periferiche della città). Che di questo si tratti, ce lo conferma anche la vicenda appena un po’ più remota del museo a Dahlem. Infatti, fino agli anni ‘90, il museo ospitava anche le famose collezioni pittoriche del Rinascimento e degli Antichi Maestri e altre collezioni di arte occidentale: la presenza di opere di Botticelli, Dürer e Rembrandt, faceva sì che anche le collezioni extraeuropee venivano visitate. Ma agli inizi degli anni ‘90 le collezioni di arte eccidentale vengono spostate in edifici al centro della città e da quel momento in poi anche il management del museo di Dahlem ha iniziato a disinteressarsene e a considerarlo un polveroso... museo. Così progressivamente è stata abbandonata la strategia di valorizzazione del museo e ci si è limitati ad esporre le collezioni, con il risultato di far perdere visitatori e ruolo allo stesso e, infine, portare alla “logica” decisione di spostarlo nell’Isola dei Musei. Nell’Humboldt Forum l’allestimento sarà meno passivo e banale, meno affollato di opere e con più apparati per comprendere il senso della collezione. Tutto bene dunque? No, perché nessuno ci spiega per quale motivo non si è fatta la stessa cosa a Dahlem. No, perché non c’è un progetto sulla comunità di Dahlem, né sull’uso dell’edificio storico di Bruno Paul. No, perché si andrà a concentrare una ulteriore attrazione turistica in una zona già satura. No, perché infine la scelta non è dettata dai bisogni della collezione (e tanto meno della comunità di Dahlem), bensì da quella di spettacolarizzare ancora di più la zona centrale della città. Un po’ quello che succede quotidianamente a Firenze e in altre “capitali” culturali del mondo, oggi assediate da un turismo diventato insostenibile, consumatore culturale banale e insensato. Il museo oggi, in questi snodi del consumo globale, rischia di immiserirsi, di perdere la sua funzione di istituzione al servizio della crescita delle comunità di riferimento. Ha ragione Patrizia Asproni, sempre nella sua rubrica su “Il Giornale delle Fondazioni”, a dire che i musei “possono rappresentare uno dei nodi di un sistema che costruisce coesione sociale a base culturale” e che a questa funzione sono chiamati a contribuire non solo “il settore pubblico, naturale responsabile del patrimonio e della sua valorizzazione in quanto espressione della
comunità dei cittadini”, ma “nel moltiplicarsi dell’offerta che nasce (..) dai privati”, un “un ecosistema a più voci”. E nell’articolo Patrizia Asproni tenta un regesto di funzioni che rispondono, in modo appunto pluralistico, alle domande: cosa sono i musei oggi e a quali bisogni rispondono’A queste domande, ad esempio, ha cercato di dare una risposta – provocatoria, forse, ma non priva di senso, il nuovo Museo di Arte Contemporanea Africana Zeit a Capetown in Sudafrica, aperto nello scorso settembre in un enorme silo per il grano ristrutturato su progetto dell’architetto londinese Thomas Heatherwick, che fa circa 3.000 visitatori al giorno. Il museo, costato 38 milioni di dollari (una enormità per l’Africa, ma una cifra irrisoria se paragonata al sopra citato museo berlinese o ad altri musei europei e americani), ospita le collezioni di Jochen Zeitz, noto filantropo tedesco e già manager della Puma, che ha accumulato una enorme quantità di opere d’arte africane contemporanee. Anche in questo caso non sono mancate le polemiche, in particolare relative alla utilità di investire 38 milioni di dollari in un nuovo museo privato mentre quelli pubblici esistenti languono, ma anche sulle scelte curatoriali della mostra di inaugurzione “Tutte le cose essendo uguali” (troppa fotografia e video, alcune assenze fra gli artisti, il contrasto fra i gusti del curatore e i criteri scentifici seguiti dalla commissione per le acquisizioni, ecc.). Ma la cosa per me qui rilevante è la missione che il curatore dello Zeit MOCAA, Mark Coetzee, attribuisce al museo: consentire agli africani di raccontare in prima persona la propria storia. E per questo è previsto non solo l’accesso gratuito ai minori di 18 anni, ma soprattutto a chiunque sia munito di passaporto africano. Dunque, un museo che intende rappresentare la storia, l’identità di un continente a cui è stata sottratta la voce, con tutte le sue contraddizioni e i suoi contrasti. Che, in qualche modo, il museo stesso rappresenta: il museo è inserito in un’area caratterizzata da uffici, appartamenti e negozi di lusso che, a dir poco, stride con una città fatta anche di bidonville e zone impoverite. Ma, a oltre venti anni dalla fine dell’apartheid, anche questa contraddizione è parte integrante della storia culturale e dell’identità africana che il museo intende narrare. Complessivamente la reazione del pubblico e quella dei commentatori sembra essere positiva perché il museo sembra aver soddisfatto un bisogno, quello di un nuovo protagonismo identitario del continente africano. Siamo cioè di fronte ad un caso in cui si è scelto un museo, una infrastruttura di rilievo internazionale e capace di parlare ad un pubblico globale (non necessariamente fatto soltanto di visitatori, ma più in generale di persone, classi dirigenti, policymakers) quale ambasciatore di una comunità, narratore di una storia che altrimenti non si riusciva – almeno altrettanto efficacemente – a trasmettere. Ecco, dunque, che l’istituzione museo mostra ancora oggi una grande vitalità e al contempo capacità di adattarsi a nuove e diversificate funzioni, che ci fanno dire che il museo è vivo... e lotta insieme a noi.
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Le Sorelle Marx
Mao Tze Ferragamo
L’altro giorno, di ritorno da un breve viaggio per far visita alla tomba di nostro nonno Carlo a Londra, all’aeroporto di Peretola c’era un gran trambusto: camionette della celere, agenti in assetto anti-sommossa, furgoni della polizia con gli idranti. Come potete immaginare i nostri fragili cuoricini hanno avuto un sobbalzo: “Ci siamo; è la rivoluzione! Finalmente, le profezie di nonno Carlo si stanno avverando: il popolo insorge, i proletari attaccano i gangli delle comunicazioni, Firenze sarà liberata dal giogo capitalistico!”. Però, che strani proletari quelli che manifestavano a Peretola: niente tute blu ma tutti in vestiti scuri, gessato, doppiopetto. Niente bandiere rosse e falce e martello, ma un lungo striscione bianco con scritto “Facciamo volare Firenze”. Non riuscivamo a capire. Poi un po’ ci siamo riprese perché uno ha preso il magafono e ha detto qualcosa come “... non è un pranzo di gala!”. Ah, ci siamo dette, son ma-
I Cugini Engels
Il ritorno di Vittorio
Gli esiti delle elezioni regionali siciliane e le polemiche nel PD renziano e con la sinistra, hanno oscurato il vero protagonista della tornata elettorale. Chi? Direte voi. Ma Sgarbi Vittorio, of course! Il quale con il suo ritiro dall’agone elettorale ha fatto vincere Musumeci. Come ha spiegato la sera stessa delle elezioni, la forza sua e del movimento “Rinascimento” era tale che, se si fosse candidato, avrebbe determinato la vittoria del Movimento 5 Stelle: con il suo “potenziale” 5-7% avrebbe ostacolato la marcia trionfale di Musumeci e favorito Grillo. Così Vittorio, che è un altruista e niente affatto egocentrico, ha fatto un passo indietro dichiarando: “Prendo atto che la decisione concertata con le forze del centrodestra di non presentare la mia candidatura con “Rinascimento” è stata determinante e definisce in modo indiscutibile il ruolo di “Rinascimento” nel panorama politico
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oisti: beh, non proprio il marxisto del nonno, ma pur sempre comunisti. E siamo partite per unirci ai compagni, pugno chiuso e a sqaurciagola l’Internazionale. Ma arrivate più vicine il tizio con il megafono – tale Luigi Salvadoti – ha detto che non la rivoluzione, bensì la ripresa economica non era un pranzo di gala. Vabbè, ci siamo dette, dipende dai punti di vista e quando abbiamo chiesto a uno del gruppo se fossero compagni maoisti cinesi, questo ha ci ha detto: “Sono tornato ora dalla Cina... Là la
in vista delle prossime elezioni politiche”. Poi a quella capra di Musumeci ha spiegato che se gli faceva fare l’Assessore ai Beni Culturali, questo avrebbe favorito ancora di più la decisione concertata... Per la verità, Vittorione nostro non è che avesse un grande afflato verso Musumeci & his band. Nell’intervista a Repubblica del 6 settembre aveva espresso giudizi equilibrati e come sempre morigerati: «A destra ci sono gli “sbocconcellati”. Ragionano con vecchie logiche. Ha visto le facce della conferenza stampa di Musumeci? Sembrava una foto del Bagaglino». E soprattutto ha dimostrato che a lui le posizioni personali non interessano: alla domanda se stesse trattando un posto da Assessore alla cultura ha alzato fiera la faccia e asserito: «Gianfranco Micciché ha adombrato il mio ritiro in cambio dell’assessorato alla Cultura. Musume-
disoccupazione è all’1%, qui al 36%. Non ho mai preso parte a nessuna manifestazione di protesta, ma stavolta era proprio necessario”. “Grande, ci siamo dette, la rivoluzione sta facendo proseliti. E come ti chiami tu, compagno?”. “Oh bella, ha risposto lui un po’ indispettito, son Ferruccio Ferragamo!”. Abbiamo capito che è un proletario della manifattura conciaria: fa borse e scarpe. Ma poi la manifestazione ha decollato: il compagno Salvadori con il megafono ha minacciato di passare alle maniere forti: “rimuoviamo i nodi scorsoi che tolgono ossigeno al nostro sviluppo!”. Noi ci siamo infervorate e abbiamo iniziato a cantare “Avanti, popolo, alla riscossa...”, ma a quel punto la Celere si è scatenata: ci hanno preso di peso e tradotte in questura, fra gli applausi dei compagni maoisti. Ecco, questa non l’abbiamo molto capita, signor direttore: potrebbe illuminarci?
ci mi ha proposto una delegazione parlamentare. Ma se tu hai davanti Ludovico Ariosto non lo puoi nascondere dietro Aldo Nove. È come se Andreotti avesse fatto il vice premier di Almirante. Scherziamo? La solitudine è il mio orgoglio». Vittorione aveva la vittoria in tasca, forse anche con l’aiutino di Totò Cuffaro: «Totò mi ha chiamato e mi ha detto: “Se tu mi chiedi i miei voti, io te li do”. Non riceverò il suo voto ma quello del suo elettorato che è costituto da persone oneste. Sono conosciuto da 4 milioni di siciliani, ho un milione e 800 mila seguaci su Facebook e 24 mila numeri sulla rubrica del telefono». In ogni caso aveva le idee, come sempre, molto chiare il Nostro: «Al momento la partita è a due: o Musumeci, o il geometra Cancelleri. Non ho alcun problema a mettermi o con Musumeci o con Grillo». Ma il 29 settembre dichiarava: “con Musumeci condivido valori estetici e privilegiata amministrazione culturale e turistica della Sicilia” Evviva la bella politica, come il nome del progetto politico di Musumeci, “Diventerà bellissima”. Ma la bellezza, non doveva salvare il mondo?
Nel migliore dei Lidi possibili
disegno di Lido Contemori
didascalia di Aldo Frangioni
Proposta per la collocazione futura di Gian Piero Ventura e Carlo Tavecchio
Lo Zio di Trotzky I non professionisti alla costituente
Divisosi da Anna Falcone per colpa delle divisioni dei partiti di sinistra, Tomaso – con una m sola – Montanari doveva essere un po’ sbalestrato dagli eventi quando, rilasciando un’intervista, ha affermato, circa la necessità della sinistra di recupere lo spirito originario dei cinque stelle: “Io ricordo spesso che la Costituzione l’ha scritta un’assemblea di non professionisti”. Sarebbe davvero infierire ricordargli i nomi di Togliatti, Nenni o De Gasperi, tanto per citarne tre tra i più significativi tra i costituenti. La verità è che salisse oggi Nanni Moretti sul palco di Piazza Navona potrebbe tranquillamente urlare “con questa società civile non vinceremo mai”.
Segnali di fumo di Remo Fattorini Non c’è niente da fare: siamo e restiamo un Paese maschilista. Da sempre alle prese con problemi che noi uomini non riusciamo a risolvere. Ma mai fino ad oggi c’è stato qualcuno che per questo ha mollato la presa. Al massimo abbiamo assistito al passaggio del testimone, da un uomo ad un altro. A nessuno è venuto ancora in mente di fare - sul serio - spazio alle donne. Continuando così serviranno 217 anni per colmare il divario esistente tra i due sessi. Ne è prova il fatto che l’Italia scivola, su questo, sempre più in basso. Il dato, presentato al World Economic Forum, vede il nostro paese passare dal 41° posto del 2015 all’82° di oggi. Ancora peggio se limitiamo il confronto alle sole retribuzioni: precipitiamo al 126° posto su 144 Paesi. Emerge, soprattutto su questo tema, l’italica patologia che gli esperti chiamano “dissonan-
za cognitiva sociale”. Che poi è quella cosa che ci induce ad autogiustificarci, ad inventarci ragioni e ostacoli per dimostrare che, se le cose non cambiano e le promesse restano sulla carta, la colpa è sempre degli altri, di qualcun’altro o di qualcos’altro. Certo, non si può negare che anche da noi le cose non siano migliorate. Le differenze si sono ridotte, l’autonomia e l’autodeterminazione hanno fatti passi avanti. Resta il fatto che le donne pur essendo più brave, come dimostra il tasso di istruzione universitaria - studiano di più e in minor tempo -, sono ancora oggi fortemente penalizzate e discriminate. Divari inaccettabili. Per non parlare di quella terribile fotografia della società italiana della violenza contro le donne, dentro e fuori le famiglie. Soprusi medioevali. Soprattutto perché le donne hanno qualcosa che a noi maschietti difetta: mi riferisco alla sensibilità, a quello sguardo più attento sulla realtà, sulla vita e sulla sua organizzazione. Mi viene da pensare che senza quello “sguardo” e senza quella “sensibilità” molti problemi non li risolveremo mai. Qualcuno dirà, ci sono le “quote rosa”. È vero. Male non fanno, ma non risolvono certo il problema. Limitarsi ad aumentare la presenza delle donne, dai Cda alle assemblee elettive, non basta. L’esperienza ci dimostra che per
guadagnare spazio e ruolo sono costrette a snaturarsi, ad assomigliarci, smarrendo il loro “sguardo” e la loro “sensibilità”. Ciò che occorre d’avvero è un cambio radicale dell’approccio culturale da parte di tutti, a partire dagli uomini. Servirebbe una piccola rivoluzione, un ’68 al femminile, in grado di smantellare quel conformismo maschilista che ci avvolge e ci impedisce di volare.
Avanzi di Avanti Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi. Il jobs act non è la soluzione a tutti i problemi ma garantisce più diritti e semplicità. Anche una maggiore semplicità di licenziamento per l’imprenditore, è vero, che però si traduce in una maggiore libertà di assunzione; infatti le imprese preferiscono produrre meno con meno persone anziché rischiare troppo.
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di Laura Monaldi I Santini Del Prete, inseparabili dal 1992 a oggi, sono una coppia artistica vitale ed eccentrica. Nipoti di Duchamp, figli di Beuys, colleghi di Baj, mailartisti di nascita e adepti di Cavellini festeggiano quest’anno 25 anni di attività nel mondo dell’Arte contemporanea. In Italia e all’estero le loro opere giocano con il concetto di identità artistica: in un momento storico in cui tutto può essere Arte e l’opera sfugge alla catalogazione, I Santini Del Prete emergono dal concetto di non-Arte per immergersi in un più complesso concetto estetico, quello dell’ “effimero” per identificarsi in una creatività universale e universalizzante che loro stessi definiscono «Creatività Diffusa». Per queste originali ed eccentriche nozze d’argento, martedì 14 novembre è stato inaugurato l’allestimento del corridoio della Presidenza della Fondazione Opera Santa Rita di Prato, pensato e realizzato dalla coppia e che resterà in esposizione permanente. Celebrando sono intervenuti Laura Monaldi e Umberto Falchini, artista, critico e storico dell’arte per introdurre il percorso artistico de I Santini Del Prete e presentare il video d’artista “Oggi si vola” realizzato dal filmmaker Stefano Cecchi e presentare il catalogo edito per l’occasione. Un secondo appuntamento è previsto per venerdì 24 novembre alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia in cui I Santini Del Prete si esibiranno in performance e interverranno Laura Monaldi, Bruno Sullo, Piera Coppola, Ga-
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briella Collaveri e Massimo Gentili. Franco Santini e Raimondo Del Prete sono due non-ferrovieri e due non-artisti, ma al contempo sono esattamente sia ferrovieri che artisti: sono le due facce di una medesima medaglia e la loro non-Arte altro non è che l’affermazione di un desiderio comunicativo ed espressivo unico. Perennemente (tra) vestiti da ferrovieri riscoprono il piacere di sentire, sotto ai propri piedi scalzi, l’energia di una non-Arte fatta di tutto e di tutti: provocante e non mistificatoria essa accoglie l’ironia come motore portante di una locomotiva senza meta, le cui fermate non sono altro che stazioni nuove da scoprire e far conoscere, dilatando la normale percezione della performance con una multidisciplinarietà inedita e originale, priva di stereotipi,
in quanto metafora della vita e della semplicità. Passando da un contesto a un altro, mutando linguaggi e materiali artistici, I Santini Del Prete hanno avuto il privilegio di smuovere l’arte contemporanea dal proprio grado zero, ri-partendo dalla semplicità e dall’innocenza, in nome di una concezione autentica dell’opera d’arte e della sua funzione nel mondo. Il loro binario procede di pari passo alle occasioni che si presentano di volta in volta e il loro capolinea è ancora ben lontano, infatti I Santini Del Prete aspettano tutti i non-artisti e tutti gli amanti della non-arte mercoledì 6 dicembre al CAMeC di La Spezia per inaugurare la loro personale dal titolo “25 anni di arrivi e partenze” che rimarrà esposta fino all’11 febbraio 2018.
Nozze d’argento per i nipotini di Duchamp
Musica
Maestro
Disegni sonori
di Alessandro Michelucci Molti musicisti riescono a conciliare l’attività artistica con un altro impegno professionale. Paolo Conte è avvocato, Roberto Vecchioni insegnante, mentre Enzo Jannacci lavorava come chirurgo. A questo gruppo appartiene anche Mircan Kaya, una cantante-compositrice della minoranza mingreliana, stanziata sul versante turco del Mar Nero. Laureata in ingegneria sismica dopo studi a Barcellona e a Padova, questa bella cinquantenne alterna i due impegni con risultati eccellenti. Il suo primo CD, Bizim Ninniler (2005), è una raccolta di ninnenanne anatoliche. Gelosa della propria indipendenza artistica, l’anno successivo Mircan fonda l’etichetta UnCatalogued Music. Musica incatalogabile, appunto: l’artista è molto legata alle proprie radici caucasiche, ma non è una musicista folk. Nella sua musica si fondono influenze tradizionali e venature jazzate, legate da una voce armoniosa e da una forte personalità. In alcuni dei dischi successivi coinvolge musicisti stranieri, fra i quali Limbo, un gruppo jazz di Bristol (Numinosum, 2007, e OUTIM – Once Upon a Time in Mingrelia, 2008). Ma molto probabilmente il suo capolavoro è Minor (2012), un vero inno alla diversità culturale che raccoglie brani cantati in tutte le lingue della Turchia: armeno, greco, laso, turco, etc. Il successivo Nanni (2012) è un altro disco di ninnenanne, ma a differenza del suddetto Bizin Ninniler contiene unicamente brani in lingua lasa, strettamente affine al mingreliano. Il suo ultimo disco, Insula (2017, è stata realizzata fra Amsterdam, Istanbul e Londra, confermando che la metropoli turca è ormai perfettamente inserita in un circuito internazionale. Il titolo non ha un significato geografico, ma si riferisce alla regione cerebrale dalla quale nascono le emozioni, comprese quelle generate dalla musica. La registrazione è ricchissima, con archi, clarinetto, fisarmonica, piano, tromba, ud e sezione ritmica. Come sempre Mircan canta in varie lingue: armeno, ebreo sefardita, greco, inglese, turco. Nell’iniziale “Ta mistika tou kirou”, cantata
in greco, la voce della protagonista assume un tono salmodiante. “Mombar” è un collage di vocalizzi accompagnati da piano e archi. In “Durme” spicca la voce di Setena Ece Kaya, figlia di Mircan, che ha curato il bel volumetto con i testi. Recente-
mente la ragazza ha iniziato la carriera solista con lo pseudonimo di SKAIA. La musica di Mircan è una trama fatta di mille colori, creati e intrecciati da un’artista raffinata che passa con la massima naturalezza dal tecnigrafo al pentagramma.
Cantico dei cantici,
ancora
di Simone Siliani Ho scritto altre volte su questo “Cantico dei Cantici” che Virgilio Sieni continua a mettere in scena nelle più diverse ambientazioni. Ne ricordo una, notevole, sul palcoscenico del Teatro della Pergola di Firenze nell’ottobre 2016; ma forse è qui, a casa sua, nella sala dei Cantieri Goldonetta (in via S.Maria nell’Oltrarno, dall’8 al 12 novembre scorsi), che la coreografia trova il suo timbro più intimo, raccolto. “Il più sublime tra i cantici” si dovrebbe tradurre il titolo di questo poema d’amore che è entrato, a furor di popolo, fra gli ultimi tra i libri nel canone della Bibbia. E certamente sublime e delicato, ma anche potente e rutilante, come all’amore si conviente, è la coreografia di Sieni. E’ una coreografia “carnale”, in cui i corpi non temono di toccarsi e scontrarsi, mescolarsi e attrarsi. Il contrabbasso di Daniele Roccato è altrettanto “fisico”, parte stessa di questa danza. Perché, se è vero che tanto nell’ebraismo quanto nella tradizione cristiana, il Cantico dei Cantici ha una forte carica simbolica e allegorica, il suo anonimo autore del IV secolo a.C. Sceglie pur sempre il più appassionato e erotico degli amori per raccontarci dell’amore fra Dio e il suo popolo: “Mi baci con i baci della sua bocca! ...Attirami a te! Noi ti correremo dietro!...La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia. ...Ecco, egli viene saltando sui monti, balzando sui colli.... Vieni, mio diletto, usciamo
nei campi, passiamo la notte nei villaggi! … Là ti darò il mio amore. ...”. Possiamo leggere questo sublime, davvero, testo, seguire la coreografia di Sieni e “vedere” questa storia d’amore. Che è potentemente umana, altro che simbolica! Ma, come altro possiamo comprendere qualcosa del simbolo se non attraverso la più umana e corporea delle sue rappresentazioni: la metafora nasce per renderci accessibile l’inconcepibile, l’inimmaginabile, ciò che va al di là delle nostre razionali possibilità di comprensione. Gesù di Nazareth era il più prolifico e affascinante narratore di storie, di metafore perché doveva raccontare, appunto, una cosa che andava al di là di ogni possibile comprensione umana: un Dio che muore per la più imperfetta delle creature viventi, l’uomo. Ecco perché aveva bisogno di potenti metafore, storie, narrazioni. Ma, cosa è più inconcepibile in quella storia? L’amore; il fatto che quel sacrificio del divino per il mortale si perpetrasse per amore. Che noi non sappiamo spiegarci, eppure che sentiamo come una forza travolgente, irresistibile. Questo è il sublime del “Cantico dei Cantici” di Virgilio Sieni: la travolgente e inconcepibile forza dell’amore.
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di Gianni Pozzi Prima, nel 2007, ci fu Cézanne con la storia dei due pionieristici collezionisti fiorentini, Egisto Fabbri e Charles Loeser che, grazie anche ai consigli di Berenson dispensati dall’alto della collina di Settignano, ne riunirono decine di dipinti in un momento in cui l’attenzione al suo lavoro non era certo grande. Poi, con Bill Viola e il suo Rinascimento elettronico, ecco la vicenda di Art/Tapes 22 il centro video di Maria Gloria Bicocchi e la vivacissima Firenze anni ‘70 che ruotava attorno a queste esperienze. E ancora ecco oggi queste Utopie Radicali a segnalare – di nuovo - la febbrile sperimentazione di quegli anni. A ricordarci come la città non sia stata, non sempre e soltanto, un riferimento turistico per AirBnb o uno sfondo per le opere di Pesce, è la Fondazione Palazzo Strozzi con i suoi eventi espositivi. Non più divisi, per fortuna, tra grandi mostre al piano nobile e argomenti più contemporanei nelle cantine, la “Strozzina” di un tempo. Ai Weiwei e Bill Viola infatti hanno invaso tutto: piano nobile e cantine, cortile e persino la facciata. L’arte contemporanea che esce dalle cantine (vedi Museo Marini). Altre volte, come adesso, questo non è stato possibile e il Palazzo è tornato a dividersi. Su Il Cinquecento a Firenze, Michelangelo, Pontormo e Giambologna, terza puntata del ciclo curato da Carlo Falciani e Antonio Natali, dove si erano già visti Bronzino (2010) e Pontormo e Rosso (2014). Una settantina di opere spesso straordinarie per indagare lo snodo tra maniera moderna e Controriforma, tra committenza medicea e ecclesiastica. Alle quali sono state contrapposte, nel sottosuolo, queste Utopie Radicali. Radicalità dei pittori della “Maniera” verrebbe da dire, alle prese con un cambiamento epocale, e radicalità di quei tanti movimenti che all’indomani dell’alluvione del ‘66 (e agli albori del ’68) aprirono una stagione nuova non solo per l’architettura ma alla ricerca artistica tutta.
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Non solo architettura radicale La vicenda è nota ed è già stata riproposta più volte anche se non con questa ampiezza: è quella dei vari gruppi come Archizoom, 9999, Superstudio, Ufo e Zziggurat, insieme a singoli autori come Buti o Pettena che, appunto tra gli anni ’60 e ’70, rivoluzionano il linguaggio dell’architettura in sintonia con quanto accadeva nelle arti visive, nella letteratura e nella politica, grande orizzonte di riferimento comune. Sono studenti universitari che affollano i corsi di Savioli, Ricci o Benevolo a Architettura, ma anche di Dorfles o di Eco, che guardano alle recenti Biennali di Venezia, quella del ’64 che rivelò la Pop, quella del ’68 segnata da una clamorosa occupazione , così come guardano agli architetti radical inglesi (Archigram) a Woodstock nel 1969, all’italianissimo Gruppo ’70. Guardano a tutto, dalla Land Art alla Poesia Visiva, dal Living Theatre all’anarchitettura, poiché tutto sembra tenersi assieme nell’idea di una rigenerazione globale … Ecco, nelle loro mani l’architettura subisce una vera “rifondazione” . Si svincola dall’obbedienza a un sistema che la vorrebbe strumento di ordinato controllo sociale e ne recupera invece la dimensione di un ripensamento globale - artistico in questo senso - fuori di ogni specialismo rigidamente professionalizzante. In questo sono in ottima compagnia: l’Internazionale Situazionista (con Debord giusto a Firenze in Oltrarno) si scioglie giusto in quel ’68 ma della lotta a ogni specialismo aveva fatto il proprio cavallo di battaglia: non arte ma vita. Che oggi sembra un facile slogan ma che per tanti (si pensi solo al torinese Gilardi) fu il filo conduttore di una ricerca della quale solo oggi si intuisce la portata. Così, anche i nostri, spostando l’attenzione dall’esecutività al sen-
so di quel fare, reinventano la vita, dai mobili agli abiti all’animazione urbana con proposte (disegni, collage…) che ancora oggi suscitano meraviglia… C’è un evento che però quasi mai si considera quando si parla di esperienze del genere. Ed è questo. Il fatto che tanti architetti sentissero una così forte necessità di senso nella loro professione da tornare a confrontarsi con la pratica dell’arte - così come faranno i nostri radical induce a una breve riflessione sui due ambiti, architettura e arte. Si ricorderà, al riguardo, che l’Accademia di belle Arti fiorentina, nata alla fine del ‘500 e primo esempio al mondo di istituzione del genere, mantenne l’insegnamento di Architettura fino agli anni ’30 del nostro ‘900, quando appunto Architettura lasciò le cosiddette “belle arti” per costituirsi in un autonomo dipartimento universitario. Lo stesso è avvenuto ovunque. Il risultato è stato però di fare dell’architettura una professione squisitamente tecnica, esecutiva, che non interroga più il mondo, e dell’arte un ambito del superfluo che magari interroga il mondo e ne ricerca un senso ma è sganciata da ogni operatività. Da allora questi due mondi procedono separati, o si parla dell’uno o dell’altro, o si adottano – come nei manuali – sezioni separate. Era stata una teorica fiorentina, infaticabile animatrice anche di questa stagione radical, Lara Vinca Masini, a pubblicare, nel ’92, per Sansoni, un Dizionario del fare arte contemporaneo dove metteva di nuovo tutto assieme, arti visive, architettura, poesia, teatro e cinema, musica e design … Restò purtroppo un caso isolato ma la riflessione dovrebbe invece partire proprio da qui.
The Place di Mariangela Arnavas Un unico luogo, un bar denominato “The Place”, un’unica postazione ad un tavolo con Mastandrea (Angelo) e da una parte e dall’altra nove postulanti, interpretati da Marco Giallini, Alba Rohrwacher, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvio Muccino, Silvia D’Amico, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi e Giulia Lazzarini; questo il cast dell’ultimo film di Paolo Genovese, presentato a chiusura della Festa del Cinema di Roma. Il film, che ha realizzato al box office nel primo weekend 1.670.000 euro, certo trainato dal grande successo del precedente film del regista, “Perfetti Sconosciuti”, è tratto da una serie televisiva americana “The Booth at the End”, invertendo lo schema classico che vede le serie tratte dai film di successo. Sicuramente è una narrazione che fa pensare, meno riuscito e compiuto del precedente film di Genovese, ma comunque intrigante; Antonio Gurrado sul Foglio lo ha definito un film cattolicissimo e che per questo deve sperare nel mercato estero; un film sulla irrevocabilità della responsabilità individuale, inadatto a questo nostro paese “così refrattario alla responsabilità individuale da credere che, se uno è cattivo, non possa farci niente”. C’è di sicuro molto di religioso in questo film dove i personaggi si avvicendano di fronte al demone custode Mastandrea chiedendo di realizzare un desiderio e ricevendo in cambio un compito di difficile realizzazione. Ma più che di cattolicesimo si tratta, a mio avviso, di pensiero magico, quello che sta alla base della credenza nei fioretti, del pensare che sacrificando qualche pulsione , qualche piacere, si possa modificare il corso degli eventi; mi ha ricordato le narrazioni fiabesche nelle quali personaggi con poteri soprannaturali consentono alle donne e agli uomini di realizzare desideri, di solito in un numero limitato a tre, con tutte le contraddittorie conseguenze. Come dice Martha Nussbaum: “Per la maggior parte noi siamo indifesi rispetto a tante cose, comprese la vita e la sicurezza di coloro che amiamo. Ci sentiamo molto meglio se diamo forma ad un progetto di restituzione e se ci diamo da fare per realizzarlo” (Rabbia e perdono, Il Mulino, 2017). Così il demone custode Mastrandrea annota sulla sua grossa agenda i desideri e le azioni da lui indicate per realizzarli; l’ambiente è prosaico, banale, più che un personaggio magico Angelo sembra un ragioniere vecchio stampo che, con aria stanca
e indifferente, annota a penna nel suo librone già pieno di scrittura, anche su piccoli fogli frammentati, la partita doppia di entrate e uscite. Però, con grande maestria, il protagonista fa calare progressivamente e impercettibilmente , man mano che i desideri e le loro realizzazioni si intrecciano in una trama di incroci e rimbalzi non sempre riusciti e talora forzati, un pesante velo di malinconia; il grande peso della libertà di scegliere se compiere azioni difficili o pericolose o immorali per realizzare i propri desideri, il grande peso di guardare dentro noi stessi per verificare fino a che punto siamo disposti
a spingerci per riuscire a divenire artefici della realtà. Il film, essenzialmente statico, affida a volti e dialoghi la dinamicità e lo sviluppo della storia; tra questi, oltre il citato Mastrandrea, spicca una splendida Giulia Lazzarini, attrice di vecchia scuola, che così riassume la filosofia del film “In ognuno di noi c’è una parte terribile, chi non è costretto a scoprirla è fortunato. Penso che sia vero, c’è una parte di noi che rimarrà silente sempre o magari in una determinata situazione verrà fuori. In questo film si ipotizza quella situazione. Ed è per il pubblico l’occasione di fare un’esperienza interessante”.
Las Vegas e il Louvre di Valentino Moradei Gabbrielli Quando parlavo del nostro futuro viaggio negli Stati Uniti d’America e, che avrebbe compreso la visita di Las Vegas, italiani o statunitensi che fossero nessuno ha commentato bene la nostra scelta.I commenti negativi si placavano soltanto quando spiegavo che la città era in una posizione comoda per visitare il Grand Canyon. Visitando la città, ho conosciuto un modo certamente scellerato di vivere la vita, comunque diverso e meritevole di essere conosciuto. La visita si è rivelata interessante dal punto di vista antropologico e inaspettatamente estetico e culturale. La presenza di gallerie d’arte che presentavano opere di buon livello, in spazi assolutamente invidiabili, ha certamente influito sul mio giudizio. Gallerie all’interno di bei complessi architettonici quali l’Aria Hotel, lo stesso Luxor Hotel, dove ho pernottato, tolti gli ingombranti orpelli egizianeggianti nel suo interno e le pesanti presenze Hollywoodiane quali la gigantesca Sfinge e l’insegna-Obelisco all’esterno, rappresenta a mio avviso un buon esempio di architettura. Il Luxor Hotel, è stato costruito nel 1993 dall’architetto Veldon Simpson, ed è legato indissolu-
bilmente alla città di Las Vegas e alla sua skyline, spesso presente nei film cosiddetti commerciali. La città rappresenta uno dei peggiori esempi di morale, forse è questo il motivo per cui l’edificio è bollato come kitsch. D’ispirazione comune, la Piramide del Louvre, costruita nel 1989 dall’architetto Ieoh Ming Pei a Parigi, ha riempito giornali e riviste specializzate per mesi forse per anni ed è entrata nella Storia dell’Architettura. La domanda è: “Quanto è importante e condizionante il contesto culturale nel quale è inserita l’opera ai fini della sua fortuna critica?”
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di Danilo Cecchi Questa è una storia in cui si incrociano la fotografia e lo spionaggio, ma non è una storia legata alle fotocamere-spia, cioè a quelle piccole fotocamere, poco ingombranti e facilmente occultabili che, a partire dalle Minox del 1936 hanno eccitato l’immaginario collettivo, arrivando fino alle fotocamere nascoste in ombrelli, cappelli, borsette, spille, penne, accendisigari, orologi, anelli o altri oggetti di uso quotidiano. E’ la storia di una vera fotografa, Edith Tudor-Hart (1908-1973), nata a Vienna come Edith Suschitzky da un padre ebreo, libraio, ateo e socialdemocratico, la stessa donna che negli anni della Guerra Fredda svolge a Londra attività spionistica a favore dei sovietici con il nome in codice semplicemente “Edith”. Diplomata maestra d’asilo, Edith lavora per un po’ presso la scuola Montessori di Vienna, studia fotografia alla Bauhaus di Walter Gropius a Dessau, e si dedica all’attività politica nella Vienna del primo dopoguerra, collaborando sporadicamente con il NKVD sovietico, e fotografando con una Rolleiflex la situazione difficile attraversata dalla sua città e dai suoi concittadini in quel convulso periodo storico. Arrestata nel 1933 a causa del suo attivismo, del suo essere ebrea, e delle sue posizioni di sinistra, sposa presso l’ambasciata inglese di Vienna il medico comunista Alex Tudor-Hart che la porta con sé in esilio a Londra. Nel 1936 la coppia mette al mondo un figlio affetto da autismo, e nel dicembre lui parte per la Spagna come medico ausiliario nelle truppe repubblicane antifranchiste. Lei rimane a Londra, dove lavora come fotografa collaborando con riviste di sinistra, e dove viene contattata dagli agenti sovietici, come Arnold Deutsch, conosciuto anni prima a Vienna, e come l’amica ebrea viennese Litzi Friedmann, prima moglie di Kim Philby. E’ proprio Edith a convincere Philby a collaborare con i sovietici, a presentarlo ad Arnold Deutsch, a reclutare Anthony Blunt del gruppo dei “cinque di Cambridge” ed a tessere, nel dopoguerra, la rete spionistica filosovietica all’interno dello stesso Intelligence Service. Al ritorno dalla guerra di Spagna il marito abbandona Edith, che subisce un brutto contraccolpo, ma continua, sia pure tra molte difficoltà economiche, nella sua attività di fotografa e di spia, senza essere mai sospettata, neppure dopo lo smascheramento di Kilby e di Blunt nel 1963. Come fotografa Edith si interessa alle condizioni disagiate della popolazione dei quartieri popolari di Londra e dei dintorni, soprattutto dell’infanzia trascurata ed abbandonata, affronta temi come la povertà, la disoccupazione, la crisi economica e la crisi degli alloggi. Nelle sue immagini viennesi come in quelle londinesi, tutte perfettamente
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Edith Tudor-Hart Fotografa e Spia
nitide per l’impiego del medio formato e della sua capacità di avvicinarsi e di comunicare con le persone, Edith mette la stessa passione e lo stesso impegno che mette nella attività politica, la stessa determinazione nel denunciare le disuguaglianze e nel raffigurare le situazioni più critiche, in maniera realistica, sintetica e precisa, senza lasciarsi coinvolgere emotivamente, senza sbavature estetiche e senza malinconici compiacimenti. Negli ultimi anni della sua vita abbandona l’attività politica e la fotografia, si ritira a Brighton dove apre un piccolo negozio
di antichità, e dove muore per un tumore allo stomaco nel 1973, senza avere rivelato la sua passata attività filosovietica. La sua opera fotografica invece viene riscoperta e celebrata, con retrospettive, esposizioni e libri. Del suo lavoro come fotografa ha detto: “Nella mani di chi la usa con sensazione ed immaginazione, la fotocamera diventa molto più che il mezzo per guadagnarsi da vivere, diventa un fattore vitale nella registrazione e nell’influenza sulla vita delle persone e nel promuovere la comprensione umana”.
di Dino Castrovilli Avverto il lettore (se ce ne sarà qualcuno!) che sto per parlare di un libro le cui bozze mi sono piaciute così tanto, e non mi accade tanto spesso, da aver accettato l’invito di scriverne la presentazione (e magari accompagnare gli autori in qualche libreria). Per due buoni motivi: 1) perché si parla in maniera nuova e avvincente del poeta Dino Campana (Marradi 1885 - Castelpulci 1932), avvicinato, anzi letteralmente seguìto, in una delle sue più stupefacenti e “contemporanee” (che qualcuno oggi ha trasformato in “moda”) qualità: il cammino, il viaggio come esperienza non solo metaforica, tratto fondamentale della sua vita e, trattandosi di uno dei pochi poeti che abbiano voluto, e saputo, fondere vita e arte, della sua poesia, in particolare del suo “libro unico”, Canti Orfici (Marradi, 1914); 2) perché questo libro è dichiaratamente figlio di un altro appassionato libro sul “poeta camminatore” Dino Campana, I monti orfici di Dino Campana. Un saggio, dieci passeggiate (Polistampa, 2011) dello scrittore e alpinista Giovanni Cenacchi, purtroppo scomparso prematuramente poco dopo l’uscita della prima edizione: un libro che ho molto amato e che ho, per quanto ho potuto, contribuito a far pubblicare. L’abbondante ma non sempre meritevole e accurata bibliografia su Dino Campana si è impreziosita dunque di una piccola perla, scritta con amore e per amore: di Dino Campana, dell’unica vera donna della sua vita, Sibilla Aleramo (sarà una “coincidenza campaniana”, come le chiamo io, che il
In-canti orfici
un pellegrinaggio poetico lungo i sentieri di Dino e Sibilla libro sia uscito esattamente cento anni dopo l’ultimo straziante incontro tra Dino e Sibilla?), di uno dei “misteri orfici” che hanno condiviso profondamente: l’essere tutt’uno con la natura - monti, ruscelli, campi incolti, la “sanità delle prime cose” -, viverla fino nelle sue più piccole manifestazioni, soprattutto attraversarla, contemplarla, restituirla in versi struggenti, come quelli di Immagini del viaggio e della montagna, da cui è tratto il titolo del libro: L’aria ride. In cammino per i boschi di Sibilla e Dino (Aska Edizioni, pp. 126, € 13) di Paolo Ciampi ed Elisabetta Mari. Nella prima parte Paolo Ciampi, giornalista, scrittore di viaggi e camminatore, per me anch’egli “poeta camminatore”, ripercorre a piedi lo stesso cammino intrapreso da Dino e Sibilla quel fatidico 3 agosto 1916, quando si incontrarono per la prima volta, tremanti di aspettativa ed emozione, al Barco, nel Mugello, per proseguire sino al delizioso borghetto Casetta di Tiara (come Campigno uno
dei rifugi prediletti da Campana). A Casetta Ciampi “perde” Sibilla e prosegue “con/ in” Dino, fino a Palazzuolo sul Senio e infine a Marradi. Nel descrivere il cammino fatto, il “reportage” di Ciampi, contrassegnato da una scrittura e da riflessioni sorprendentemente, per questo genere di letteratura (ma qui siamo già oltre la letteratura di viaggio che conosciamo) poetiche e profonde, allinea frammenti di vita di Sibilla e Dino, cerca di penetrare nel groviglio del loro amore così breve, così intenso e tragico (per onestà intellettuale devo rilevare che mi sarebbe piaciuto leggere l’interpretazione di Ciampi su come e perché Campana, così diffidente e “orso”, abbia abbandonato completamente le sue difese permettendo a Sibilla di prendersi, nel bene e nel male, il suo cuore), arriva così vicino a Dino Campana da comprenderne, là fin dove per ognuno di noi è possibile, la bellezza della sua poesia e il suo “segreto”: non “scritta con rabbia”, non da un poeta maledetto, pazzo e sofferente, ma da un “poeta solitario” che è riuscito nella difficile opera di “rendere la natura con la parola scritta”, un poeta “che alla parola si affida, che nella parola confida”. A cui “bisogna saper leggere le labbra. O tendere l’orecchio. Ora non è più il suo respiro. E’ voce sommessa, è mormorio”. Le voci sommesse, i mormorii fantastici che attraversano anche i luoghi narrati da quell’autentica e bravissima storyteller che è Elisabetta Mari nella seconda parte del volume, come la Valle del Torrente Rovigo e soprattutto Casetta di Tiara, il “nido d’amore” dove Dino e Sibilla vissero i momenti più belli della loro bruciante relazione. Il racconto di luoghi e di scenari - l’Alto Mugello e la bassa Romagna - senza la “visione” dei quali non si può “comprendere” veramente il mistero di Dino, di Sibilla, del loro amore, degli in-Canti Orfici.
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di Susanna Cressati Dopo un lavoro certosino e grazie alla generosa disponibilità della famiglia, l’archivio del sociologo Antonio Carbonaro (dal 1944 al 1998) è ora disponibile a studenti e studiosi presso la Biblioteca di Scienze Sociali del polo universitario di Novoli, a Firenze. Si tratta, come ha spiegato nell’incontro di presentazione la direttrice Lucilla Conigliello, di 87 faldoni (completi di inventario) suddivisi in varie “serie” tematiche: materiali inerenti la didattica e la ricerca, i contratti stipulati con Adriano Olivetti, in una continuità di relazioni avviate nel 1952 e protratte nel tempo e nello spazio (Milano, Ivrea, Firenze); materiali riguardanti il Formez, il Centro di formazione e studi per il Mezzogiorno di cui Carbonaro fu direttore fino al 1960. E ancora carte dell’Associazione italiana di sociologia, documenti sui rapporti con istituzioni pubbliche, con case editrici. E poesie. Perché questo studioso, tra i più significativi e impegnati del Novecento italiano, fu anche poeta, mostrando in questo una carica umana e intima tra le più forti. Fin qui la notizia. In realtà gli organizzatori della presentazione, e in primo luogo la moglie di Carbonaro, Giovanna, hanno voluto dare all’incontro un valore assai più profondo della semplice illustrazione di una nuova disponibilità di documenti. Complice anche il luogo (la biblioteca di Novoli è veramente magnifica, vale un viaggio) l’evento si è trasformato in una calda rievocazione (presenti molti amici e colleghi di Carbonaro) di uno dei periodi più fecondi per la ricerca sociologica in Italia e nel ricordo di chi, come Carbonaro, ne ha incarnato gli aspetti più umani e impegnati, oltre che rigorosi dal punto di vista scientifico. Del resto è la storia stessa del sociologo a parlare: giovane anarchico, costretto in miseria dalla mancanza di lavoro, si adattò, ha raccontato Giovanna, a ogni impiego: fu improbabile venditore di scarpe e di farmaci per i polli. Poi l’intensità della sua passione sociale e civile, quell’anticonformismo che in seguito lo avrebbe tenuto sostanzialmente ai margini della scena e del potere accademico, la propensione per indirizzi come la sociologia del lavoro, della vita quotidiana e, più tardi (con Alberto L’Abate) dei conflitti e della pace, tutti questi furono fattori che sostennero il suo progresso nel mondo degli studi e della didattica, e promossero la sua entrata nell’orbita oli-
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Anarchico, L’archivio sociologo, di Antonio poeta Carbonaro vettiana. Nel dialogo tra le grandi strutture storiche e la quotidianità sociale, ha detto Giovanna Ceccatelli Gurrieri, ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Firenze, che ha lavorato per più di trenta anni con Antonio Carbonaro, sta il senso profondo della sua avventura intellettuale. Il calore dell’incontro a Novoli è stato coerente con un altro aspetto di questa operazione, sottolineato da Franca Alacevich, ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro: la “fusione”, la riunificazione sotto lo stesso “tetto”, accademico
ma anche logistico (biblioteche, documenti e archivi) di quelle che furono due scuole di sociologia dell’Ateneo fiorentino e che a lungo vissero da “separate in casa”, se non in vero e proprio antagonismo: quella di Magistero e quella di Scienze politiche. La stessa Alacevich ha annunciato un fatto importante: in un angolino del bilancio di Ateneo ci sono fondi dedicati alla prossima pubblicazione dei diari di Antonio Carbonaro. Per chi la vuole ascoltare dunque la “sociologia militante”, come la chiamò Giuseppe De Rita in un convegno dedicato proprio a Carbonaro nel 2001, ha ancora voce.
Questa frase emblematica è scritta con la calligrafia dell’artista e realizzata o meglio dire plasmata con un tubo fluorescente modellato. La luce, quindi, condensa in sé forma e colore. Il colore scelto è la somma dei sette colori dello spettro solare: il bianco. Riflettere sulla scelta del colore bianco per questo specifico lavoro è indispensabile per la comprensione dell’opera. Facendo un parallelo con la pittura per eccellenza “luminosa”, quella veneziana classica, possiamo dire che si tratta di un’opera tonale, capace di una forte intensità visiva. Il tono che un colore possiede è pari alla capacità di luce che è in grado di riflettere. Il colore dell’opera essendo fatto di luce è distribuito, al pari delle pitture dei coloristi veneti, uniformemente, in ogni punto permane la stessa quantità di luce. La pittura tonale restituiva principalmente una speciale prospettiva atmosferica che nel lavoro di Maurizio Nannucci, essendo questa un’opera installativa, ma per sua natura, sostanzialmente, di una tridimensionalità appiattita, ridotta, ma presente, va interpretato in maniera diversa. Il tonalismo si concentra sul chiarore evocando un’architettura lineare del tutto illusoria. Il movimento e la profondità che nei quadri veneti non erano generati da quinte architettoniche, ma da suggestioni atmosferiche ed erano elementi contenuti all’interno della pittura, in questa scritta luminosa, al contrario, le componenti sono esterne ed è necessario attivarle con un procedimento mentale oltre che visivo. L’orizzontalità e la precisa regola di distanze da rispettare fra le parti di neon e quelle della
What we are talking about where we are talking about
art
(?)
superficie ospitante, dettagliatamente spiegate dall’artista, fanno in modo che si crei una veloce spinta da sinistra verso destra, come solitamente nella lettura di un testo, ma amplificata dalla grandezza dell’opera, che raggiunge i quattro metri lineari. Similmente al seguire, in una sola direzione, una pallina da tennis durante una partita o
La foto di Silvia Noferi
di Claudio Cosma
meglio immaginarsi la traiettoria di una freccia che non raggiungerà mai il bersaglio, rimanendo sempre nello spazio, così i nostri occhi sono accelerati nell’assecondare la lettura e la comprensione del testo, allo stesso tempo. Sul significato letterale della frase rispetto alla sua valenza artistica non c’è niente da aggiungere se non, forse, un punto interrogativo.
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di Luisa Moradei Ejzenštejn, e si pensa immediatamente alla parossistica vicenda fantozziana de La corazzata Potëmkin. Molto meno immediato è il rimando alla copiosa attività grafica del grande regista di Riga che viene ora presentata agli Uffizi con la mostra Ejzenštejn: la rivoluzione delle immagini visibile fino al 7 gennaio. Già questa estate gli Uffizi si erano aperti ad accogliere il cinema con la rassegna proposta all’interno del cortile ma in occasione del centenario della rivoluzione socialista in Russia ci si spinge oltre, si aprono le porte stesse delle Gallerie per ospitare, nelle Sale di Levante, una selezione di settantadue disegni di Ejzenstejn; la “settima arte” fa il suo rispettoso ingresso nel santuario dell’arte antica. Un allestimento sobrio e funzionale, articolato in cinque sezioni, mette in corrispondenza disegni a penna o a matita, per lo più inediti e databili fra il ’30 e il ‘47, con spezzoni filmici proiettati sulle pareti; il dialogo che ne deriva fa emergere Ejzenštejn al crocevia delle sue attività di regista cinematografico e di disegnatore. E’ bene chiarire che non si tratta di disegni preparatori o ancillari rispetto ai film ma di espressioni autonome, “trascrizioni” dell’immagine mentale di un fotogramma che verrà poi montato seguendo una tecnica rivoluzionaria. . La produzione grafica ejzenstejniana è caratterizzata da un segno svelto e sintetico che si limita al puro contorno la cui asciutta linearità concede al colore partecipazioni incisive ma estremamente misurate. I suoi disegni hanno in nuce la potenzialità del cinema e d’altra parte il suo cinema affonda indiscutibilmente le radici nel disegno: il frame di certi primi piani in netto bianco-nero altro non è che la trasposizione su pellicola di ideali ritratti a disegno o a incisione. Dunque gli stranianti primi piani adottati da Ejzenštejn sfruttano il “segno” per esaltare il concetto di tipaž e rendere percepibili immediatamente i caratteri interiori dei personaggi, effetto già sperimentato con le maschere nella Commedia dell’arte. Ma quest’attenzione alla fisiognomica gli deriva dallo studio approfondito dei capolavori leonardeschi come l’Adorazione dei Magi e l’Ultima cena e ce ne restituisce un saggio con un esempio da manuale, il disegno La coda nel quale sfila una teoria interminabile di soggetti umani. Con lo stesso intento interpretativo si presenta il ciclo Mitologia greca, caratterizzato da un tratto velocissimo che conferisce un effetto teatrale alle movenze e alla mimica facciale delle divinità. Di fatto Ejzenštejn è la dimostrazione stessa della relazione fra il ci-
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Ejzenštejn agli Uffizi
forme o generano un serrato contrappunto. . I vari fogli de Le Parche, il cui modello estetico è da ricercare ne La Danse di Matisse, costituiscono una sequenza di configurazioni differenti una dall’altra che sulle mosse di un gioco ripiglino tracciano con segno aereo e danzato la coreografia della vita umana, tendono e tagliano fili volteggiando in maniera acrobatica, dipanano il filo della vita al pari di una pellicola di celluloide quasi che la loro danza simboleggiasse il montaggio del materiale cinematografico. Se è vero che “due immagini immobili, poste una accanto all’atra, producono un’illusione di movimento” allora si può affermare che i vari disegni che vediamo esposti i
nema e le arti come si evince dalle immagini dei suoi film che manifestano il grande interesse verso l’arte italiana del tardo Medioevo e del Rinascimento, non ha caso la proiezione della sequenza di battaglia sul lago ghiacciato nell’Aleksandr Nevskij viene giustapposta all’immagine della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. . Nei disegni del ciclo Gedanken zur Musik la musica viene visualizzata con tracciati colorati che doppiano liberamente la silhouette delle figure, assecondano in maniera armonica la linea melodica delle
di M. Cristina François In omaggio al “Dies natalis” della Santa, questa pagina raccoglie per chi scrive, per chi studia, per chi visita, un indice ragionato e programmatico di alcuni degli articoli che presenterò in questa sede in ordine sparso. Offriranno un’immagine diversa, corredata da documenti inediti, rispetto a pubblicazioni su questo stesso tema che non sono il risultato diretto della frequentazione dell’Archivio di S.Felicita. - LA BADESSA, IL CONTE E IL PITTORE. Il Conte: Lodovico di Gino Capponi, la Badessa: Suor Costanza di Piero Gualterotti, il Pittore: Pontormo. Dove si cercherà di rievocare l’atmosfera del contesto che conformò le opere del Pontormo nella Cappella Capponi. - STORIE INTORNO A UN POZZO. Al centro del trecentesco “Chiostro piccolo” del Monastero Benedettino di S.Felicita, stava un pozzo - poi sostituito nel Cinque-Seicento da una vasca su gradoni - intorno al quale si affacciavano i quattro vestiboli da cui pervengono fino a noi storie di vita claustrale quotidiana. - GLI 8000 FRANCHI DI NAPOLEONE. Il 14 settembre 1812 Napoleone entrò in Mosca e da lì spedì, con le sue proprie scuse, al Parroco di S.Felicita un Decreto dove si impegnava a risarcire la Chiesa di S.Felicita di quanto le era stato erroneamente sottratto dagli impiegati napoleonici detti “Santesi”. Ma restituì tutto, una parte o niente? - QUESTI MARMI HANNO UN NOME. Il pavimento di S.Felicita è costellato di chiusini recanti numeri romani o stemmi nobiliari: vogliamo cercare di sapere chi era sepolto in questa Chiesa tra le più importanti di Firenze? - RELIQUIE E NON RELIQUIE. Il patrimonio di reliquie e reliquiari custoditi in quella che fu la Parrocchia dei Granduchi è ancora oggi molto consistente tanto da costituire un tesoro per visitatori e studiosi, e un piccolo Paradiso per i fedeli. Come ogni patrimonio ha una sua storia. - INGEGNI E MARCHINGEGNI DI UNA CHIESA (XVIII-XIX sec.). Tra le mura dell’edificio ecclesiale e la sua Canonica (ex-Monastero) esistono soluzioni ingegnose per ogni necessità: un manovratore per le tende, un sistema a corde per aprire e chiudere a distanza i finestroni, un parlofono per comunicare con la sagrestia, la macchina per le 40ore, un montacarichi in fase progettuale, uno spioncino per controllare la ‘Stanza del Tesoro’, finestrine e affacci segreti all’interno dei muri. - LA PIRAMIDE DI PIAZZA S. FELICITA. In un “Privilegium” del Vescovo Raineri
23 novembre per un’altra S.Felicita
datato 20 febbraio 1078 si nomina una “piramidem prope pontem sitam”. Ipotesi sul monumento.- IL QUARTIERE DEGLI ARANCI. Le Monache servigiali abitavano sul retro del Monastero, verso l’Orto. Il loro alloggio era detto “Quartiere degli aranci” perché guardava un muro di ‘aranci a parete’ venduti ogni anno al Granduca Cosimo I il quale, puntualmente, si rifiutava di pagarli. - I MAI VISTI. Come ogni Chiesa carica di tanta storia, S.Felicita possiede ancora molti tesori da scoprire. Li ho chiamati “i mai visti” per ricordare la bella iniziativa di A.Natali. Si tratta di opere custodite nella Stanza del Tesoro, come pure di opere fuori inventario, o ancora, di opere nascoste dallo scialbo e, infine, di opere sfortunatamente scomparse. - SOTTO IL SOTTOPORTICO. Come un’eredità dell’antico sepolcreto paleocristiano annesso alla primitiva Basilica intitolata a S.Felicita, per secoli il sagrato della Chiesa costituì un cimitero. Oggi si leggono ancora alcune lapidi nel pavimento del nartece. – GIUBILEI, CAMPANE, CAMPANONI E CAMPANELLE. In due puntate di “Cultura commestibile” dirò prima dei numerosi Giubilei che quasi ogni anno venivano promulgati con Breve Pontificio e celebrati sempre in Duomo e in S. Felicita (nonché in una terza Chiesa a turno deputata). Tratterò successivamente delle campane che accompagnarono queste sacre celebrazioni. - LA MACCHINA DEI MORTI. ARREDI E EFFIMERI LITURGICI. Proprio grazie al disuso di arredi e
macchine liturgiche a seguito del Concilio Vaticano II, sono fortunosamente sopravvissuti molti di questi oggetti o parti di essi. Nel pericolo che se ne disperdano le ultime testimonianze materiali, restituiamo almeno la memoria dell’uso a cui furono per secoli adibiti. - PAGINE DI PIETRA. In un vestibolo aperto, che guarda a meridione e che affianca la Chiesa, furono murati nel 1749 da alcuni studiosi e antiquari due “lapidari”. In uno di essi sono esposti gli stemmi tolti dalla Chiesa nel suo rifacimento del 1736-1739: come in una pagina araldica vi si leggono le ‘imprese’ delle famiglie nobili di questo ‘popolo’. - VISITIAMO I SOTTERRANEI. – Ci sembra di grande interesse una descrizione del percorso labirintico che si snoda sotto il pavimento della Chiesa di S.Felicita: emergenze paleocristiane, celle mortuarie più recenti, fondamenta dell’edificio gotico, spartiscono gli spazi fino al respiro della piccola cripta romanica ricavata nella Basilica paleocristiana. - BUONGIORNO! e BUONASERA! Nel centro di Firenze anche l’Oltrarno ha perduto da anni la sua realtà di quartiere scandita da abitazioni private e negozi per la vita quotidiana. Il B & B ha già divorato dall’interno quasi tutto e, all’esterno, uniforma le varie tipologie di negozi in shop per turisti. I fiorentini sopravvissuti uscendo e rientrando nelle loro case non hanno più un vicinato, il saluto è quasi scomparso dalle strade. Le carte d’Archivio, ancora una volta, ci fanno rivivere la realtà pulsante di un tempo.
19 18 NOVEMBRE 2017
di Andrea Ponsi Pacifico
Sono salito in automobile sulle rupi che da Marin County guardano verso l’oceano Pacifico. E’ una giornata serena, ma sul mare la foschia copre la linea di orizzonte. Fuori spira un vento gelido. Non si vedono le isole Farallones, solo un indistinto chiarore divide il blu plumbeo del mare dall’acceso azzurro del cielo. Sono davanti al Pacifico, un oceano freddo, ostile , che non dice dove porta, che nasconde le sue mete. Che da qui sembra respingerci o ingannarci. Dove sono i corpi naufraghi di Gordon Pym, di Ismael, del capitan Achab? Dove i tanti sfortunati viaggiatori verso le isole felici dei Mari del Sud? Laggiù, oltre la nebbia forse esistono i tesori di Poe, Stevenson o Melville; da qui appare solo un indistinto abisso, una avventura macabra, una plausibile immagine di cosa sia la morte. Alcatraz
Alcatraz è una nave abbandonata, un Flying Dutchman alla deriva che porta i segni di una vita di tormenti. Quando era abitata dai vivi era l’isola del braccio della morte. Prima ancora era un’isola spoglia, un libero scoglio sottoposto al vento e all’onde, un rifugio di gabbiani, forse di pellicani. Alcatraz-pellicano: ironia toponomastica, il nome di un libero uccello per un’isola di prigionieri. Una volta dismessa la prigione ci si è chiesto che fare di Alcatraz. Un museo, un rifugio-santuario per foche e gabbiani, perfino un casino per il gioco; o lasciarla come è, con i suoi scarni edifici di prigione. Ha prevalso questa opzione. Dopotutto è il monumento più visitato dai turisti a San Francisco. Perché lasciarsi scappare l’occasione di buone entrate con storie di crimini e brividi di morte?
20 18 NOVEMBRE 2017
Mappe di percezione
San Francisco
Ocean Beach
Oggi a Ocean Beach è un ottima giornata per il surf. È presto, ma un bel sole già rischiara la spiaggia. È una perfetta mattina di domenica per quei corpi neri che galleggiano lontani in mezzo al mare. Onde lunghe, alte pareti d’acqua che si gonfiano per andare a frantumarsi su stesse. Piccoli corpi neri, anfibi umani stesi sulle tavole, aspettano galleggiando nel mare aperto dove l’acqua è ancora calma. Attendono l’onda migliore, quella che diventerà alta e potente. Ecco che arriva. Le mani spalano l’acqua, la tavola acquista velocità, il corpo si alza in piedi cercando l’equilibrio. Poi si piega, la tavola taglia l’onda in diagonale, sfugge dalla schiuma che la rincorre e scivola via finchè l’onda perde forza e con lei si accascia il corpo dentro l’acqua.
Le onde continuano a nascere, crescere, rompersi, una dopo l’altra contro Ocean Beach, contro la costa. Da lontano, dalla spiaggia, arriva un ritmo di tamburo. Ritmo di suono, di onde, di vita. Ritmo del tempo. People have drowned here
“People swimming and wading have drowned here”. Poi, più sotto: “ Corrente peligrosas”. “Emergency 911. Danger : rip currents” dice il cartello sul marciapiede lungo Ocean Beach. Si può morire nuotando in acqua, mentre si sta vivendo l’intensità delle emozioni. Cavalcare un’onda è un rodeo con la natura. Si può morire per inesperienza, per un malore, per tante altre ragioni. Basta saperlo. Tu vivi e vuoi nuotare, ma ricordati che la morte è sempre lì, ha il corpo del mare, l’abbraccio di un’onda; è lì, accanto a te, avvolgente e sensuale. Finis terrae 2
Qui finisce San Francisco, qui termina l’America. Qui finisce il cammino di Kerouac, dei vecchi hippies, dei pionieri di una volta. Qui sono finite alcune delle menti migliori della generazione di Allen Ginsberg e dei suoi amici: morti nel fango, stroncati dalla droga, sfiniti dall’Aids. Ma anche sono arrivati fino a qui coloro che si sono tolte le catene e le hanno tolte ad altri, che si sono abbracciati e che hanno visto il Dharma. Qui sono finite le “best minds” a produrre idee, poesie, utopie, immagini, films, computers. Qui finisce l’occidente. Oltre la rotondità dell’oceano c’è l’Oriente. Ma si respira ancora l’aria che arriva da laggiù? Si respira ancora il dubbio creativo, la ricerca senza credi, il Tao e lo Zen, le poesie di Basho, le parole di Chuang Tzu, di Confucio, di Lao Tse ?
Fiesole non gareggia proprio di Alessandro Pesci Nel numero 237/2017 Cuco ha pubblicato un garbato intervento di Antonello Nuzzo che, con la consueta essenzialità ha rivolto punti di domanda e considerazioni al riguardo di due recenti bandi emessi dal Comune di Fiesole; uno per l’affidamento della gestione dell’Auditorium di Piazza del Mercato e l’altro per la selezione di professionisti cui affidare la revisione degli strumenti urbanistici comunali. La scelta dell’Auditorium, di cui porto la massima responsabilità fu fatta a cavallo del passaggio di secolo per dotare Fiesole di uno spazio che potesse ovviare alla mancanza di una sala fin dalla metà degli anni ’80, da quando cioè fu demolita l’ex Area Garibaldi (che comprendeva una modesta sala cinema). E che di questo Auditorium ci sia bisogno ce lo conferma un recente episodio. La Città Metropolitana (la ex Provincia, per capirci) eroga al Teatro Comunale l’interessante somma di euro 1.700.000,00 di risorse proprie; in controprestazione quest’ultimo svolge una serie di spettacoli almeno in una parte dei 42 comuni del territorio. A Fiesole questo non avverrà e sapete perché? Perché non abbiamo una struttura al chiuso dove fare un concerto o un’opera! I lavori iniziarono nel lontano 2003 e ancora l’opera non è completata, tanto che il bando comunale richiede un’offerta per il completamento, l’arredamento e la “messa in esercizio” della struttura. L’Amministrazione in carica, a più di tre anni dal suo insediamento ha promosso solo in queste settimane un’iniziativa che poteva già essere assunta nello scorso mandato amministrativo e che probabilmente, per come è congegnata non porterà alla soluzione del pro-
blema, nel senso che alla scadenza del 28 novembre, così ci dicono i rumor, non ci saranno candidature alla gestione della struttura. E menomale, aggiungo. Si, perché sarebbe ancora possibile che un imprenditore, anche non del settore, proponga per cinquant’anni la gestione del complesso delle iniziative culturali, a partire dall’Auditorium, della città: relazioni con la Scuola di Musica, intese con la Fondazione Menarini (di prossima apertura), la gestione unitaria dell’Estate Fiesolana e, perché no, dell’intera area archeologica (che, certo, ha bisogno di un rilancio) e anche altro. Un super assessore alla Cultura quindi, nominato per un periodo di tempo così lungo che potrebbe del tutto esautorare il ruolo della parte pubblica comunale nell’ambito che finora ha caratterizzato la nostra città nel territorio fiorentino e nazionale: la cultura. Un bando rischioso, quindi. Rimane aperto il problema, tuttavia del completamento e dell’uso della struttura. Una modesta proposta: il Comune mette nel bando oltre € 900.000,00 di risorse proprie (così si dice) e chiede al privato di mettere almeno un altro milione di euro. E’ davvero proibitivo per il bilancio comunale accendere un mutuo di questa cifra e completare l’opera e magari gestirla direttamente per un periodo di tempo (3/5 anni) sufficiente per capirne le potenzialità e le criticità e magari solo dopo cercare partner privati con i quali rilanciare le politiche culturali della città? Anche perché, e vengo al secondo bando, personalmente avverto la necessità di capire come sta messo Fiesole dentro gli assetti metropolitani e toscani. E’ ancora o no quel polo di richiamo culturale o è solo rimasto, come qualche arguta penna
di anni indietro lo definì, il “superattico di lusso di Firenze”? Voglio dire che sono tanti anni, troppi ormai, che Fiesole non si da un’occasione di riflessione su se stessa; né questa spuria maggioranza che amministra oggi, né le persone che svolgono pubbliche funzioni e rappresentano realtà politiche e sociali si sono dati la briga di promuovere una discussione che chiamasse i fiesolani interessati a decidere cosa fare di questo territorio. Anzi no. Abbiamo assistito a uno sconcertante episodio promosso dalla Fondazione Michelucci che ha promosso, con risorse della Regione tre incontri propedeutici alla revisione degli strumenti urbanistici comunali. In questi incontri abbiamo assistito a imbarazzate introduzioni, si e no degne di tesine di laurea versione triennale; gli amministratori erano presenti ma hanno fatto silenzio, forse anche loro imbarazzati dal pasticciato “contenitore” offerto dalla Fondazione. Poi una “festa” finale del piccolo tour, inizialmente programmata per il 23 giugno e slittata all’11 novembre e non si capisce proprio cosa ci sia da festeggiare, nelle condizioni in cui è ridotto Fiesole. Ora, bisogna rammentare che gli strumenti urbanistici sono, per un comune di medie dimensioni come il nostro l’occasione più ghiotta, durante il corso del mandato amministrativo, per declinare un’idea di città e definire così le coordinate di lavoro anche per i professionisti che saranno selezionati con il bando che sta sul sito comunale. Esiste un punto di vista del Consiglio Comunale di avvio del procedimento di revisione del piano strutturale e di redazione del piano operativo (ex piano regolatore generale) su cui si possa discutere e magari provare a dare un contributo?
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di Simonetta Zanuccoli Il nuovo museo Yves Saint Laurent è stato inaugurato a Parigi ai primi di ottobre in avenue Marceau 5, luogo storico della sua Maison, a pochi giorni di distanza dall’apertura di un altro museo a lui dedicato a Marrakech, vicino allo splendido Jardin Majorelle progettato nel 1980 dallo stilista per la sua casa marocchina. I due musei permetteranno di esporre a rotazione i 5.000 pezzi tra vestiti e accessori, i 15.000 schizzi, le fotografie, documenti e libri gelosamente custoditi per 40 anni dalla Fondation Pierre Bergé-Yves Saint Laurent. Questo simbolo dell’alta moda francese è stato infatti l’unico stilista della sua generazione ad aver archiviato tutto fin dagli inizi del suo lavoro. Al progetto del museo parigino, nell’elegante palazzo secondo impero dove ha abitato e dove sono state realizzate dal 1974 al 2002 le sue creazioni, hanno collaborato la scenografa Nathalie Criniére e il decoratore d’interni Jacques Grange. I due hanno interamente riprogettato e ampliato gli spazi espositivi, fino ad ora dedicati a piccole, raffinatissime mostre a tema, ricreando un’atmosfera che permette ai visitatori d’immergersi totalmente in un mondo, quello dell’alta moda, che è anche stato un tratto di storia del XX secolo di un certo stile di vita ormai scomparso (in questo senso è interessante visitare anche la mostra su Dior al musée d’Arts Décoratifs). Nel museo è possibile anche inoltrarsi nel quotidiano di Saint Laurent visitando il suo studio con la scrivania affollata di matite, quaderni di schizzi, mazzette di tessuti, i famosi occhiali, prototipi di grandi collezioni, sui muri foto e un suo ritratto fatto da Bernard Buffet, per terra la ciotola del suo amatissimo cane Moujik. I due musei, quello a Parigi e quello a Marrakech, sono la realizzazione dell’ultimo progetto di Pierre Bergé, compagno e partner dello stilista per 50 anni, morto a settembre, un mese prima della loro apertura. Quasi a lasciare traccia di un amore speciale nei due luoghi dove hanno vissuto e lavorato per tanti anni. Arrivato a Parigi il giovanissimo Pierre diventò presto amico di grandi nomi della scena letteraria e artistica come Cocteau, Camus, il pittore Buffet del quale fu compagno fino all’incontro magico, nel 1954, con l’allora diciottenne Yves. Due persone diversissime e complementari: Saint Laurent genio creativo e tormentato, Bergè imprenditore di successo e filtro per il compagno con il mondo con-
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Uno stile d’amore
creto. Insieme crearono la casa di moda nel 1961. Come Yves, anche Pierre era un’esteta insaziabile amante dell’arte, tanto da essere insignito dell’onorificenza di Grande Mecenate, e uomo di cultura (era uno degli azionisti de Le Figaro ed è stato direttore dell’Opéra di Parigi), senza tuttavia mai far mancare il suo appoggio ai diritti dei gay. Insomma una relazione tra persone dalla vita eccezionale che tuttavia si concluse nel 1976, senza di fatto concludersi mai. Nel
2010, due anni dopo la morte di Saint Laurent, Bergé ha pubblicato un libro dal titolo Lettres a Yves dove racconta la storia del suo amore dal quale, nel 2011, sarà tratto il film Yves Saint Laurent-Pierre Bergè. L’amour fou di Jalil Lespert. Per terminare degnamente la sua vita, a 86 anni, già gravemente malato e a pochi mesi dalla morte, Bergé si è unito in matrimonio con il paesaggista americano Madison Fox di quasi 30 anni più giovane.
di Cristina Pucci Facebook mi permette, tramite ancora Rossano, di conoscere un altro collezionista molto particolare e raffinato. Enzo Fumagalli è un signore che vive a Caserta e lavora a Milano, Amministrazione per l’Edilizia, e, direi, ama le cose molto belle, preziose e rare. La sua mamma aveva varie bambole Lenci degli anni ‘50 e curiosando intorno a questo Ditta, il cui nome, ricordo, è l’acronimo di Ludus Est Nobis Costanter Industria, scoprì che non aveva fabbricato solo bambole, ma anche meravigliose statuette di ceramica. Da allora ha visitato mostre che le esponevano, letto libri che ne parlavano, ne ha comprato uno antico e quasi unico, ed infine ha trovato chi le vendeva. Sono passati molti anni da quando ha fatto il primo acquisto, le ceramiche del ‘900, di qualsivoglia Ditta ed Artista, sono sempre più rare e costose ed è sempre più forte il rischio di trovare dei falsi. Alcune di quelle che aveva comprato le ha vendute ed ha deciso di orientare la sua collezione non tanto verso una vorace e continua acquisizione di pezzi, ma verso una loro significativa varietà, un pezzo di ciascun artista e di ciascuna famosa Manifattura, esistente o storica, scegliendo, mi pare di poter dire, pezzi di indubitale pregio estetico, immediata e godibile bellezza, squisita e finissima fattura. Prime, per me, le 3 “signorine” di Sandro Vacchetti, chicchissime, dolcemente provocatorie, ingenuamente ironiche, con la loro aria vaga e distaccata ed al contempo espressiva. Costui fu Direttore Artistico delle Ceramiche Lenci dal 1922 al 1934, ideò e realizzò veri e propri capolavori, avviò poi una sua Ditta, la Essevi, dalle iniziali del suo nome, dove continuò a produrre oggetti deliziosi. Enzo possiede un pezzo anche di questo periodo, un busto di donna che allatta il cui abito e cappello hanno motivi geometrici dalla nuance déco. Nomino poi una alzata, fiori coloratissimi e perfettamente delineati su fondo nero, di Chessa, altro artista in forza alla Lenci. Sempre 3, numero perfetto, deliziose piastrelle di Giò Ponti, “un suonatore”, “un fumatore stanco” e un “misuratore di stelle”. Che dire di Ponti? Architetto, designer, scenografo, creatore di oggetti, di mobili, di ceramiche ...negli anni ‘20 collaborò con la Richard Ginori, queste da quel tempo arrivano. Bruno Cacciapuoti, ultimo di una famiglia di ceramisti e non solo,
Le ceramiche di Enzo Fumagalli
fu l’esponente di spicco della manifattura “Grès d’Arte” fondata da uno dei suoi fratelli con un socio. Attivo fin dal 1911, vero scultore di figure ed animali di piccolo taglio, sue opere furono acquisite da Vittorio Emanuele III e Giorgio VI. Enzo possiede tre sue creature, una testa di donna inclinata con rigido foulard-cappello e due dame dalle opulente toilettes, una di esse, abito verde, fusciacca scivolata sulle spalle, cappello con fiori viola in pendant con spilla e guanti, tiene, vicino alle gambe, un ossuto e sinuoso levriero. Meissen è una cittadina tedesca nota per quello che viene definito il suo oro, la porcellana. In visita colà, come souvenir, Enzo acquistò, per una cifra niente affatto modica, una tazza con una delicatissima rosa, finemente dipinta, due piccole statuette, un bimbo che da del latte ad un canino e una bimba con un bianco gatto, le fanno degna compagnia. Un intero servito da thè, anni ‘40, di Andlovitz, concorrente eccelso di Ponti, per la Ceramica Laveno, da Museo. Barattoli per thè, zucchero etc, tedeschi a righe bianche e nere, del ‘900, essenziali e bellissimi. Zaccagnini, altro importante artista della ceramica, è rappresentato da due bianche Madonne con bambino ed un orecchiuto Pinocchietto della famosa serie dedicata ai personaggi Disney. Provenie dalla collezione di Rossano e ci anticipa l’altra, bella ed originale collezione di Enzo, quella di Pinocchi, cui dedicheremo il prossimo pezzo.
23 18 NOVEMBRE 2017
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24 18 NOVEMBRE 2017
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