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redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico emiliano bacci
N° 1
Con la cultura non si mangia
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“il 20 giugno celebreremo un grande simbolo dell’Italia e del saper fare italiano: la pizza. Sarò l’occasione per esaltare il pomodoro, un altro importantissimo prodotto italiano”
Maurizio Martina, ministro
E il mandolino? editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non saltare
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Simone Siliani s.siliani@tin.it di
I
l festival di poesia “Voci lontane, Voci sorelle” giunge alla sua XIII edizione: parliamo con Vittorio Biagini (che ne è l’animatore fin dalla sua fondazione) di quale sia lo stato della salute della poesia nella cultura a Firenze. Partiamo da una considerazione generale perché questo chiarisce il senso del nostro progetto, che non si limita al festival estivo, ma si articola in una attività che si svolge durante tutto l’anno. Lavoriamo attorno a tre assi fondamentali. Il primo è quello della formazione, cioè di avvicinamento alla lettura della poesia. Il secondo è quello del contatto diretto con i poeti. Mentre nel primo momento si lavora sulla tradizione, pur in una prospettiva di sua rilettura, il secondo ci porta a contatto con l’attualità. Il terzo momento è quello della riflessione critica, il confronto con critici importanti su tematiche fondamentali. Il tutto nasce da una considerazione non pessimistica, però realistica della situazione di crisi delle istituzioni culturali, in particolare di quelle letterarie e della poesia. La tendenza generale in tutti i settori di produzione e di riproduzione del senso (e quindi non soltanto nella letteratura, ma anche nella politica ad esempio) è una incapacità a gestire la complessità. Così a questa difficoltà si risponde con la semplificazione. Questo non dice bene per la poesia, ma neppure per la politica. Tutti i sistemi di attribuzione di senso sono estremamente complessi e funzionano se si rispetta la loro complessità. In secondo luogo funzionano se si sa cogliere questa complessità nella sua articolazione, che è quella di una distinzione dei tre momenti, che sono analoghi a quelli della religione: ci sono i profeti, i sacerdoti e i fedeli. Nella letteratura letteratura succede che ci sono i produttori, una società letteraria che assicura la riproduzione, riconosce filtrandoli i valori della produzione e fa da mediatore con il pubblico, e i fedeli. In questo sistema così complesso, nel caso specifico della letteratura (e in particolare della poesia che ha molto meno appeal editoriale rispetto ala narrativa), è successo che soprattutto l’elemento intermedio, le istituzioni letterarie demandate alla riproduzione del senso e al controllo critico della
Voci sorelle nuova produzione, è andato in crisi. Dagli anni’70, la società letteraria italiana – meno quella anglosassone – è collassata. Basta guardare la situazione delle riviste, dell’università. Perché la crisi di queste istituzioni culturali parte da quelle della alfabetizzazione e della formazione. C’è un analfabetismo sostanziale diffuso: se guardiamo gli ultimi dati statistici, vediamo che la gran parte degli italiani non legge o legge pochissimo. Il nostro obiettivo è quello di formare il lettore, cercando di agganciarci per quanto possibile alla scuola. Su questo tema della scuola, mi pare di poter dire che nei curricula scolastici o comunque nel modo in cui si lavora nella scuola, la poesia sia trattata come un corpo a sé, qualcosa di avulso da un percorso culturale più generale; avulso dalla filosofia piuttosto che dalla storia o dall’arte e finanche dalla matematica; una sorta di mondo a sé, fatto di persone strane e oscure e non come un qualcosa che sta nel flusso normale del sapere. Assolutamente vero, perché c’è una inadeguata formazione dei formatori, prima di tutto. C’è una concezione tradizionale italiana della poesia che oscilla fra una concezione idealistica e una ornamentale, comunque inadeguata. Non si capisce che la poesia, come ogni prodotto che attribuisce senso al nostro rapporto con il mondo, è un sistema complesso che ha una funzione conoscitiva e quindi una valenza politico-culturale profonda, e non una funzione residuale, esornativa. Come il bello: che non esiste come puro ornamento, se non a carattere artigianale. Ma a carattere artistico il bello è un di più di conoscenza che non è limitata all’astrazione, ma implica ambiti più profondi (conoscitivi, archetipici, emotivi). La poesia ci dà una rappresentazione del nostro stare nel mondo, della nostra vita. Per riprendere poeti come Celan, Zanzotto, per non citare i grandi Romantici, c’è una concezione della poesia come conoscenza più profonda. Quindi il rapporto con la filosofia è fondamentale, come la stessa filosofia moderna riconosce, dialogando continuamente con la poesia. E’, inoltre, uno strumento di tutela della lingua, della parola. La poesia è una terapia della parola non perché fa sempre modernisticamente uno scarto rispetto al
sistema linguistico dato, ma perché sviluppa le potenzialità di quel sistema linguistico e corregge le storture che vi sono state introdotte. Quindi non è uno scarto gratuito e formalistico. E qui sta anche la difficoltà della poesia; che è invece uno scavo critico che usa anche l’oscurità come una delle sue figure, proprio per demistificare gli stereotipi linguistici e avanzare verso le potenzialità linguistiche inesplorate. In questo senso forse i poeti contemporanei compiono uno sforzo di demistificazione anche rispetto ad una poesia in cui la provocazione linguistica era diventata l’oggetto stesso della poesia. Qui bisogna sottolineare la differenza fra la tradizione italiana e quella francese da un lato e quella anglosassone, ma anche quella israeliana, che hanno un tasso di formalismo estremamente più basso. Noi abbiamo purtroppo una cattiva interpretazione della nostra tradizione nobile (Petrarca, che non era così; ma noi ci rifacciamo al petrarchismo piuttosto che a Petrarca) che si declina o in senso estetizzante o altre volte in senso razionalizzante (sperimentazione formale matematizzante, geometrizzante, ecc.). Questo è in gran parte fortunatamente superato (a parte la ricaduta che c’è stata durante gli anni ‘80) dopo la neo-neo-avanguardia (su cui il tempo ha fatto giustizia). Uno dei poeti, non abbastanza conosciuti, che noi presentiamo nel nostro festival, Ivano Ferrari, è un poeta di una significativa forza e aderenza alla realtà. Ma non in senso naturalistico. Ci restituisce una realtà che è estremamente concreta per certi versi: il mattatoio, per esempio. Però quella rappresentazione della realtà implica una molteplicità di piani di senso, per cui si sfugge al naturalismo. Molti dei poeti che saranno quest’anno al festival sono nati a cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70 (a parte Ferrari che è più anziano): sono i figli del boom economico, condannati ad una maturità in tempi di incertezza. Infatti voi utilizzate questo titolo per altra attività che fate durante l’anno: perché poeti in tempi di povertà. Come si riflette questa condizione nella loro produzione poetica? E’ interessante che i poeti di questa generazione, soprattutto gli stranieri, sono nati in nella fase che chiamiamo infelicemente post-mo-
Da non saltare
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derna o di modernità molto matura; e quindi con problemi di costituzione della soggettività, di elaborazione dell’esperienza e delle tradizioni culturali estremamente complesse. In loro l’intreccio delle culture è un elemento molto forte. Addirittura emblematico nel caso della poetessa Natalie Handal che è una palestinese nata a Haiti, quindi cresciuta con il francese e il creolo; poi i genitori si sono trasferiti in America Latina, dunque cultura spagnola; poi ha studiato negli Stati Uniti e adesso risiede fra Parigi e New York. Scrive in inglese, però si occupa di letteratura araba e asiatica. I poeti sloveni, di cui avremo un rappresentante al festival Aleš Šteger, ma poi a novembre avremo una rassegna con quattro poeti sloveni, incrociano davvero le culture perché si trovano in una esilissima provincia di frontiera. La poetessa gallese Zoë Skoulding, scrive ovviamente in inglese, però appartiene ad una tradizione locale ben viva, oltre ad essere una persona che essendosi formata in giro per l’Europa, risente sia del locale che del globale. Quindi questi poeti valorizzano la dimensione locale nella misura in cui la confrontano con la diversità. Questo succede anche in certi casi della poesia neo-dialettale italiana: prendiamo il fiorentino Rino Cavasini, che scrive in un dialetto di un paese dell’agrigentino, che è diventato un lessico familiare, che non esiste più, e nello stesso tempo è una persona colta che traduce dall’arabo o dal tedesco. Il confronto riesce a salvaguardare una tradizione soltanto nell’apertura alle diversità. Vorrei richiamare un altro aspetto del vostro festival: quello della traduzione di poesia femminile in lingua inglese. Mi pare significativo, perché noi in Italia, un po’ per il peso della nostra tradizione e un po’ per le carenze formative, abbiamo difficoltà ad apprezzare la poesia e in generale la letteratura nella lingua originale; ma abbiamo anche un tradizione importante di traduzione. Su questo fronte abbiamo la nostra collaboratrice Brenda Porster, americana che vive da molti anni a Firenze, scrittrice e buona traduttrice: lei è parte di un gruppo di quattro traduttrici che ha realizzato un bel volume che propone un’ampia scelta di poetesse in lingua inglese che toccano il problema del rappor-
Voci lontane
to madre-figlia, tema centrale nell’identità femminile in una prospettiva non chiusa o ideologica. Sul tema della traduzione noi abbiamo un impegno storico: ci rendiamo conto dell’importanza e della difficoltà delle traduzioni. Quando facciamo il lavoro di avvicinamento alla poesia straniera, essa viene presentata a partire dal suo testo originario. Il problema della traduzione si pone intanto con il raffronto con il testo originale. Abbiamo introdotto anche il russo: pochissime persone lo conoscono, anche se non è una lingua così difficile oltre ad essere molto bella, ma il fatto di avere di fronte il testo, l’interlineare, e restituire l’originalità fonetico-ritmica è importante. E’ possibile mediarla, anche se non c’è una conoscenza approfondita della lingua. Lavoriamo sull’originale (francese, tedesco, spagnolo, inglese, il russo e qualcosa di ebraico e arabo) per confrontarsi con esso e con il problema della traduzione. Ad esempio su Baudelaire, su cui spesso ritorniamo, sembra impossibile per un autore così importante e vicino a noi, non ha una traduzione adeguata in italiano e quindi non si può prescindere dall’originale. Altro aspetto importante del vostro lavoro è l’avvicinamento ai classici della poesia. Perché? Svolgete un ruolo di supplenza rispetto alla scuola, o meglio di stimolo e interazione con la scuola? Tutti noi abbiamo avuto esperienze traumatiche nella scuola che ci hanno fatto odiare poeti di grande rilievo oppure ignorare poeti che semplicemente non rientravano nei programmi scolastici, ma forse neppure nelle corde degli insegnanti. Rimando al programma del festival, che ha una sezione, “Il
futuro serbato”, in cui facciamo tre riletture dei classici. Poi abbiamo un incontro su Leopardi intitolato “Presenza di Leopardi”. Il che vuol dire che la lettura dei classici sfrutta questa particolarità della parola che tiene, e quindi della letteratura, che oltre ad essere storica, ha una capacità di attualità enorme. In realtà quello che la poesia Romantica ci ha detto non è stato realizzato, è un futuro che ci aspetta. Possiamo leggere in certi suoi autori degli elementi, non solo di attualità, ma il nostro futuro serbato per noi. Tengo molto a questo discorso “benjaminiano”: la storia è un orrore, l’angelus novus vede la storia come un ammasso di rovine, però ci sono anche quelle costruzioni di senso, al di là delle rovine, che – in modo frammentario e conflittuale – sono loro stesse degli angeli, in senso letterale degli annunciatori, portatori di novella. E sono sempre angeli nuovi perché sempre sanno essere attuali, come Omero o la Bibbia. Se rileggiamo il Genesi, ci rendiamo conto della profonda attualità del testo, nel senso che prospetta dimensioni che non siamo stati capaci di realizzare. Questo fa la grande scrittura, la parola. Purtroppo, la scuola non lo comunica abbastanza, perché è settorializzata. Ad esempio non si legge la Bibbia come testo letterario; non viene detto niente sulla storia delle traduzioni della Bibbia. Ma lo stesso delle tradizioni poetiche classiche, come quella Romantica. L’insegnante di italiano talvolta non ha gli strumenti, comunque non ha gli spazi e i tempi per poter far capire che la poesia italiana dell’Ottocento – tranne Leopardi – è minore rispetto a quella francese, o inglese, o tedesca, o americana, o russa.
La scuola italiana non è in grado di far capire, fossilizzandosi su Manzoni (autore rispettabile), che magari il romanzo inglese coevo è più ricco. Quanto spreco di energia! Se c’è una cosa a cui i ragazzi a quell’età possono appassionarsi, è proprio la poesia. Tant’è che a volte vanno a cercarla da soli: scoprono Rimbaud anche se nessuno glielo insegna dalla cattedra, perché è un poeta maledetto e parla a loro. Oppure vanno a cercarla nelle canzoni. A noi interessa anche questo aspetto: il rapporto musica-poesia l’abbiamo trattato nel corso “Perché poeti in tempi di povertà”, sia nell’aspetto del rapporto con la musica classica (e quando si parla di Romanticismo, non si può non parlare di Shubert), sia nel rapporto con la canzone. Perché Leonard Cohen o Brassens fanno certe scelte, se non in rapporto con la poesia? I giovani più sensibili sanno distinguere all’interno della musica cd. leggera perché c’è una domanda di poesia. A volte le risposte dei giovani sono sorprendenti. Per esempio quest’anno due ragazzine del Liceo Machiavelli (V Ginnasio) hanno seguito il corso per gli studenti e nell’incontro finale di restituzione hanno fatto una lettura bellissima di Rimbaud. Poi hanno seguito un successivo corso che si teneva nel tardo pomeriggio e hanno portato la madre e rifatto un’altra lettura su Dylan Thomas, autore per loro assolutamente sconosciuto che avevano incontrato durante il corso. A fronte di queste soddisfazioni però, le difficoltà di organizzare un festival da 13 anni in un ambiente politico-istituzionale non troppo attento alla poesia, forse perché non produce abbastanza clamore e consenso? Questo festival è nato quando vi era un clima più favorevole, che oggi non c’è più da diversi anni. E la cosa sta peggiorando: quando si parla con i referenti istituzionali si ha la sensazione che non vi sia una cattiva volontà, ma non ci si capisce. C’è una neo-lingua, alla quale noi non apparteniamo, e tutto viene così lost in translation. Noi cerchiamo allora di collegarci con altre realtà territoriali, non solo fiorentine: per esempio a Pistoia esiste un fermento, che ha anche un riscontro istituzionale nel Comune. Abbiamo l’intenzione di creare una rete regionale per cercare lì degli interlocutori interessati.
riunione
di famiglia
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Le Sorelle Marx In una regione in cui si asfalta via Pietrapiana o si discute di rimettere una statua di un re in una piazza intitolata alla Repubblica, non appaia strano che si lanci una campagna, come fa la Nazione in questi giorni, per un Da Vinci a Vinci. La cultura qui, d’altra parte, è vista come una grande mucca da mungere invogliando orde di turisti a visitare i nostri musei e
Lo Zio di Trotzky
La campagna di Etiopia
God save the Queen, and Renzi saves the Euro! Eccolo lì il nostro premier ganzetto, che non si perita a fare il simpatico dallo scranno della terza conferenza ONU sui finanziamenti allo sviluppo di Addis Abeba: fra una (incomprensibile quanto altisonante) frase sugli Obiettivi del Millennio e lo sviluppo sostenibile si rivolge al presidente dell’assemblea scusandosi del ritardo, “because we spent a very interesting night in Brussels to save Euro”. E ‘sti cazzi, pare abbia commentato il presidente dell’assemblea Mr. Hailemariam Desalegn, Primo Ministro dell’Etiopia. Ma poi Desalegn ha avuto un altro sussulto quando il Renzi da Rignano ha detto che il motivo per cui lui era venuto ad Addis Abeba era che lui era assolutamente “condannato” e che Addis Abeba fosse il primo step... “O di cosa, si sarà detto Desalegn, sarebbe il primo step per un condannato? Dove vorrà scappare questo qui? O non bastavano Craxi e Martelli negli anni che furono?”. Ma il povero Hailemariam non aveva inteso che nell’inglese che si parla in quel di Rignano, “convicted” equivale a “convinted”, che equivale all’italiano “convinto”. Sull’orlo di una crisi diplomatica, pare che Renzi abbia fatto una disperata telefonata: “Pronto Lapo, o come si fa a calmare questo Desallegno, Disallegno... come cazzo si chiama il presidente dell’Etiopia? Ah sì, Desalegn... Per favore dagli un colpo di telefono tu, che a te ti ascolta. Come? Dici che dovrei rivolgermi a Gentiloni? Ma quello sa a malapena
Da Vinci a Vinci
a consumare creando indotto. Per cui nel piccolo comune empolese si saran detti, perché non sfruttare il nostro più noto concittadino (non si offenda il segretario Dem Parrini) per portare un po’ di Euro da queste parti con, oltre il pregevole museo leonardiano, un opera autentica del
genio rinascimentale. Impresa niente affatto semplice visto che l’ultimo schizzo di Leonardo battuto ad un asta fu venduto a 25 milioni di dollari. Cifre impossibili per uno Stato figurarsi per un piccolo comune. Ma il quotidiano locale non si scoraggia e intervista un
I Cugini Engels
Bobo
il ciociaro. E poi non sa manco dov’è l’Etiopia. Ah, dici che sono problemi miei perché l’ho nominato? Va beh, dai, non fare
Feste su feste
il sofista... un aiutino me lo puoi dare. Ah, dici di no? Di andare dove? Ah, a quel paese... Va bene. Ciao”
I Nonni Engels
Nardella, l’africano Fa caldo d’estate nell’emisfero boreale. E nell’area del mediterraneo ancora di più. Da molti anni. Ora però che ce lo dice anche il Nardella Sindaco il caldo è più sopportabile. Il servizio Alert System della protezione civile ti telefona, e la voce del Nardella l’Africano ti spiega che non bisogna bere acqua troppo fredda (me lo diceva anche la mamma quando sudavo d’estate), che fa bene mangiare la frutta (ma va...) e che bisogna stare all’ombra (e io che invece pensavo che stare al sole intorno alle 3 del
pregiato studioso di Leonardo che individua la soluzione nel “prestito” di un privato del proprio Leonardo al comune di Vinci. Cosa, che immaginiamo, semplicissima. Ma se anche così fosse, chi spiega alla nazione che per l’attrazione di flussi turistici (e dei loro euro) non basta un’opera seppur di Leonardo, ma servono investimenti, pubblicità e infrastrutture?
pomeriggio facesse bene). Soprattutto se sei un anziano e persona fragile. Nessuno consiglio però sul sesso......farà male con questo caldo a noi anziani? Grazie Nardella di proteggerci dal sole e dalla nostra incoscienza. p.s. Il messaggio è stato accolto in redazione con sarcasmo dai giovani e con preoccupazione dagli anziani, soprattutto perchè ci dispiacerebbe (a noi due anziani) schiattare proprio in prossimità del 200esimo numero della nostra rivista.
Fra le quattro feste della Toscana che Eugenio Giani, da poco assurto al soglio pontificale del Consiglio Regionale, vi sarà sicuramente il 15 luglio, data del trionfo e ascesa al cielo del Nostro Eugenio. E’ infatti in questa fausta data nell’anno del Signore 2015 che, come ci annuncia Egli stesso dal profilo Facebook, “da oggi la Regione Toscana avrà una fascia distintiva che potrà essere indossata da consiglieri e assessori regionali durante gli eventi istituzionali. E’ la prima legge di questo tipo in Italia, approvata a maggioranza dal Consiglio su mia volontà. Sono convinto così di dare un contributo al valore delle istituzioni ed alla loro riconoscibilità”. Dopo la presentazione a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, del Tricolore, quando il Parlamento della Repubblica Cispadana, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decreta “che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti”, questa sarà sicuramente la ricorrenza più importante della storia patria. L’Irpet (Istituto regionale per l’economia toscana) ha già stimato un aumento dello 0,001% del PIL toscano dovuto alla produzione di fasce distintive (un po’ come i dehors di nardelliana memoria): se ne prevede di realizzare qualche centinaio, dal momento che il Giani Presidente ha dichiarato che in venti giorni di mandato è già stato in sette/ otto luoghi diversi della regione”. Pregevole iniziativa.
18 luglio 2015 pag. 5 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di
L
a scultura è l’arte creativa per eccellenza; è la manualità nuda e cruda che diviene espressione artistica; è il luogo fisico in cui si concretizzano le intenzionalità estetiche dell’autore, poiché è la prassi che permette di dare forma a un oggetto partendo dal grado zero del materiale originario e scelto per una ben precisa finalità. Il significato del termine non possiede semplicemente una valenza di realizzazione concreta, ma contiene in sé il concetto demiurgico della capacità e della possibilità dell’artista di dare esistenza a un progetto psichico, puramente artigianale/concettuale e dal grande impatto comunicativo. Oggi la scultura, imponendosi nello spazio urbano, è divenuta un fatto semiologico, una modalità comunicativa che trova nella tridimensionalità e nella tattilità dell’oggetto – piccolo o enorme che sia – un fine estetico inimmaginabile, ove le interpretazioni possono moltiplicarsi ad angolo giro, secondo prospettive sempre inedite e punti di vista inesauribili. Su tale versante Giuseppe Spagnulo opera, dagli anni Sessanta a oggi, convinto che la scultura sia un’arte fisica e concettuale impossibile da trascurare, poiché al di là della forma esiste un mondo materiale senza confini che non attende altro che essere messo in luce. Attraverso la ceramica, il tornio, l’alta temperatura, la terra, la deriva dell’Informale, lo spazio pubblico da sovrastare e “occupare”, la materia come fondamento generativo e una profonda passione per la ricerca artistica, Giuseppe Spagnulo si è mosso lavorando su continue riflessioni: dalle logiche costruttive alla materialità del lavoro di scultore; dall’artigianalità di fondo ai processi ideologici che stanno alla base dell’opera finale, sino a un confronto vero e intimo con i materiali, che divengono miti la cui essenza è tutta da vivere, assaporare, toccare e plasmare. Nella parabola artistica dello
Giuseppe Spagnulo
Nudo e crudo
scultura emerge chiaramente il dissidio amletico fra la forma e la materia che per mezzo del fuoco e dell’energia da esso sprigionata tenta di giungere a un iperuranio mancato. Tuttavia i principi alchemici non sono sufficienti a esplorare le infinite possibilità della scultura e all’artista non resta che assecondare l’apoteosi ammaliante della materia, assorbendone il tempo e lo spazio, nella convinzione che l’arte sia un’avventura da vivere in tutta la sua essenza. Quella di Giuseppe Spagnulo è una poetica plastica tesa al riconoscimento della vita nella durezza della scultura, dell’assoluto nelle tensioni esistenti fra forma/informe, energia/ materia. Nell’atto della creazione l’artista libera la poiesis, in nome di una libera e continua trasformazione della materia, nella multidimensionalità e in un continuum spazio-temporale che è ben lontano dalle logiche dell’esperienza e della percezione del quotidiano, lasciando allo spettatore il senso di una meraviglia misteriosa da cogliere oltre la materia. Sopra Guerriero, 1985 Bronzo cm 108x62x51 A destra Guerriero, 1985 Bronzo cm 68x57x52 A sinistra Guerriero, 1985 Bronzo cm 73x79x112 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
18 luglio 2015 pag. 6 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di
D
etta così può sembrare una contraddizione, ma molte delle pagine della storia della fotografia non sono state scritte dai fotografi. O per lo meno, non dai fotografi professionisti, impegnati più a guadagnarsi il pane quotidiano che ad innovare il proprio linguaggio o a teorizzare sulle caratteristiche di quello stesso linguaggio che dava loro da mangiare. Fino dagli esordi del mezzo fotografico, accanto ai tanti mestieranti, alcuni dei quali provvisti di vero talento, si sono affollati personaggi di tutt’altro tipo, di estrazione nobile o borghese. Questi personaggi, non dovendo dipendere per il proprio sostentamento dall’attività fotografica, vi si sono dedicati con tutt’altro spirito, tutt’altro impegno, tutt’altra libertà e tutt’altri risultati. Si sono dedicati alla fotografia principi e conti, magistrati ed avvocati, medici ed ingegneri, pittori ed architetti, tutti in maniera disimpegnata sul piano commerciale, ma variamente impegnata su quello culturale. Molti di questi personaggi, confluiti in associazioni e circoli, hanno costituito il nucleo di quell’esercito di “fotoamatori organizzati” che tanto hanno dato alla storia della fotografia, nel bene come nel male. Altri hanno praticato la loro attività in maniera più solitaria e riservata, per essere scoperti o riscoperti solo dopo la loro scomparsa. E’ il caso dell’architetto torinese Carlo Mollino (19051973), che opera professionalmente come architetto, arredatore e designer, e che pratica numerosi e costosi hobby, dallo sci alle auto da corsa fino agli aeroplani, e che si impegna anche come scrittore, ma anche come fotografo, coltivando un genere del tutto individuale e personale. Dotato di una personalità fantasiosa e bizzarra, riscontrabile nelle sue opere di architettura e design, che gli valgono numerosi premi e segnalazioni, Mollino pubblica libri sullo sci e sull’architettura. All’inizio degli anni Cinquanta realizza il volume “Il Messaggio dalla Camera Oscura”, uno dei primi e solitari saggi “moderni” sulla storia e sull’estetica della fotografia, strutturato in due parti e corredato da oltre trecento fotografie. Organizzato in una parte storica dal titolo “Storia breve del gusto nella fotografia” ed
Carlo Mollino
architetto e fotografo in una parte teorica “Il messaggio dalla camera oscura”, impaginato e confezionato come un libro-oggetto di lusso, propone il confronto fra le due anime della fotografia, quella documentaria o “documentaristica” e quella immaginifica o “surrealistica”, creando un percorso visivo che raccoglie opere di grandi fotografi del passato, come Hill & Adamson, la Cameron, Nadar, Atget e di fotografi a lui quasi contemporanei, come Man Ray, Alvarez Bravo, Stieglitz, Steichen, Dora Maar, Brassai e Moholy Nagy, ma anche foto anonime ed altre scattate da lui stesso. Ma il vero interesse fotografico di Mollino viene scoperto molto più tardi, quando vengono alla luce le immagini che scattava alle sue numerose amiche, fidanzate e/o amanti, ma anche a donne incontrate per caso ed occasionalmente a professioniste del sesso. Realizzate in maggior parte con materiale Polaroid, che escludendo il passaggio dal laboratorio e dalla “camera oscura” permette già all’epoca il massimo della riservatezza ed intimità, le immagini femminili di Mollino raffigurano giovani donne e giovani signore in posizioni ed abbigliamenti esplicitamente erotici, complici e provocanti. La maggior parte delle immagini sono a colori, realizzate quindi dopo il 1963, ma ve ne sono anche in bianco e nero realizzate presumibilmente nel periodo precedente, e tutte sono composte con garbo, buon gusto ed eleganza. Le sue donne, nude o seminude, non nascondono quasi mai il volto dietro ad una maschera, fiduciose nelle garanzie di segretezza offerte da Mollino, e si prestano volentieri a rivestire ruoli da “femme fatale”, interpretando figure esotiche o intriganti, quasi mai eccessivamente volgari o sfacciate, portando il gioco erotico-fotografico al suo livello più alto e raffinato. Esaurito il vincolo della segretezza, sempre rigorosamente rispettato da Mollino, le immagini ritrovate vengono esposte in diverse gallerie e vengono pubblicate nel 2006 in un prezioso volume intitolato “Polaroids”. Il ritrovato interesse per Carlo Mollino porta alla ristampa nel 2011 del suo libro “Il Messaggio dalla Camera Oscura”, praticamente introvabile nell’edizione originale, in una nuova, raffinata, esclusiva e costosissima veste tipografica.
18 luglio 2015 pag. 7 di
Santa Maria Novella
Ferdinando Semboloni
La stazione negli anni ‘60
“
Non amo la Stazione. Questa è la realtà cruda”, così Michelucci, coordinatore del Gruppo Toscano cui si deve il progetto della Stazione, nella sua ultima intervista. Capolavoro si, ma troppo statico, secondo il Maestro, incapace di evolversi, di essere in sintonia con la dinamica urbana che rischia di travolgerlo. Il fabbricato, restaurato nel 1989/90, è rimasto più o meno quello dell’inaugurazione del 1935, ma all’interno e nell’intorno è successo di tutto. Ultima goccia, di queste settimane, l’asfalto nel piazzale di sosta dei taxi che ha sostituito i cubetti di porfido. Una striscia nera che separa ancor più la Stazione da quello che è rimasto della sua piazza. Una delle idee vincenti del Gruppo Toscano fu la galleria di testa con funzione di piazza longitudinale e di strada urbana tesa tra via Alamanni e via Valfonda. Un’architettura che anticipa quella degli ipermercati con la galleria commerciale. “Modernissima” quindi, anche nell’inclusività che è una delle tentazioni dell’architettura quando vorrebbe comprendere il mondo invece d’esserne parte, finendo nell’isolazionismo che distrugge invece di produrre spazio urbano. Il fabbricato viaggiatori è infatti rivolto al suo interno, verso la galleria di testa della quale la facciata diviene il retro. L’ingresso alla sala della biglietteria non comunica direttamente con la piazza. Nascosto dalla galleria delle carrozze, serve per l’arrivo dei viaggiatori in auto. Ai deambulanti sono riservate tortuose virate, tanto che l’ingresso normalmente usato è quello che le razionaliste frecce al neon indicano come l’uscita su via Valfonda. Al retro dell’abside di S. Maria Novella si oppone il retro della Stazione: due lati B. Una piazza compressa tra due oggetti respingenti non poteva avere futuro. Finché il traffico delle auto e il numero degli utilizzatori erano contenuti la situazione ha retto. Poi quello che in superficie veniva respinto si è rifugiato nel sottosuolo. E’ del 1965 l’inaugurazione del sistema dei sotto-passi pedonali che servono a bypassare il traffico e la piazza utilizzata come parcheggio, ma rimasta ancora
Una stazione fra l’erba verde e vaghi fior novelli nell’assetto originario con la grande aiuola triangolare al centro. Poi arriva il 1990 col Piano parcheggi. La piazza viene modificata radicalmente. Si realizzano nel sottosuolo il parcheggio e la galleria commerciale parallela alla testata della Stazione, una sorta di doppione commerciale della galleria di testa. Il parcheggio doveva essere, nelle intenzioni dei progettisti, l’occasione per rimodellare la piazza, spezzandola in vari episodi, ma alla fine prevalse l’idea di sistemarla come un prato nel quale emerge il pozzo rotondo di areazione. Alcuni vialetti senza
un apparente scopo lo suddividevano in tre parti. Nell’ultimo periodo la Società Grandi Stazioni ne vuol fare un centro commerciale, amplia la galleria commerciale nel sottosuolo utilizzando anche alcune parti del fabbricato viaggiatori per la libreria che poco ha a che fare con una stazione ferroviaria. Il prato viene ripiantato e i vialetti riorganizzati. Ci dovrebbe essere anche un roseto per ora non realizzato. Qualcosa di simile al giardino di una villetta, mutando la scala. Probabilmente di meglio non era possibile fare, dato l’impianto
iniziale dell’edificio. Per avere uno spazio urbano sul fronte della Stazione occorrerebbe operare alla luce del sole, modificando il fabbricato viaggiatori e facendolo realmente affacciare sulla piazza, invece di costruire come talpe sottoterra. Ma forse questo è lo spazio dell’inconscio dove le forze dionisiache sono libere di scatenarsi, mentre il soprassuolo è riservato alla componente apollinea incarnata dal vincolo che dal 1992 tutela la Stazione. Ci dovremo quindi tenere l’asfalto e il pratino, come un tappeto sotto il quale nascondere la polvere. La stazione nel 2015
18 luglio 2015 pag. 8 di
Francesco Gurrieri
L
’imprevisto artistico (come quello letterario), in una realtà complessa, confusa e disorganica quale quella che stiamo vivendo, è uno dei maggiori regali che possiamo aspettarci. E’ quello che è accaduto a me alcuni giorni or sono: una telefonata mi avverte che in una saletta – minuscola – del Palazzo di San Clemente (ormai sede residua della Facoltà di Architettura), un tecnico del LAM (Laboratorio di ricerca ambientale) ha esposto alcune “tele” e che sarebbe stata gradita una visita. La mia inesauribile curiosità in questo settore mi spinge alla visita, pur in assenza dell’Artista, col mio collaboratore-fotografo Adriano Bartolozzi. E’ così che mi trovo davanti ad alcune tele di grande suggestione. Mi interrogo sulle “radici culturali” di quelle opere – amorevolmente impaginate da cornici in legno evidentemente manufatte dallo stesso Artista - e mi viene in mente l’ultima visita in studio da Gualtiero Nativi, padre di quell’astrattismo classico osteggiato negli anni Cinquanta a favore del “realimo guttusiano”, più congruente con quella stagione politico-culturale. Questo neo-astrattismo di De Luca, se pur si riferisce alla lineare segmentazione propria del Gruppo storico (Vinicio Berti, Bruno Brunetti, Alvaro Monnini, Mario Nuti e Nativi) ha, infatti, non poco in comune con quella stagione che in un panorama più largo rissorbiva anche Afro, Dorazio e Vedova. Suggestioni? Certo, suggestioni! Ma in arte vale la stessa legge della scienza: Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma: che è poi, il principio della ricerca filologica. Ma in queste opere di De Luca c’è dell’altro. C’è il tratto pittorico : la cifra dell’artista, che equivale alla personale calligrafia dello scrittore. Ebbene, questo tratto pittorico – lo si veda soprattutto nei temi in rosso – riprende la pennellata di Sironi e di Balla, quella pennellata tormentata e personalissima che accompagna e descrive i soggetti rappresentati, rendendoli unici. Il nostro De Luca (classe 1951),
Daniele De Luca
Frammenti d’astrattismo
per quanto io ne sappia, non ha avuto una educazione artistica istituzionale e si è avvicinato (o riavvicinato) alla pittura mentre collaborava ai rilievi dei siti archeologici col compianto amico Riccardo Francovich. Lo aspettiamo ora nei prossimi sviluppi, così vedremo cosa ne sarà di questa suggestiva sintesi tra le forme di questo suo neo-astrattismo e la sua pennellata “sironiana”.
18 luglio 2015 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di
tre, perché si spinge fino al jazz. Questo lo avvicina a Friedrich Gulda, che ha diviso la propria carriera fra classica e jazz quando un simile eclettismo veniva accolto da molte riserve, se non da aperte scomuniche. Fazil Say, almeno in Italia, è noto al grande pubblico soprattutto come interprete, ma ormai è venuta l’ora che venga conosciuto e apprezzato anche
come compositore. Proprio per questo assume particolare interesse il recente CD Say Plays Say (Naive, 2014), che raccoglie le sue composizioni per piano. I dodici brani coprono un arco di tempo che va dal 1990 al 2013, fornendo un panorama ideale delle sue composizioni, sia in termini stilistici che temporali. “Black Earth” (Kara Toprak), ispirata a una canzone tradizionale turca, è dedicata al poeta alevita Asik Veysel. In “Paganini Jazz” Say rielabora il ventiquattesimo Capriccio del musicista genovese. “Alla Turca Jazz” si basa invece sul celebre “Rondò alla turca” mozartiano. Come molti artisti turchi odierni, Say è legato alla cultura tedesca: lo riafferma in “Nietzsche und Wagner”, dove rielabora liberamente alcuni motivi di Tristan und Isolde. Dotato di una personalità spiccata e di una tecnica impeccabile, il compositore non rappresenta comunque un’eccezione, ma la parte più visibile di un panorama musicale che merita di essere esplorato. I più curiosi troveranno una valida guida nel libro 71 Turkish Composers di Evin Ilyasoglu
a Costanzo Ciano, per tornare frettolosamente al precedente toponimo “Cavour”, una volta fucilato Galeazzo Ciano, figlio di cotanto padre), un altro martire dell’antifascismo, Giacomo Matteotti, soppiantò il Principe Amedeo, figlio di Vittorio Emanuele II, nella buona compagnia di Antonio Gramsci, che spodestò il Principe Eugenio, luogotenente dello stesso re Vittorio. Non fu risparmiato neppure Carlo Alberto, che pure non aveva demeritato, ma che non poteva reggere il confronto con
la mazziniana Giovine Italia mentre non ci fu storia nel sostituire il Duca di Genova con Giovanni Amendola. Non sfuggirono neppure strade fuori dalla cerchia dei Viali con la Principessa Clotilde che cedette il passo a don Giovanni Minzoni. Qualche Savoia sopravvisse senza colpo ferire (Vittorio Emanuele II e il Duca degli Abruzzi) mentre il Duca d’Aosta, inizialmente declassato a Via Val d’Aosta, fu poi reintegrato nel 1965. Un nuovo Savoia arrivò nella toponomastica cittadina solo nel 1978, con Mafalda di Savoia, martire a Buchenwald. Dove i toponomastici fiorentini furono più vendicativi fu alla Cascine: se il re tutto sommato non se la cavò male, con un Viale degli OImi e un Piazzale delle Cascine, la povera Regina dovette subire l’affronto di essere sostituita da due presidenti, cedendo nel 1964 il suo Viale a Lincoln e il suo Piazzale a Kennedy.
N
egli anni scorsi due scrittori turchi, Elif Shafak e Orhan Pamuk, sono stati accusati di “attività antiturche” per aver fatto riferimento al genocidio degli Armeni, che il governo di Ankara nega da sempre. Una sorte analoga è toccata poi a Fazil Say, un celebre musicista turco che aveva espresso dei commenti ironici sull’Islam attraverso Twitter. Nel 2013 un tribunale di Istanbul lo ha condannato due volte per blasfemia: la Costituzione turca vieta qualsiasi critica alla religione musulmana. La prima sentenza è stata annullata, mentre nel secondo caso la pena è stata sospesa a patto che il musicista non subisca altre condanne per due anni. Ateo dichiarato e progressista, oppositore del governo del premier islamico Erdogan (oggi Presidente), Fazil Say è un pianista-compositore che gode ormai di larga fama. Nato ad Ankara nel 1970, si è affermato prima come interprete di un repertorio che spazia da Bach a Stravinskij, da Beethoven a Gershwin. Successivamente ha cominciato a comporre, operan-
Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di
Stendendo un velo pietoso sull’epilogo della vicenda, si può affermare che sono due le date che hanno storicamente segnato l’esilio del Savoia: il 13 giugno 1946, quando il “re di Maggio” partì per il Portogallo, e il 1° gennaio 1948, quando la Costituzione stabilì che “Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale”. Fra queste due date si colloca l’azione epuratrice che, a Firenze come suppongo in altre città, cacciò casa Savoia, oltre che dal territorio nazionale, dalla toponomastica stradale. A Firenze il giorno della svolta fu il 28 aprile 1947, quando tutti i toponimi savoiardi passarono a miglior vita anche se, per ignote ragioni, la Prefettura non autorizzò la maggior parte del cambiamenti (forse non era stata informata dell’esito del referendum). Ci volle un’altra ordinanza sindaca-
Il pianista vorace do una sintesi stimolante fra la tradizione colta europea e quella dell’area turcomanna, ma senza cadere nei cliché che potrebbero scaturire da un tale connubio. Tutto questo si è riflesso puntualmente nella collaborazione con i musicisti più diversi, come Kudsi Erguner, celebre virtuoso del ney, e la violinista moldava Patricia Kopatchinskaja. Ma la sua versatilità va ben ol-
Viale Spartaco Lavagnini
La cacciata dei Savoia
le, del 9 giugno 1947, per sancire definitivamente le modifiche. Bisogna dire che i toponomastici fiorentini dell’epoca, più o meno consapevolmente, applicarono una sorta di legge del contrappasso, intitolando le strade ex-savoiarde a personaggi che più avevano avversato la monarchia e i fascisti loro protetti. Partendo dal Ponte alla Vittoria, il Viale Principe Umberto, re d’Italia dal 1878 al 1900, fu dedicato ai martiri antifascisti Carlo e Nello Rosselli. Il Viale Principessa Margherita, che portava il nome dell’augusta consorte di Umberto, passò invece armi e bagagli al sindacalista comunista Spartaco Lavagnini. Superata Piazza della Libertà (che, ricordiamo, era stata intitolata per un breve periodo
18 luglio 2015 pag. 10 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di
A
Parigi il Centre Pompidou, fino al 3 agosto, dedica una grande retrospettiva sull’opera completa di Le Corbusier (1887-1965) in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte. In esposizione oltre a schizzi, progetti, plastici architettonici, foto, video, lettere e appunti...ci sono anche alcuni suoi dipinti e sculture di grande bellezza. Le opere di Charles-Edouard Jeanneret, quando ancora non aveva cambiato il proprio nome in Le Corbusier, sono poco note al grande pubblico e ci si rammarica come ancora non sia stata dedicata una mostra alla sua sola attività di pittore nonostante che alcuni critici lo abbiano definito come uno dei protagonisti dell’arte figurativa del XX secolo al pari di Picasso, Mirò ed altri grandi. Quando Charles- Edouard Jeanneret arriva a Parigi nel 1912 il Cubismo era uscito dalla sua fase pionieristica per divenire “pubblico”. Nelle gallerie d’arte dove si trovavano le opere di Braque, Picasso, Gris, Picabia, Delaunay, Léger, il cubismo si era ormai imposto come la rifondazione di un nuovo ideale plastico ed estetico che si opponeva al concetto di stile, di scuola, per divenire pensiero totale. Janneret si inserisce in questo movimento portando però l’esigenza di cercare un classicismo nuovo il cui passato non sia né modello né avversario ma codice genetico. Una forma di Purismo che lo porterà nel 1918 insieme a Amédée Ozenfant a scrivere Aprés le Cubisme, manifesto di questo intento, e a pubblicare dal 1920 al 1925 insieme al poeta Paul Dermèe la rivista d’estetica L’Esprit nouveau. La stagione di Jeanneret pittore si protrae per tutti gli anni 20 ed è ricorrente nelle sue opere il senso di ordine delle geometrie, il valore dei contorni, la densità dei colori, la gamma delle tonalità impiegate ed il loro contrasto che poi ritroveremo nei lavori architettonici di Le
Nella pittura il segreto di
Le Corbusier
Lido Contemori lidoconte@alice.it di
Il migliore dei Lidi possibili
Disegno di Lido Contemori
Didascalia di Aldo Frangioni
Riunione dei componenti dell’Eurogruppo
Corbusier. Dopo il periodo purista, ormai lontano dall’evoluzione del percorso di Ozenfant che rincorre la macchia evocante emozione, Le Corbusier, come passaggio naturale ad un architettura che sia la conseguenza della sua pittura, è ormai interessato allo studio di uno spazio che nasca da forme e colori in relazioni precise e armoniche. Nonostante la fama, Le Corbusier non abbandonerà mai la sua passione per la pittura: in uno stile personale e riconoscibile, con un uso libero e gioioso delle forme e del colore i suoi schizzi, i quadri, le sculture, i collages, gli straordinari carnet di viaggi costituiscono il suo diario intimo che lo accompagnerà per tutta la vita: Il fondo della mia ricerca e della mia produzione intellettuale ha il suo segreto nella pratica ininterrotta della pittura.
18 luglio 2015 pag. 11 Leandro Piantini leandropiantini@virgilio.it di
L
’ultimo romanzo di Edoardo Nesi ritorna al mondo molto amato dallo scrittore, ai “fasti” dell’industria tessile di Prato. E il titolo “L’estate infinita” è tutto un programma. In quegli anni era sempre festa, per gli imprenditori pratesi, bastava avviare una ditta nuova e il successo era sicuro. Era un godimento, come un’estate che non dovesse mai finire. Siamo nello stesso clima del romanzo uscito nel 2004,”L’età dell’oro”, e anche in questo è al centro il personaggio che Nesi ha saputo raccontare meglio, l’impareggiabile Ivo Barrocciai. Un uomo ambizioso, a cui tutto pare che riesca con facilità sbalorditiva. Basta che si metta in proprio, lasciando il padre che produceva solo coperte, e cominci a fabbricare stoffe, specie loden, e in men che non si dica il successo gli arride a botta sicura. Simbolo del suo successo è la nuova sede della ditta che si fa costruire da Cesare, “Il Bestia”, un palazzo in cima al quale vuole che troneggi una piscina di dimensioni olimpiche, che deve impressionare tutti. Nessuno a Prato ce n’ha una così grande... Il libro descrive fatti e personaggi di questo genere. Tycoon coraggiosi, intraprendenti e baciati dalla fortuna. Sicché la morale che si trae dal libro è che allora gli imprenditori di Prato non ebbero mai a soffrire per i problemi del lavoro, se ebbero delle sofferenze fu solo per problemi di cuore. E appunto il Bestia soffre per amore, perché la sua amante “storica” lo tradisce con un altro, e pensare che era stato lui stesso a suggerire alla donna di trovarsi un altro amante. Persone strane questi pratesi! Il Bestia ha una moglie bellissima e che gli è devota, Arianna, ma lui la snobba e poco se ne cura, tanto che lei qualche volta lo tradirà con Ivo, che invece l’ama alla follia. Nesi ha scritto un romanzo in cui quel tempo viene idealizzato e rimpianto. E lo racconta nei suoi aspetti più significativi, e che magari sembravano destinati a non finire mai. Oggi che tutto ciò non esiste più e la fisionomia della città ha mutato radicalmente volto, che cosa si è proposto lo scrittore
In quegli anni era sempre festa nel rievocare con tanto amore e nostalgia quella stagione tramontata? Indietro non si torna....Eppure tutto quello che Nesi minutamente racconta disegna un mondo perfetto,fatto di persone dalle idee chiare e capaci di sacrificarsi per il lavoro. Il Nesi ne fa un elogio che potrebbe anche chiamarsi funebre, ma sotto sotto ci crede ancora, non vuole rinunciare all’idea che quella fortunata stagione di grande sviluppo industriale non si possa ripetere di nuovo. Magari quelli di allora erano guadagni troppo facili ma lo spirito che animava quelle energie era prezioso e va salvaguarMassimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di
dato. Nesi vorrebbe che le qualità della sua gente pratese risplendessero ancora, che quella capacità di creare imprese e prodotti di qualità avessero ancora modo di affermarsi. Non era solo la voglia di ar ricchirsi che guidava quelle persone ma una spinta di qualità superiore: estetica, psicologica, morale? Forse nel nuovo romanzo Nesi ha sentito semplicemente il bisogno di dire, con una forza che finora non si era mai manifestata con tale convinzione, quanto il “miracolo pratese” sia stato grande. Ha fatto bene, ha fatto male Nesi
Scavezzacollo
a ritornare sui propri passi e a riprendere un personaggio come il Barrocciai ? Forse la domanda è oziosa. Nesi non lo aveva praticamente mai abbandonato. I libri successivi al romanzo del 2004 erano stati dedicati alla riflessione sulle cause del declino industriale della sua città e soprattutto a denunciare i motivi politici ed economici che hanno portato decine di migliaia di cinesi ad impadronirsi della maggior parte delle industrie pratesi ed a mutare così profondamente la vita della città e a farle perdere quasi del tutto il suo posto nell’industria tessile del nostro paese. “Storia della mia gente” del 2011, con il quale Nesi vinse il premio Strega, fu un libro di successo nel quale egli abbandonava la narrativa per cimentarsi in un pamphlet con il quale dava fondo a tutta la sua rabbia e al suo dolore per il fatto che lui e i suoi concittadini avevano dovuto assistere, senza quasi opporsi, al declino di Prato che i politici giustificarono come naturale effetto della “globalizzazione”. Nell ‘”Estate infinita” tutto questo è stato abbandonato. Ora il narratore ritorna sul fortunato boom pratese e lo fa entrando dentro la vita di alcuni imprenditori di successo, nelle loro case, nelle ville delle loro vacanze versiliesi, nei loro viaggi negli Stati uniti e nei paesi europei quando costruivano, con destrezza e abilità, il successo e la ricchezza. E certamente questo romanzo riesce a farci percepire quasi fisicamente i ritmi forsennati del lavoro che ferveva allora in quelle case, l’entusiasmo e la gioia di vivere che ogni giorno rendeva la loro vita un’avventura baciata dalla fortuna. Quegli uomini intraprendenti erano giovani e coraggiosi, volevano “mordere la polpa della vita” e gustarla fino in fondo. Il narratore riesce a farci sentire la loto umanità, i loro desideri, le loro infedeltà coniugali, la loro bramosia di soldi e di sesso, ma è convinto anche che quel tempo favoloso non è stato un’illusione e che non c’è nulla di cui ci si deve pentire. Era il tempo giusto per cercare di scalare il cielo e, fuori dagli stereotipi e dalle frasi fatte, aver osato di costruire imprese sempre più prospere, non fu affatto un peccato o un oltraggio alle persone meno fortunate. Magari quei tempi potessero ritornare!
18 luglio 2015 pag. 12 Sara Chiarello twitter @SaraChiarello di
È
estate, tempo di relax, e torna così, sulle rive dell’Arno, la programmazione di “Easy Living” sulla spiaggetta davanti a Piazza Poggi (Lungarno Serristori), considerata “la spiaggia urbana più grande d’Italia e d’Europa”. Il cartellone di eventi, giunto all’undicesimo anno, sotto la direzione di PiazzArt, in collaborazione con il Comune di Firenze per Estate Fiorentina, propone concerti al tramonto, esibizioni di artisti di strada, reading letterari e teatrali, e attività di benessere e sport: yoga, beach rugby e anche un tipo particolare di surf, lo “Stand up Paddle”, che sarà praticato in Arno (si sta in piedi su una long board e ci si sposta con una pagaia). Questo sport si potrà praticare grazie alla guida e ai corsi di istruttori esperti. Durante il giorno sarà possibile usufruire di una delle 150 sdraio su cui stendersi per leggere un libro, e rinfrescarsi con una doccia gelata, mentre nel punto ristoro “Lo Chalet” sarà possibile pranzare o cenare con uno spaghettino alle vongole o un hamburger di Francesco Cusa info@francescocusa.it
Easy living carne chianina, preparato sul momento. I mercoledì ci sarà lo yoga (dalle 19.30 alle 20.30), e tra le novità della programmazione (che durerà fino a settembre) la rassegna “Arnoscenico”, sei concerti, pensati da Riccardo Ventrella, di cui saranno protagonisti gli artisti di strada di Firenze che migreranno da Piazza della Repubblica per allietarci sulle
note delle canzoni più famose. Ogni domenica ci saranno gli aperitivi al tramonto in spiaggia, con i dj set degli artisti toscani. Nel cartellone anche la quinta edizione dei castelli di sabbia a Ferragosto, con i menu per le famiglie, e a settembre la partita di calcio “Eroi di sventura” tra gente di teatro. Alessandro Raveggi ambienterà
qui il suo “Romanzo da spiaggia”, con il fotografo Francesco Natali, un romanzo a puntate che racconterà vita e amori delle genti dell’Arno. Infine, sulla spiaggetta si fermerà l’ape food di “Pescepane” (in giro per Firenze per tutta l’estate) per degustare il caciucco e il cartoccio di pesce fritto. Pescepane nasce da un’idea di Gianni Pierattoni, Tommaso Giovannini e Nicola Pasqua, ed è una cucina mobile itinerante che coniuga la migliore tradizione del cibo di mare made in Italy allo “street sea food” internazionale.
di
La Sicilia, come è noto, è meta di viaggi organizzati in comitive, di cordate di vecchi tremanti senza timore di Dio che se ne vanno in giro per musei, templi, mostre, monumenti, in un’affannosa danza di cellulite, varici e caviglie gonfie. Lo fanno anche d’estate, quando Il sole strappa loro la pelle e produce melanomi in serie, con la caparbietà cocciuta che assume i toni della conquista, dell’infantile traguardo da valicare, del capriccetto senile ammantato d’acculturazione. I vecchi soffrono, hanno l’espressione contratta e digrignano i denti, gli occhi sbarrati sul depliant mal tradotto. Soprattutto i tedeschi (i vecchi siciliani - ammesso che facciano i turisti - col cazzo che se vanno in giro con la canicola, porte sbarate e siesta). Si sente l’autoclave dell’ipertensione che lavora a pieni regimi, il sangue pompa che è una meraviglia, plasma che preme sugli stent, sclerosi, placche, sacche dense di colesterolo, vene, venuzze e venazze delle tempie messe a dura prova
mentre ulula la carotide, una sfida al collasso, al colpo fatale,. A mezzogiorno, quando un tempo andava in onda il duello della carne Montana, questi irresponsabili stanno al centro del tempio di Apollo, in una Siracusa messicana con tanto di cactus. L’aria è densa, immobile; con un barlume di insana fantasia (leggi delirio), vi si possono intarsiare (nell’aria) orpelli e ghirigori con le dita. Qualcuno lo fa, oppure è l’alzheimer che suggerisce fantasie surreali. I tedeschi soffrono, barcollano ma non mollano, prevale l’assillo della conoscenza, e dunque si resiste stoicamente. E’ la Magna Grecia, mein Gott!, e occorre conciliare la bellezza delle vestigia elleniche col crauto e la Selva Nera: in altre parole una questione fottutamente esotica. Abbiamo poi una guida turistica che non fa una benemerita minchia, gesticola qua e là, indica capitelli a cazzo di cane, parla un po’ il tedesco, un po’ l’inglese. Quando si capisce che non è più aria (letteralmente), la colonna muove in direzione trattoria; torna spumeggiante l’allegria
Cattivissimo Pitagora batte Schopenhauer del “belo-italia-manciare-buono”, bisbigliato monasticamente con tanto di “smack” mimato fra le dita alla bocca. La truppa muove verso il lato consunto delle colonne, ultima rogna da superare prima del ristoro, in un trionfo di cappellini, cappellacci, parasole e gote rosse venate d’azzurrognole venuzze, miniatiruzzazioni blu-cobalto d’una qualche trombosi in atto. Pago di cotanto ardire, ecco il drappello approcciare le flosce tende
della trattoria, - primo, secondo, frutta e contorno,- mentre il sole spacca quel che resta dell’ombra nella sventurata postazione ad angolo dei locali, che finisce col fiaccare il respiro corto dei più massicci. E’ un’intossicazione da gita, una sfida sciocca quella del “conoscere a tutti i costi”, pagando l’indispensabile senza essere il Winckelmann; ed infatti a trionfare è sempre Sua Eccellenza menu turistico. Decido di scattare loro una foto. Mi risponde una selva di dentiere gialle e una coreografia di grandi mani frutto del lavoro nella catena produttiva delle Rurh, protese in un saluto che, sì diciamolo, ricorda smaccatamente quello nazista. “Cheeeeeeseeeee!”, fa eco il Coro-Wagneriano-Dissonante-Tranne-Uno; un pensionato vichingo giace riverso sul tavolo, probabilmente morto da eroe, o comunque fiaccato da un collasso. E’ la vittoria dell’Ellade, di Pitagora, di Empedocle, ma anche di Rossini e di certa tonalità, del Mediterraneo e dell’azzurro, contro il grigio topo di certi interni berlinesi.
bizzaria
degli oggetti
18 luglio 2015 pag. 13
Dalla collezione di Rossano
Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it a cura di
B
ellissimo e corposo oggetto di altri tempi, portacenere per treni, in legno e bronzo, ribaltabile per permetterne lo svuotamento, con impresso sulla parte superiore l’altrettanto bellissimo acronimo delle Ferrovie dello Stato. L’oggetto apparteneva a una qualche carrozza costruita prima degli anni ‘30, epoca in cui il rinnovamento del parco treni vide dismettere materiali quali legno, maioliche delle toilettes, bronzo di maniglie e velluti dei sedili a favore di meno nobili alluminio, “vil pelle” e laminati plastici, forse più igienici e meno costosi ma, di sicuro, esteticamente di gran lunga più brutti. La sigla FS che reca l’oggetto di Rossano, ha caratteristiche grafiche identiche a quella che, sormontata da una nobilissima e regale corona Sabauda e stilata in oro, si trovava a decorare e identificare il Treno Reale. C’è stato un treno per il Re e la Regina, costruito dalla Fiat, vincitrice del Bando ad hoc promulgato, fu messo sulle rotaie nel 1929, arredi ed interni di splendore e bellezza notevoli, progettati da Giulio Casanova, artista Liberty e docente dell’Accademia Albertina, realizzati da provetti artigiani della nostra migliore tradizione usando pregiatissimi legni, oro zecchino, ceramiche e velluti e finissimi vetri. Esso constava di 19 vagoni, i tre più belli erano quello del Re, distrutto dalle bombe dell’ultima guerra e ripristinato subito dopo, quello della Regina e quello di rappresentanza, con una lunga sala da pranzo doratissima e decorata con motivi della araldica di casa Savoia, costuita per le nozze di Umberto e Maria Josè. Al tempo della Repubblica fu ripulito delle iconografie italiche e regali e trasformato nel treno del Presidente, è stato abbandonato come mezzo di locomozione vista la sua velocità ora non più competitiva, in parte donato da Cossiga al Museo delle Ferrovie di Pietrarsa. Ultimo a viaggiarvi il Presidente Ciampi per una visita nella sua Livorno. Alcuni vagoni sono tuttora a Roma e vengono a volte affittati per film e fiction.
Quando il treno fumava Michele Rescio mikirolla@gmail.com di
Ingredienti: 1 kg di farina (metà di grano dure e metà di tipo 00) 7 g di ammoniaca per dolci 1 bustina di lievito per dolci in polvere 200 g di olio d’oliva extra vergine Cannella in polvere q.b. 1 bustina di vanillina 1 cucchiaino di sale 1 litro di spremuta di arance e mandarini (conservate le bucce dei mandarini) olio di semi per friggere q.b. Liquore all’anice q.b. 4 cucchiai di zucchero 1/2 kg di miele Anisini colorati per la decorazione. Preparazione:Mescolate la farina con la cannella, la vanillina, il lievito in polvere e della buccia di mandarino tritata, e versatela in una grande ciotola; spruzzate l’olio sopra alla farina, e lavorate il tutto strofinando l’impasto tra le due mani. Versate la spremuta sopra l’impasto. Scaldate 50 g di acqua in un pentolino, spegnete il gas, e sciogliete l’ammoniaca in quest’acqua calda. Versate questa soluzione sull’impasto. Sciogliete il sale in un altro bicchiere di acqua e versate anch’essa sull’impasto. Lavorate bene l’impasto
Porciduzzi coperti di miele
fino a quando diventa compatto e morbido. Prendete pezzi di questa pasta, e lavorateli per ridurli a salsicciotti di circa 2 cm di diametro. Tagliateli a pezzetti (un po’ come si fa per gli gnocchi). Friggete questi pezzetti di pasta nell’olio ben caldo, scolateli e poi lasciateli a perdere l’eccesso di olio su carta da cucina. Mettete in una casseruola il miele, lo zucchero, ½ bicchiere d’acqua e un po’ di liquore d’anice. Mescolate per amalgamare il tutto, e quando bolle gettatevi dentro i purcidduzzi. Versate i purcidduzzi coperti di miele su uno o più piatti da portata, e spargetevi sopra gli anisini colorati.
Non conosco nulla che vellichi così voluttuosamente lo stomaco e la testa quanto i vapori di quei piatti saporiti che vanno ad accarezzare la mente preparandola alla lussuria. (Marchese De Sade)
18 luglio 2015 pag. 14
Scottex
Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella Ci piace immaginare che il bello di questa opera sia nascosto dallo straccio di carta che vediamo, per questo ci sentiamo di intitolare Scottex 29: “Stendiamo un velo pietoso�.
29
Scultura leggera
lectura
dantis
18 luglio 2015 pag. 15
L’ingresso all’inferno
Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni
Non pensate sì fusse de’ coglioni, ma alla vista degli inferi l’entrata dal terrore c’ avemmo gli strizzoni.
e non potrete aver niuna lagnanza, da vivi avete fatto solo danno vi meritate la spregevole mattanza.
Lessi tremando la scritta sull’arcata: “Chi entra dentro perda la speranza non c’è la marcia indietro, sol l’andata
Per contrappasso il perfido alemanno a sangue frusta il greco spendaccione celtici e italici nel fuoco se ne stanno
perfida sghignazza cinica l’Albione e chi ha vissuto pieno di stravizzi il di dietro gli infila col forcone”.
L immagine ultima
18 luglio 2015 pag. 16
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com
L
a Pizza e Garibaldi sono spesso due elementi chiave nella nella rappresentazione degli italiani in America! Mi è sembrato quindi giusto inquadrare, di corsa e di sguincio, questo omaggio marmoreo al grande personaggio che gli italo-americani di New York decisero di erigere, nel lontano 2 Giugno 1888, a sempiterna memoria del famoso generale conosciuto da tutti come l’ Eroe dei Due Mondi. L’ironia della sorte ha voluto che nel campo inquadrato comparisse anche un’altra piccola e involontaria presenza, quella della Pizza, un’ulteriore traccia iconica di quella italianità che ci ha reso nel tempo famosi nel mondo.
NY City, 1969