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Con la cultura non si mangia
Da non saltare di
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Tomaso Montanari
Pubblichiamo l’intervento di Tomaso Montanari a Novo Modo, Firenze, 23 ottobre 2015.
C
osa c’è di male nell’affittare Ponte Vecchio a un club di milionari per farci una festa privata e che lo chiuda per una serata lasciando fuori i cittadini? Non è un esempio astratto, ma qualcosa che è avvenuto in questa città qualche tempo fa, quando era sindaco di Firenze, l’attuale Presidente del Consiglio. E’ giusto? In quale orizzonte morale lo collochiamo? C’è qualcosa di male? E, se sì, perché? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo porcene un’altra più larga: a che cosa serve il patrimonio artistico? È una domanda che gli storici dell’arte tendono a non porsi; lo danno per scontato. Può essere utile, per rispondere, chiedersi se qualcuno prima di noi si è posto questa stessa domanda, e come ha risposto. Per cercare nella storia il momento giusto, forse possiamo cercare un momento in cui le cose andavano peggio di come vadano oggi. Un momento in cui in Italia sembrava si fosse toccato il fondo: vorrei partire da un anno difficilissimo, e però già un anno di ricostruzione, il 1944. In quell’anno a Firenze finisce la guerra, ma c’è un’Italia ancora da liberare dai nazisti e dai fascisti, eppure si comincia a pensare a come sarà l’Italia nuova, e non solo l’Italia ma tutta l’Europa, che esce dall’esperienza forse più terribile della sua storia. In questo momento alcune persone si fanno queste domande, apparentemente banali o senza risposta: a che cosa servono le cose fondamentali con cui abbiamo a che fare? A cosa serve studiare la storia? Perché paghiamo delle persone per insegnare la storia? Se lo chiede nel 1944 il grande storico Marc Bloch, un ebreo francese, che è stato anche uno dei primi storici del paesaggio. Marc Bloch aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, aveva studiato cosa succede alla conoscenza durante la guerra, scrivendo un bellissimo libro sulle false notizie nella guerra; partecipa alla Resistenza, prende le armi per difendere la libertà;
La fiamma del peccato
è senza libri e si mette a scrivere un libro che comincia così: “Babbo, spiegami a cosa serve la storia?. È una domanda – dice – che mi ha fatto un bambino di 12 anni che mi è molto caro”. Era suo figlio a chiederglielo. Lui dice che in effetti questa domanda non ce la poniamo mai, ma adesso, durante la guerra, senza libri per le mani, messo di fronte alle cose ultime, io sento il dovere di pormi la questione della legittimità della storia. E risponde così: “La conoscenza della storia serve a costruire una democrazia, attraverso la formazione di cittadini liberi e consapevoli. Nella nostra età, avvelenata dalle tossine della propaganda e della menzogna, è una vergogna che a storia non si studi il metodo critico della storia”. Si dice sempre che il passato serve a capire il presente; è vero, ma Bloch dice “nessuno che non abbia una forte aderenza al presente e il desiderio di cambiare il futuro, può capire la storia. Se tu non sei interessato al presente, non sei uno storico, sei un erudito. La storia non è la scienza del passato, è la conoscenza degli uomini nel tempo”. Passato, presente, futuro. Negli stessi mesi in Italia, il più grande storico dell’arte Roberto Longhi, di fronte alle rovine di Genova distrutta dai bombardamenti, scrive una bellissima lettera al suo allievo, Giuliano Briganti (a suo volta grande
storico dell’arte, e autore di un’importante storia dell’arte per le scuole). Scrive Longhi: “E’ colpa nostra se l’Italia è stata distrutta dai bombardamenti. Avremmo dovuto dire di più quali erano i valori da proteggere”. Firenze era stata dichiarata città aperta, Roma anche perché erano città d’arte e, dunque, qualcosa si era salvato: di Genova nessuno si era interessato perché non era avvertita come una città d’arte. Longhi dice: “Dobbiamo cambiare nel futuro. Dobbiamo fare in modo che ogni italiano impari, fin da bambino, la storia dell’arte come una lingua viva. Non per essere colto o erudito, ma per avere coscienza intera della propria nazione”. Perché dice così? Perché in Italia non siamo mai stati una nazione per via di sangue. Se ci facciamo le analisi del sangue storico, siamo una nazione felicemente meticcia. Non c’è un’italianità pura: ci siamo messi insieme nella storia soprattutto attraverso la cultura. Nessun’altra nazione europea è nazione, come noi, attraverso la conoscenza, la storia, l’arte, la cultura. Potremmo dire che tutti siamo italiani per iure soli, per il diritto del suolo, per questa appartenenza biunivoca degli italiani al paesaggio e al patrimonio e del paesaggio e del patrimonio agli italiani. Il primo che ha usato questa espressione, “appartenenza biunivoca”, è
stato il costituzionalista Paolo Maddalena (che è stato vice presidente della Corte Costituzionale) che dice “noi pensiamo che tutto questo patrimonio ci appartenga, ma noi apparteniamo a questa tradizione, a questo territorio, a questa storia”. In un paese in cui, fino all’avvento della televisione, un veneziano e un siciliano parlavano due lingue diverse, eppure qualcosa ci univa. Negli stessi mesi del 1944, Piero Calamadrei, uno studioso di diritto ma che scrive una lettera al figlio dicendo che se avesse potuto scegliere avrebbe fatto lo storico dell’arte o l’archeologo quindi era anche lui legato a questi beni comuni, era rettore dell’Università di Firenze. Lui chiede agli americani di poter riaprire subito l’Università, nonostante le macerie e i ponti saltati. “Questo paese si rimette in piedi studiando”. Riapre l’Università e pronuncia un discorso dal titolo “L’Italia ha ancora qualcosa da dire”. In questo discorso parla molto di paesaggio e di opere d’arte. C’è un passo in cui dice “io non so se la Madonna del Parto, che mi è carissima più di una persona viva, si sia salvata o meno”. Il Comitato di Liberazione di Monterchi gli scriverà una bella lettera per dirgli che sì, la Madonna del Parto è viva. Calamandrei, in questo discorso, racconta che lui e un gruppo di amici (i fratelli Rosselli, Galante Garrone e altri) il sabato lasciavano Firenze perché c’erano le parate del “Sabato Fascista”, sfuggivano “a questa città corrotta per cercare nel paesaggio”, dice Calamandrei con parole che sembrano del Risorgimento, “il vero volto della patria”. Parole che ci sembrano lontane, retoriche: il volto della patria nel paesaggio, nelle colline toscane? Calamandrei era uno che nel 1941, per parlare di politica e di libertà in un momento in cui il Fascismo lo proibiva, scrive un libro che ci sembra assurdo: “L’inventario della casa di campagna”. E’ un libro che stampa per pochi amici, 150 persone, e racconta che cosa è la libertà e che cosa è la giustizia attraverso la sua esperienza del paesaggio. Per
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esempio racconta che, quando lui era bambino e andava a cercare funghi nel bosco, quando non li trovava perché qualcuno ci era già passato prima, non ci rimaneva male, ma diceva che non poteva capire come chi andava per il bosco non pensasse a chi deve venire dopo. Ecco il nostro rapporto con l’ambiente e con i beni comuni: che cosa siamo noi? Padroni? Il governo Renzi, nelle pubblicità in televisione per promuovere la legge cosiddetta “Sblocca Italia,” ha usato il motto “Padroni in casa propria”. Qualcun altro, Papa Francesco, ha detto “siamo custodi del Creato”. Sono due modi diversi di guardare ai beni comuni: padroni o custodi? I nativi americani dicono “non abbiamo ereditato la terra dai nostri nonni, l’abbiamo in prestito dai nostri nipoti”. In quegli anni intorno al ‘44 si riflette moltissimo su quale rapporto c’è fra la libertà e la giustizia e cose come l’arte, la storia, la natura e il paesaggio. Il risultato di tutto questo in Italia è che noi, unico paese al mondo, abbiamo messo fra i principi fondamentali dell’Italia da ricostruire, i primi 12 articoli della Costituzione, il paesaggio e l’arte. All’articolo 9, che dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. Ecco che salta fuori questa parola, “nazione”, che dopo il Fascismo non si poteva quasi pronunciare e la si mette accanto al paesaggio e l’arte: siamo italiani perché abbiamo un rapporto speciale con l’arte e il paesaggio. E non è un rapporto chiuso: se siamo tutti italiani iure soli , siamo aperti agli italiani che arrivano con i barconi sulle nostre coste; è un’identità che non è come le radici di un albero che ci tiene fermi a terra, è come l’acqua di un fiume che scorre e raccoglie tutte le acque degli affluenti e però andiamo tutti in una stessa direzione. Questa è l’idea di tradizione, che non è legata al passato, bensì al futuro. Il più antico vincolo italiano che si conosca è del 1162: si proibisce di distruggere la colonna Traiana, che era in quel momento
Pubblichiamo l’intervento di Tomaso Montanari a NovoModo
il campanile di una chiesa femminile benedettina. Il Senato di Roma dice che nessuno la può distruggere perché “deve durare finché il mondo duri per l’onore pubblico della città di Roma”. Non perché è bella, ma perché ha a che fare con la città, cioè con la Politica. Il patrimonio culturale è un progetto per il futuro: non proteggiamo queste cose perché hanno a che fare con il passato, ma perché hanno a che fare con il futuro. In Italia il patrimonio culturale non è la somma delle cose belle dei ricchi, non è nemmeno la somma dei musei; è lo spazio pubblico, perché le piazze, i palazzi civici, le strade in Italia sono belle, ma il loro valore ultimo non è quello estetico; quelle cose sono belle perché erano di tutti, erano i luoghi della comunità, erano lo spazio e i beni comuni. Allora difendere il patrimonio culturale oggi non vuol dire difendere il privilegio di chi ha più soldi; vuol dire difendere la nostra possibilità di avere uno spazio comune. Uno scrittore americano, Jonathan Franzen, ha scritto recentemente che i musei americani sono visitati da tanti cittadini americani, anche dei più poveri, perché sono uno dei pochi luoghi dove non si può esibire un consumismo sfacciato. Dentro
un museo si è tutti uguali. Ora, quello che vale per un museo americano, per noi vale non solo nei musei, ma nello spazio pubblico delle nostre piazze, dei nostri ponti. Se io affitto Ponte Vecchio alla Ferrari, non faccio male alle sue pietre che non sentono male e che possono attendere tempi più civili e più giusti; faccio male a noi, faccio male a quel progetto della Costituzione. Perché l’articolo 9 non è da solo, ma sta fra i primi 12 principi fondamentali e lo capisco se, per esempio, capisco il primo, la sovranità appartiene al popolo. Per tanto tempo il patrimonio culturale italiano ha legittimato la sovranità dei papi, dei granduchi a Firenze, dei duchi di Mantova, degli Estensi, delle grandi famiglie nobili. Dopo la Costituzione la storia si ribalta: il patrimonio culturale legittima, manifesta, rappresenta la sovranità del nuovo sovrano: voi, noi, ciascuno di noi. Anche chi non ha la casa o neppure un euro è un sovrano, e nei simboli e nella sostanza della sua sovranità ci sono gli Uffizi, c’è il Colosseo. Tutto questo è vero se noi non lo sottomettiamo ad altre leggi che non sono quelle della Costituzione. Nella costituzione c’è anche l’articolo 3, il più bello forse, il più alto. Guardiamo come è stata scritta la Costituzione: le stesse persone che hanno scritto l’articolo 3 hanno scritto anche il 9. Calamandrei, Lelio Basso, Aldo Moro, Concetto Marchesi, Giorgio La Pira: persone che hanno scritto per intero la Costituzione. Nell’articolo 3 c’è scritto che la ragione sociale della Repubblica Italiana è il pieno sviluppo della persona umana, attraverso l’uguaglianza. Questo è il fine, il motivo per cui stiamo insieme. L’uguaglianza sostanziale, di fatto.
E poche cose come il patrimonio artistico, il paesaggio, sono strumenti per costruire l’uguaglianza: di fronte a questi siamo davvero tutti uguali. Nello spazio pubblico non siamo sudditi, non siamo fedeli e soprattutto oggi non siamo clienti o destinatari di un messaggio pubblicitario, di un marketing o di uno storytelling. Siamo cittadini sovrani. C’è una condizione per esercitare davvero questa sovranità, ed è la conoscenza. Per questo l’articolo 9 è composto di due commi: la ricerca scientifica e tecnica e lo sviluppo della cultura stanno insieme al paesaggio e il patrimonio. Perché il patrimonio culturale è un grande luogo di costruzione e redistribuzione della conoscenza. Se noi vogliamo entrare da sovrani e non da sudditi nello spazio pubblico e, dunque, nella democrazia, ecco la politica. Che viene da polis, città e questo in Italia significa un grande rapporto diretto con le città di pietra, materiali, storiche. Se io voglio essere cittadino sovrano ho bisogno che il patrimonio culturale continui a produrre conoscenza e a redistribuirla. Finché è questo, è un luogo dove si costruisce l’uguaglianza. Se invece lo assoggetto alle regole del mercato, produrrò non cittadini ma clienti. E noi abbiamo bisogno di cittadini se vogliamo una democrazia viva; se pensiamo che in Italia il fatto che voti meno del 50% dei cittadini sia un problema, allora fare del patrimonio culturale pubblico una macchina per far soldi e metterlo al servizio del mercato è sbagliato. Siamo nell’auditorium di Sant’Apollonia. La santa era la protettrice dei dentisti; fu condannata a morte e bruciata. Nel soffitto c’è scritto in due cartigli: “con il ferro non si distrugge, non si strappa la virtù” e “le fiamme non domano le fiamme”. Si intendeva dire che anche dando fuoco a Sant’Apollonia non si sarebbero domate le fiamme della sua fede. La domanda è: le fiamme della democrazia, della virtù civile, dell’uguaglianza, del pieno sviluppo della persona umana, saranno domate dalle fiamme del mercato e del denaro? La risposta dipende da noi.
riunione
di famiglia
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Le Sorelle Marx
Il monsignore del Kremlino
“Mai contraddire il premier-segretario”. Come si sa, questo è il nuovo mantra che risuona da Predoi nella Valle Aurina a Lampedusa e i presidenti delle Regioni, che da sud a nord tutto lo Stivale rappresentano, quando hanno letto le agenzie con la frase dal sen fuggita di Renzi - “Adesso ci divertiamo, ma sul serio” - non hanno messo tempo in mezzo e all’incontro convocato da Renzi per discutere con loro della Legge di Stabilità 2016, si sono acconciati per soddisfare al massimo il premier. Ecco, dunque, Chiamparino – coordinatore delle Regioni – che, diciamolo, proprio un simpaticone non è, bussare alla porta e affacciarsi timidamente indossando un naso finto rosso, occhiali e baffi finti come il nostro nonno Groucho, trombetta in bocca e coriandoli, che fa Cucù. Segue Maroni che da buon chansonnier improvvisa “Ho visto un re” di Fo-Iannacci (pare che però Renzi ci abbia visto della sottile ironia nei
Il Papa è preoccupato. Vorrei vedere, direte voi, con gli arresti, il marcio nella curia e tutti gli scandali romani…Niente di tutto questo in realtà. Il Santo Padre è infatti preoccupato per l’imminente visita pastorale a Firenze. Alcuni segnali arrivati da Palazzo Vecchio infatti non tranquillizzano Francesco. Intanto il sindaco Nardella gli ha mandato un sms con scritto “a causa dei cantieri della tramvia non usare la papamobile” e poi un certo Pradé ha detto che anche se gioca in casa al Franchi non può mettere la veste viola perché per esigenze di sponsor deve indossare la terza maglia blu. Ma più di tutto al Papa venuto dalla fine del mondo preoccupa l’insistenza di un tale Giani, che gli chiede lumi sugli orari degli spostamenti papali per coordinare le sue 1.500 inaugurazioni quotidiane e lo invita a chiudere la messa invece col canonico “andate in pace la messa è finita” col più efficace “lodevole iniziativa”
Comicità regionale
I Cugini Engels
La Chiesa e la Regione
Il conforto spirituale sul luogo di lavoro può avere una sua utilità, discutibile certo, ma non così incomprensibile. Certo in uno stato laico sarebbe opportuno che, se all’interno di uno spazio pubblico, si decide di creare uno spazio adibito a tale conforto, questo fosse disponibile a tutte le confessioni. Capiamo che questo spesso non sia sempre possibile e possiamo perfino comprendere, pur ritenendolo sbagliato, che si possa adibire tale spazio alla confessione maggioritaria. Se però tale spazio viene approntato, sotto forma di cappella, all’interno della Regione Lazio e tale cappella, per il suo funzionamento costa ai contribuenti, mussulmani e buddisti inclusi, 200.000 euro all’anno ecco qualche problemino si pone. Problema che si è posto anche il presidente Zingaretti che infatti ha annullato la contribuzione e, immaginiamo, chiuso la cappella. Immaginiamo anche però che lo sconforto per i dipendenti della Regione Lazio sia durato poco
suoi confronti e non abbia gradito). A ruota Vincenzo De Luca vestito da Pulcinella che fa “uè ué”. Rossi, invece, si era preparato una serie di barzellette, ma Renzi non le ha volute neppure sentire, pare perché pisane. Mentre il premier ha gradito molto quelle di Zingaretti, noto negli anni giovanili della Fgci per essere un cabarettista. La Serracchiani, invece, nonostante gli sforzi, non ha fatto ridere nessuno. Come Catiuscia Marini del resto, rigida nel suo stile bolscevico-todesco. Maggiore fortuna hanno avuto visto che, nelle immediate vicinanze degli uffici della regione trattandosi di Roma, ci sono ben 7 Chiese in cui trovare, fuori dall’orario di lavoro, il giusto conforto spirituale.
Bobo
il trio Pigliaru-Crocetta-Emiliano che si sono prodotti in una vorticosa danza - misto di pizzica pugliese, tarantella siciliana e ballu tundu sardo - a cui anche il premier ha inteso partecipare accennando ad alcuni passi del ballo tipico toscano, il trescone (ogni riferimento a persone e cose realmente esistite è assolutamente casuale). Insomma, anche in questi riti degli incontri con le parti sociali sul bilancio, l’amato leader ha cambiato verso e tutto è finito, letteralmente, a tarallucci e vino.
Lo Zio di Trotzky
Questione di influenza
I pensieri del Papa
Onoratissimo, si è detto il buon Ivan Scalfarotto per essere stato inserito dal prestigioso Economist fra le 50 persone più influenti nel mondo in tema di cultura della diversità, la Global Diversity List. Motivazioni cristalline: “Ha sostenuto i matrimoni tra persone dello stesso sesso, l’introduzione del permesso di paternità, il diritto dei transessuali al cambio di sesso”. Sì, ma nel Rwanda Burundi, non certo in Italia, dove di tutto ciò non risulta traccia. E, infatti, per dimostrare quanto fosse influente il Governo, per bocca della Santa Maria Elena Boschi, si è incaricato di far slittare per l’ennesima volta l’approvazione in Parlamento della legge sulle unioni civili. E sì che Renzi aveva promesso l’approvazione più volte, prima a primavera 2015 (ante elezioni regionali) e poi entro ottobre e prima della legge di stabilità perché “è un patto di civiltà al quale non rinunciano”. E, infatti, Renzi ha dato ordine di rimettere la legge in calendario (ma quello greco, delle calende). Con buona pace dell’influentissimo influenzato Scalfarotto.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 5 Aldo Frangioni e Michele Morrocchi aldofrangioni@live.it @michemorr di
Dopo l’intervento di Muccino sulla qualità del regista Pasolini, in redazione si è discusso. Questo il resoconto, stenografico si sarebbe detto una volta, di questo confronto a due voci. M. Insomma ci voleva Muccino per farci ragionare su Pasolini. A. Ma ti rendi conto Muccino. Muccino che giudica Pasolini. Comunque lasciamo stare il pulpitino e prendiamo in considerazione la predica. M. La cosa triste è che, formalmente, ha pure in parte ragione. Pasolini regista non è tecnicamente all’altezza con i nomi che Muccino cita (non tutti in effetti) ma quello che Muccino non capisce (forse non può capire) è che Pasolini regista è volutamente un passo indietro al narratore, all’autore. Arrivo a dire che se il libro fosse stato oggetto diffuso alle masse nell’Italia di Pasolini, egli non avrebbe sentito il bisogno di mettersi dietro una macchina da presa. È il bisogno di narrare, di educare (la cosa che personalmente amo meno di PPP, la più comunista) che muove tutta la produzione artistica pasoliniana. Ma la polemica non è nuova. Sergio Leone non fu mai tenero con Pasolini. Sia sul piano cinematografico che pure (ahimè) su quello politico non sottraendosi alle paginate che il Borghese dedicava al “capovolto” Pasolini, dove spiccava per infamia Pier Francesco Pingitore che avrebbe dato al Paese il bagaglino (vuoi mettere con Mamma Roma?). Insomma Muccino si inserisce in un contesto, magari involontariamente; anche se dimostra di non aver capito molto di Pasolini. Il che, visti i suoi film, non stupisce A. Le tue osservazioni sono interessanti e acute, ma quel “formalmente” di Muccino che “ha ragione” è fonte di un grande equivoco che in tutta la storia, soprattutto moderna dell’arte tende, in molti casi devianti per un giudizio completo, a separare forma e contenuto. Divisione inesistente in arte, spesso gli innovatori si sono staccati dalle consolidate capacità professionali per procedere quasi con apparente dilettantismo, almeno per i canoni consolidati del tempo. La produzione artistica, quale che
PPP
Dialogo sul cinema di Pasolini con occhi diversi (o come render serio un post a bischero)
sia la forma espressiva è, soprattutto in occidente, un mutare continuo e un diversificarsi fra gli artisti e soprattutto con il passare del tempo. Gli attori di Pasolini spesso “recitano” male, ci sono sequenze lunghe e primi piani eccessivi, spesso inespressivi, ma questo è il linguaggio pasoliniano che non ha fatto, e forse non poteva fare scuola. Pasolini è un profeta-poeta o meglio un poeta-profeta, spesso estremista e quindi utilizzabile e apprezzabile e solo in parte, accoglibile. Il suo slancio è pedagogico, ma i profeti (come gran parte dei pensatori idealisti) sono fatti così, basta non diventare discepoli acritici e fanatici e voler tradurre in azione reale la poesia. M. Non diciamo cose dissimili. Il mio formalmente era evidentemente una forzatura riferita al fatto che, soprattutto nel cinema, la tecnica non è un elemento che
si può trascurare fino alle estreme conseguenze. In particolare negli anni in cui Pasolini girava, fatti di analogico, pellicola e cartapesta. Pasolini sottodimensiona il lato tecnico a scapito di quello narrativo. La sua è scelta istintiva ma voluta. Il mezzo è funzionale all’espressione di un racconto, una lezione. Non solo artistica (che ci sta, comprendo e pure posso condividere), ma politica e qui invece probabilmente differiamo ché il comunista vuole educare il popolo mentre il liberale si accontenta di informarlo. Sul linguaggio pasoliniano concordo in pieno, l’assenza di valore tecnico (inteso come utilizzo alla perfezione del mezzo meccanico da cui il film dipende) è cifra, come tu giustamente noti, non replicabile. Però attenzione, Muccino che non difendo sia chiaro, non dice (lo ricordava Andrea Minuz che di critica
cinematografica vive su facebook) qualcosa di molto diverso da quanto disse Fellini dopo aver visto il girato di Accattone. Segno, se ci aggiungo quanto già detto su Leone, che un’insofferenza di chi ha inteso il mestiere di regista come combinazione (più o meno riuscita) di racconto e di tecnica, sul Pasolini regista è possibile e persino legittima. Certo dipende molto da chi la pronuncia. Pasolini è un regista che utilizza spesso le immagini della pittura italiana. Per decifrarlo a pieno suggerisco di vedere con attenzione La Ricotta. Nel 1963, egli crea dei tableuax vivants mettendo a confronto le Deposizione del Pontormo e quella del Rosso Fiorentino. Non a caso mette insieme le opere di due artisti che, seppure in maniera molto diversa, vanno oltre i canoni allora osannati di Michelangelo e Raffaello. Il Rosso, come Pasolini, rifiuta la “dolcezza” consolidata dei grandi maestri. Giuliano Briganti dice che la deposizione di Volterra è una “violentazione cubista”. Altri critici hanno visto nella sua opera un “non finito”. Il Rosso, si dice, era solito abbozzare le sue figure per poi addolcirle con pennellate successive. Il responsabile dello Spedale di S.Maria Nuova (forse un antico parente di Muccino) rifiutò una sua pala d’altare perché gli angeli gli “pareano diavoli”. Cosa direbbe il giovin regista di Mirò che nei suoi anni giovanili era frustrato perché “non sapeva disegnare”? In questi giorni ho rivisto Medea (1969) e Decameron (1971) non mi sono apparsi invecchiati, con il loro marchio pasoliniano. Quel marchio che non ammicca allo spettatore, anzi nel farci trapelare che i personaggi “recitano” che le tecniche non vogliono illuderci che assistiamo ad una cosa reale, ma rappresenta come le “sacre rappresentazioni” medievali, dove la Maria è la bella contadina che tutti conoscono. Pasolini può non piacere, sui gusti mai discutere, ma relegarlo fra i minori con la macchina da presa, questa sì è un’operazione che vuol “educare il popolo” su cosa è il “vero” cinema. M. Hai ragione. M’è venuta voglia di andare la cinema A. Mica a vedere Muccino vero? M. No, no tranquillo.
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Firenze si divide tra tra eclettico e moderno
Gianni Biagi g.biagi@libero.it di
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i sono giorni che restano nella storia delle città. Il 30 ottobre del 1935 (XIII EF) è uno di questi. A Firenze si inaugurano due grandi opere pubbliche. Nello stesso giorno a distanza di poche ore i cittadini di una Firenze, solitamente polemica, possono vedere il Re e Costanzo Ciano che entrano nel fabbricato viaggiatori della nuova stazione di Firenze e nella nuova Biblioteca Nazionale Centrale. Due opere che segnano, insieme allo stadio Berta (inaugurato circa tre anni prima), la “rinascita” della città dopo il fallimento dell’amministrazione nel secolo precedente e i periodi grami dei primi anni del nuovo secolo e del primo dopoguerra. Una “rinascita” fortemente voluta da Luca Pavolini, influente gerarca fiorentino e uomo di cultura raffinata, che vede nell’architettura lo strumento per l’affermazione di una nuova stagione di rilancio culturale della sua città, già peraltro avviato con la costituzione del Maggio Musicale Fiorentino nel 1933. La Biblioteca Centrale di Firenze (una delle due Biblioteche Centrali con diritto di stampa presenti in Italia, caso più unico che raro nel panorama internazionale) nasce dal progetto del 1911 di Cesare Bazzani e dopo alterne e lunghissime vicende vede il completamento dopo 24 anni di lavoro. A dire il vero il progetto è stato completato solo negli anni ‘60 con la costruzione del padiglione su via dei Magliabechi su progetto di Vincenzo Mazzei, un’ala del progetto del Bazzani rimasta incompiuta. La nuova stazione, o meglio il Fabbricato Viaggiatori della stazione di Firenze, nasce dal progetto del Gruppo Toscano con un concorso del 1932, concluso nello stesso anno e viene completato in poco più di due anni di lavori. Due architetture con storie, vicende e fortuna critica profondamente diverse. La nuova stazione di Firenze si affermerà come una delle icone del razionalismo europeo mentre la nuova biblioteca stenterà a farsi strada nella storia dell’architettura italiana. Potenza della critica e della evocazione del potere politico.
Ma in questi giorni di commemorazioni forse vale la pena di riprendere una discussione e anche riconsiderare alcune valutazioni. Lo hanno fatto in due distinte occasioni Claudia Conforti e Ulisse Tramonti nella scorsa settimana nei giorni “dell’80°compleanno”delle due opere, e lo ha ripreso la stessa Conforti in una lezione agli architetti fiorentini. Considerazioni e valutazioni che, pure confermando quanto la critica ha consolidato nel tempo riguardo al diverso giudizio sul valore delle due opere, ne consente una lettura più articolata. In primo luogo la considerazione che la stazione del Gruppo Toscano (costituito da Giovanni
Michelucci e dai giovani laureati Gamberini, Baroni, Berardi, Guarnieri e Lusanna) ha un’impronta razionalista che ha a poco a che vedere con il razionalismo europeo. Una stazione che recupera dalla tradizione classica, in particolar modo fiorentina, un linguaggio attraverso cui filtrare la contemporaneità. Il fabbricato viaggiatori della stazione di Firenze (gli altri edifici su via Alamanni e le pensiline dei binari sono di Angiolo Mazzoni) richiama più la compattezza volumetrica di Palazzo Pitti che l’articolazione spaziale del padiglione per l’Esposizione Universale di Barcellona di Mies van de Rohe, come ha affermato Claudia Conforti nel suo inter-
vento nella Palazzina Reale. La citazione classica dell’architrave a fasce con cornice modanata posta a coronamento del fabbricato viaggiatori non può essere letta che in questa luce. Anche i materiali denotano un’attenzione alla tradizione con un uso molto esteso ed articolato degli elementi lapidei che costituisono il vero materiale costruttivo della stazione, sia in alzato sia in pianta. Un linguaggio contemporaneo filtrato attraverso lo sguardo dalla classicità è quindi la risposta a quanto chiede nel 1932 Romano Romanelli quando, dalle pagine de La Nazione dice, in polemica con il progetto della stazione redatto da Angiolo Mazzoni: “Quindi se Firenze potesse, fra le città, avere l’onore e la distinzione di non avere una stazione ferroviaria grandiosa, pur essendo città vivente nel tempo presente rimarrebbe fedele alle sue più belle tradizioni e ancora una volta avrebbe affermato quella verità d’arte che nel cammino degli eventi umani eternamente si rinnova in saecula saeculorum”. La Biblioteca Nazionale è raccontata da Ulisse Tramonti, in un incontro tenuto alla Spazio A, come un edificio “monumentalista” del tardo periodo dell’eclettismo, con una organizzazione in pianta elegante e funzionale e un rapporto studiato con il cortile di Santa Croce, ma con una dimensione fuori scala rispetto alle architetture del contesto (a partire dalla Basilica Francescana) e con ambienti interni che denotano in alcuni dettagli (come le vetrate e anche alcune sale non di lettura) una certa (contraddittoria) attenzione al razionalismo che nel frattempo si era affermato nel campo architettonico. Queste contemporanee riletture degli edifici inaugurati il 30 ottobre 1935, ed in particolare quella sulla fabbrica della Biblioteca, più articolata rispetto alla drastica condanna di Grazia Gobbi nel suo” Itinerari di Firenze Moderna”, ci pare tengano conto del fatto che la città è un organismo complesso fatto di parti, e di edifici, in continuo dialogo fra di loro e che i giudizi di valore estetico e formale, che pure sono legittimi e in alcuni casi necessari, sono solo una parte del tutto.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 7 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di
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a galleria “Schema” di Carmignano ospita fino al tutto novembre una serie di opere recenti del fotografo / artista fiorentino Carlo Cantini. Da sempre immerso nell’ambiente artistico e creativo di Firenze, cresciuto a contatto con i diversi protagonisti e le diverse forme espressive in cui essi si sono prodotti, Cantini alla fine degli anni Cinquanta decide di cominciare ad utilizzare lo strumento fotografico, acquistando sempre di più la padronanza della tecnica e del linguaggio, e qualificandosi attivamente fino dai primissimi anni Settanta, non solo come testimone della vita artistica, ma ponendosi anche come protagonista, con esposizioni personali e collettive. Dopo essersi avvicinato a correnti diverse, dalla pop art all’iperrealismo, dalla body art all’arte povera, inizia un percorso di accostamento all’arte concettuale, approfondendo i temi, congeniali alla fotografia, della serialità e della reiterazione. Le sue opere più recenti affrontano la tematica del tempo e della consunzione della materia inorganica, mettendo a confronto i due concetti di staticità (apparentemente inalterabile) e di dinamicità (apparentemente impalpabile), incarnati rispettivamente nella materia rocciosa e nello scorrere ritmico ed inarrestabile dell’acqua, che tutto dilava e consuma, lentamente ma inesorabilmente. Da questo confronto / scontro nascono le sue “Abrasioni”, segni superficiali o profondi che l’acqua lascia sul terreno più solido e compatto, in quella eterna terra di confine dalla sagoma mutevole che è il bordo del mare, in quella sorta di apparente immobilità in cui solo la dimensione del tempo permette di apprezzare i mutamenti. L’acqua scorre veloce o lenta, insidiosa o impetuosa, lambisce o morde la costa, accarezza o schiaffeggia gli scogli, leviga o sgretola la pietra, modella e trasforma la roccia. L’acqua che non ha forma si adatta ad ogni forma, ma alla fine è essa che determina la forma della terra. Nel giuoco degli opposti che si scontrano e si completano, le “abrasioni” di
Le abrasioni di Carlo Cantini
Carlo Cantini non sono altro che una metafora della vita, del tempo che sembra non passare, ma che lascia nei nostri volti e nelle nostre anime dei segni incancellabili.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 8 Simone Siliani s.siliani@tin.it di
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estino assai controverso e critico quello delle biblioteche negli anni del dominio di Internet e della dematerializzazione della conservazione delle informazioni e della trasmissione della cultura. Tanto che più d’uno si è interrogato se le biblioteche come luogo di conservazione e prestito di libri stessero diventando obsolete. Per evitare questo tragico esito molte biblioteche si sono dotate di servizi di libero accesso ad Internet, PC, caffetterie e, addirittura, alcune biblioteche “senza libri” sono già realtà. Sembra che, grazie a queste iniziative, le biblioteche siano di nuovo abitate da tante persone (forse non tutti “utenti”, ma senz’altro “ frequentatori “). Ma non possiamo non domandarsi se sia auspicabile per le biblioteche un futuro da succursale della Starbucks o da nodo Internet. Certo, neppure possiamo pensare che le biblioteche possano avere un futuro arroccandosi su una posizione da magazzino di antiquariato. In un nell’articolo sulla New York Review of Books dell’ottobre 2015, James Gleick (“What Libraries can (still) do”) diceva che “fino a quando le nostre anime digitali non avranno lasciato i nostri corpi per lievitare nella nuvola, noi rimaniamo parte dei cittadini del mondo fisico, dove ci sarà ancora bisogno di libri, microfilm, diari e lettere, mappe e manoscritti, e di esperti che sanno come trovarli, organizzarli e condividerli con altri”. Ecco, dunque, il tema: la biblioteca può continuare a svolgere una specifica funzione sociale e culturale nella misura in cui - al culmine della rivoluzione informatica - vi saranno ancora quei versatili specialisti dell’informazione che sono i bibliotecari. Secondo alcuni, addirittura, le biblioteche sono l’ultimo spazio libero per l’incontro e la condivisione della conoscenza, dove la nostra attenzione non può essere comprata o venduta. Essa dà forma fisica a quel principio di accesso pubblico alla conoscenza che sta al fondamento della democrazia, nonché della nostra Costituzione. John Palfrey, nel suo “BiblioTech” , dice che i bibliotecari dovranno
Biblioteche, quale destino? sviluppare maggiormente le loro competenze come “steward” e lasciar perdere il loro istinto di “conservatori collezionisti”. Semplicemente perché non si può collezionare tutto: “Questo modello è troppo difficile da perseguire. Una rete di steward può ottenere maggiori risultati di un gruppo di collezionisti disconnessi (anche se in qualche Lido Contemori lidoconte@alice.it di
Il migliore dei Lidi possibili
Trasparenze vaticane Disegno di Lido Contemori
Didascalia di Aldo Frangioni
caso competitivi)”. Anche il progetto della Library of Congress di conservare tutti i Tweet appare fuori dalla portata dei conservatori anche se supportati dalle migliori tecnologie. Non ci sono scappatoie al problema della tensione fra reale e virtuale, fra scaffale e nuvola. Sono questioni da affrontare senza timore e con coraggio. Un esempio di ciò è
la questione degli e-book nelle biblioteche: è possibile prestare e-book senza limitazioni nelle biblioteche come si fa con i libri di carta? Così diventerebbero dei competitori mortali per le librerie? Molti paesi europei si sono dati dei programmi per garantire il pagamento dei diritti agli autori di questi supporti digitali: può essere un approccio interessante, soprattutto se allargati ad ambiti sempre più ampi perché sempre più le biblioteche tendono a spostare sulla rete non solo l’accesso ai propri cataloghi, ma anche al prestito e, come ben si intuisce, gli e-book in questo campo farebbero la differenza. Ma affrontare questi temi non significa far venir meno la funzione culturale e sociale della biblioteca, semmai vuol dire rinnovare quella missione alla luce della rivoluzione tecnologica in corso. Fino a ieri i grandi players del commercio digitale (Google, Amazon, Facebook, ecc.) ritenevano di star creando una nuova società e non solo un nuovo mercato, ma forse ci sono ripensamenti o almeno un maggiore equilibrio fra l’attuale realtà e quella a cui si grande. È così, direi, che forse possiamo leggere l’apertura da parte di Amazon della prima libreria materiale.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 9 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di
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colpire e fare nascere un’immagine da un unico blocco lapideo sono le abilità significative dello scultore per antonomasia, per colui che è capace di dare una forma concettuale alla non-forma tangibile e concreta dinanzi a sé, grazie alla possibilità innata di saper vedere oltre la superficie e l’apparenza, sondando la materia e cogliendo nel profondo la sua intima essenza. Così Carlo Nannini opera sulla pietra e sul marmo: un intenso labor lime che dal significante conduce al significato, che dal medium lapideo porta allo svelamento di un’immagine reale elevata a un piano aulico di rappresentazione e concettualizzazione. L’artista porta avanti una vera e propria ricerca sulla resa monumentale dei miti, dei simboli e dei linguaggi dell’attuale e della passata società mass mediatica, trasfigurandoli in Storia, in modo da trascendere il tempo e lasciare un’impronta considerevole. In contrasto con l’oblio delle coscienze le scultore pop di Carlo Nannini conquistano lo spazio e si pongono con forza e vigore agli occhi dello spettatore, per rianimarlo nella memoria e nel presente, per porlo nell’ottica di trovarsi di fronte alla resa concreta di un idolo interpretato. Le effigi scultoree acquistano vita e perdurano nella vita stessa per essere ammirate e rinnovare costantemente il proprio ruolo di simbologia: un’allegoria culturale, nella quale si racchiudono la potenza dello scalpello e la precisione del dettaglio, nonché una visione aperta e totale sulla cultura contemporanea. Proprio in quest’ottica, sabato 7 novembre nello spazio espositivo più piccolo del mondo - Quadro 0,96, Fiesole – verrà presentata la nuova installazione dello scultore, che rilegge in chiave pop le Guerre che hanno contraddistinto la modernità. L’opera è una grande narrazione epica, ove il monolitico si compenetra con la memoria dello spettatore, dà forma all’idea e la rende concreta nella tridimensionalità della scultura lapidea, configurandosi come un’armata variegata, essenzializzata nelle
Le guerre di Carlo Nannini
forme, che simula un evento devastante; piccoli monumenti, ma immensi nel concetto, che rievocano il ricordo e lo rendono permanente nella costruzione stabile dell’espressione d’arte; reliquie di un passato-presente e di un presente remoto, in continuità materiale e spirituale; sculture commemorative in atto; mausolei in potenza della contemporaneità; pezzi di un gioco di forze ove non esistono né regolamenti né dadi che ne dettano la sorte. “Guerre” riporta alla memoria che gli strumenti del passato sono gli strumenti del presente, che le immagini di ieri sono le icone dell’oggi. Sabato 7 novembre alle ore 12 a Quadro 0,96 Fiesole via del Cecilia, 4 Carlo Nannini (presentato da Laura Monaldi) espone le sue “Guerre 1915-2015”.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 10 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di
I
l 2015 segna il centenario della nascita di Douglas Lilburn, che viene considerato il più importanze compositore neozelandese contemporaneo. Purtroppo la ricorrenza, eccettuati la Nuova Zelanda e pochi altri paesi, è stata dimenticata. Douglas Gordon Lilburn nasce il 2 novembre 1915 a Wanganui, una cittadina a circa 200 km da Wellington. È l’ultimo di sette figli. Il padre è un piccolo proprietario terriero di origine scozzese. Fino a 9 anni vive nella fattoria di Drysdale: una vita isolata ma idilliaca. Qui impara a suonare il piano e canta nel coro della scuola. Dopo aver frequentato il Canterbury College di Christchurch si trasferisce a Londra, dove studia composizione con Ralph Vaughan Williams (193739). Qui scrive The Drysdale Overture (1937), uno dei primi pezzi orchestrali, dedicato al padre. Si nota l’influenza di Sibelius, che in questi anni, con Vaughan Williams, rappresenta il suo principale punto di riferimento. Rientrato in patria, scrive la prima composizione di rilievo, Overture: Aotearoa, che viene eseguita a Londra per il centenario della nascita della Nuova Zelanda (1940). Il titolo mostra un certo interesse per la cultura maori (Aotearoa è il nome indigeno dell’isola). Quindi torna a Christchurch, sede di un ambiente artistico vivace che stimola varie collaborazioni. Il poeta Allen Curnow scrive il testo che Lilburn inserisce in Landfall in Unknown Seas (1942), per archi e voce narrante. La regista Edith Ngaio Marsh gli commissiona le colonne sonore di varie opere teatrali, fra le quali A Midsummer Night’s Dream (1945) e Macbeth (1946). Con la pittrice Rita Angus costruisce un rapporto sentimentale breve ma intenso. Inoltre scrive alcune colonne sonore per i documentari della National Film Unit, l’ente cinematografico statale. Nel frattempo elabora la propria filosofia musicale. L’elemento centrale della sua ispi-
La voce della natura
razione è la natura: “noi siamo neozelandesi, quindi dobbiamo risolvere i nostri problemi culturali nel nuovo contesto delle isole che abitiamo, un Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com
contesto dotato di una ricchezza potenziale infinita alla quale abbiamo attinto pochissimo”. Lo stesso che evoca in A Song of Islands (1946), un brano orchestrale ispirato dal quadro di Rita Angus Central Otago. Il primo incarico accademico è quello di part-time tutor alla Victoria University di Wellington (1947). Alla fine degli anni Quaranta comincia a scrivere il ciclo di tre sinfonie che costituisce uno dei momenti più alti della sua carriera. Symphony no. 1 (1949) è ispirata alle Port Hills, una catena collinare situata nei pressi di Christchurch. Lilburn ama trascorrere il tempo libero a contatto con la natura, traendone le impressioni che poi riverserà nelle sue composizioni. La prima si tiene a Wellington il 12 maggio 1951. La stampa l’accoglie con entusiasmo: è la
di
Scavezzacollo
prima sinfonia scritta da un neozelandese che venga eseguita in pubblico. Nell’orchestrale A Birthday Offering (1956) si nota invece un uso misurato della tecnica dodecafonica. Symphony no. 3 (1961) si differenzia dalle altre due sinfonie, perché contiene gli accenti dodecafonici già comparsi in A Birthday Offering. Lilburn è attratto dal fermento che ha partorito il Groupe de Recherches Musicales (GRM) di Parigi, lo Studio für Elektronische Musik di Colonia, il BBC Radiophonic Workshop di Londra. Decide quindi di viaggiare per conoscere questa nuova realtà musicale. Visita Darmstadt, dove conosce Stockhausen, quindi Londra, Toronto e altre città. Rientrato in patria, si dedica interamente alla musica elettronica. Il primo risultato è Five Toronto Pieces (1963). The return (1965) ha un testo bilingue (inglese e maori). Una scelta insolita ma naturale: l’autore è Alistair Campbell, poeta anglo-maori. Nel 1966, presso la Victoria University, fonda il primo studio di musica elettronica dell’emisfero australe. Soundscape with Lake and River (1979), brano elettroacustico per nastro, può essere considerata la sua ultima composizione. Nello stesso periodo termina l’attività accademica, ma continua a lavorare rielaborando varie colonne sonore. Inoltre fonda il Lilburn Trust per promuovere i giovani talenti. Negli ultimi anni di vita mostra un forte interesse per la musica maori. Il Lilburn Trust finanzia infatti la produzione del CD Te Kū te Whē (Rattle, 1994), dove Hirini Melbourne e Richard Nunns suonano strumenti tradizionali maori. Negli anni successivi emergono vari problemi di salute: il è afflitto dalla sordità e da una crescente cecità. Le sue condizioni peggiorano rapidamente, fino alla morte che lo coglie il 6 giugno 2001 nella sua casa di Wellington.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 11 Francesco Cutolo francesco.cutolo@outlook.it di
L
a mezzadria toscana è stata spesso descritta come una società armonica, che alla fine fu sopraffatta da un mondo frenetico. Fu un passaggio repentino, traumatico, se si pensa che la mezzadria era ancora largamente diffusa fino a mezzo secolo fa. Un passato che diventa mito di pari passo con la riscoperta del mondo agricolo, tramite colture biologiche e ecosostenibili che si propongono come alternative alla produzione alimentare intensiva e alla crisi occupazionale. La mostra “La mezzadria nel Novecento: storia, lavoro, memoria”, allestita in Palazzo Sozzifanti di Pistoia e realizzata da Fondazione Valore Lavoro, col contributo di Fondazione Caript, ci riporta in quel passato non così lontano e al contempo tanto attuale. La mostra crea subito empatia col visitatore. Nella sezione memoria, due brevi filmati, a cura di Francesca Perugi, ci accolgono e ci salutano: vecchi mezzadri raccontano quel mondo, descrivendo i ritmi e le abitudini, narrando i rapporti con i padroni, tra paternalismo e aperto conflitto, fino agli scontri sindacali del secondo dopoguerra e l’esodo verso l’industria. “Non si stava male, ma eri sempre sottoposto al padro-
Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di
Nella zona di Via Villamagna molte strade sono dedicate a città gemellate con Firenze (che vanta 21 gemellaggi, oltre a vari “patti di amicizia”, “patti di fratellanza” e “progetti di cooperazione”, nel solco di una tradizione iniziata dal sindaco La Pira con il gemellaggio con Reims il 3 luglio 1954); fra le altre c’è la città di Nanchino, gemellata con Firenze dal 22 febbraio 1980 e alla quale è intitolata una strada alla Nave a Rovezzano. Premesso che questa vicenda non ha niente a che fare con Firenze e senza voler assolutamente impartire lezioni di storia, può darsi comunque che alcuni di coloro che abitano o percorrono Via Nanchino, intitolata a quella che fu la capitale della Cina dal 1356 al 1403 e anche in epoca più recente, non sappiano che cosa accadde in quella città fra il dicembre 1937 e il febbraio 1938 e forse quel che segue può essere
La mezzadria nel ‘900 in mostra a Pistoia
ne”, è la frase più ricorrente per descrivere la mezzadria. Immobilismo, sussistenza, paternalismo e riuso sono le caratteristiche di quel mondo. Nella sezione storica, a cura di Stefano Bartolini, si tocca con mano quell’universo: per la sala, appesi alle pareti o sul pavimento, ci sono oggetti d’uso quotidiano. Da un lato quelli domestici, dall’altro quelli di lavoro; ma nella mezzadria, lavoro e casa sono un tutt’uno. Certi manufatti possono stupire, come un bossolo di
proiettile svuotato e riadattato a borsa dell’acqua calda. Coadiuvati da pannelli divulgativi, curati graficamente da Osman Bucci, questi oggetti mostrano la situazione di povertà dei mezzadri, costretti a riusare ogni cosa perché non potevano permettersi beni di consumo. Si può ammirare, e toccare con mano, le fasi della costruzione dei cappelli di paglia, un tempo fatti dalle donne, ma pure strumenti agricoli consumati, come falci, rastrelli, un aratro e il giogo per i buoi: tutti disposti per mostrare il
Via Nanchino
Il massacro dimenticato
per loro di qualche interesse. Durante la guerra sino-giapponese del 1937, l’esercito giapponese incontrò una fiera resistenza vicino a Shangai, dove si svolse una cruenta battaglia. L’imperatore Hirohito ordinò allora ai suoi ufficiali di non rispettare le convenzioni internazionali relative ai prigionieri di guerra e l’ordine fu preso alla lettera: anche se i fatti sono controversi, pare che durante l’avanzata verso Nanchino due sottotenenti giapponesi si cimentassero in una gara dove avrebbe prevalso chi per primo avesse decapitato cento prigionieri cinesi. I giapponesi iniziarono il 7 dicembre l’assedio della città, che cadde pochi giorni dopo, mentre gran parte dei soldati cinesi cerca-
vano di mimetizzarsi fra la popolazione civile. Una volta entrati in città i giapponesi diedero il via a un orribile massacro, noto anche come “lo stupro di Nanchino”, considerato che furono stuprate e poi uccise almeno 20.000 donne, comprese bambine e anziane. Le atrocità proseguirono per sei settimane: vennero indiscriminatamente massacrati civili e militari e non furono risparmiati neppure i bambini che venivano seviziati prima di essere sventrati a colpi di baionetta e poi lasciati a marcire sui marciapiedi; tribunali
ciclo produttivo agricolo. Gli oggetti in mostra, davvero numerosi, sono stati prestati da collezioni private e dal Museo Casa di Zela di Quarrata. La parte documentaria ridimensiona il mito della mezzadria come mondo armonico. Sono documenti e foto provenienti dall’Archivio fotografico della Cgil di Pistoia, Archivio Federmezzadri di Pistoia e Biblioteca Forteguerriana. I pannelli narrano le lunghe lotte dei mezzadri nel 900’ e fanno da corredo a libretti colonici, pagine di giornale, ma anche foto di manifestazioni e volantini di scioperi intrapresi dalla Federmezzadri. Si va dai fermenti dei primi del Novecento, passando per le fragili conquiste del primo dopoguerra e la reazione fascista, sino alle lotte d’epoca repubblicana e il tramonto del sistema mezzadrile toscano. Tra queste due stanze, vi è la sezione “Gli artisti pistoiesi e il lavoro della terra”, a cura di Maurizio Tuci. Qui si possono ammirare dipinti sul tema della mezzadria: ambienti rurali dove vi sono contadini intenti a lavorare, ma anche ritratti di coloni nei loro abbigliamenti quotidiani.. La mostra non può che coinvolgere il visitatore, che riconosce, in essa, pezzi della sua memoria personale e oggetti talvolta ancora presenti, come cimeli, nelle nostre case. internazionali hanno calcolato che furono vittime del massacro fra le 200.000 e le 350.0000 persone, anche se i giapponesi hanno sempre contestato queste cifre. All’epoca si trovava a Nanchino il tedesco John Rabe, fervente nazista e responsabile della filiale Siemens. Insieme ad altri residenti stranieri creò “L’area di protezione di Nanchino” dove offrì rifugio e sostentamento ad almeno 250.000 cittadini cinesi. Tornato in patria, scrisse ad Hitler denunciando le atrocità dei giapponesi e, per tutta risposta, fu arrestato dalla Gestapo. Alla fine della guerra fu denunciato per l’appartenenza al partito nazista e solo dopo molto tempo gli furono riconosciuti i suoi meriti. Morto dimenticato e in povertà, nel 2009 gli è stato dedicato un film (“John Rabe” di Florian Gallenberger) che ricostruisce tutte le vicende del massacro di Nanchino e che merita di essere visto.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 12 Annamaria Manetti Piccinini piccinini.manetti@gmail.com di
E
ntrando nella hall del nuovo Museo dell’Opera del Duomo ed aspettandomi i grandi spazi per la già ampiamente proclamata riproduzione dell’antica facciata arnolfiana di Santa Maria del Fiore, ho avuto quasi, incredibile dictu ,un senso di claustrofobia. Possibile, con tanto spazio (6000 mq di superficie), che ci si debba infilare in questo corridoio, in cui si addossano l’antica facciata (1:1), con la sua enorme massa di falso marmo e le nuova architettura di Natalini, a dire il vero semplice, pulita, ma annientata dalla presenza della finta facciata, ripiazzata lì a soffocare lo spazio ? Il visitatore, per guardare la parete che contiene la ricostruzione arnolfiana, deve fare un giro di 360 gradi su se stesso e voltare totalmente le spalle alla parete disegnata da Natalini, e viceversa. Come è possibile che un pool di architetti di quella esperienza non si siano ricordati, al di là di ogni programma iconografico, ecc., che la gestione dello spazio è la madre di tutte le architetture ? Insomma, se vuoi vedere il gruppo del Sansovino sulle arcate nataliniane, devi rassegarti a non vedere, neppure di sbieco i profeti di Donatello. Ci si sarebbe aspettati un qualche invenzione che avesse alleggerito quella massa ottocentesca alla Viollet- le -Duc redivivo. Anzi no. L’architetto e storico francese è stato coerente e mai avrebbe tradito i suoi modelli nella sua ottica di conservatore e trasmettitore del patrimoine, quale fu .Qui per facilitare la visione del visitatore-turista si sono messi in basso gli originali delle grandi sculture che stavano nelle nicchie in alto, e in alto le copie. Inutile aggiungere che tutto l’insieme, dal basso ai piani alti, concede moltissimo al gusto cinematografico anche dove la bellezza dei reperti basterebbe a se stessa., disperdendo l’attenzione nel coup de theatre, non certo inducendo alla pacata analisi dell’opera. Del resto l’articolo di domenica 25 sul “Sole24Ore”, a firma di Timoty Verdon, storico dell’arte americano, canonico del Duomo e direttore artistico di tutto l’allestimento, titola: “Le statue diventano spettacolo”. Più chiaro di così.
Opera (teatrale) del Museo
Michele Morrocchi twitter @michemorr di
Se Hannah Arendt è riuscita a dare una definizione, tragica ma perfetta, del meccanismo che ha reso possibile la Shoah (la banalità del male) questa definizione non ha impedito e non impedisce a generazioni di intellettuali di indagare il più insondabile dei misteri. Warum? Perché? E non importa quel che scrive Primo Levi appena arrivato ad Auschwitz: Hier ist kein Warum (qui non c’è un perché), perché quella domanda intacca le nostre coscienze, pur consapevoli di non trovare la risposta, nel tentativo necessario che spiegare o almeno interrogarsi, ne impedisca il ripetersi. Non so se è un caso ma due dei libri più belli letti quest’anno ruotano intorno alla domanda, alla banalità del male, all’universo concentrazionario nazista (e fascista): “Trieste” di Daša Drndić e “La zona d’Interesse” di Martin Amis, appena uscito in traduzione italiana da Einaudi. Due libri particolari anche nella loro forma, nella loro scrittura. Oggetto letterario non indentificato quello della Drndić, romanzo “diario” a più voci quello di Amis. Un Amis straordinario che inscena
La nostra zona d’interesse per il nazismo e la shoah tre vite grottesche e tragiche all’interno di un campo di sterminio, nella sua zona di interesse. Un romanzo con un uso difficile ma magnifico della lingua (resa molto bene nella non facile traduzione di Maurizia Balmelli) che diventa necessariamente uno strumento da manipolare per rendere l’”irrendibile” di quell’esperienza. Tre tragedie, quelle raccontate, in cui non c’è riscatto né salvezza che girano intorno alla “normalità” di una coppia non felice, un amore impossibile (non solo per le condizioni eccezionali del contesto) e la disperazione dell’esistenza da Sonderkommando. Amis ci porta tra le abitazioni delle famiglie delle SS, con loro a teatro; apparentemente non giudica, non mostra empatia per alcuno. Eppure ci scava dentro, scavando nei personaggi. Il suo non è uno sguardo neutro, nemmeno uno sguardo da storico. Usa giudizi e mette in bocca ai
personaggi considerazioni “nostre”, contemporanee, probabilmente difficilmente imputabili ad una SS nel 1942; eppure questo slittamento non tradisce il romanzo, non lo rende falso. Ne mette invece in luce la disastrosa anomalia del nazismo. Amis si era già confrontato con la segregazione, i campi di concentramento e i sentimenti umani ne “La casa degli incontri”, ambientato nei Gulag sovietici, ma era rimasto all’umanità delle vittime, alla loro prosecuzione (tra cadute e risalite) come esseri umani in una condizione estrema. Era, quello, un romanzo anche di speranza. Niente di tutto questo c’è ne “La zona di interesse”, proprio come in Levi (citato più volte nella postfazione) non c’è salvezza nemmeno in chi sopravvive, da ambo le parti. Come se, volesse farci dire l’autore, l’unica salvezza è non ripetere tutto quello che è stato mai più e che per farlo non si debba mai far scemare la nostra zona d’interesse.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 13 Roberto Mosi mosi.firenze@gmail.com di
I
l percorso dell’Anello si è chiuso con l’ultima tappa, la prima domenica di novembre, da Santa Brigida a Pontassieve, da dove era partito dieci mesi orsono, a febbraio. I soci della sezione toscana del Trekking Italia hanno dedicato sette tappe, ogni volta di domenica, per compiere i centocinquanta chilometri di saliscendi sul crinale delle colline e dei monti, in un paesaggio di volta in volta diverso, ricco in maniera sorprendente di boschi, di testimonianze storiche, quasi sempre in vista della Cupola del Brunelleschi, chiave centrale del paesaggio fiorentino. Notevole è stata la partecipazione dei soci ai diversi appuntamenti: complessivamente duecento presenze. La settima tappa dell’Anello può essere considerata un’escursione facile, lunga 15 chilometri, con un dislivello di 300 metri in salita e 600 in discesa. Il percorso da Santa Brigida – che si raggiunge, la domenica, con il bus dalla stazione di Pontassieve – tocca La Villa, Fornello, Monterifrassine, Monte Fiesole, Poggio Bardellone per giungere a Pontassieve; si snoda per lo più in discesa, nella campagna che degrada verso la val di Sieve, punteggiata da casali immersi nei vigneti, da antiche pievi, da case torri, da resti di castelli. S’inizia dalla chiesa di Santa Brigida, dove si trova la grotta che accoglie i resti della Santa arrivata oltre mille anni fa dalla lontana Scozia per assistere il fratello malato, Andrea, vescovo di Fiesole. Alla sua morte, qui si ritirò a vivere, da eremita. Visse fino alla sorprendente età di 103 anni, raccontano le storie, cibandosi dei frutti e delle erbe del bosco. Dal paese di Santa Brigida la strada panoramica conduce a un bivio in località La Villa. Si prende in direzione di Fornello. In seguito si segue, nella zona di Galiga, la forestale che entra nel bosco e sale ancora, diventando una mulattiera sassosa. In breve si arriva a Monterifrassine, dove si trova ancora un mulino a vento perfettamente conservato, l’unico rimasto com’era nell’Ottocento, infatti, fino a un paio di secoli fa sulle colline circostanti, sorgevano decine di mulini a
Pontassieve un patrimonio del Rinascimento da scoprire
vento. Merita visitare l’interno con gli affascinanti ingranaggi legati al movimento delle pale. Dopo aver ammirato il panorama sul sottostante borgo di Rufina e la campagna ricca di vigne, si procede in direzione di Monte Fiesole e alla sua bella pieve che sorge in prossimità delle rovine del castello dei vescovi di Firenze di cui essa stessa era dominio. La chiesa, restaurata nel 1998, conserva in parte l’originario impianto romanico articolato in tre navate e cinque campate divise da pilastri quadrangolari. All’interno era presente una tavola raffigurante la Vergine del Parto e donatori della fine del secolo XIV, attribuita ad Antonio Veneziano. Ogni 25 anni vi si celebra il Giubileo, una festa che in passato richiamava migliaia di fedeli. Sulla cima del poggio di Monte Fiesole sono ancora visibili i resti del castello attestato dalla documentazione scritta. Le indagini archeologiche sono iniziate nel 2001: sono stati rilevati i resti di una torre e un tratto del circuito murario difensivo che cingeva la sommità della collina. Lo scavo del castello vescovile di Monte Fiesole rientra in un progetto generale di studio degli insediamenti fortificati medievali presenti in questo territorio. Si continua in un bosco di cipressi per arrivare a un incrocio segnato da un antico tabernacolo. Da qui si aggira la cima di Poggio Bardellone, che sovrasta con la sua mole, dall’alto, l’abitato di Pontassieve: davanti a noi il panorama sul versante della Sieve e il borgo di Nipozzano immerso nei vigneti degli Antinori. Una lunga, sassosa discesa nel bosco arriva a una strada che immette in via del Capitano - dove, è da notare, con un salto temporale ai nostri giorni, si trova l’attuale residenza del capo del governo alle prime case di Pontassieve. Si passa poi per la Porta Fiorentina, una delle tre antiche porte del Castello di Sant’Angelo (dal quale sorgerà l’attuale paese) rimasta intatta dai tempi del Medio Evo. Siamo alla stazione per il rientro a Firenze, con un po’ di rammarico per essere arrivati alla fine dell’Anello del Rinascimento, patrimonio di valori ambientali e culturali, occasione d’incontro e socializzazione nello spirito del “camminare insieme”.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 14 Angela Rosi angela18rosi@gmail.com di
Solo nelle relazioni siamo liberi perché solo attraverso di esse esprimiamo noi stessi. Solo con le relazioni conosciamo noi stessi e ci facciamo conoscere. Le relazioni fanno paura, bloccano o liberano ma, sicuramente, attraverso il corpo e il gioco delle emozioni profonde ci rendono consapevoli. Le relazioni temporanee dell’artista Manuela Mancioppi ci portano tutto questo. Sabato 24 ottobre in un clima di sperimentazione e con un po’ di leggerezza, in una Venezia bellissima dove l’azzurro del cielo si specchia sulla laguna e il sole autunnale ci accarezza, indossiamo Temporary relationships second skin, abiti in tessuto stretch e cotone color carne. Abiti installazione, abiti performativi, abiti che favoriscono l’incontro e lo scambio. Sono abiti relazionali da indossare e condividere tra due - tre - quattro persone, “costrette” ad abitarsi. Ognuno di noi sceglie l’indumento e un po’ casualmente i compagni della relazione. Non siamo obbligati a stare sempre insieme, possiamo dividerci e s-cambiare partner, come nella vita reale e come nella vita reale ci blocchiamo, diventiaGiovanni Zorn g.zorn@agriambientemugello.it di
Un passo più vicini è il titolo di un cortometraggio che, dopo l’anteprima ed i riconoscimenti ricevuti nel contesto del festival internazionale del cinema di montagna Cervino Cinemountain, verrà proiettato il prossimo 19 novembre alle 21.15 presso il cinema DOP di Firenzuola. Breve ma intenso, in 20 minuti condensa l’essenza di uno sport, di una passione che nasce da lontano e di una terra, con i suoi paesaggi, la sua natura e la sua storia fatta di una convivenza armonica anche se dura e contrastata con l’uomo. Il film prende spunto e occasione creativa da un evento sportivo, l’Ultra Trail del Mugello; si tratta di una gara di trail-running (corsa in natura) che, con un percorso di 60 km ed uno di 23 si snoda, interamente immerso nel verde e nella natura, all’interno del complesso demaniale regionale “Giogo-Casaglia” e che, partendo dall’antica Badia di Moscheta (Firenzuola) percorre i sentieri più suggestivi e
Relazioni temporanee
mo passivi, aggressivi o trainanti. Le emozioni scorrono e corrono nel tramonto veneziano mentre cerchiamo di “abitare” i turisti e i veneziani. All’interno delle sale dell’Officina delle Zattere, dove si svolge il vernissage dell’Arteam Cup 2015, coinvolgiamo gli artisti e i visitatori che rispondono bene ai nostri abbracci ed alle nostre relazioni temporanee. E’ una piccola danza, è una presentazione e un’incursione nell’altro, i nostri confini fisici quasi si dissolvono per entrare in relazione temporaneamente con i nostri simili. Scopriamo che queste relazioni temporanee ci vincolano e ci liberano, ci vincolano perché siamo legati e costretti dalla stoffa, ci liberano perché sperimentiamo la possibilità di muoverci autonomamente s-convolgendo l’altro e noi stessi, cercando l’accordo dei movimenti del nostro corpo e la sintonia emotiva. Quando tutto questo non c’è possiamo cambiare e allontanarci alla ricerca di un’altra compagnia per un nuovo ed appassionante viaggio, tutto ciò è libertà.
Un passo più vicini
selvaggi della zona attraversando boschi maestosi, castagneti secolari, praterie e faggete di montagna, toccando rifugi, torrenti e cascate e offrendo scorci panoramici suggestivi ed unici. Due amici, con la passione per la corsa libera che segna la loro vita fin da bambini, si incontrano sui sentieri di montagna e, innamorati
del proprio territorio, sognano di condividere questa ricchezza e di farla conoscere al mondo. Prende vita così l’idea di una gara e di un percorso permanente concepito come viaggio nei luoghi, nella storia, nei paesaggi. Attorno a loro si crea un gruppo di volontari, un esercito di persone armate di sorrisi e passione che, entusiasmate come bambini, si dedicano anima e corpo per la riuscita dell’impresa...e saranno centinaia e provenienti da tutto il mondo i visi stanchi ma felici che transiteranno attraverso l’arco di ingresso al cortile dell’antica Badia, arrivo della corsa. Il percorso dell’Ultra Trail Mugello diviene così un’occasione importante, un modo per essere un passo più vicini ad un territorio, ad una storia che in silenzio e nascosta tra le fronde dei faggi di montagna ci ha accompagnato dove siamo e ci regala ciò
che oggi possiamo apprezzare; ma soprattutto un passo più vicini alla propria essenza fatta di emozioni e di un collegamento diretto e profondo con i sensi. Perché in fondo siamo animali evoluti per vivere e muoversi in natura; in un mondo in cui le percezioni sensoriali, ancora prima che la razionalità, danno la possibilità di sopravvivere e di relazionarsi e lasciarsi pervadere da ciò che ci circonda. Ed ogni viaggio alla fine si presenta come una occasione di cambiamento, lascia qualcosa ed arricchisce, non tanto per la meta raggiunta ma per il percorso che facciamo per arrivare fin là. Ed allora il tracciato circolare dell’Ultra Trail del Mugello diviene metafora di un percorso emotivo, un percorso all’interno del quale ogni passo, indipendentemente dal punto in cui ci si trovi e dalla direzione in cui lo si muova, avvicina contemporaneamente alla meta e ad un lontanissimo punto di partenza.
7 NOVEMBRE 2015 pag. 15 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di
interni ristrutturati in grandi volumi luminosi con vista sulla vicinissima Tour Eiffel, il percorso scientifico e culturale è stato completamente riorganizzato attorno ad un progetto
che si fonda su 3 domande: chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. Per rispondere, il rinnovato museo unisce in un unico luogo le sue prestigiose collezioni, un centro di ricerca che già ora vede all’opera 150 (numero destinato ad aumentare) tra scienziati e studiosi di varie discipline, dalla genetica delle popolazioni all’etnomusicologia, laboratori didattici, un auditorium, mostre, dibattiti che daranno la possibilità ai visitatori di incontrare, sulla base di un calendario prestabilito, antropologi, storici, filosofi, biologi....e una grande struttura alta 11 metri e lunga 19 con 90 busti in bronzo e gesso realizzati nel XIX secolo da etnologi e antropologi sulle caratteristiche fisiognomiche dei popoli indigeni d’America, Africa e Asia. Una cabina di registrazione permetterà poi a chiunque di dare il proprio contributo, che resterà tra le testimonianze in possesso del museo, rispondendo ad una serie di domande su come pensa il futuro della specie umana e le relazioni tra i popoli. Per gli scienziati è previsto un laboratorio, unico in Francia, sul DNA antico la cui ambizione è quello di confrontare quello di fossili anche di 8.000 anni con il nostro per capirne l’evoluzione.
ebbe luogo il primo dei ‘provini’ di laurea: l’ex tempore di ‘progettazione’. Mi sono ricordato che quel pomeriggio pioveva che Dio la mandava, senza interruzione, e che avrebbe continuato con quel ritmo fino al 4 novembre. La discussione vera e propria della mia tesi era stata prevista in Aula Magna per il 15 novembre, però non avvenne in quell’anno. A furia di piovere, quell’anno venne invece l’alluvione, e tutto fu spostato a fine giugno di quello seguente. Mio padre, che stimava poco il mio impegno nella regolarità dei miei studi, disse lapidario: “Vedi, pur di spostare la laurea, sei stato perfino capace di far venir giù un’alluvione”. Naturalmente scherzava, però ... Sono tuffi nel tempo che fanno anche un po’ bene. Fanno rivivere certe figure ‘riposte’ in archivi della memoria solo in apparenza remoti, come un babbo severo ma buono, lento all’ira e pronto al perdono.
Anche per rendere (spero) il favore grande che mi ha fatto chi ha permesso che rivivesse in me un ricordo così complesso, copio ‒ erudito, forse, ma non sapiente, di certo ‒ una frase molto intensa: “La memoria è vita, conquista ardimentosa dell’Uomo contro la morte e contro l’oblio che lo assediano davanti all’Abisso, fuori del quale tenta di rimanere questo Mondo”. Ce l’ha lasciata Giorgio Colli, filosofo e storico della filosofia. Torinese di nascita, le sue ossa riposano – strana coincidenza ‒ nel Cimitero di San Domenico di Fiesole. Dove anzi, essendo in collina e risparmiato dall’alluvione, il grande piazzale di Camerata lì vicino fu una delle “basi logistiche” dei soccorritori di Firenze accorsi da tutto il mondo, alcuni dei quali ebbero il privilegio di ‘aggiustarsi’ in sacco a pelo per parecchie notti sotto il porticato davanti alla chiesa e nel chiostro del Convento.
U
n museo parigino dai numeri impressionanti: 6.583 visitatori alla riapertura il 17 ottobre, 15.000 nei primi tre giorni per vedere i 700.000 oggetti preistorici, i 30.000 di antropologia, i 6.000 manufatti di collezioni inestimabili, tra le più grandi al mondo, distribuite in 3.100 metri quadri. Dopo lo smembramento di parte delle sue collezioni dirottate in altri musei, come quello etnologico del Quai Branly, e anni di declino, tanto da far pensare ad una definitiva chiusura, risorge dalle ceneri, dopo 6 anni di lavori, l’incredibile musée de l’Homme. Inaugurato nel 1938 in un’ala del Palais de Chaillot, in place du Trocadéro 17, un elegante edificio costruito per l’ Esposizione Universale del 1937, che accoglie anche il musée de la Marine e quello della Cité de l’Architecture, il museo ha una lunga e prestigiosa storia fin dalla sua creazione. Nato come laboratorio-museo secondo gli intenti dei suoi fondatori, l’etnologo Paul Rivet e il museologo George-Henri Riviére. ha ospitato il lavoro di pionieri e studiosi delle scienze umane passati alla storia come Claude Lévi-Strauss e André Le-
Alessandro Dini sandrodini.1@gmail.com di
Quando ero studente di architettura si poteva entrare in Facoltà anche dal ‘Chiostro di Levante’ progettato da Filippo Brunelleschi nel 1434, accessibile direttamente da via Degli Alfani dal lato Nord del complesso di Santa Maria Nuova. Allora era in condizioni migliori di quelle attuali e mi piaceva molto, mi era sempre sembrato una sorta di “brano musicale” dell’architettura di straordinaria leggerezza, quasi un minuetto se fosse accettabile questo paragone. Trovo che sia parte di un tutt’uno ‘melodico’, una sorta di misteriosamente armonico ‘accordo numerico e musicale universale’. Una ‘symphonía’, avrebbero detto i filosofi greci. Mi è sembrato giusto, perciò, e ‘ben temperato’ che oggi vi si vogliano condurre esperimenti di ‘installazione sonora’. Ritornato di recente e del tutto casualmente
Un museo per il futuro roi-Gourhan. Ma l’uomo cambia e il museo anche, come ha detto David Bruno, presidente del musée d’ Histoire Naturelle dal quale dipende quello de l’Homme. Quindi, oltre agli
Diario dell’alluvione
da quelle parti, mi ha preso come un dolce senso di malinconia ‒ forse come il ‘Sensucht’ provato da Goethe nel suo ‘Viaggio in Italia’ ‒ per via del tempo che passa, irraggiungibile, remota Patria di sogno. Ho rivissuto in un lampo quel giorno di fine ottobre del 1966, quando nell’aula che noi studenti di architettura chiamavamo ‘il quadrilatero’ ricavata nell’altana del chiostro e chiusa da infissi in legno,
Paolo Marini p.marini@inwind.it
7 NOVEMBRE 2015 pag. 16
di
V
oglio parlare di qualcosa di breve e di ‘cattivo’, epperò dotato di una rara perfezione formale. Sapete perché? Perché - non so se accade anche a voi - noto che molto di ciò che ci viene propinato è – all’opposto – così inutilmente ripetitivo, così banalmente stupido ma anche insopportabilmente ‘buono’ e melenso. Quindi, evviva l’intelligente cattiveria ovvero l’intelligenza ‘cattiva’ e perspicace, quella che sa essere affilata e crudele come la lama di un coltello. Che io non posso fare a meno di rilevare nel capolavoro giovanile (non l’unico) di Irene Nemirovsky dal titolo “Il ballo”. Sul quale sbaglierebbe chi lo immaginasse come la storia elegante, leggera, di un brillante evento mondano; perché appunto è la cruda (qualcuno ha opportunamente scritto: “spietata”) narrazione del conflitto tra una madre egoista e anaffettiva, Rosine Kampf, che nell’organizzare un ballo per la cosiddetta ‘alta società’ parigina cerca prepotentemente la propria affermazione di donna (“Insomma, è molto semplice (…), se non so che l’indomani creperanno tutti d’invidia, preferisco non dare nessun ballo...”), e la Sara Chiarello esse.chiarello@gmail.com di
Compie dieci anni Zoom, il progetto di Teatro Studio Krypton tra teatro, danza, musica e arte, che indaga i territori delle nuove arti performative e dà un palcoscenico ai giovani talenti under 35. Festeggia fino al 15 novembre con due spettacoli a sera al Teatro Mila Pieralli di Scandicci per un’edizione dal titolo “Altrofuturo”, guidata da Giancarlo Cauteruccio. “Altrofuturo perché Teatro Studio Krypton ha sempre immaginato di viaggiare in un tempo a venire, per la sua forza e caparbietà innovativa, che molte tracce ha lasciato sui sentieri percorsi e precorsi lungo un esaltante quarto di secolo” dice il regista. In programma 19 compagnie nazionali emergenti, provenienti da vari parti d’Italia: il 7 novembre vedremo la compagnia Biancofango che torna a Zoom con il collaudato spettacolo Fragile show, codiretto da Francesca Macrì e Andrea Trapani, e poi il gruppo fiorentino Fosca, nel debutto di Tenue – radiodramma tattile, un lavoro acustico, in forma di radio-
Il ballo ovvero di una magistrale spietatezza
figlia adolescente Antoniette che, umiliata, dominata e quasi annichilita dalla madre, è naturalmente animata dal desiderio profondo di spiccare il volo verso l’amore, la pienezza, la vita. Questo gioiello della letteratura del Novecento non è soltanto un piccolo raffinato boccone da assaporare nel tempo di un pomeriggio; è l’affresco, la ‘macchia’ nitida, al vetriolo, di una società velata di garbate apparenze ma in realtà priva di spessore e di grazia. Ciò vale per la famiglia Kampf, di ricchezza recente (grazie ad
un geniale colpo in Borsa Alfred Kampf, marito e padre delle protagoniste, “dopo aver scommesso sul ribasso del franco (…) aveva poi, nel 1926, speculato su quello della sterlina”), e si ripete per i loro invitati, alla cui ‘facies’ di ricchezza e rispettabilità spesso non corrisponde un adeguato lignaggio. Ma il mondo non è solo regno di finzione e di ipocrisia, non lo è neppure di quel destino beffardo che la sera del ballo distribuirà in modo inatteso una gioia malvagia e liberatoria (“Si sentivano gli scoppi di risa
dei domestici nella dispensa”). E’ soprattutto teatro di acri recriminazioni, di furibonde battaglie tra individui e “Il ballo” incornicia magistralmente la fragile impalcatura, la implacabile verità di un matrimonio (Rosine ad Alfred: “Credi forse che la gente non sappia chi sei, da dove vieni?” ed Alfred a Rosine: “Quando ti ho raccattata non eri certo alle prime armi! Pensi che non lo sapessi, che non me ne fossi accorto? Mi son detto: è carina, intelligente, se diventerò ricco non mi farà sfigurare... Sono capitato bene, come no, davvero un buon affare: una pescivendola, una vecchia con modi da cuoca...”) così come il duello quasi ‘mortale’ - descritto con sapienza psicanalitica e in un crescendo drammatico - tra una madre e una figlia, che giunge inevitabilmente al proprio apogeo: l’attimo, quell’“istante impercettibile” in cui le due donne si incrociano sul cammino della vita: la prima, appunto, per spiccare il volo; l’altra, per avviarsi a sprofondare nell’ombra.
dramma, fruibile allo stesso tempo dal vivo e in diretta radiofonica su Controradio. Gli esecutori/attori sono tre persone non vedenti, in uno spettacolo ideato e diretto da Caterina Poggesi e Cesare Torricelli, in cui il gesto vocale si genera dalla tattilità degli oggetti utilizzati e dalla stessa lettura del copione in Braille. Nel programma, il 10 novembre, la compagnia Opera, diretta da Vincenzo Schino, presenta XX,XY – primo passo nella tragedia di Amleto (sul palco una
danzatrice e uno scultore, l’alto e il basso, il maschile e il femminile). A seguire Teatrodilina in Le vacanze dei signori Lagonìa, racconto di una giornata al mare di un’anziana coppia. Sei gli spettacoli in calendario nella sezione dedicata alla danza: l’11 novembre due spettacoli dell’artista marchigiana Mara Oscar Cassiani, Justice, ultima fatica coreografica, indagine della solitaria relazione tra corpo femminile, media e potere dell’immagine, e poi TRASHX$$$ (Trash for dollars), in cui è affiancata dai due danzatori Francesco Vecchi e Francesco Marilungo, sull’immaginario del corpo occidentale di oggi, dove l’oggi è rappresentato dal denaro, i media e il petrolio. Il 12 va in scena la giovane danza d’autore con tre coreografi che presentano le loro recenti creazioni: Gianluca Girolami con “M”1 poi 2 poi 3, Francesco Colaleo con Re-garde, affiancato in scena da Maxime Freixas, e Nicola Galli con il solo Delle ultime visioni cutanee. Il 13 la compagnia Barokthegreat si esibirà in Indigenous - Dramma
sonoro, coreografato da Sonia Brunelli e danzato insieme a Simona Rossi e Dafne Boggeri, musica originale live di Leila Gharib e Francesco Brasini, che genererà un universo dalla temperatura primitiva e psichedelica. La musica chiuderà il festival il 15: il collettivo cesenate Dewey Dell si esibirà in un concerto in cui il movimento dei musicisti sarà legato allo spostamento e allo stratificarsi di vari suoni percussivi, teso verso la creazione di un unico organismo ritmico. In apertura, il concerto Mind out di Pianokitar, duo di pianoforte e chitarra elettrica, formato dai giovanissimi Giovanni Berdondini e Gianpaolo Capraro. Come evento speciale, Zoom rende omaggio a Jon Fosse, punta di diamante della nuova drammaturgia internazionale, il 14 novembre con lo spettacolo Inverno, una bella e importante messa in scena della storica compagnia Florian Metateatro. Biglietti: 12-6 euro, info e prenotazioni 055 7351023, biglietteria@teatrostudiokrypton.it www.zoomfestival.net.
Auguri Zoom
7 NOVEMBRE 2015 pag. 17 di Filippo Frangioni filippofrangioni@libero.it
L
Eretici, profeti e politici
a storia di una città attraverso la storia della sua Chiesa e della sua vita religiosa: è questo il percorso descritto nell’ultimo libro di Mauro Bonciani: un raffinato testo di sintesi storica. “Due millenni di fede e storia” sono raccontati descrivendo il rapporto fra religione e governo cittadino, fra istituzioni ecclesiastiche e struttura dei sistemi culturali fiorentini. Leggendo questo testo possiamo comprendere come questo rapporto abbia preso forma nella geografia della città, nelle mura delle chiese e nella sua conformazione urbanistica. E tuttavia, un altro tema appare sottotraccia: si tratta del ruolo svolto da Firenze nel processo di costruzione della modernità occidentale. Il racconto pontificato di Leone X e quello di della Chiesa fiorentina ci mostra Clemente VII, i due grandi papi due fondamentali elementi che ca- Medici del ‘500, sono indicativi ratterizzano tale funzione storica. del secondo. Fra le pagine di Il primo: Firenze come punto di Firenze e la sua Chiesa possiamo riferimento di rapporti culturali ritrovare descritte le principali oried economici “transnazionali”, ginalità del cristianesimo fiorentia metà fra l’Europa e il Mediterno: i primi santi e la loro origine raneo. Il secondo: la relazione orientale (San Miniato, Santa privilegiata che Firenze stabilisce, Felicita, Santa Reparata e San Zagrazie anche alla vicinanza geogranobi), la storia delle Confraternite fica, con il centro della Cristianità, e la nascita della Misericordia, la e cioè con Roma. Il Concilio rivoluzione di Savonarola. fiorentino del 1439, sebbene in Il libro di Mauro Bonciani, definitiva fallito nel suo intento di inoltre, risulta particolarmenFONDAZIONE HORNE MUSEO HORNE ricomporre lo scisma d’Oriente, te utile poiché ci costringe ad Casa Vasari Firenze rappresenta un esempio evidente osservare i processi storici da del primo elemento. CosìDANIELE comeLOMBARDI il una prospettiva di lunga durata. FONDAZIONE MUDIMA Milano
Mercoledì 11 novembre 2015 Ore 17.00
ROBERTO BARNI
CAPOGIRI
GAMBE IN SPALLA
cm 150
Nella seconda metà del novecento Firenze riesce ad affermarsi come un centro internazionale di dialogo interreligioso, di politiche di pace e di rinnovamento della Chiesa; in particolare, com’è a tutti noto, con il Sindaco Giorgio La Pira. Sebbene in questo periodo il rapporto fra religione e politica abbia acquisito forme, rappresentazioni ed anche strutture estremamente diverse, possiamo cogliere nel riformismo cattolico fiorentino dell’epoca conciliare un segno di fondo: torniamo, in qualche
modo, ad un simbolo di sostanza politica del discorso religioso: quel savonarolismo che fa della sovrapposizione fra riforme politiche e riforme religiose la sua forza e, al tempo stesso, la sua debolezza. E tuttavia quelle istanze di riforma che si fecero contestazione, con Don Milani, padre Balducci e Don Mazzi, ebbero un ruolo e una funzione di mutamento della religiosità italiana che ancora oggi non appaiono del tutto comprese. Il Convegno Ecclesiale Nazionale, che si terrà a Firenze dal 9 al 13 novembre, e la visita di papa Francesco in città rappresentano senza dubbio un’occasione per cercare di capire meglio i successi e le sconfitte di quella stagione. Ma appare, inoltre, altrettanto rilevante collegare tali considerazioni ad una riflessione sulla figura stessa del pontefice romano, affermatasi negli ultimi decenni come forza di primaria importanza in uno scenario politico e culturale di dimensioni tendenzialmente globali. Firenze e la sua Chiesa. Due millenni di fede e storia, Prefazione di Silvano Piovanelli, Le Lettere, Firenze 2015
Gastronomia Musicale in Sala Vanni
WELL cm 235x95
SCULTURA DA INTITOLARE cm 140x39x49
CALCHI INNAMORATI Cortile di Palazzo Antinori Corsini Serristori Borgo Santa Croce 6 Firenze
Museo Horne cortile di Palazzo Corsi-Horne via de’ Benci 6 Firenze
cm 25x37 Casa Vasari, Sala Grande Borgo Santa Croce 8 Firenze
Domenica 8 novembre, alle consuete ore 11 in Sala Vanni di Piazza del Carmine 19, infatti, è la giornata della “Gastronomia Musicale”, rappresentazione che viene riproposta e aggiornata con nuove musiche, dopo l’esordio ed il successo nel 2012, perché 11 - 28 novembre 2015 Orario lun-sab, 9-13 Ingresso libero al cortile Biglietto di ingresso: Museo Horne € 7,00 (ridotto € 5,00)
richiestissima dai nostri amici, ed eseguita dall’Ensemble in molte sale italiane. Dopo il concerto, per chi lo desiderasse, è proposto un pranzo “da Ginone” sulle ricette, per quanto possibili, rappresentate in musica (in via dei Serragli, al prezzo di 22 euro).
7 NOVEMBRE 2015 pag. 18
Scottex
Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella
Come l’Araba Fenice lo Scottex 41 di Paolo della Bella diventa un bellissimo uccello dopo avere pulito il piano della tavola di cucina, asciugato i bordi del lavandino, aver tolto un po’ di polvere sul lato superiore di due cornici, asciugato delle gocce d’olio sul pavimento del soggiorno e aver data una lustratina alle scarpe prima di uscire. Una bella resurrezione complimenti Maestro!
Scultura leggera di
Vicent Selva
Consigliere comunale di Esquerra Unida
Durante tutto il tempo che ho vissuto in Italia, la maggior parte delle persone che conicia, sapendo che era un cittadino spagnolo, mi sono chiesto circa tre o quattro cose: Zapatero, paella, flamenco e la corrida. Il primo di essi, Zapatero, perché era in voga in un’Italia governata da Berlusconi. Gli altri tre da un argomenti di semplice domanda nazionale e culturale. Riconosco che non ha votato a Zapatero (mi stoy a sinistra). Che la paella, piatto tipico della mia regione (Comunidad Valenciana), sì mi piace. Che il flamenco è bello. E che Tori - ripeto: i tori - sì mi piace, come la maggior parte degli animali (ad eccezione di insetti...). D’altra parte, non mi piace è che alcuni, in un modo completamente sbagliato dal mio punto di vista, qualificarsi come arte e corrida Nacional.La festa è stata considerata uno degli elementi più caratteristici della cultura spagnola e, tradizionalmente, gli eroi di toreros: coraggiosi giovani che hanno gareggiato per la morte di fronte un animale forte e feroce sono riusciti a dominare, mostrando la potenza dell’uomo animale. Già la Bibbia, intendeva quando disse che l’uomo dominerà il resto degli esseri viventi.
Toros o tauromaquia?
Forse che è il motivo per cui e cercare di mostrare la naturale forza e il coraggio della corsa spagnola, durante la dittatura di Franco, nacional-catolica che Toreros visse il suo periodo di maggior rilievo. Fortunatamente, nella Spagna di oggi le persone sono sempre più lontano da questa attività. E a questo proposito sono generati, eppure importanti dibattiti. Una parte della società, con il sostegno dei viali più media nei confronti della società di un conservatore vsion continua a promuovere la corrida, sostenendo il valore culturale di questi eventi e il ruolo
economico collegato ad esso, soprattutto dal settore dell’allevamento e del turismo. Essi sostengono, troppo, che senza corrida scomparirebbe chiamati tori e gli ecosistemi dei paesaggi in cui allevato, pascoli. Quindi inoltre, cercare di dare un tocco di verde e in difesa dell’ambiente a questa attività. Tuttavia, crescere altrove, che pone questa tradizione, molto vecchia e spagnolo ad essere, non ha alcuna giustificazione. I tori e altri animali, sono esseri viventi che sentono e soffrono e che subiscono questa tortura con un semplice desiderio di diverti-
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mento è non è affatto giustificata. Uno studio dall’associazione dei veterinarii abolizionista della corrida e dei posti di maltrattamento di animali (AVATMA), chiamato anche in discussione gli argomenti in favore della corrida: solo il 10% della dehesa è dedicato all’allevamento del bestiame per la corrida. C’è una gara chiamata Toro e tori normale, che è che cosa sono questi tori, continuerà ad essere necessario per l’industria del bestiame, così non si estinguerà. E, infine, viene mostrata con i dati che il settore della corrida sopravvive solo grazie a una quantità enorme di sovvenzioni e aiuti di stato di diverse amministrazioni, compresi i fondi europei. Infatti, negli 8 anni, studio di Jody, la corrida a plaza è passata da più di 3500 a 1800, mostrando che come attività economica è possibile portare poco all’economia nazionale. Dopo le ultime elezioni e autonoma nella primavera del 2015, alcuni comuni e regioni autonome sono ritirantesi sovvenzioni per la corrida di assegnare loro ad altre cose più urgenti o produttivi. Un dato di fatto che, a mio avviso, rappresenta un atto non solo dell’umanità verso gli animali, ma di civiltà, modernità e risparmio economico.
lectura
dantis
7 NOVEMBRE 2015 pag. 19
Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni
l ben col mio Maestro ci affratella, ma impaurito per l’andare avanti: saprà dove si va o andrà a balzella?
servitrici della potenza andata. La prima secca digrignava i denti da do’ s’impara ella era scappata,
Santa de nome, ma Santa de ché? La terza mi parea la più carina, regina era invece dei lacchè,
Capii che si potea star senza guanti, il viottolo per lui non era ignoto. Altra volta passò e con rimpianti.
terrore di insegnanti e di studenti parlava con un fare da moina, punire le piacea solo i perdenti,
perfida col suo volto da suorina, Mara Carfa era nota fra sodali pe’ i’ senzacrini l’era una bambina.
Ma guardai oltre, anche se devoto, in cima ad una torre arroventata, tre furie si movean come tremoto,
in vita la chiamavan la Gelmina. La seconda cattiva di qui ché, non si potea guardar, era una mina.
Canto IX
Dante, dopo essersi rassicurato sul fatto che Virgilio conosce la strada, incontra le Erinni. Nelle tre Furie scatenate si possono riconoscere personaggi attuali al servizio di un Potente decaduto
L immagine ultima
7 NOVEMBRE 2015 pag. 20
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com
U
n’immagine cui sono molto affezionato. La sorella più grande che abbraccia con aria protettiva il fratello più piccolo. E’ uno scatto realizzato nello spazio pubblico vicino al casermone dei “projects” dove ero ospite di una famiglia di amici. Mi colpì subito la tenerezza dei volti di questi ragazzini e ii loro sguardo al tempo stesso dolce e penetrante. Sono quelle immagini che uno scatta di getto e se perdi l’attimo invece di diventare un’icona ti ritrovi tra le mani un’immagine qualsiasi che non riesce a trasmettere alcuna emozione. E’ come se l’avessi scattata ieri e tutte le volte che la vedo mi torna alla mente quell’estate così intensa, e quella scoperta continua di un mondo che fino ad allora avevo visto soltanto nei film.
NY City, agosto 1969