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progetto grafico emiliano bacci
Con la cultura non si mangia
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N° 1
“Stiamo preparando, per evitare contraccolpi dalle dimissioni della giunta comunale, una bella squadra tosta, un dream team, per lavorare su quest’anno del Giubileo a Roma” Franco Gabrielli
Loro sono disponibili
Dream Team Barcelona 1992 Dream Team Rome 2016
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non saltare
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Sara Chiarello twitter @Sara_Chiarello di
Siamo stati all’Internet Festival a Pisa, manifestazione dedicata al web e alle nuove tecnologie, tenutasi dall’8 all’11 ottobre. Tra gli altre 200 eventi, a cui hanno preso parte circa 200 relatori tra luminari della scienza, filosofi, studiosi, fisici, inventori, politici, personaggi dello spettacolo, la cosa che ci ha colpito di più è stata renderci conto della nuova ondata di “archimedi”, inventori informatici e creativi, che pensano ad un mondo più smart, dove le città sono intelligenti, gli elettrodomestici in grado di funzionare autonomamente e in maniera interconnessa, per avere più confort, e dove in pochi secondi si può scoprire quale evento nelle vicinanze sia il più adatto a noi (ce lo dicono gli algoritmi una volta compilato un form), e indicarci anche il servizio di bikesharing o carsharing più vicino a casa. Altro che bamboccioni. Sarà che l’Internet Festival racchiude tra gli organizzatori delle eccellenze assolute, quali l’istituto di informatica e telematica del Cnr, l’Università di Pisa, la Scuola Superiore Sant’Anna, la Scuola Normale Superiore, e via andare. C’è chi ha passato 40 ore chiuso in una stanza a inventare un videogame completo, in una maratona nerd, chi ha creato un sistema per far “suonare” frutta e verdura, chi ha inventato un robot capace di aiutare persone con problemi di deambulazione. Abbiamo parlato di futuro e del sistema start up con Daniele Mazzei di Viper, una suite innovativa di sviluppo che permette di programmare in modo semplice e intuito le schede che oggi vengono identificate con l’etichetta “internet of things”. Cosa significa? “Vuol dire dare agli oggetti di tutti i giorni, dalla lavastoviglie, al frigorifero, alla abat jour, la possibilità di connettersi ad internet, per collegarsi con noi, inviandoci informazioni relative al loro stato di funzionamento o per prendere dalla rete informazioni che gli servono per migliorare il loro obiettivo, come un forno per consumare meno energia. Se vogliamo il forno intelligente, non solo deve accendersi
?
Quale futuro per le Start up
Foto di Antonio Viscido
quando si è programmato (per farci trovare un pollo cotto quando rientriamo in casa) ma deve essere soprattutto in grado di adattarsi alle esigenze del proprietario (ho un ritardo di un’ora, il forno deve cambiare il proprio programma e farcelo trovare pronto più tardi). Negli ultimi anni il mondo dell’innovazione tecnologica è profondamente cambiato. Se prima le grandi aziende facevano grandi innovazioni e le proiettavano sul mercato, ora le piccole aziende sviluppano prodotti innovativi che a seguire vengono comprati da grande aziende. Ma una start up che ha una grande idea spesso non può permettersi di acquisire un parco di programmatori di una grande azienda, quindi il vero scoglio di oggi è il software, inaccessibile ai più. Ma le cose si evolvono: se 10 anni fa i siti internet interattivi erano solo per grandi studi, ora un buon fotografo può con un wordpress e qualche plugin ottenere un risultato simile. Viper fa lo stesso, ovvero abbassa il livello di competenze necessarie per accedere alla programmazione di questi oggetti intelligenti. Lo start upper medio crea la sua idea a 18 anni. Se abilitate, queste persone sono sicuro che con Viper potranno realizzare i propri prodotti molto prima”. Come funziona il mondo delle start up? “Il fenomeno delle start up è molto importante per il paese Italia perché è la speranza sul futuro dei giovani. Il problema è che in Italia non esiste un sistema unitario. Non si possono avere 20 portali di crowdfunding dal basso, così come ogni ente non deve fare il proprio corso di assistenza al cliente all’imprenditoria. Chi ha un’idea spesso non è un imprenditore, serve l’inserimento in un percorso
Da non saltare
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che ti faccia diventare un imprenditore, che faccia fondere più idee e creare qualcosa che funzioni. Serve un sistema che promuova l’innovazione italiana all’estero, ma per far questo servono dei professionisti che intanto conoscano il mercato. Questi ci sarebbero anche, ma devono essere messi in condizione di lavorare per uno stato e non per il proprio
interesse. Bisogna lottare per ridurre il divario che c’è tra il mondo accademico e il mondo imprenditoriale. Al momento l’accademia produce menti eccellenti ma non fruibili da un punto di vista imprenditoriale; l’impresa, al contempo, non riesce a capire quale è il valore aggiunto di prendere un manager con un dottorato piuttosto che uno che non
Tra i molti eventi, in giro per 17 luoghi di Internet Festival a Pisa, sotto le Logge dei Banchi ci siamo imbattuti nello “StartApp Contest”, un concorso promosso dalla Regione Toscana nato per incentivare la creazione di nuove opportunità economiche nel campo dell’innovazione tecnologica. Abbiamo così intervistato alcuni dei giovani startupper toscani, alcuni dei quali si sono aggiudicati un premio di 20.000 euro per applicazioni finalizzate a facilitare l’accesso al patrimonio informativo pubblico della Regione Toscana e ad aumentare il numero e il livello dei servizi digitali per i cittadini e le imprese. BRING è la prima applicazione che invece di permettere agli utenti di ricercare negozi, professionisti, ristoranti e qualsiasi cosa incontri i loro gusti o interessi, ce li conduce direttamente. Grazie all’inserimento, in fase di registrazione all’app, di hashtag riguardo a cibi, bevande, griffe, prodotti, luoghi o attività professionali preferiti, Bring tramite notifica informa l’utente che si trova nelle vicinanze di qualcosa che potrebbe interessargli. Gli utenti accedono rapidamente a tutte le info delle location: telefono, e-mail, indirizzo, e possono assegnare il loro like (che viene reso pubblico) e una valutazione personale da 1 a 5 stellette (che non viene resa pubblica). “Siamo sul mercato da aprile 2015 per Android e da agosto per Apple, e all’incirca abbiamo Bring su 7-800 dispositivi Google, sia smartphone che tablet, e su 500 unità per Apple. La nostra tecnologia potrebbe essere importata su qualsiasi altro tipo di applicazione, ad esempio Google Maps o Facebook. Ogni utente, potrebbe inserire le proprie preferenze quando si regista su una delle due, e in seguito, in base alla
localizzazione, ricevere informazioni sui luoghi o sulle attività che potrebbe interessargli”. IMUSA si ispira alla filosofia low cost ed è la prima guida turistica dei musei specializzati in terra toscana, indicando i musei aziendali e quelli che vanno a valorizzare un prodotto artigianale che ha creato un’economia in un determinato luogo, come il museo del vino, dell’olio etc. La app propone al turista la visita di musei ad alto
Intervista a Daniele Mazzei creatore di Viper
lo ha. In questo fenomeno la colpa è di entrambi: uno non è in grado di parlare la nuova lingua delle aziende, gli altri non sono in grado di ascoltare la nuova lingua della ricerca. In altri paesi stanno lavorando per colmare questo divario”. Il festival è promosso da Regione Toscana, in collaborazione con Fondazione Sistema Toscana (www.internetfestival.it).
essere applicata anche in Italia? L’idea è nata per una guida, poi ci è venuto in mente di rendere il tutto più innovativo pensando a una app.” LIFE IN TOSCANA (LIT) è un micro social network che ha come contenuto fondamentale le foto, creato per promuovere il turismo in Toscana e un nuovo modo di vivere questa regione. Cultura, divertimento, gastronomia, commercio, la bellezza del patrimonio artistico e naturale: tutto nel palmo della mano. Con questa app, l’utente che visita un luogo può catturarlo in uno scatto, che sarà geolocalizzato, posizionato su una mappa e arricchito dalle informazioni ricavate dalla piattaforma dati Open Toscana. Inoltre LIT propone l’interazione tipica dei social network tra i propri utenti e fornisce la possibilità di condivisione delle foto sugli altri social. Per la prima volta, l’utente può associare la comodità dell’esplorazione della mappa, cercando quello che può catturarne l’interesse, e il piacere della fotografia, insieme alla gratificazione della condivisione e dell’interazione tipica dei social. I destinatari di LIT sono i residenti in Toscana e i milioni di turisti, italiani e stranieri, che ogni anno sono presenti sul territorio. Per questo, LIT è disponibile da subito in italiano e in inglese. “Abbiamo pensato a come avremmo potuto promuovere il turismo in Toscana in maniera innovativa e questa ci è sembrata la più naturale: il numero dei proprietari di smartphone cresce, la produzione di contenuti per smartphone cresce e l’utilizzo di questi contenuti su smartphone cresce, mentre diminuisce quello
su desktop. Per questo abbiamo pensato a LIT come app e non come a un sito.” NIPRIDE è una app gratuita per iphone/android per semplificare gli spostamenti in città, che permette all’utente una visione e un’interazione a tutto tondo con tutte le possibilità della mobilità urbana - carsharing, carpooling, taxi privati, servizi pubblici (ove possibile) – all’interno di un determinato centro. Il prodotto non è solo un aggregatore di carsharing, ma permette anche di offrire e chiedere passaggi tra privati all’interno del centro urbano, pianificando il migliore spostamento possibile per l’utente che la usa. L’applicazione permette infatti, in maniera facile e veloce, di pianificare viaggi dalla posizione attuale fino ad una meta qualsiasi interna alla città in cui siamo, proponendo all’utente le diverse soluzioni. Ogni scelta viene poi corredata con un planning di tempi e distanze a seconda del mezzo di trasporto che stiamo guardando. Le revenue sono generate da un costo fisso di 0,10€ calcolato su ogni passaggio generato dalla piattaforma (ed imputate a chi sta chiedendo un passaggio). La community funziona su un sistema di feedback, sia da parte di chi offre il passaggio, che di chi lo riceve. “Il cuore della app è quello di mettere in condivisione più mondi all’interno dello stesso oggetto. Ma mentre lavoravamo ci siamo resi conto che la parte davvero interessante è quella della previsione degli spostamenti. Con i dati ottenuti monitorando gli spostamenti, infatti inizia a diventare possibile formulare previsioni reali per aiutare le persone a sapere prima dove troveranno quello che gli serve e non solo farglielo cercare nel momento in cui gli servirà.”
Start up Contest valore culturale e a basso costo, promuovendo esposizioni ancora poco conosciute a chi vive sul territorio e a chi cerca nuovi itinerari alternativi stimolato dai propri interessi. Con Imusa si possono ricercare, localizzare e recuperare tutte le informazioni relative ai musei visualizzando i contenuti, in italiano o in inglese, secondo la lingua impostata sul proprio device. Si può calcolare il tragitto per arrivare al museo selezionato tramite la navigazione esterna, contattare direttamente i musei, accedere a link esterni e condividere le informazioni tramite social, email e messaggistica. Semplice da consultare tramite un menù di ricerca facilitata, imusa ti suggerisce “Perché visitare il museo?”, dedicando particolare attenzione all’accessibilità e ad attività rivolte ai più piccoli. Dicono gli inventori: “All’estero i musei specializzati sono molto considerati, dunque perché la stessa cosa non può
riunione
di famiglia
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Le Sorelle Marx
Lonely Eugene
Inauguriamo una nuova rubrica a cui, siamo sicure, i nostri lettori si appassioneranno esattamente come è successo a noi leggendo delle gesta del nostro presidente preferito, Eugenio Giani. 50 Comuni in 100 giorni: una visita ogni due giorni, alla ricer- ca dell’angolo sconosciuto, della spigolatura poco nota, della pregevole iniziativa, sempre fascia regionale di riconoscimento a tracolla, il Presidentissimo Giani ha iniziato una vera maratona. Che, ovviamente, intendiamo raccogliere in una guida, imperdibile per ogni villeggiante, turista e amante della storia patria: Lonely Planet Eugene. Naturalmente edita in tre lingue: italiano, inglese e fiorentino del Trecento. Qui di seguito alcune anticipazioni delle tappe più caratteristiche. “Castagno di Piteccio (Pistoia), un borgo nella valle dell’Ombrone ove grandi artisti contemporanei hanno donato pitture e sculture che oggi abbelliscono viuzze ed edifici di un paese da fiaba! Venturino Venturi, Saetti, Alinari, Loffredo, Gavazzi” (11 ottobre) “Sorano, vicoli nel centro storico. La Toscana del tufo e degli Etruschi, si esprime in questo bellissimo centro medievale. Oggi si è ricordato i 900 anni dalla morte di Matilde di Canossa!” (10 ottobre) “Una stupenda serata nel comune di Palaia in Provincia di Pisa, dove è il tartufo il grande protagonista. Prima nel Museo Savini Tartufi, dove con passione e tanta buona volontà si tramanda di padre in figlio l’arte della ricerca del tartufo.” (9 ottobre) “...questa mattina ho visitato lo splendido Comune di
Bobo
Montepulciano, accompagnato dal Sindaco Andrea Rossi per la presentazione del progetto “Montepulciano e i suoi pianeti, viaggio irreale nella realtà”, grazie al quale, nel centro
storico di Montepulciano, verrà riprodotto in scala il sistema solare.” (3 ottobre). Instancabile Globe Trotter, senza sosta né fatica, qui comincia il viaggio nella Toscanina del novello “Canapone”, Eugenio I detto “il Girellone”.
Lo Zio di Trotzky
Abruzzesi di razza
Dopo Ennio Flaiano, Ignazio Silone ed Ernesto Giammarco, la gloriosa terra d’Abruzzo sforna altri raffinati intellettuali e italianisti, che però si affermano nel campo della politica. Il primo politico di razza, fine linguista, ad inaugurare la linea intellettuale della regione è stato notoriamente il senatore Antonio Razzi. Al di là delle sue apparizioni televisive, ha fatto storia il suo intervento sull’ammodernamento del corridoio ferroviario Pescara-Roma proprio per il ricercato uso della lingua italiana. Ma come non ricordare il video che appare sul suo sito ufficiale, in cui il senatore Razzi interpreta la sua presentazione? Fra tutti, per qualità della scelta linguistica, segnaliamo l’incipit: “Quello che io faccio, non ho mai pentito”. Ma come ogni fenomeno, ancorché da baraccone, all’apogeo segue una fase di decadenza e oggi Razzi, non solo è ignorato da Crozza, ma rischia di essere superato da un suo conterraneo quanto mano
nell’uso disinvolto della lingua italiana. Resterà, infatti, memorabile (forse...) nella storia del Senato italiano, giunto ormai alle ultime battute prima di essere trasformato ad una ben più modesta anticamera territoriale, l’intervento del capogruppo del Movimento 5 Stelle, Gianluca Castaldi (abruzzese di Vasto, classe 1970) che, con sprezzo del pericolo, rivolgendosi al presidente del Senato per denunciare una chiara discriminazione di cui il suo gruppo parlamentare era fatto oggetto, dichiara: “Noi abbiamo un malfunzionamento delle tessere soltanto del gruppo cinque stelle, signor presidente; se potrebbe cortesemente controllare...”. In coro l’Aula lo corregge (“Potesse!”), ma ormai il dado è tratto: dopo la Costituzione si riscrive in quell’aureo consesso, anche la lingua italiana. Qualcuno twitterà che, come lo Costituzione, si attendeva questa riforma da 70 anni.
I Cugini Engels
Il rinforzino della senatrice
Si sa che uno dei riferimenti culturali del premier Renzi, per sua stessa ammissione, è il film “Amici Miei” e le sue trovate comiche, prima su tutte la famosa supercazzola di cui il primo ministro fa spesso sfoggio. Dunque non stupisce che anche su un tema come quello delle unioni civili ed in particolare delle adozioni per le coppie non sposate si vada a cercare nel capolavoro monicelliano utili esempi. Ecco quindi che la senatrice Di Giorgi parla invece che di adozioni di “affido rinforzato”; una chiara riproposizione del “rinforzino” del conte Mascetti, quello che il figlio del Perozzi, descrive come due Olive (da spartire in 5) a rinforzare, per l’appunto, mezzo cucchiaio di stracchino (sempre per 5); in modo che della legge per le Unioni Civili si potrà dire, come per il seminterrato del Mascetti, “pareva ci fosse tutto e invece un c’era nulla”.
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Ciao Graziano Aldo Frangioni aldofrangioni@live.it di
M
artedì scorso, Graziano Braschi, se ne è andato. Fondatore, insieme a Berlinghiero Buonarroti e Paolo della Bella della rivista Ca Balà, la rivista satirica che anticiperà, in parallelo con quello francese, tutto il movimento di ironia grafica che si svilupperà negli anni ‘70 in Italia. Il segno graffiante di Graziano “sfondava” i temi politici sociali che emergevano in quegli anni. Di formazione sessantottima ma collegato al Pci, quello dalle radici profonde, come era vissuto a Compiobbi, dove viveva Braschi. Un paese carico di tradizioni antifasciste, come era il caso della famiglia Fibbi, esiliata in Francia e combattente in Spagna o di Gianfranco Benvenuti, amico critico di tutto il Gruppo e raffinato intellettuale popolare. Ed è proprio a Compiobbi in un piccolo fondo a piano terra, che nasce il “Gruppo Stanza”, collegato ad illustri personalità della cultura italiana ed europea, come Cesare Zavattini, Umberto Eco, Oreste del Buono. Graziano, insieme a molti altri che poi collaboreranno con Ca Balà, ha sempre mantenuto autonomia culturale e politica. Un personaggio “disorganico” di grande simpatia. Quella simpatia che rendeva piacevole ogni incontro, ogni confronto con lui, anche se casuale. Bibliotecario presso il Gabinetto Viesseux, sarebbe poi diventato un grande esperto del “giallo” e giallista lui stesso. La Redazione di Cultura Commestibile, che lo considerava un prezioso interlocutore, esprime tutto il proprio dolore, innanzitutto alla famiglia, ma anche ai suoi tanti amici ed estimatori.
Un disegno di Graziano Braschi del 1970, a destra Braschi nella redazione di Ca Balà – anni ‘70 . Sotto un disegno di Lido Contemori
17 ottobre 2015 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di
C
onsiderato uno dei padri fondatori del movimento artistico Fluxus, George Maciunas è stato un personaggio eclettico e originale, un punto di riferimento per tutte le sperimentazioni interdisciplinari del secondo Novecento e, successivamente, del nuovo millennio; una chiave di volta negli angusti e vitali anni di metà secolo, la cui importanza e notorietà risuona tutt’oggi, in quanto indimenticabile esempio di attivismo estetico. Artista, storico dell’Arte, musicologo, progettista, architetto, redattore, tipografo e matematico, George Maciunas ha attraversato le Arti in un cammino centripeto, volto alla presa di coscienza che l’espressione creativa appartiene al presente e alla vita quotidiana, che non esistono confini geografici e/o settoriali nella realizzazione di un’opera d’arte, ma una semplice progettualità, la quale prende vita dalla cooperazione appassionata e intenzionale. Nel circuito di un’attività intellettuale militante ha saputo amalgamare con genialità la sfida contro la cultura opprimente del Sistema con una larga combinazione di tendenze e riflessioni internazionali; ha saputo unire artisti, pensatori e intellettuali di diversa estrazione e provenienza sotto un’unica bandiera; ha saputo guidare con ingegno le direttive creative della pittura di Marcel Duchamp con la musica sperimentale di John Cage unendole e facendone un’unica soluzione estetica. Con George Maciunas Fluxus è divenuto una vera e propria corrente filosofica, il cui pensiero ha influenzato molti altri artisti soprattutto nella messa in evidenza che l’Arte può essere considerata sotto altri punti di vista: l’inedito incontra il manierismo contemporaneo e l’originalità si unisce al confronto critico e al dialogo, in uno scambio denso di battute la cui finalità risiede nella semplicità e nel divertimento. La prassi artistica diviene un gioco quotidiano fra l’Io e il mondo, fra la molteplicità degli spiriti creativi e i linguaggi a disposizione. L’opera d’arte emerge dalla combinazione inaspettata, dall’associazione di sensi, dalla coinvolgente mescolanza di idee e materiali, dalla presa di coscienza che la tecnica e l’abilità specifica
Maciunas il padre eclettico
A sinistra Diagram of historical development of FLUXUS and other 4 dimensional, aural, optic, olfactory, epithelial and tactile art forms, 1978 A destra dall’alto Fluxpost, anni ‘70 Pagina di francobolli Grotesque face mask, 1972 Stomach Anatomy Apron, 1973 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
non sono più al centro della ricerca estetica, bensì tutto può essere arte e chiunque può essere artista. Quella di George Maciunas fu una poetica sociale, incentrata sulla totalità e sull’universalizzazione delle arti contemporanee, nonché su una rinnovata sensibilità nei confronti della vita artistica, dedita a un’indagine senza fine sul quotidiano, provocando e liberalizzando ogni forma di espressione comunicativa e concettuale.
17 ottobre 2015 pag. 7 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di
S
i è spenta sabato scorso in un ospedale di Dusseldorf, a seguito di un ictus, all’età di 81 anni, Hillla Becher nata Wobeser (1934-2015), coautrice con il marito Bernhardt (Bernd) Becher (1931-2007) di una impressionante serie di immagini sulla architettura industriale, proto industriale ed agricola della Germania. Il binomio Berndt ed Hilla, rappresenta una delle poche coppie di fotografi passate alla storia della fotografia. Bernd ed Hilla si conoscono nel 1957, si sposano nel 1961, e da allora formano uno dei più solidi ed indissolubili sodalizi artistici della storia del Novecento, tanto da firmare congiuntamente le loro opere, indipendentemente da chi avesse effettivamente premuto il pulsante di scatto. Una volta assunto l’incarico di docente presso l’Accademia d’Arte di Dusseldorf, Bernd ha di fatto associato Hilla nell’insegnamento, tanto da formare con lei quella che è passata alla storia come la “Becher Schule” di fotografia. Precorritori in Europa di un certo tipo di fotografia (e di arte) concettuale, che trova le sue radici in certe opere di Walker Evans, Bernd ed Hilla cominciano fino dall’inizio del loro rapporto, a fotografare sistematicamente, in un severo bianco e nero, tutta una serie di edifici di interesse artistico o monumentale scarso o nullo, raggruppandoli per tipologia, forma o materiali, e facendone delle icone. Il loro interesse si rivolge inizialmente verso le tradizionali case a graticcio, tipiche della Francia del Nord, dei Paesi Bassi e della Germania, di cui permangono numerosi esempi tutt’oggi, e di piccoli edifici industriali, del tutto anonimi, destinati in molti casi alla demolizione, ma dotati di una qualche personalità nascosta che i due fotografi riescono a rendere evidente, con l’impiego di una fotocamera di grande formato (13x18cm), di riprese esattamente frontali, prive di distorsioni prospettiche e possibilmente privi di ombre troppo nette. La loro tecnica di ripresa si ripete in maniera seriale, asettica e quasi maniacale, rimanendo invariata per un
In memoria di Hilla Becher (e di Bernd) periodo di quasi quarant’anni. Ogni edificio, dai silos industriali o agricoli, dai depositi di acqua o carburante, dalle torri di raffreddamento ai gasometri, viene isolato dal contesto e viene raffigurato da più punti di vista. L’interesse dell’operazione di Bernd ed Hilla non consiste tuttavia nella raffigurazione del singolo edificio, ma piuttosto dall’accostamento di più edifici diversi, in serie di quattro, sei, nove, dodici o quindici immagini ciascuna. Il filo conduttore della serie può essere l’analogia tipologica, oppure strutturale, formale o ancora relativa ai materiali utilizzati nella costruzione, legno, acciaio, calcestruzzo o mattoni. Troviamo così serie di silos cilindrici, cisterne sferiche, strani funghi metallici dalle funzioni ambigue, torri variamente articolate, tozze o slanciate, ciminiere dalla sagoma improbabile, facciate vuote o ridotte a trame evanescenti, ma anche strani intrecci di tubature, strutture sospese su pilastrate esili ed altissime, macchinari infernali protesi contro il cielo. Tutto ciò che nella analisi puntuale e sistematica dei Becher può essere definito, come nella loro prima pubblicazione del 1970, “Scultura Anonima”. Fino al riconoscimento universale del loro lavoro artistico, alla Documenta 5 di Kassel, nel 1972. Quello strano oggetto fotografico che è il catalogo, croce e delizia di ogni fotografo professionista, lavoro in cui si richiede di tutto, dall’esattezza dell’inquadratura alla definizione dell’immagine, dalla descrizione del dettaglio alla ripetitività dell’insieme, ma certamente non si richiedono né la fantasia né il genio o l’interpretazione, diventa nella concezione e nell’opera dei Becher il frutto di una operazione artistica di alto livello, che molti artisti contemporanei tendono ad imitare spesso stancamente, mettendo in fila serie di immagini anonime. Fra gli studenti dei Becher, che hanno assorbito e proseguito in un certo senso i loro insegnamenti, troviamo invece nomi di rilievo, come Andreas Gursky, Thomas Struth, Candida Höfer, Thomas Ruff, Jörg Sasse, Axel Hütte, Elger Esser, Götz Diergarten, Petra Wunderlich e Tata Ronkholz.
17 ottobre 2015 pag. 8 Letizia Magnolfi letizia.magnolfi@gmail.com di
N
el numero 139 di Cultura Commestibile avevamo parlato dell’incontro sulla storia locale avvenuto a Montemurlo lo scorso settembre e curato dalla Fondazione CDSE, durante il quale si era parlato della nascita della proto industria a Prato e a Montemurlo, fino ad arrivare ai primi anni del ‘700. Andiamo avanti, fino a scoprire le grandi trasformazioni del XX secolo. Proprio in questo secolo si registra un importante avvenimento per la storia della lana: la vicenda di Giovan Battista Mazzoni. Laureatosi in Lettere e poi in Scienze all’Università di Pisa, Mazzoni dopo la caduta di Napoleone decise di specializzarsi sulle Scienze applicate in Francia. Avendo un sussidio mensile da parte del Granduca Ferdinando, raggiunse la Francia con la precisa intenzione di scoprire i segreti delle macchine tessili francesi: si finse addirittura un reduce della battaglia di Waterloo per farsi assumere in una ditta del luogo. Così, per alcuni anni, Mazzoni lavorò come filatore, maturando una grande esperienza nella filatura e nella cardatura. Una volta tornato a Prato, Giovan Battista, che si può considerare un antesignano dello spionaggio industriale, aveva molto da dare alla città: prese in affitto l’oratorio di San’Anna e iniziò a costruire le macchine con cui aveva lavorato in Francia. Iniziò dalla filatura del cotone ma poi adattò ciò che aveva visto alla lavorazione della lana. Fu proprio lui che riuscì a inventare un fiore all’occhiello per Prato: la lana cardata. Siamo già alla metà dell’800. Iniziano a sorgere le grandi industrie di Prato. Due fabbriche, tra loro molto diverse, che meritano di essere menzionate sono il Fabbricone e la Forti. La prima – di proprietà austro-tedesca - a differenza della tipica produzione pratese che si occupava della cardatura, rimase fedele alla lana pettinata. La foto qui pubblicata, scattata dopo un attento studio della prospettiva, ritrae oltre 1000 operai nei primi anni del ‘900. Alla fabbrica Forti de La
I caratteri dell’industria a Prato e Montemurlo dal 1700 agli anni ’70 del 1900 Briglia, la cernita degli stracci era addirittura una lavorazione a se stante: i famosi cenciaioli attuavano una cernita dei “cenci” provenienti dagli Stati Uniti che poi tornavano in America senza aver subito alcun tipo di lavorazione. Questi e altri grandi lanifici avevano al loro interno il ciclo completo della lavorazione della lana, sino alla fase di nobilitazione del tessuto, per la quale oggi Prato è nota in tutto il mondo. Grande Guerra: un decreto del 1916 dichiarò ausiliare queste grandi fabbriche. Venivano prodotte coperte da campo e anche
il famoso panno grigio-verde dedicato alle divise. Quanto agli operai – che erano stati militarizzati – subivano orari di lavoro massacranti, dal momento che dovevano essere in grado di mantenere un certo standard produttivo. Il decreto tuttavia salvò di fatto l’economia di Prato. Ciò non accadde nella Seconda Guerra Mondiale. L’evento più significativo che colpì l’economia fu il passaggio del fronte. Le grandi fabbriche erano veri e propri obiettivi da bombardare sia dagli Alleati che dai Tedeschi, i quali fra l’altro avevano in programma lo spo-
stamento dei macchinari pratesi verso la Germania (il progetto poi si trasformò in un piano di distruzione totale; piano mai portato a termine sino in fondo grazie alle opere di sabotaggio dei partigiani). Nonostante questo grande impegno, che vide coinvolti singolarmente anche gli operai, il 30% del parco macchine fu distrutto. Questo fu uno dei fattori che acuirono il grande periodo di crisi avvenuto tra il 1947 e il 1953: Prato si rese conto che non era più possibile andare avanti con i lanifici a ciclo completo; il mercato si era evoluto e altri paesi – come la Cina e l’India - producevano gli stessi prodotti a un minor costo; c’era quindi bisogno di rinnovarsi. È in questa fase che entra in gioco la zona di Montemurlo: negli anni ’50 era rimasta indietro di venti anni per quanto riguarda i livelli di industrializzazione. Proprio la crisi di Prato costituì la nuova era di questa zona. Il territorio pianeggiante di Montemurlo favoriva la dislocazione delle industrie pratesi. La crisi della mezzadria inoltre provocò un esubero di manovalanza, che era abituata alla fatica e soprattutto aveva una grande manualità. A questo proposito una figura di spicco fu quella del sindaco Angiolo Menicacci: riuscì a intercettare la legge 647 del 1950 e Montemurlo fu dichiarata zona depressa. Risultato: gli industriali pratesi poterono abbandonare i vecchi cicli produttivi per avviare nuove piccole produzioni in stanzoni che accoglievano ora la cardatura, ora la filatura e così via. In maniera inizialmente caotica iniziò così la concentrazione delle industrie che scappavano da Prato e che fecero fare un notevole salto di qualità a questa zona. I dati demografici a questo proposito sono emblematici: alla fine della legislatura di Angiolo Menicacci, negli anni ’70, gli abitanti erano triplicati (circa 9000). Non solo: gli addetti all’industria nel ‘51 erano solo 29; nel 1971 arrivavano a 4963. Una vera e propria esplosione dell’industrializzazione a Montemurlo. Era solo l’inizio di un’epoca, destinata a diventare grande fino agli albori del nuovo millennio.
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Ma l’interesse per le musiche precristiane sta germogliando anche laddove non esistono legami di questo tipo. Lo dimostra Stef Conner, cantante inglese già nota per la sua partecipazione al gruppo Rachel Unthank and the Winterset (oggi The Unthanks), dove suonava il piano e cantava. Stef ha lasciato il gruppo nel 2009. Da allora percorre un’altra strada, costellata di interessi che spaziano dalla musica contemporanea (Laments of the Gorges,
2010) alle culture mesopotamiche: sul suo profilo twitter si definisce dead language enthusiast, appassionata di lingue morte. Grazie a questa passione è entrata in contatto con Andy Lowings, un musicista che aveva ricostruito la lira di Ur (dal nome dell’omonima città sumera). Questo strumento a corda risale al 25003000 a.C. Ai due si è poi unito Mark Harmer, arpista e produttore di documentari per la BBC. La passione comune li ha spinti
a formare un gruppo, che hanno battezzato The Lyre Ensemble. L’approdo naturale di questo percorso è stato il CD autoprodotto The Flood (Lyre-of-Ur, 2015). Il trio non ha l’ambizione di ricostruire la musica dell’epoca, ma propone pezzi originali che ne traggono ispirazione. Ammettiamolo pure: la prima volta che abbiamo letto di questo CD abbiamo avuto qualche perplessità, ma in realtà era necessario ascoltarlo per capire bene di cosa si trattasse. Dopo l’ascolto queste perplessità erano scomparse. Il risultato è interessante, anche se l’uso di un solo strumento genera una certa monotonia. Harmer non suona, ma si occupa della registrazione e degli arrangiamenti. Il brano iniziale, “Come Sit Closer”, è l’unico interamente cantato in inglese. Altrove si alternano sumero e babilonese, ma di ogni testo viene fornita la traduzione inglese. La voce di Stef Conner stimola un’associazione mentale col folk inglese, ma si tratta di un’impressione che non trova riscontro nella musica. The Flood è un lavoro coraggioso, mosso non da uno sterile gusto dell’insolito, ma da un amore sincero per la musica, che non può avere confini temporali.
Via del Fosso Macinante
cambiato il suo nome in “Club Fiorentino dei Velocipedisti”, la pista in terra battuta fu sostituita da una in cemento dove furono organizzate a ritmo continuo gare ciclistiche fino a quando, nel 1899, le riunioni su pista vissero un momento di crisi e furono sospese. Ripresero in grande stile nel 1903, quando i Velocipedisti si fusero con il “Club Sportivo Ardire”, che da tempo organizzava corse ciclistiche in linea, dando vita al “Club Sportivo Firenze” che avrebbe espresso nel corso degli anni tanti campioni, non solo del ciclismo. La rinnovata pista del Club Sportivo, all’avanguardia in Italia, attirava tutti i migliori specialisti della pista; fra gli altri il brianzolo Ugo Agostoni (quello a cui è intitolata la “Coppa Agostoni”) che nel 1913 alle Cascine stabilì il record italiano dell’ora: primato di breve durata perché, nello stesso anno e sulla stessa pista e sia pure per pochi giorni, glielo strappò il fiorentino Luigi
Fiaschi che percorse in un’ora 39,993 chilometri. Considerato che l’attuale record mondiale è di poco superiore ai 54 km/ora e considerata l’evoluzione delle tecnologie (sia per quanto riguarda la pavimentazione delle piste sia per quanto riguarda le biciclette) era davvero un risultato straordinario. Il popolarissimo Fiaschi, campione toscano di ciclismo nello stesso 1913, sarebbe morto l’anno successivo, a soli 25 anni, mentre, insieme a un amico, cenava nella trattoria di suo padre in Via Faenza; affrontò coraggiosamente, cercando di calmarlo, un ubriaco che stava molestando i clienti, ma l’ubriaco lo aggredì e l’uccise a pugnalate, dandosi poi alla fuga: l’amico che sedeva con il ciclista al ristorante, avvantaggiato dal fatto di essere il campione toscano di corsa sui 10.000 metri, inseguì l’assassino e riuscì ad agguantarlo in Piazza Madonna degli Aldobrandini, consegnandolo alla giustizia.
Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di
L
e civiltà precristiane - dai Sumeri agli Etruschi, dagli Assiro-Babilonesi agli Egizi - intereressano soprattutto gli archeologi e gli storici, ma raramente i musicologi, che dispongono di notizie molto frammentarie. Lo studio della materia è ulteriomente complicato dal fatto che molti strumenti sono andati perduti. Per fortuna esistono alcuni studiosi che hanno cercato di ricostruirli, come il cipriota Michalis Georgiou e l’inglese Michael Levy. Il loro impegno è meritorio, ma rimane materia per addetti ai lavori e per pochi cultori che eccedono questo ambito. Negli ultimi tempi, però, l’interesse per queste culture musicali ha raggiunto anche musicisti che godono di un certo rilievo mediatico. Uno di questi è il sassofonista Stefano Cantini, esponente autorevole del nostro jazz, che ha realizzato il libro La musica perduta degli etruschi (Effigi, 2013) insieme a Simona Rafanelli. L’interesse del musicista può avere una motivazione territoriale: la sua terra è la Maremma, dove si trovano le testimonianze più consistenti della civiltà etrusca. Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di
Nel 1869, cinque anni dopo che le velocipede bicycle aveva fatto la sua comparsa a Parigi, il Comune di Firenze, preoccupato dalla grande diffusione dei velocipedi (un giorno alle Cascine se ne contarono addirittura trenta), ne limitò l’utilizzo appunto al solo parco delle Cascine e rigorosamente prima delle due del pomeriggio, quando cominciava “il passeggio” e di conseguenza risultava assai elevato il rischio di investimento dei pedoni da parte di quegli sconsiderati su due ruote. Gli appassionati del nuovo mezzo di trasporto insorsero, e, oltre a costringere il Comune a fare una rapida marcia indietro, costituirono il “Veloce Club Firenze”, che, il 2 febbraio 1870, organizzò la prima corsa ciclistica d’Europa, la Firenze-Pistoia, vinta dall’americano Rynner Van Heste che percorse i 33 chilometri della gara in 2h 12’, alla strabiliante media di 15 km/h. In quello stesso 1870 gli uo-
Suoni perduti e ritrovati
I nonni del pedale
mini del “Veloce” ottennero in concessione dal Comune di Firenze un pratone in fregio al Fosso Macinante, dove costruirono una pista circolare in terra battuta. Nel 1894, dopo che nel 1884 il “Veloce Club” aveva
17 ottobre 2015 pag. 10 di
Serena Cenni
I
l prezioso libro dei soci del Gabinetto Vieusseux offre alcune tracce interessanti del soggiorno di Leo e Gertrude Stein a Firenze, a Fiesole e a Settignano. Gli Stein erano ebrei americani colti e benestanti, abituati, fin dall’infanzia, a viaggiare e a soggiornare in Europa. Amavano profondamente l’arte e quando, dopo gli studi in America e in Inghilterra, si trasferirono a Parigi agli inizi del Novecento, cominciarono a collezionare opere di artisti che rispondevano ai nomi di Cézanne, Picasso, Matisse, Braque… Mentre Michael, uno dei tre fratelli, si muoveva tra la Francia e l’America per occuparsi del patrimonio immobiliare della famiglia, Leo si trasferì a Parigi nell’inverno del 1902, seguito di lì a poco dalla sorella Gertrude: l’appartamento di Rue de Fleurus, vicino ai Giardini del Lussemburgo divenne, dal 1903, lo spazio privilegiato di irripetibili incontri accogliendo in un flusso pressoché continuo, oltre ad amici americani, espatriati e cosmopoliti, collezionisti e scrittori, mercanti d’arte e pittori, che gli Stein in più occasioni avrebbero incontrato anche a Firenze, luogo indiscusso del collezionismo più raffinato. E più le pareti dello studio parigino si riempivano di quadri straordinari (Renoir, Delacroix, Gauguin, Toulouse Lautrec, oltre naturalmente ai post-impressionisti), più Gertrude e i fratelli divenivano consapevoli di vivere in prima persona e in progress i profondi cambiamenti che il Ventesimo secolo stava apportando all’arte e alla letteratura. È questo il clima d’avanguardia in cui, nel settembre del 1907, fa la sua prima apparizione Alice B. Toklas, trentenne californiana di origine ebreo-polacca, una volta abbandonata San Francisco per la Francia, attratta dalle descrizioni dell’ambiente parigino di Sarah Stein, moglie di Michael, grande appassionata d’arte, mecenate e collezionista di quadri di Matisse. La conoscenza di Gertrude (“una presenza dorata dal sole toscano…dalla voce
Gertrude Stein e Alice B. Toklas tra Parigi e Fiesole
profonda, intensa, vellutata… che sembrava provenire da una spilla di corallo appuntata sul petto”) si rivela fatale e Alice inizia a frequentare rue de Fleurus, insinuandosi lentamente nell’appartamento e nella vita di Gertrude, fino a diventare una presenza indispensabile: Alice batte a macchina gli scritti di Gertrude, spolvera i quadri e riordina lo studio, cucina deliziosi cibi americani, intrattiene le mogli o le compagne di Picasso, di Braque, di Apollinaire, di Matisse e di molti altri mentre questi ultimi, ogni sabato sera, discutono di arte e letteratura con la scrittrice. Segue, inoltre, gli Stein a Fiesole, dove sono soliti trascorrere le estati in una villa di Via Verdi. Ed è a Fiesole, nella calda estate del 1908, tra lunghe e “indimenticabili passeggiate” che il rapporto di Gertrude con Alice si fa più intenso ed esclusivo tanto da trasformarsi in una intimità duratura e insostituibile. Gertrude compone per Alice, Ada, il primo di una serie di ‘ritratti’ rivolti agli amici più importanti della sua vita; sperimenta, sotto l’influsso delle molte conversazioni avute con Picasso, la scrittura cubista in Tender Buttons, testo criptico in cui defamiliarizza gli oggetti del reale in una sorta di deriva della percezione soggettiva; inizia a scrivere L’autobiografia di Alice B. Toklas, dove assume in qualità di Io narrante fittizio la voce e la ‘persona’ dell’amica, mentre numerose note, appunti, messaggi che evidenziano un lessico erotico sempre più intimo e privatissimo sono lasciati o dedicati ad Alice, compagna/moglie di una vita. E’ nel capitolo VII dell’Autobiografia intitolato 1907-1914 che Alice ripercorre i molti momenti sereni trascorsi con Gertrude durante le lunghe estati fiesolane, rivivendo gli incontri con i Berenson a I Tatti, Florence Blood alla Gamberaia, Mabel Dodge a Villa Curonia, che si ripetono ogni anno fino a quando lo scoppio della prima guerra mondiale pone irrimediabilmente fine all’atmosfera di eccentricità e infatuazioni vissute fino ad allora da quella bizzarra coppia di ebree americane.
17 ottobre 2015 pag. 11 Monica Innocenti innocentimonica7@gmail.com di
N
on è un caso che Paolo Milani rifiuti la definizione di stilista e preferisca proclamarsi artigiano; sostantivi come gossip o aggettivi come modaiolo sono qualcosa di assolutamente distante dal rigore e dall’estro che, in contraddizione solo apparente, caratterizzano la sua arte sartoriale; un talento che appare rivolto unicamente al desiderio insopprimibile di creare bellezza, di regalare qualcosa di unico ed irriproducibile. Torinese di nascita Milani frequenta l’Istituto Professionale di Ilda Bianciotto dove impara a padroneggiare la sartoria classica. Dopo il diploma la sua creatività, il suo talento e la sua sensibilità artistica trovano sfogo professionale nella prima esperienza lavorativa all’Atelier di Alta Moda di Torino. Ma il futuro che lo aspetta, evidentemente, è lontano dalla sua città. La Versilia è terra di artisti e se in quegli anni Pietrasanta non era ancora stata ribattezzata la Piccola Atene, il fermento artistico da cui era pervasa, costituiva l’humus ideale dove Milani poteva concretizzare sogni, progetti ed aspirazioni. Ed è proprio in questa vitale cittadina in provincia di Lucca che il poco più che adolescente Paolo si trasferisce per aprire l’embrione di quello che oggi è uno dei suoi due atelier (l’altro si trova a Venezia, all’interno dello splendido Bauers Hotel). Entrare in queste stanze che si affacciano sulla centralissima via Garibaldi è un’esperienza unica, capace di coinvolgere i sensi in modo inebriante. Milani sceglie personalmente in giro per il mondo, le stoffe che usa per le sue creazioni e ne conserva gelosamente anche i più minuti avanzi, nella convinzione che, prima o poi, ogni scampolo a prima vista insignificante possa essere riutilizzato e divenire parte di qualcosa di bello. Immergersi tra i mille colori e le mille sfumature delle stoffe e dei filati; respirare l’atmosfera rilassata in cui tutto prende forma; abbandonarsi al cocktail di profumi delle sete, mentre dalla finestra appare in tutta la sua maestà una magnolia ultracen-
Paolo Milani
un amabile artista
Francesco Cusa info@francescocusa.it di
Film visionario, surreale, simbolico, catartico, onirico, iconoclasta, didascalico, ma vivaiddio, film “jodorowskiano”, che gronda di sangue e pastelli, di miserie e nobiltà: stiamo parlando di “Per amor vostro” di Giuseppe Gaudino, che dopo diciotto anni ritorna al lungometraggio. Finalmente un cinema nostrano che parla di radici e viscere, che miscela rose e “sfaccimme”, sacro e profano, senza esitare, senza tergiversare, senza inutili perifrasi. Distante sideralmente da certa filmografia salottiera, “Per amor vostro” è un film visionario che riesce a stupire senza i paludamenti dell’ultimo Martone o le vetustà boccaccesche dei Fratelli Taviani. È una sorta di virus, di anomalia, di soggetto infetto che ci auguriamo possa diffondersi ad avvelenare il climax dei nostrani prodotti da sala-famiglia. In una Napoli metafisica, vista dai balconi e dagli scorci che danno
Per amor vostro
sull’immensità del mare, vibrano gli archetipi, grazie alla Santa Golino, davvero eccellente in questa prova mistica che restituisce la dimensione del sacro alla terra e riporta “a casa” i fantasmi. La consacrazione del Regno delle Due Sicilie alla sua dimensione onirica e tragicomica, all’Ellade, è un simbolico sfregio alla fallocrazia romana. Qui è la vulva a roteare, a costruire e ad annientare i sogni, ad abbattere le mura per poi riedificarle. Il volo della Ruotolo bimba è il salto metaforico che tutto
tenaria, significa riconciliarsi col mondo! Ma il meglio (ovvero gli abiti) deve ancora venire e sono proprio il sorriso e i modi garbati del padrone di casa ad introdurci nell’universo della sua creatività. Un percorso straordinario dove un elegante vestito di seta e un delizioso giacchino fatto con coloratissime spugnette lavapiatti (che si chiama Superlux, perché quello è il nome della marca delle spugnette) raggiungono uguale risultato: presentarsi ai nostri occhi con il medesimo e tangibile livello di raffinatezza. Paolo Milani come detto, vuole lo si chiami artigiano, ma mi piace definirlo amabile artista. Veste attrici e principesse; ha ideato creazioni che hanno fatto epoca come gli indimenticabili cappellini sfoggiati da Marina Ripa di Meana a varie edizioni della Mostra del Cinema di Venezia; è noto, apprezzato ed ha avuto riconoscimenti in Italia e nel mondo, dagli Stati Uniti alla Cina, ma non rinuncia alla sua personalità e alla vita di sempre. La vita di un uomo riservato e innamorato del bello, la vita di un artista lontano dai clamori che, sopra ogni cosa, ama sperimentare la propria creatività. Un amabile artista, appunto. il meridione deve compiere per affrancarsi da questa cancrena teutonica del profitto, per restituire le maschere all’oblio, per riconsegnare la scure al boia e tornare al sacrificio dell’ara. In Anna Ruotolo non c’è mai redenzione o spazio per una commiserazione sentimentale; la sua anima arde e brucia da “sempre”’, nel travaglio delle esistenze che il femminino incarna e per ogni possibile residuato di bellezza sottratto alle fauci della tecnicizzazione del mito. Il film di Gaudino è un film crudele che affastella generi e tecniche, elevando il patetico al sublime con la leggerezza di chi padroneggia la telecamera con noncuranza; è un salto rischioso nelle regioni oniriche dello stato di veglia, l’elogio della febbre della santità, o meglio: è la “Santa Sangre” partenopea che muove le ruote superne del “Foro di Brahma”, il quale, come è noto, profuma da sempre di celluloide.
17 ottobre 2015 pag. 12 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di
Q
ualche giorno fa è apparso su di un quotidiano un articolo dal titolo Museo chiuso per festa privata: la giungla dell’arte in affitto. Riportava la notizia della chiusura, in un giorno di visita del pubblico, della Villa della Regina a Torino, importantissimo monumento barocco protetto dall’Unesco, per un meeting di giovani imprenditori di Unicredit. Nell’articolo si sottolineava che la villa è stata ceduta per questo evento gratuitamente, fatto reso possibile perché l’affitto a privati del patrimonio storico e artistico in Italia è completamente senza regole e, il più delle volte, le tariffe sono molto basse per luoghi considerati tra i più belli e famosi del mondo. Il giornalista poneva anche la domanda se sia giusto che, in occasioni del genere, musei e monumenti vengano chiusi al pubblico. La risposta è data dalla legge Ronchey del 1993 che permette di concedere beni culturali a richiedenti privati con il pagamento di un canone e con la garanzia della continuità della loro fruizione pubblica. Ma in Italia i detrattori della scelta di alcuni musei di affittare i propri ambienti sono molti. Temono un danno all’immagine di luoghi considerati sacri e il degrado portato da presenze esterne. Sull’argomento qualche tempo fa un giornalista scrisse “...affittare il museo al vip di turno per il suo esclusivo cafonal-party rigorosamente trash vuol dire lanciare il vergognosissimo messaggio che un qualunque facoltoso trimalcione possa fare ciò che vuole di un bene pubblico solo utilizzando il proprio denaro....”. In molte parti d’Europa la questione è già superata e grandi musei come il Deutsche Museum di Monaco o il British Museum di Londra affittano le loro sale per avere risorse economiche aggiuntive utili per arricchire le collezioni o per garantirsi una manutenzione costante. A Parigi quasi tutte le migliori istituzioni culturali possono essere richieste in affitto per feste, meeting e matrimoni da favola, naturalmente sottoponendosi a rigide regole organizzative e tariffe in certi casi molto elevate. Così un cockail sotto la Piramide del Louvre può costare 65.000 euro (affittare gli Uffizi per una cena di 100 persone costa 15.000
Monumenti europei
in affitto
theon, il Petit Palais, la Conciergerie o anche teatri storici come l’Opera Garnier dove è possibile anche prenotare (con anticipo di almeno un anno, dato le richieste) la formula spettacolo con cena durante l’intervallo. Nel sofisticatissimo museo Jacquemart-Andrè si può ricevere i propri ospiti tra preziosi arazzi, mobili Carpentier e quadri di Fragonard, David, Rembrandt e Van Dyck. La serata può essere completata con una visita con guida alle collezioni. Il museo riceve un centinaio di prenotazioni l’anno. Più restrittive le regole per la Saint Chapelle, forse la più bella chiesa di Parigi: si può affittare solo per un petit déjeuner per 25 persone. Le serate più divertenti sono però al Grèvin, il famoso museo delle cere, dove, circondati da improbabili stucchi e specchi deformanti ci si può trovare seduti a tavola tra Papa Francesco e Angelina Jolie.
euro) mentre offrire una cena nella Sala Delle Colonne o nella Galleria di Napoleone al Castello di Fontainebleau costa meno che farla nel Castello di Versailles dove però si può avere una serata anche
con fuochi d’artificio e musica. Il museo D’Orsay ospita cene di gala fino a 250 invitati e cockail fino a 1200 con una vasta scelta di spazi e servizi complementari. Si può affittare l’Arco di Trionfo, il Pan-
Claudio Cosma claudiocosma@hotmail.com
A un passo da... Fiesole
di
Il 19 ottobre si inaugurerà: “A un passo da ....” una serie di 3 mostre con 3 artisti, 6 opere in 2 luoghi diversi: Sensus Vetrina di Fiesole, pertinente al Ristorante Vinandro, in piazza Mino 33 e il Ristorante India in via Gramsci 43 a Fiesole. Il calendario sarà questo: 19 ottobre 22 novembre Vairo Mongatti, peintre-graveur; 23 novembre 13 dicembre Aldo Frangioni, pittore; 14 dicembre 29 dicembre Fred Charap, pittore Fiesole è la piccola città degli eventi di cui si parla e qui, nel quieto andirivieni di paese tutto è “a un passo da …”. Essere a un passo da qualcosa non designa solamente la possibilità imminente o simbolica di un evento bello o brutto che sia, vuoi governato dal caso vuoi dalla personale volontà, ma anche lo svolgersi cronologico di una azione. Nel nostro caso si assiste al loro coincidere attraverso il fare fisico degli spettatori che rendono prossimi i 2 lavori. La geografia dei 2 luoghi prescelti per l’esibizione li rende vicini tra loro, a un passo appunto, tuttavia mentre si percorrerà la distanza che come un filo li unisce, si colmerà la differenza che separa il reale dall’immaginario e dal simbolico,
essi stessi luoghi culturali pertinenti contemporaneamente alla vita quotidiana e a quella intellettuale dell’uomo, comunque indivisibili. Il ricompattare queste componenti è compito dei 2 lavori di Vairo Mongatti che attraverso la scelta di tempi creativi differenti interni alla stessa opera restituiscono la genesi di un dipinto e del suo specifico modo di lavorare. Infatti nella Vetrina saranno ricomposti gli elementi reali che compaiono nella natura morta esposta da India. Inoltre nella vetrina compare un bozzetto dello stesso dipinto, a suggerire e sottolineare il modo di lavorare “dal vero” dell’artista. Questa operazione rimanda al tempo, al suo trascorrere che immaginosamente si compie per lo spettatore della Vetrina, nel suo osservarla e
nel successivo percorrere l’ormai famoso passo per trovare da India l’opera conclusa. Altro elemento di tutta la piccola messa in scena, che sarà comune alla collocazione delle opere dei 3 artisti da India è quello di non contrastare la difficoltà oggettiva data dalla forte caratterizzazione del ristorante in termini vernacolari etnico-popolari indiani che renderebbero impossibile la convivenza con una esposizione contemporanea. Il quadro del Mongatti, assecondando la sua natura di pittura oramai classica dove si possono scorgere velati rimandi alla tradizione macchiaiola e un gusto morandiano nella disposizione degli oggetti, sarà disposto senza enfasi, senza la volontà di distinguersi dal resto, mimetizzato e quindi da cercare, quasi. La contemporaneità dell’operazione risiede non nella scelta dei lavori, ma degli artisti, nello spirito di amicizia che lega loro a me e a cascata ai luoghi prescelti, frutto anche essi di amicizia con Edoardo Castorina, proprietario di India e della Vetrina, che io attraverso la Fondazione Sensus gestisco oramai da 3 anni come una vera piccolissima galleria.
17 ottobre 2015 pag. 13 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di
M
i dà piacere conoscere luoghi di cui ignoro l’esistenza e scoprirne usi e umane abitudini, anche se permango nel mio, quasi volontario, disorientamento geografico. Corn Island di George Ovashvili, è un film spoglio, dalla bellezza fotografica, si svolge in un unico luogo, consta di circa 57 parole di dialogo (sottotitolate), vi scorre, in apparenza placido, un grande fiume e, lentissimo, il tempo, quello immoto dell’eternità e dell’infinito, non succede quasi nulla. Una qual misteriosa tensione conquista la nostra anima. Didascalie iniziali spiegano che con il disgelo nel fiume Inguri, confine fra Abkhazia e Georgia, si formano delle mini isole fertili in cui dei contadini vanno a seminare del granturco che li aiuterà a svernare ...se la natura li aiuta. Un vecchio su una barchetta approda a una lingua di terra, la tocca, la fiuta, la assaggia, la segna con un palo cui lega un “cencio” bianco. In diversi viaggi scarica assi, pali, una cassetta degli attrezzi in cui riposano grossi chiodi storti e arrugginiti: il necessario per costruire una baracca ed infine una acerba ragazzina che tiene una bambola di pezza, la sua nipote orfana che lo aiuta in tutto. E’ vecchio, si stanca facilmente, per riposarsi si sdraia sulla terra umida, butta in acqua una specie di grande “nassa” di giunghi intrecciati, da essa, a sera,fuoriescono radi pesciotti, un paio li abbrustoliscono per cena, altri li salano e li mettono a seccare...per un domani meno prodigo. Il fiume separa due terre che si guardano in cagnesco, passano barche a motore con soldati armati fino ai denti, guardano con occhi pieni di cupidigia la ragazzetta. Cercano “un cane” un nemico, ferito. Il nonno lo trova, lo cura, compra anche un pollo per fargli il brodo. La presenza del giovane sveglia la vitale giocosità della nipote che spaventa il vecchio più dei soldati. Ben zappettato e irrorato cresce il granturco, arriva il momento di raccogliere le pannocchie grassocce. Non è il primo, ma arriva un temporale, vento, nuvole gravide di pioggia spaventosa che non smette, nonno e nipote cercano di raccogliere le pannocchie e caricarle sulla barca...il fiume ingrossa, ingrossa ...Tardi la barca va, piena di un po’ di pannocchie salvate, il nonno però non riesce a
L’isola del grano
salirci, ammesso che serva a qualcosa essere su una barchetta in una tal furia degli elementi. Isola, baracca e nonno vengono annientati. Il film finisce con l’arrivo di un altro disgelo, un’altra barca,un altro uomo, saggiando la terra trova la bambola di pezza della nostra ragazzina,il nonno aveva trovato un bocchino, tutto ricomincia... Che vite....la tensione che si crea deriva dal seguire la caparbia volontà e l’animo positivo con cui il vecchio, stanco e affettuoso nel silenzio dell’esclusivo prendersi cura, costruisce la baracca, dissoda la terra, cerca di proteggere la coltura dal fiume che erode ed invade con fragili steccati
Michele Rescio mikirolla@gmail.com di
ngredienti per 4 persone: 150 g formaggio robiola 1 cipolla un paio di manciate di ciliegie 2 cucchiai di aceto balsamico burro parmigiano un cucchiaino di zucchero 4 tazzine di riso carnaroli brodo vegetale una manciata di Timo petali di Geranio Odoroso In una pentola preparate un piccolo soffitto con la cipolla, quindi aggiungete e tostate il riso. Unite un mestolo alla volta di brodo vegetale e mescolate lentamente. A metà cottura unite la robiola e mantecate bene. A fine cottura unite un po’ di parmigiano. Nel frattempo in un pentolino antiaderente fate sciogliere una noce di burro,
di sterpi sotto il costante senso di minaccia che esala da quel mondo desolato, silenzioso, verde, bagnato e precario. Mi sorprende vedere come soddisfatto si sdraia e si riposa, come prepara il fuoco per la cena. Prega di essere vivo per il diploma della nipote. Saggio, sereno, nasconde un ferito ed offre il vino a chi lo insegue. Si lavano, si siedono e si sdraiano in terra, entrano ed escono da un’acqua che può essere solo gelida, non hanno riparo adeguato dalla pioggia né cibo che ci sembri buono. Il freddo e l’umido di quel luogo ci entrano nelle ossa. Ai Gigli code notturne infinite per il nuovo Iphone! E’ fra i dieci film stranieri candidati all’Oscar. Gli americani mai premieranno un film dove si vive come si può, con il poco che si ha e si resta giusti.
Risotto alla robiola e ciliege al balsamico
versate l’aceto balsamico e poi le ciliegie tagliate a metà e private del torsolo. Unite un po’ di foglie di Timo. Lasciate cuocere finché la frutta sarà ben caramellata. Impiattate, adagiando sopra il riso, una cucchiaiata di ciliegie e guarnite con i petali di
Geranio Odoroso. Risultato? Un risotto squisito che miscela con armonia il gusto leggermente acidulo della robiola con l’agrodolce delle ciliegie, il sentore balsamico del timo e il delicato profumo dei fiori.
17 ottobre 2015 pag. 14 Gianni Biagi g.biagi@libero.it
mq) Ora chi avesse voglia di vedere quel modello deve muoversi fra la galleria degli Uffizi dove i 4 pannelli, che rappresentano
alcune della parti centrali della città, sono esposti in una sala attigua al book shop, sotto una teca polverosa, dai tempi della mostra su Leon Battista Alberti, e la sede della Banca Cassa di Risparmio a Novoli dove, in attesa di tempi migliori, i pannelli restanti sono appesi, isolati l’uno dall’altro, nella grande Hall di ingresso della Banca. Si è perso in questo modo l’unitarietà dell’opera, si è perso anche uno strumento di lettura e di governo delle trasformazioni della città, molto utile in questa fase di ripresa delle discussioni e , si spera, anche di realizzazioni. Un modello che si presenta quindi colpevolmente incompiuto per la incapacità di trovare un’ idonea collocazione ad un’opera di pregevole fattura, in attesa che il luogo previsto per la sua finale collocazione, e cioè l’ex centrale termica di Novoli appositamente recuperata per l’Urban Center della città, sia disponibile.
dienti e le ricette (agitato non mescolato, what else?). Lungo un percorso che “liquido” e “spirit(u)oso” che si snoda dalla Belle époque ai giorni nostri, è apparecchiata come in un “cocktail lounge” una teoria di réclames, affiches, locandine, manifesti, menu, calendari, grafiche pubblicitarie, insegne metalliche e ceramicate, e anche oggetti di arredamento – come un tavolino e due sedie di Adolf Loos (quello per cui «l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso») una per il Cafè Museum e una per il Cafè Capua di Vienna – senza dimenticare l’oggettistica legata al momento dell’aperitivo: bicchieri griffati, sotto-bicchieri e porta-ghiaccio, bottiglie per il seltz di ricercatissima linea di stile. A Chiasso d’altronde, per obbligo di legge federale, si istallarono a fine Ottocento le sedi della Branca, della Campari, della Carpano, della Cinzano, della Cy-
nar, della Martini, della Zucca, accanto alle ticinesi Franzini e alle Gazzose Galli, Ferrario, Codoni, Peri, Noè, Gildo: la Svizzera si riempì di réclame pensate ad hoc che diffusero quell’arte pubblicitaria in pieno sviluppo, creata da artisti italiani ed europei di grande talento. Qualche esempio? I manifesti di Marcello Dudovich che spesso non mostrano il prodotto ma il contesto sociale, raffinato ed elitario, in cui dovrebbe essere consumato; le figure prorompenti e colorate che si stagliano sugli sfondi neri di Leonetto Cappiello; lo stile floreale e bohémien del tedesco Adolf Hohenstein; l’orso bianco di Franz Laskoff ritratto a zampone all’aria, attaccato alla bottiglia di Campari; il tonic-contratto o il cora-cora “a spirale” di Mario Gros; le figure falstaffiane di Luciano Achille Mauzan; le escursioni alcooliche di Leopoldo Meltlicovitz (dopo Cabiria ci stava bene un tonico!); la dinamicità e la maestosità della aquile e delle figure di Plinio Codognato; le visioni dall’alto e le prospettive oblique di Marcello Nizzoli (suo il design della leggendaria lettera 22 della Olivetti). Alla salute!
di
L
a completezza dell’incompiuto è una delle caratteristiche della città di Firenze. Quasi tutti i suoi monumenti ( a partire dalla Cupola del Duomo), le sue opere infrastrutturali, i suoi progetti hanno parti non finite, non realizzate o interrotte nella loro realizzazione. Non poteva essere da meno il modello di Firenze in legno in scala 1:1000 che la Banca Cassa di Risparmio fece realizzare dallo studio Aleph dal 2005 al 2008, con un lavoro complesso, in cui furono unite le capacità artigianali di lavorare diversi tipo di legno, con le più moderne tecnologie per il disegno computerizzato. Quel modello, non ancora completo, fu esposto per un mese alla città nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio nell’ottobre del 2008 e da allora nessuno lo ha più visto.Un modello che colmava un vuoto della città di Firenze (tutte le più importanti
di Joël
Vaucher-de-la-Croix joel.vaucher@sunrise.ch
“Preghiera liquida: Irmaaa / BITTER CAMPARI / dei miei sensi, dammi un / CORDIAL ... di baci”… quando l’acceso cromatismo e il senso della dinamicità dei versi di Giovanni Gerbino – poesia pubblicitaria futurista – accompagnano la grafica di Fortunato Depero il manifesto-réclame per la «polibibita» Campari, diviene incredibile e ingurgitabile “Arte-da-bere”. I è il titolo dell’originale mostra in corso fino a gennaio 2016 al M.A.X. MUSEO di Chiasso (http:// www.centroculturalechiasso. ch/m-a-x-museo/) per cura di Gabriella Belli, Giovanni Renzi e Nicoletta Ossanna Cavadini. Nell’era della generazione dell’happy hour a 8 euro buffet compreso, dell’apéri-cena, dell’apéri-compleanno, delle apéri-coccole con bollicine e dello spritzzzzzz triveneto – macchiato o in purezza? / aperol o campari? / rosso, bianco o biondo che fa impazzire il mondo? – la mostra chiassese ripercorre la storia del rito anteprandiale attraverso l’arte che ne ha propagandato e immortalato gli usi, i costumi (di scena e di moda), gli ingre-
Il modello scomparso città europee ne hanno uno) e che ha dimensioni importanti (16 pannelli di 1,2metri per 2,4 metri per complessivi oltre 46
L’aperitivo in grafica
17 ottobre 2015 pag. 15
Scottex
Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella
Questi sono alcuni dei tanti titoli che potremmo dare a questo misterioso animale dei mari profondi, opera 38 di Paolo della Bella . 1 - Il pesce che Jacques-Yves Cousteau era solito attaccare alla schiena dei suoi sommozzatori il primo di aprile. 2 - Il pesce preso durante un lungo sonno, ma poi svanito al suo risveglio, da parte di un paziente di Sigismund Schlomo Freud, in modo da permettere, al padre della psicanalisi moderna, di asserire che: “Chi dorme non piglia i pesci”. 3 - Kun il mostruoso pesce gigante della mitologia cinese realizzato in finissima carta detta China-scott.
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Scultura leggera ll Festival dei Popoli - festival internazionale del film documentario – approda alla 56esima edizione dal 27 novembre al 4 dicembre al cinema Odeon, Spazio Alfieri e Istituto Francese di Firenze. E’ il più importante appuntamento con il cinema documentario internazionale: la produzione più recente, gli omaggi, le retrospettive, gli incontri con cineasti di tutto il mondo. Il programma dell’edizione 2015 prevede il Concorso Internazionale, film documentari inediti in Italia; Panorama, concorso dedicato alle produzioni italiane; Eventi Speciali, con titoli ad alto contenuto spettacolare. La sezione “I Mestieri del Cinema” si concentrerà su uno dei più rappresentativi cineasti europei, il polacco Wojciech Staron, con una selezione di film da lui diretti o di cui ha firmato la fotografia. La sezione retrospettiva Filmmaker in Focus sarà dedicata a Mary Jimenez, peruviana che vive in Belgio, autrice di una filmografia ricca di riflessioni autobiografiche e di una splendida galleria di ritratti di uomini e donne che ci testimoniano esistenze tanto travagliate quanto traboccanti di umanità: un cinema dell’incontro e dell’ascolto. Il programma sarà inoltre
Torna il Festival dei Popoli
caratterizzato da un approfondimento su un tema di grande importanza: l’immigrazione verso l’Europa. Oltre alla presentazione di film di recentissima produzione l’evento si propone di sviluppare la riflessione su “metodi e forme di rappresentazione delle migrazioni contemporanee”: ponendo interrogativi, mettendo a confronto vari metodi di lavoro, coinvolgendo cineasti che hanno dato voce agli invisibili e sono riusciti a far
emergere le individualità attraverso lo strumento cinematografico. Il focus sull’immigrazione si pone in sintonia e in dialogo il tema proposto dalla 50 giorni di cinema 2015. Doc at Work, il mercato per la coproduzione internazionale di documentari, ospiterà lezioni e workshop tenuti da professionisti europei. Evento realizzato grazie al supporto di Fondazione Sistema Toscana.
Risveglio
L’opera Risveglio, ideata dai tre giovani artisti albanesi Arbër Elezi, Dhimitraq Kote e Albien Alushaj, che compongono il collettivo Ofiçina Shqiptare, è un eterno rincorrere qualcosa che, una volta raggiunto, non è più ciò che stavamo aspettando. Un’esperienza visiva e sonora che il pubblico fruisce al centro della scena, animata anche dalla presenza di sette figuranti. Ciò che è realmente accaduto in questi ultimi tempi in Albania, insieme a un gioco immaginario e astratto verso qualcosa di indefinito, le voci dei personaggi mancanti, il percorrere i luoghi contaminati dai residui di tanti conflitti civili, danno vita alla performance la cui lingua prevalente è l’albanese. Ingresso libero 17 ottobre - ore 21.00 Teatro Studio Mila Pieralli Scandicci
lectura
dantis
17 ottobre 2015 pag. 16
Cosa ci fate qui senza ritegno? Urlò contra di noi l’infam Plutetta Buoni voi siete sol pe’ i tirassegno.
Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni Più che un diavol pareva una burletta. Razzisti ce l’avete coi piccini ! Chetati! Disse il Vate in tutta fretta
che sei galletto solo co’ pulcini ma anche con lor più non conti nulla stanno a sentirti solo i più cretini. Torna a dormire dentro la tu’ culla, che dobbiam veloci andare avanti il tuo vociare certo non c’annulla.
Canto VII
Dante e Virgilio incontrano il demonio Pluto (da alcuni chiamato Plutetta)
in
giro
17 ottobre 2015 pag. 17
L immagine ultima
17 ottobre 2015 pag. 18
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com
C
i stiamo avvicinando alla zona di Harlem e si cominciano già a vedere alcuni segni evidenti del degrado. Gli edifici sono ancora abbastanza dignitosi ma la sporcizia delle strade comincia a farsi notare. L’auto abbandonata per strada annuncia quello che ci si deve aspettare se si decide di proseguire nella camminata. Siamo all’inizio della zona dei “Projects”, l’edilizia abitativa di tipo popolare, come quell’edificio che si vede sul lato destro dell’immagine. All’inizio gli edifici erano abbastanza ben conservati. Poi, man mano che si procedeva verso l’interno il degrado si faceva sempre più evidente. Era un sabato pomeriggio e la la luce era quella tipica e grigia dello smog estivo che rendeva tutto abbastanza omogeneo e deprimente. Camminando assieme ad amici del luogo ci siamo presto ritrovati di fronte a questo spettacolo teatrale di strada. Neri e portoricani eranno affollati in questa piccola piazza dove si tieneva uno spettacolo di teatro popolare con un improbabile Richard Nixon “nero” che arringava la folla spiegando i motivi della sua politica nazionale ed internazionale del momento!
NY City, agosto 1969