Cultura commestibile 146

Page 1

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

46 213

N° 1

Ultim’ora: sanno leggere! editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

21 NOVEMBRE 2015 pag. 2

Questo articolo è una rielaborazione della conferenza tenuta dall’autore allo SpazioA, luogo fiorentino dedicato all’incontro e al dialogo tra architettura, design, fotografia, cinema, letteratura e altre forme artistiche ed espressive (www.spazioafirenze. it) lo scorso 18 novembre. Carlo Francini carlofrancini@gmail.com di

Q

uando a Firenze si insedia il primo Parlamento del nuovo Stato Italiano nel 1865, Firenze era già stata interessata da cambiamenti urbanistici importanti voluti non dai Savoia ma dai Lorena. Pensiamo a piazza Maria Antonia, quindi quartiere di Barbano, che viene realizzato circa nel 1830, oggi piazza Indipendenza. Oppure i famosi Ponti di ferro della fine degli anni ‘30 dell’Ottocento con nomi estremamente lorenesi, il ponte di San Leopoldo e quello di San Ferdinando, cioè Ponte alla Vittoria e Ponte di S.Niccolò. Strutture in ferro, molto alla moda al tempo, con quattro piccole figure di leoni che adesso ritroviamo in parte al Poggio Imperiale (i due leoni egizi del Ponte San Ferdinando) e all’interno del parco delle Cascine (i due leoni di Ponte San Leopoldo). Anche via Calzaioli subì modifiche: si inizia a pensare all’allargamento e al nuovo allineamento delle strade già in epoca leopoldina (1840 circa). Ma soprattutto si realizza la stazione Maria Antonia (oggi S.Maria Novella) nel 1848. Prima dell’arrivo della Capitale d’Italia, il Granducato di Toscana aggiorna l’urbanistica della città su criteri più moderni, anche con l’inserimento di strutture di mobilità e di controllo politico e militare sulla popolazione. Quando parliamo di Firenze Patrimonio dell’umanità richiamiamo sempre alla mente il tema del Rinascimento, ma quando guardiamo alle facciate dei palazzi maggiori della città in realtà è una città profondamente ottocentesca, che ha dei monumenti rinascimentali importanti. Anche se spesso gli interventi di restauro su questi monumenti sono stati spesso molto pesanti, con ricostruzioni e integrazioni da metà dell’Ot-

Il Parlamento in Palazzo Vecchio

tocento in poi. Nel 1865 interviene il famoso nuovo piano di Giuseppe Poggi che serve ad adeguare Firenze al rango di Capitale, con l’allargamento del centro storico che fino ad allora si identificava con le sue mura. Come sappiamo però questa espansione avrà come vittima, appunto, le mura della città di cui rimangono poche vestigia (come Porta S.Gallo, Porta S.Miniato o S.Niccolò). Lo stesso Cimitero degli Inglesi era appoggiato alle mura: venendo meno queste, il cimitero viene riprogettato e ricostruito dal Poggi. Le demolizioni furono pesanti, ma furono anche affiancate da ricostruzioni, come nel quartiere di Mattonaia, con la realizzazione di piazza D’Azeglio. Stessa cosa dicasi per piazza Beccaria, che prende forma, mentre si decide di mantenere le porte della città: nell’ottica del Poggi, la piazza doveva mantenere questo rapporto visuale con la collina di S.Miniato. Ovviamente le rampe sono il capolavoro del Piano del Poggi,

dove pure preesisteva la scalinata che portava da Porta S.Miniato a S.Miniato. Poggi realizza anche uno dei lungarni più famosi, Lungarno Torrigiani, le cui case affacciavano direttamente sull’Arno. Ma l’intervento più significativo è relativo alla collocazione delle diverse funzioni stabilite da un gruppo di tecnici del Genio Militare e del Genio Civile, piemontesi al servizio del Regno: Giovanni Castellazzi, Paolo Tomotto, Carlo Falconiere, Francesco Mazzei. Questo gruppo di architetti ed ingegneri farà, in pochi mesi, una serie di sopralluoghi e deciderà in quali ambienti si dovranno collocare gli uffici ministeriali e statali più importanti: convento S.Maria Novella (Ministero dei Lavori Pubblici), Uffizi (Senato), Palazzo Vecchio (Camera dei Deputati e Ministero degli Esteri), palazzo Pazzi Non Finito (il Consiglio di Stato), piazza S.Firenze (il Ministero dell’Istruzione), Palazzo Medici Riccardi (Ministero dell’Interno), piazza S.Marco (Ministero

della Guerra), ecc. Perché il monumento a Manfredo Fanti in piazza S.Marco? Perché Fanti è il generale dell’esercito, che riformerà e accorperà tutti i diversi eserciti nazionali nell’unico esercito del Regno d’Italia: per questo si decide di posizionare il suo monumento davanti al Ministero della Guerra appunto in piazza S.Marco. Una statua interessante: durante il restauro di qualche anno fa, fu scoperto, nell’archivio storico del Comune di Firenze, che esso fu eretto grazie ad una sottoscrizione nazionale di tutti i militari d’Italia. Monumento bronzeo di Pio Fedi, che dà il meglio di sé nel ratto di Polissena sotto la Loggia de’ Lanzi, in cui Manfredo Fanti ha in mano (e lo si riesce a leggere solo nel cantiere di restauro) il regolamento dell’esercito del Regno d’Italia. A questo punto si dipana tutto un sistema di edifici legato alle funzioni dello Stato, soprattutto ex-conventi o comunque palazzi che già avevano una funzione pubblica. Palazzo Vecchio noi lo immagi-


Da non saltare

21 NOVEMBRE 2015 pag. 3

niamo come una struttura che non ha sostanzialmente subito mutazioni in quel frangente, ma non è così. Già nel 1810 interviene una modifica importantissima relativa all’esterno dell’architetto Giuseppe Del Rosso che, per ritrovare funzioni più utili alla Marie francese, decise di demolire l’Arengario. Demolizione piuttosto importante perché voleva dire togliere la scalinata dove i Priori si riunivano e uscivano al pubblico, traslare completamente il Marzocco di 90° ed eliminare il piedistallo del David. Dunque, Palazzo Vecchio era già stato intaccato in modo importante. Il Salone dei Cinquecento, o detto delle Guerre, era sostanzialmente come lo vediamo oggi, salvo la grande nicchia, oggi vuota che all’epoca ospitava Adamo ed Eva del Bandinelli, trasportati dall’altare del Duomo senza una precisa destinazione. Il Quartiere di Cosimo era molto frazionato e presentava una scala importante che univa questo quartiere a quello di Eleonora e alla Sala dei Gigli al piano superiore. Palazzo Vecchio era un grande contenitore d’uffici, prima dei Ministeri Lorenesi, dove venivano custodite le chiavi delle porte della città che la sera venivano chiuse. L’altra funzione importante di Palazzo Vecchio prima della capitale del regno, era di guardaroba generale: anche se non era più sede della corte che si era già trasferita fin dalla fine del Cinquecento a Palazzo Pitti, Palazzo Vecchio era il grande deposito di opere d’arte. Veniamo a Carlo Falconieri, ingegnere del Genio Civile e Militare, che sarà il grande protagonista delle grandi trasformazioni legate all’insediamento della Camera dei Deputati in Palazzo Vecchio e del Ministero degli Esteri. Messinese di origini, ha una vita tutta dedicata al servizio dello Stato, subirà una serie di critiche ferocissime, come già prima di lui l’architetto Del Rosso che distrusse l’Arengario. Entrambi furono costretti a scrivere delle memorie in loro difesa, quindi molto che noi sappiamo delle trasformazioni sul Palazzo Vecchio vengono da queste fonti. Falconieri allega alla sua memoria una pianta

Le trasformazioni di Firenze per far posto al parlamento del neonato stato italiano che mostra come lui interviene sul Palazzo. Lui fa riferimento a due soluzioni tecniche derivanti dalle sue indagini sul funzionamento di una Camera dei Deputati: quella

tipo Westmister con funzione frontale e quella ad emiciclo, per la quale lui optò. Scelta dettata essenzialmente da motivi pratici: è la sala più grande disponibile in Palazzo Vecchio (il Senato verrà

realizzato nel teatro mediceo negli Uffici, ma aveva un numero minore di membri). Falconieri realizza una struttura lignea, rimovibile, quindi non danneggia la struttura esistente, salvo l’apertura all’attuale Studiolo di Francesco I. Lui si preoccupa di realizzare collegamenti con gli altri ambienti di Palazzo Vecchio e per questo realizza lo spazio di collegamento fra il Salone dei Cinquecento e il Salone de’ Dugento, che sarà la sala d’aspetto dei Deputati, come oggi il Translatantico a Roma. La demolizione della scala che collega il Salone dei Cinquecento al Quartiere di Eleonora è quella più importante. Poi Falconieri realizzerà tutta una serie di scale ai due lati del Palazzo per comodità, così che i Deputati potessero raggiungere dal piano strada più facilmente l’aula, come quello per via della Ninna. All’esterno il Falconieri si preoccupa di realizzare anche passaggi aerei in modo da poter raggiungere altri uffici esterni al Palazzo. Il piccolo passaggio in via della Ninna è, ad esempio, al servizio sia della Camera dei Deputati che del Ministero degli Esteri. Inoltre completa un’area mai compiuta prima: quella del terrazzino di Giunone che affaccia all’interno del Palazzo. Quindi, la scena finale è composta da uno scranno frontale per la presidenza e tutta una seri di scranni posti ad emiciclo, con dei corridoi. Il lato dell’Udienza rimane, come oggi, libero. Infine, ed è la cosa forse più notevole, Falconieri realizza il recupero del Genio della Vittoria di Michelangelo e la Firenze che trionfa su Pisa del Gianbologna: c’è dunque l’idea che la storia passa, ma la memoria persiste. Con la sistemazione del Salone dei Cinquecento tutte le sculture vengono portate nel nuovo Museo Nazionale del Bargello mentre restano nel Salone a testimonianza della storia politica della città queste due opere di Michelangelo e del Gianbologna. Si vuole legare la città alla sua storia non solo attraverso quanto è rappresentato nel soffitto, ma anche attraverso queste due importanti sculture ai due lati del Salone.


riunione

di famiglia

21 NOVEMBRE 2015 pag. 4

Le Sorelle Marx Cosa non si farebbe, in questi tempi di crisi dell’editoria, per vendere qualche copia in più! L’ultima trovata è de “La Nazione – QN” e si chiama Presepiamoci, una campagna del giornale fiorentino per “riscoprire e valorizzare le nostre origini, in un delicato momento in cui l’Occidente tutto cerca in ogni modo di riappropriarsi della propria identità”. Un messaggio alle nuove generazioni: “in vista del Natale il nostro invito va alle scuole di ogni ordine e grado affinché realizzino un presepio all’interno dell’istituto”. Poi, andate sul loro portale e pubblicate immagini e video dei presepi. I più belli vincono un riconoscimento, la possibilità di partecipare a un incontro di riflessione nella sede de “la Nazione” e visitare il giornale. Fervono grandi attività nelle scuole con corsi di Presepeologia (gli insegnanti hanno partecipato a corsi di aggiornamento appositi), si svuotano i grandi magazzini di figurine in plastica e terracotta; si depredano i boschi di tutto il muschio possibile... e giù, tutti a recuperare radici, origini, culture dei bei vecchi tempi andati, per la gioia del presidente Giani (che sicuramente sarà in prima fila a premiare tutti i presepi più belli... pregevole iniziativa, ça va sans dire). Il presepe, dice “la Nazione”, come “ponte” culturale tra i popoli (e questo è vero essendo Gesù un bambino ebreo

Te piace ‘o presepe? di Palestina, respinto però dai grandi sacerdoti del Tempio e messo a morte dai romani). Però anche un simbolo problematico e non tanto tranquillizzante: dormire all’addiaccio perché nessuno ospitava questa famigliola di palestinesi, l’alito di un bue e di un asino per riscaldarsi, la minaccia dello sterminio dei neonati voluta dal

potere politico romano e se non fosse stato per un po’ di pastori poveri e analfabeti e quei tre re-maghi venuti dall’Oriente (di cui uno pure negro) avrebbe avuto vita ben grama fin dalle prime ore. E poi l’inventore di questo presepe non è che sia tanto in linea con questo clima da bianco Natale: uno che era

Dopo Parigi, che cultura farà?

Dopo venerdì 13 ci siamo ritrovati. Ritrovati con le nostre domande e quelle dei nostri figli in cerca di rassicurazione. “Non può succedere anche a noi, vero?” Non volendo mentire a loro e a noi stessi, prendiamo consapevolezza che sì, invece, può succedere anche a noi. Forse soprattutto a noi. A noi che viviamo in città d’arte, che la sera usciamo e consumiamo cultura, che frequentiamo ristoranti o che addirittura di mestiere queste cose le facciamo. Può succedere a noi e questo ci fa paura, è umano, normale e giusto così. La paura è sentimento primordiale, l’importante è non farsi sopraffare da essa. Ecco, nelle parole spesso retoriche di questi giorni – non cambieremo il nostro stile di vita – noi dobbiamo trovare una nuova consapevolezza. Vivere, cibarsi di cultura, da venerdì scorso è diventato atto consapevole, abbiamo e dobbiamo acquisire coscienza che il nostro vivere, i nostri teatri, i nostri cinema sono diventati atti consapevoli di messa in gioco non soltanto del nostro tempo libero ma di qualcosa di molto più importante. Questa consapevolezza ci rassicurerà negli sguardi che ci scambieremo, nello scrutare l’altro a fianco in metropolitana o al ristorante. E ci farà comprendere quelli che, cortesemente, rifiuteranno il nostro invito al cinema. Non cambieremo il nostro stile di vita, anzi sì, vivremo con le nostre passioni e la nostra cultura ancora di più, ancora più convinti del dono che facciamo e contemporaneamente riceviamo. Ci siamo ritrovati, non perdiamoci.

I Cugini Engels

Lo Zio di Trotzky

La visita del Papa ha sconvolto Firenze facendo riscoprire, anche ai più incalliti mangiapreti, un afflato religioso che solo un gesuita può instillare nei cuori dei non credenti. Non manca, e come potrebbe, a tale rinascimento cristiano la figura del presidente del consiglio regionale Eugenio Giani che, con l’ennesimo balzo tralascia il proprio passato laico e socialista, per confluire nella schiera dei devoti. Ecco quindi che l’Eugenio regionale, nel suo studio di via Panciatichi decide di mettere un crocefisso; immagine di devozione e genuflessione dell’istituzione laica nei confronti di una fede. Ecco quindi che armato di fascia e martello regionale (probabilmente forgiato per l’occasione da un

La cosa era già sfuggita di mano con la visita papale. Cartelli manoscritti invitavano il Pontefice a “salutare la capolista”, ma fin lì si poteva pensare alla tipica goliardia fiorentina. Con la visita di Mattarella invece si è compiuto un salto di qualità: è stato lo stesso sindaco Nardella a evocare il saluto, su twitter, regalando una maglia della Fiorentina al Presidente della Repubblica. Lasciamo perdere l’etichetta, il cerimoniale, si sa viviamo tempi dove ormai la forma muta verso l’immagine. Non bastasse tutto questo infatti, la scelta della maglia, quella con il numero 10, ha creato un caso istituzionale, una grave frizione tra poteri. Sanno tutti benissimo che il numero 10

ricco e che si è spogliato dei suoi beni per girare scalzo e vivere di carità, alla guida di un’accolita di folli come lui; uno che parlava con lupi e uccellini e soprattutto uno che se n’è andato in Oriente a parlare (sì, a parlare, mica a bombardare o a fare la Crociata) con il Sultano di Babilonia. C’era allora una guerra implacabile fra cristiani e musulmani e Francesco va in Siria, sul campo di battaglia, con la pretesa di incontrare il Sultano, nonostante che questi in un editto avesse proclamato che chiunque gli avesse portato la testa di un cristiano, avrebbe ricevuto il compenso di un bisante d’oro. Secondo il racconto di san Bonaventura da Bagnoregio, il Sultano lo ascoltò, non si convinse alla conversione cui lo chiamava Francesco; cercò di blandirlo (corruzione ambientale, si direbbe oggi) con doni di preziosi che però Francesco rifiutò sdegnosamente e, proprio per questo suo disinteresse per le cose del mondo, il Sultano lo apprezzò ancora di più. Non soltanto non l’uccise, ma si affezionò al poverello d’Assisi. Il quale, preso atto che non riusciva a convertire il capo dei musulmani, se ne tornò tranquillamente a casa, senza tuttavia partecipare o benedire la Crociata. Ecco, quest’uomo qui ha inventato il presepe. “Te piace ‘o presepe? “ diremmo con il De Filippo di “Natale in casa Cupiello”: questo forse sì, quello de “la Nazione” un po’ meno.

C’è solo un presidente, un presidente

Lodevole (e santa) iniziativa

(da cantare tutti insieme)

qualche eccellente artigiano toscano) il presidente Giani ha conficcato il chiodo nel muro alle ore 13.15 del 12 novembre 2015 convocando, naturalmente, la stampa per l’occasione con comunicato stampa ufficiale. Per fortuna l’applicazione del crocifisso (di cui ignoriamo la provenienza, se ligneo o di cartapesta, l’artista che lo ha donato…) è filata liscia e il presidente non ha colpito, col martello ufficiale, il proprio dito. Cosa che avrebbe potuto provocare l’imprecazione di un moccolo all’indirizzo di nostro signore; reazione certo molto toscana ma che avrebbe vanificato il percorso spirituale del Presidente.

della Viola, in ambito politico, non può che essere di Renzi che più volte ha usato la metafora del regista calcistico per se stesso. Un atto deliberato, dubitiamo che Nardella ignorasse questioni così sostanziali, che dà adito alle voci di un sindaco malvisto a Palazzo Chigi. Per dire, si vocifera a Roma, Lotti avrebbe donato una maglia con il numero 8 a Mattarella.


21 NOVEMBRE 2015 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

L

e fotografie, non quelle digitali, virtuali ed impalpabili di oggi, registrate su memorie elettroniche e visibili solo su schermi idonei, ma quelle stampate su carta o cartoncino, concrete, visibili, e palpabili, hanno sempre due facce. La prima contiene l’immagine, la seconda contiene, o dovrebbe contenere, a norma di legge (L. 633/1941 art. 90) il nome del fotografo e l’anno di esecuzione, ma questo non è sempre vero. Tuttavia, esaminando una fotografia, conviene sempre osservare anche il così detto lato B (non si sa mai). Questo è tanto più vero per le fotografie dell’Ottocento, ed in particolare è vero per i ritratti, soprattutto quelli di formato “carte de visite”. Talvolta questi ritratti, stampati su sottilissima carta albuminata ed incollati su eleganti cartoncini, riportano in basso sul lato A il solo nome del fotografo, ma è sul lato B che vengono quasi sempre riportati per esteso i dati del fotografo (qualificato come artista/ fotografo o pittore/fotografo), dati completi con l’indirizzo dello studio e di eventuali succursali. Talvolta vengono aggiunte le indicazioni di premiazioni, specializzazioni, e così via pubblicizzando, arricchite con interessanti o curiosi disegni ornamentali. Il semplice ritratto della persona effigiata, di solito un perfetto sconosciuto, non dice quasi niente allo storico della fotografia, mentre le indicazioni poste sul dorso dicono molto e permettono di ricostruire una parte della storia della fotografia, soprattutto se la persona effigiata ha aggiunto sul dorso, con l’inchiostro e di proprio pugno, qualche altra indicazione preziosa o qualche data certa. Andando a vedere, ad esempio, qualche vecchia “carte de visite” di fotografi operanti a Firenze fra il 1860 ed il 1900 (se ne trovano molte nei mercatini delle occasioni e su e-bay), si scoprono moltissime cose. Qualcuno dirà che è banale, che non c’è niente da scoprire, tutti sanno che a Firenze all’epoca c’erano gli Alinari (fratelli), e qualcuno magari si ricorda che c’era anche il Brogi (padre), ma in realtà a Firenze nella seconda metà dell’Ottocento di fotografi professionisti ce ne sono parecchi, oltre

Fotografi ritrattisti a Firenze nell’ottocento una cinquantina. Molti di essi si dedicano a fotografare palazzi e piazze, opere d’arte e monumenti, molti altri (a volte gli stessi) praticano anche la meno nobile arte del ritrattista, proprio con il metodo economico della “carte da visite”, inventata e brevettata da Disdéri nel 1854 e diffusa successivamente in tutta Europa. Gli Alinari vi si dedicano molto presto, ancora prima del 1864, anno in cui la sede viene trasferita in Via Nazionale, e sul retro di molte “carte da visite” vi è il timbro con il vecchio indirizzo di Piazza San Gaetano, mentre Giacomo Brogi vi si dedica più tardi, proprio a partire dal 1864, nello studio sul Lungarno delle Grazie. Fra gli altri fotografi della stessa epoca che si dedicano al ritratto si trovano ad esempio i fiorentini Vincenzo Panagori, parente degli Alinari, con studio in Via del Palazzuolo e poi in Via della Scala, Enrico Andreotti in Via Porta Rossa e poi in Via del Parione, Achille Batelli in Via della Vigna Nuova, e Federigo Guidi in Via Frescobaldi. Nello stesso tempo si insediano a Firenze alcuni fotografi stranieri, come Anton Hautmann in Via della Scala, Longworth Powers in Via Dante da Castiglione, o il francese Alphonse Bernoud che apre parecchi studi in Italia, da Genova a Roma, poi a Napoli e Livorno, ed a Firenze in Via dei Balestrieri, poi in Via del Proconsolo ed infine in Via dell’Oriuolo. In seguito al trasferimento della capitale, aprono a Firenze le succursali di alcuni fotografi torinesi, come Michele Schemboche che si insedia in Via della Vigna Nuova e poi in Borgognissanti, e Luigi Montabone in Via de Banchi, con studi che mantengono il nome del fondatore anche durante le gestioni successive. Nelle ultime decadi del secolo gli studi dei fotografi ritrattisti si moltiplicano, con nomi come Giuseppe Alvino in Via Nazionale, Giuseppe Zaccaria in Via Calzaioli e poi in Via Pietrapiana, e Francesco Benvenuti in Piazza san Marco, mentre fioriscono studi con nomi come “Fotografia Artistica”, “Fotografia Parigina” e “Fotografia Americana”. Sempre sul lato B compaiono spesso scritte come “Si conservano i negativi” o “Si possono avere nuove copie”.


21 NOVEMBRE 2015 pag. 6 Dino Castrovilli f .castrovilli@virgilio.it di

M

entre esce questo articolo sono esattamente quattro settimane da quando Antonio Bertoli ci ha lasciati, stroncato a meno di 58 anni (li avrebbe compiuti il 12 novembre) da un male che gli ha dato poca tregua. Se n’è andato in silenzio, Antonio (“Toni” per gli amici più stretti; per me era “il comandante”, in omaggio al nostro comune amore per l’“Oh capitano, mio capitano” di Walt Withman nel film di Peter Weir “l’Attimo fuggente”), nella casa in campagna vicino a Guardistallo, il rifugio che aveva meritatamente trovato dopo una separazione dolorosa ma liberatoria dalle “cose” fiorentine, incapaci di restituirgli tutta la passione e la genialità che vi aveva riversato. Avremo occasione di riparlarne (per il 17 febbraio è prevista una serata in suo ricordo al Teatro Puccini), ma vorrei intanto brevemente rompere questo silenzio per restituirgli l’onore che gli spetta per quanto ha fatto come intellettuale, promotore e manager culturale, editore-libraio, poeta, terapeuta ed esprimere l’ammirazione e l’affetto di quanti, e non siamo pochi, hanno avuto la fortuna di conoscerlo, di frequentarlo, di essere “scoperti”, stimolati, valorizzati da Antonio. Il modo: ricordare sinteticamente quello che Antonio Bertoli è stato e quanto ha fatto, ma soprattutto proporre quella che è una delle sue espressione poetiche più alte, Io mi accuso, tratto da “Cuore distillato”, l’atto poetico scritto ed eseguito dal vivo con il cantante e musicista Marco Parente. Dunque, dopo una laurea al Dams di Bologna sulle avanguardie storiche del ‘900, Antonio Bertoli, nato in un paesino vicino Rovigo, approda a Scandicci per dirigere il Teatro Studio. Grazie a lui approdano a Scandicci, aggiungendosi alla innovativa produzione dei Krypton di Giancarlo Cauteruccio, giganti come il Living Theater di Julian Beck e Judith Malina, produzioni d’avanguardia come quelle di Claudio Morganti, musicisti come Laurie Anderson, Larry Coryell, David Moss, David Holland, Steve Lacy, poeti-pittori come Lawrence Ferlinghetti. Nel frattempo, insieme a Sergio Staino, in due anni “risuscita”, con incontri, concerti, rassegne cinematografiche, “talk show” dal vivo, mostre, anche il

Non batte più il cuore distillato di Antonio Bertoli Teatro Puccini. Nel 1998 Bertoli dà l’addio al “posto fisso” e al suo asfissiante contesto burocratico e si lancia nell’avventura di City Lights Italia, libreria e casa editrice, prima e unica filiale al mondo della famosa libreria e casa editrice di San Francisco, fondata e diretta da Lawrence Ferlinghetti. Un’impresa impossibile, anche a detta di Ferlinghetti (“Non ce la farai economicamente vendendo solo quel tipo di libri”), che Antonio Bertoli sentiva però di potere e dovere affrontare. Nel corso di pochi anni in via San Niccolò sono passati tutti i grandi della beat generation: Ferlinghetti, John Giorno, Gregory Corso (seguìto dalla troupe di una tv giapponese che lo filmava 24 ore su 24, eccessi alcolici e psichedelici compresi), Anne Waldman, Diane di Prima, Ed Sanders e i suoi mitici Fugs, Jack Hirschman, portati poi in tour in Italia (assieme a Claudio Lolli, Marco Parente ed altri) con Pull-man-My- Daisy (un pulmann itinerante che si fermava per performance di due ore), da Cagliari a Genova (lì, con lancio di “messaggi poetici” da un elicottero, fu fondata la Prima internazionale della rivoluzione poetica). E poi l’incontro con Alejandro Jodorowski, dalla mostra a Napoli delle

tavole di Roland Topor per Dune-il film che non avete mai visto (il film, che originariamente doveva essere diretto da Jodorowski, fu poi affidato, stravolgendone completamente la visionarietà, a David Lynch), allestita dentro un gigantesco verme gonfiabile con percorso interattivo alla magia dei tarocchi e alla ricerca e alla pratica della psico-biogenealogia proseguita fino all’ultimo. E poi, con Riccardo Pangallo, l’esperienza Phoenix, che al nuovissimo Teatro Politeama di Poggibonsi portò il regista americano (”maestro” di Scorsese, Ford Coppola e tanti altri) Roger Corman (con i suoi film tratti da Edgar Allan Poe accompagnati in diretta dalla musica di Stefano Bollani), Fernando Arrabal, Franco Battiato, l’allora semi-sconosciuto disegnatore e regista Enki Bilal. Negli ultimi tempi di City Lights Bertoli accetta di “rientrare”, con un contratto di diritto privato, nel “pubblico”, assumendo la direzione dell’Istituzione cultura di Pontassieve. Anche qui un programma ambiziosissimo di mostre, concerti, reading. Ma Dio aveva deciso di accecarlo, almeno per qualche tempo, e così gli manda incontro degli amici-collaboratori che Bertoli non riconosce come falsi, i quali complottano contro di lui e portano alla chiusura, con debiti, di City Lights

ma soprattutto all’accusa (con successiva condanna) a Bertoli di mala gestione dei fondi dell’Istituzione cultura di Pontassieve. E’ un colpo durissimo (era convinto che le vicende relative alla fine di City Lights e alla bruttissima conclusione dell’esperienza di Pontassieve fossero state una delle cause scatenanti la sua malattia) da cui comunque si riprende impegnandosi ancora di più nella collaborazione con Jodorowski (ne traduce alcuni libri e ne cura l’edizione con Giunti), sviluppa, approfondisce, tiene seminari e pubblica numerosi libri sui tarocchi e soprattutto sulla Psico-Bio-Genealogia e si dedica alla produzione poetica, regalandoci perle come Bianca Pecora Nera-Poetica Poesia (Il Vicolo, 2009), Territori del cuore (Maelstrom, 2007), Cuore distillato (con Marco Parente), Venti minuti (Maelstrom, 2011). Il cancro lo coglie quando nuove e gratificanti prospettive erano già aperte. Vorrei salutarlo con alcuni dei suoi bellissimi versi: Agitandosi senza sosta e sempre muovendosi/ facendo sempre/Sempre inseguendo qualcosa che è di più ma anche di meno/mangiando, pensando, sentendo, amando, creando/Una vita intera come fuoco che brucia legna nell’aria/e libera faville, riflessi, calore, luce e fumo/Una vita intensa che poi sarà solo cenere e ricordo (da Ode alla Poesia)


21 NOVEMBRE 2015 pag. 7 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

L

’Arte genera emozioni e riflessioni; dà origine a una relazione empatica con l’artista e, di conseguenza, l’artista instaura con il pubblico un dialogo interrotto volto alla focalizzazione sugli elementi più nascosti della quotidianità e del presente storico, con l’intento di lasciare una traccia indelebile sulle coscienze collettive e sulle generazioni postume. Con la Video Art si entra nella dimensione di una nuova idea di rappresentazione: l’immagine statica del quadro si nutre del movimento e diviene essa stessa movimento, attraverso la presa di coscienza che lo sviluppo tecnologico è inevitabile e che ogni forma d’espressione debba farsi carico della vivacità che ne consegue. Non a caso la stretta interazione tra arte, scienza e tecnologia ha imposto specifici parametri di fruizione rispetto ai canoni tradizionali, aprendo la riflessione critica sulla produzione creativa e il processo tecnologico, sull’originalità e sull’autenticità dell’opera d’arte in un’epoca di “ultra” riproducibilità tecnica. Di fatto il mezzo video entra prepotentemente nel sistema artistico contemporaneo, segnando definitivamente il passaggio dall’epoca della macchina a quella della tecnologia. Sul finire degli anni Sessanta Nam June Paik non solo utilizzò televisori e mezzi video ma si avvalorò di esperti in tecnologia e musica, in modo da fondere il binomio arte e tecnologia in una sincronicità inedita. L’attivismo mediatico venne quindi messo in primo piano, per precise finalità comunicative: il medium interviene direttamente sul reale e sulla percezione dello spettatore, traducendosi nella messa in discussione del punto di vista soggettivo, interpretativo e rappresentativo. L’opera d’arte si fa interattiva e allo spettatore è richiesta una critica presa di coscienza e una precisa riflessione in conseguenza del bombardamento di immagini, suoni e luci: una consapevolezza ben lontana dalla fruibilità estatica di una tela o di una scultura. L’opera d’arte di Nam June Paik è una vera e propria scommessa

Tecno arte

Nam June Paik

Sopra Senza titolo, 1989 Cartone sagomato con inserimento di fotografie, una delle quali firmata e numerata da Charlotte Moorman cm 127,5x43,5 In alto a sinistra La boite du voyeur, 1993 Cassetta postale in ghisa e televisore e telecamera cm 87x47x26 A fianco Senza titolo, 1969 3 apparecchi televisivi e 3 basi bianche disegnate dall’artista. cm 27x40x50 - 48x30x45 - 50x35x50 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

sul futuro e sul progresso, è un preannuncio del caos mediatico e un avvertimento finalizzato a porre una maggiore attenzione alle ambiguità esistenti fra il virtuale e il concreto, la realtà e la rappresentazione, nonché il vero dalla finzione.


21 NOVEMBRE 2015 pag. 8 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

Q

ualche tempo fa (numero 119) abbiamo accennato a Mara Aranda perché la cantante valenciana aveva partecipato al CD Música encerrada: El legado oral de la diáspora sefardí (CdM, 2014), realizzato dalla Capella de Ministrers, un gruppo catalano dedito alla musica medievale e rinascimentale. L’occasione per parlare più estesamente di lei ci viene offerta dal suo nuovo CD, Mare Vostrum (Picap, 2015). Prima di concentrarci sul disco, però, è necessario inquadrare l’artista spagnola nel suo contesto. Nata nel 1968, Mara Aranda inizia il proprio percorso artistico nel 1990, quando fonda il gruppo Cendraires insieme a Joansa Maravilla, Nestor Mont e altri musicisti. Un momento centrale della sua evoluzione artistica è l’incontro con Efrén López, un polistrumentista valenciano che condivide pienamente i suoi interessi: musica antica, mediterranea e mediorientale. I due fondano

Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di

Il dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani (che trovate anche in rete all’indirizzo www. etimo.it) per quanto riguarda la parola “canto”, in senso toponomastico, propone numerose etimologie che, pur significando tutte sostanzialmente “angolo”, spaziano dal cimbrico “CANT” al greco “KANTHOS”. Per i fiorentini del medio-evo, ignari di tali dotte dissertazioni, il “canto” era semplicemente l’abbreviazione di cantonata, l’angolo di due strade, e, nella toponomastica di allora, le strade erano appunto individuate “da canto a canto”. Basandosi sul lavoro di Paolo Gori Savellini, Bargellini e Guarnieri nelle “Strade di Firenze” hanno individuato 81 canti, della maggior parte dei quali manca da qualche secolo la targa stradale, la cui denominazione, in alcuni casi, è legata a fatti singolari e curiosi. Tutti naturalmente conoscono il “Canto dei Bischeri”, all’angolo fra Piazza del Duomo e Via dell’Oriuolo, e il fatto che la famiglia dei Bischeri, volen-

Identità mediterranea

il gruppo L’Ham de Foc, che si muove appunto in questa direzione. Cor de porc (Galileo, 2005) è il disco ideale per conoscerlo. Fra il 2003 e il 2004 Mara soggiorna a Creta per approfondire la conoscenza della musica tradizionale. Quindi si stabilisce a Salonicco, la “Gerusalemme dei Balcani”, dove arricchisce il proprio bagaglio studiando

il repertorio bizantino e quello sefardita. Negli anni successivi la cantante incide numerosi dischi. Col gruppo Aman Aman realizza Música i cants sefardís d´Orient i Occident (Galileo, 2006); col progetto Al Andaluz esplora la tradizione arabo-andalusa (Deus et Diabolus, Galileo, 2007); con Sephardic Legacy (Bureo, 2013) conferma il forte interesse per la cultura giudeo-spagnola. Questo

spiega la sua partecipazione al suddetto Música encerrada: El legado oral de la diáspora sefardí. Ma torniamo al CD Mare Vostrum, col quale Mara Aranda celebra 25 anni di attività. Al nostro orecchio il titolo suonerà strano, dato che siamo abituati all’espressione Mare Nostrum. Coniato dai Romani per indicare il Tirreno, questo termine venne poi esteso all’intero Mediterraneo. Oggi usiamo questa espressione senza fare caso al suo significato, ma il titolo ci ricorda che questo mare tocca tanti altri popoli, dall’Atlantico al Medio Oriente. La cantante ha scritto i testi delle 11 tracce, tutte cantate in catalano. Stavolta prevale l’interesse per l’area bulgara (“Eterns”, “Trinitas/Kopanitsa”) e turca (“Senyoreta”, “Cant de la sirena”), sempre con ampio uso di strumenti legati a queste regioni (baglama, bouzouki, liuto, etc.). In “Traït” Abel Garcia, autore di molti brani, fonde la tradizione turca col flamenco. “Syrtos de la malmaridada” è una danza tratta dal patrimonio cretese.

fra Via dell’Agnolo e Via dei Pepi. Quello, come ci informa una targa stradale ancora ben visibile, era il “Canto alla Briga”, così chiamato a ricordo della litigiosità dei residenti, che non perdevano occasione per azzuffarsi: erano dei veri e propri “attaccabrighe” e alcuni diventarono addirittura dei “briganti”. Ci sarà occasione di approfondire altri “canti”, ma chiudiamo queste note con il Canto di Sitorno (all’angolo fra Via dei Serragli e Via della Chiesa), il

cui nome pare sia dovuto alla presenza in loco del sepolcro di tale Aulo Nievo Saturnino, ma che invece, secondo un’altra singolare ipotesi, avrebbe l’etimologia più curiosa di tutte. Abbiamo accennato altrove (Via dei Pandolfini) che Dante ricopriva l’incarico di “Ufficiale di strade, piazze e ponti”: in questa veste gli era stato assegnato il compito di battezzare i “canti”. Quando gli fu comunicata la notizia dell’esilio si trovava proprio lì e la prima cosa che fece, e che è rimasta nella toponomastica, fu di esclamare “Sì, torno!”. Non è vero nulla, perché al momento della condanna Dante si trovava a Roma, ma ci voleva comunque una bella fantasia per inventare questa storia.

Canto di Sitorno

Il ritorno di Dante

do speculare sui propri terreni quando si trattò di costruire la nuova cattedrale, non accettò l’offerta della Repubblica Fiorentina che, alla fine, espropriò i terreni senza pagare un fiorino. Probabilmente non tutti sanno che per molti secoli i fiorentini hanno forse sbagliato la loro offesa preferita: pare infatti che non fosse la famiglia dei Bischeri, ma dei Bischéri. Lì vicino, all’angolo fra Via dei Servi e Via dei Pucci, si trovava il Canto di Balla: la Porta di Balla, all’epoca della prima cerchia comunale, si apriva sull’aperta campagna, dove si trovavano i tiratoi dell’Arte della Lana; l’aquila nello stemma dell’Arte dei Mercatanti o di Calimala, che aveva il monopolio dell’importazione di lana grezza dall’Inghilterra e dalla Spagna, non a caso stringeva negli artigli una balla di lana. Occhio a passare all’angolo


21 NOVEMBRE 2015 pag. 9 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

L

’artista indiano (bengalese) Rathin Kanji (1970), con base a Kolkata (Calcutta) è ospite in Empoli della associazione culturale per le arti contemporanee Sincresis. Kanji inizia la propria carriera artistica esponendo fino dalla fine degli anni Novanta in diverse città indiane, Hyderabad nel 1998, Chandigarh nel 1999, Bangalore nel 2001, Pondicherry nel 2003 e Chennai nel 2005, per approdare negli USA, dapprima ad Ann Harbor nel 2204 ed a Palo Alto nel 2005, esponendo in seguito a New York (20062007-2009) ed in numerose altre città, fra Asia, America Latina, Australia ed Europa. Le complesse opere di Kanji vengono realizzate utilizzando, spesso contemporaneamente, il disegno e le immagini fotografiche, il nero ed il colore, unitamente a testi, numeri e lettere dell’alfabeto, allo scopo di creare (ricreare) la complessità dell’ambiente umano (urbano). Di fronte ad una società diffusamente instabile, caratterizzata da individualismi esasperati, dalla sovrapposizione di segni (segnali) di carattere opposto, e condizionata, nel bene o nel male, dalla crescita esponenziale della tecnologia e dalla sua influenza sulla vita quotidiana, Kanji opera una azione di recupero del senso, frantumando e parcellizzando la visione, isolando particolari significativi, filtrando immagini e porzioni di immagine, riassemblando il tutto secondo un nuovo ordine ed un nuovo codice interpretativo. Eppure queste operazioni non sono sufficienti a restituire un senso completo del reale, sono opere in divenire, mai definitive, e sempre soggette a modificazioni, addizioni, spostamenti. Ogni opera può e deve essere reinstallata secondo modalità diverse, perché tutto cambia rapidamente, secondo linee evolutive o involutive che l’artista vive in prima persona e trasmette sull’onda della emotività ed in base ad illuminazioni successive. Kanji sembra trasferire nelle arti visive i concetti di “cut up” e “fold in” caratteristici della letteratura beat, nelle sue opere si scorgono i segni di rit-

Le foto di Rathin Kanji a Empoli

mi musicali nascosti, i testi non valgono per quello che sono ma per il posto che occupano, i colori, simbolici, prevalentemente nero, giallo e rosso, sono il filo conduttore che rende omogenee le dissonanze e che armonizza i disaccordi, gli spazi bianchi fra i suoi “ritagli” sono le pause che danno ordine al caos. Nelle sue opere, come nelle realtà urbane di cui le opere sono allo stesso tempo specchio ed interpretazione, niente è come sembra. Ad ogni successiva lettura il significato sembra cambiare, come in un testo fluido in cui tutto scorre, si trasforma, si aggrega e si disgrega. E quando tutto sembra chiaro, definito ed ordinato, il meccanismo interpretativo si rimette in movimento, in un processo di semiosi illimitata. di

Remo Fattorini

Segnali di fumo Così tanto per dire. Non convincono le reazioni dell’Occidente (“siamo in guerra”) alle stragi di Parigi (129 vittime e più di 300 feriti). Lo dico guardando i fatti. In realtà in guerra contro il terrorismo ci siamo da ben 14 anni. Dall’11 settembre 2001, dall’attacco alle Twin Towers e al Pentagono. Con interventi armati in Afghanistan, Iraq, Libia e ora Siria. Risultato: il terrorismo è più forte, pericoloso e minaccioso di prima. Tant’é che nel

2014 il costo che paghiamo al terrorismo ha raggiunto il record di 53 miliardi (Global Terrorism Index). Sempre nel 2014 le vittime del terrore sono salite ad oltre 32mila, in crescita dell’80% rispetto al 2013. Una cifra 7 volte superiore al numero delle vittime americane sul teatro irakeno in 12 anni di guerra. Una violenza che si concentra soprattutto in 5 Paesi: Afghanistan, Iraq, Nigeria, Pakistan e ora in Siria. Faccio notare che il dato più tragico si registra proprio nel Paese di cui meno si parla e che meno ci preoccupa. E’ infatti la Nigeria il più dilaniato dalla violenza e dal terrore con oltre 7.500 vittime solo nel 2014. Ed è proprio Boko Haram più ancora dell’Isis

e dei talebani a seminare lutti e sofferenze. C’è qualcuno che riflette su tutto questo? Che si domanda se questa guerra al terrorismo è uno strumento efficace? Che si interroga sul perché il terrorismo si rafforza anziché indebolirsi? Che si interroga sui motivi della sua inefficacia? Lo dico perché il dubbio che ci rode è che la sbandierata guerra di religione sia solo un alibi, in realtà a pesare di più, in tutta questa vicenda, sono gli interessi economici, finanziari e le ambizioni di potere. Mascherati da una guerra che si vuole legittimare con la difesa dei diritti universali. Che poi a ben vedere universali non sono proprio per niente.


21 NOVEMBRE 2015 pag. 10 Mario Cantini mario.cantini@gmail.com di

L

a cattedrale e le sue vicinanze erano il principale luogo di sepoltura dei fiesolani. Le famiglie più antiche di Fiesole avevano i loro sepolcreti all’interno della Cattedrale, ed altre non meno importanti immediatamente all’esterno, in quanto più uno era di buona casata più era seppellito vicino alla chiesa. I poveri invece erano seppelliti presso il campanile, ove doveva sorgere un fico di grosso fusto. Tale pianta dovette contare molte primavere, o invecchiato essere sostituito sempre da uno nuovo, poiché dal 1691 al 1782, nel registrare da parte dei curati la morte di gente volgare, ricorre saltuariamente questa bizzarra clausola: “e lo stesso dì fu seppellito al fico” con la precisazione che era “posto alla fine del cimitero di questa cattedrale” od “alla fine del sagrato dalla porta laterale di piazza”. Nella cattedrale, invece, il pavimento era costellato di sepolcri destinati ai canonici, alle compagnie ed a famiglie delle più antiche di Fiesole quali i Ferrucci, gli Orlandini, i Manuelli, i Pettirossi, i Tortoli, i Malavisti, i Guidotti, come avevano un sito distinto intorno alla chiesa altre famiglie non meno importanti come i Cosini, i Sandrini, i Patriarchi, i Bini, i Bozzolini, i Masi, i Rossi, i Bellini, i Della Bella. Tutto il restante sagrato, davanti e lungo il fianco il fianco della Cattedrale sulla piazza, era destinato alla sepoltura degli altri; altre sepolture dei più poveri erano invece più lontane, come risulta da una pianta della piazza risalente alla fine del secolo XVIII dove è indicato un camposanto nell’area all’angolo fra Piazza Mino da Fiesole e Via Riorbico e dove probabilmente si trovava il fico sopra segnalato. Però forse non tutti sanno che il primo ad abolire i seppellimenti all’interno delle chiese non fu Napoleone con l’editto di Saint Cloud del 12 giugno 1804, ma il Granduca Pietro Leopoldo che, fra le tante sue riforme, adottò anche questa. Nel 1783 emanò, infatti, le Istruzioni per la formazione dei campisanti a sterro dove si proibiva che in qualunque Chiesa, Oratorio, Casa Religiosa […]

All’ombra del campanile e dentro l’urne

siano nuovamente fabbricate delle sepolture. Erano descritti pure dettagliatamente i criteri tecnici ed igienici per la costruzione dei nuovi campisanti a salvaguardia della salute pubblica. Nella comunità di Fiesole la Cattedrale fu la prima ad adeguarsi alla nuova normativa anche

Bobo

se, provvisoriamente, le nuove sepolture furono trasferite in un altra chiesa, sia pure al momento inutilizzata. Per provvedere un nuovo Cimitero, col progetto dell’architetto Bernardo Fallani, fu pensato, infatti, di usare la navata centrale dell’antica Basilica di S. Alessan-

dro, che era nel frattempo caduta in totale abbandono perché trascurata da molti anni, scoperchiandone il tetto e demolendo il bel pavimento in smalto. Nel libro dei morti in data 20 giugno 1785 “si fa ricordo che Grassellini Anna di anni 9 fu l’ultima a seppellirsi in chiesa, e di qui in poi si seppellirà nel campo santo a sterro fatto per ordine di S. A. Reale ove era la chiesa di S. Alessandro”. 1 Il camposanto in S. Alessandro durò solo per due anni, quando fu abbandonato per essere stato tutto il suolo disponibile ripieno di cadaveri, impedendone l’ampliamento con l’utilizzo delle navate laterali. Nel frattempo il Comune aveva acquistato dal Capitolo nel 1788 un appezzamento di terreno del podere di Piazza o Buca delle Fate, situato a confine con la proprietà del Convento di San Francesco, per la costruzione del nuovo camposanto, consacrato il 14 febbraio 1790 con la benedizione del Vescovo Ranieri Mancini, camposanto che è ancora quello attuale.


21 NOVEMBRE 2015 pag. 11 Gianni Pozzi gipoz@libero.it di

A

lla Biennale di Venezia che si avvia a concludere la sua cinquantaseiesima edizione, ha rivolto un saluto, irriverente ma partecipe il recente Forum dell’arte contemporanea italiana promosso dal Centro Pecci di Prato. Il Forum, dislocato per tutta Prato, affrontava, in ventiquattro tavoli diversi e in una serie fittissima di incontri e conferenze, le linee problematiche dell’arte in Italia, dalla formazione (con il grande nodo sempre irrisolto delle accademie ) alle strutture, dai rapporti pubblico/privato a quello con i media. Dai premi al mercato e poi su su fino alle strategie da mettere in atto per rivitalizzare il sistema Italia. Argomenti di grande interesse, attorno ai quali si era riunita per un fine settimana una folla più che cospicua di artisti, critici, curatori, direttori, docenti. Una occasione assolutamente preziosa, anche se il taglio organizzativo che prevedeva una concomitanza di tutto, non sempre permetteva una adeguata partecipazione. Tra i tanti tavoli di riflessione comunque,ce n’era anche uno sulla Biennale. Intitolato: Il Padiglione italia, come salvarlo dal ridicolo. Dodici relatori, tra i quali molti curatori, da Angela Vettese a Chiara Vecchiarelli o Raffaele Gavarro. E un titolo forte per contenuti altrettanto forti: la necessità, cioè, imprescindibile di rivedere i meccanismi di valutazione e incarico del Padiglione Italia in linea con quel che accade in molti altri padiglioni della stessa Biennale. Già, perché la nomina del curatore del Padiglione, che è poi la carta da visita del nostro Paese, segue logiche ministeriali tutt’altro che trasparenti, tanto da arrivare, nella Biennale precedente, a nominare Vittorio Sgarbi, e Vincenzo Trione in questa. Due studiosi il cui interesse nei riguardi della ricerca artistica contemporanea non sembra, diciamo, prioritario. Trione è uno stimato docente dello IULM milanese ma si occupa principalmente di avanguardie storiche, De Chirico, Dalì, Savinio, non di contemporaneità. Per di più la commissione del Ministero dei Beni culturali (Franceschini ) lo ha nominato appena sei mesi prima della inau-

Venezia chiama Prato risponde

Opera di William Kentridge

gurazione. Come si può pensare a mettere su una mostra in un tempo del genere? E’ accaduto così che in questa Biennale, curata dal nigeriano Okwui Enwezor e caratterizzata da una forte idea dell’impegno dell’artista tanto da fare di Marx una sorta di filo guida della rassegna, il nostro Padiglione Italia sembrava calato Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com

da un altro pianeta. Diciotto autori, dai grandi protagonisti che ormai costituiscono una sorta di tradizione (Paladino, Parmiggiani, Kounellis ), a altri, di una generazione più giovane (la Beecroft o la Migliora ) a altri ancora abbastanza sconosciuti. Riuniti insieme nell’idea di un Codice Italia (era il titolo ma

di

Scavezzacollo

sembrava un brand ) che avrebbe dovuto far affiorare il nostro “codice genetico” stilistico. Poiché, per Trione, questi autori “non aderiscono al nuovo come valore da idolatrare”, anzi si sottraggono “alla dittatura del presente”, riscoprono “segreti rimandi” alla storia dell’arte e per loro un’opera è rimodulazione di “cifre che sono già state create”. Ci si chiede quali siano, e soprattutto se esistano artisti fuori da queste coordinate ideali. Ma quel che contava era la mostra: ogni artista chiuso in un proprio cubicolo, alla faccia di ogni idea curatoriale; dislivelli qualitativi imbarazzanti, il “codice genetico” che avrebbe dovuto tenere assieme tanta eterogeneità, così debole da diventare ridicolo. E in un allestimento così irragionevolmente inutile (oltre che costoso ) una video installazione con Umberto Eco impegnato in una riflessione, questa sì suggestiva, sul tema della memoria. Qualcosa da seguire con attenzione: ma collocato invece in cima a una scala, visibile solo da un piano inclinato dove non si riusciva a stare né in piedi né seduti. Certo, c’era il bellissimo lavoro di Kentridge su Pasolini, Triumphs and Laments, previsto per un Lungotevere e altri ancora degni di interesse. Ma purtroppo non c’era la mostra. E non era altro che l’ennesima occasione perduta del padiglione Italia. Sempre al Forum di Prato invece un altro tavolo di discussione si occupava di Separare la cultura dalla politica: Un’urgenza. Una questione affrontata anche in questo spazio in occasione della recente nomina dei venti direttori dei principali musei italiani da parte del Ministro per i beni culturali, con il consueto dibattito sul rapporto che il potere ministeriale intrattiene con la cultura. Forse è una urgenza davvero.


21 NOVEMBRE 2015 pag. 12 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

timi decenni del XIX secolo sarà l’inno dei rivoluzionari e degli indipendentisti di tutta Europa, nonostante le alterne fortune in patria (l’inno fu messo al bando da Luigi XVIII nel 1815 e da Napoleone nel 1830 per paura che la sua carica semantica potesse infiammare l’animo dei francesi rendendoli ingovernabili). La semplice composizione era diventata ormai una bandiera che rappresenta i valori fondamentali di Libertà e Fratellanza tra gli individui e i popoli. Oggi l’inno a distanza di 2 secoli dalla sua nascita mantiene inalterato il potere di questo messaggio.

D

opo la strage e le ore di angoscia, circondati da notizie terribili sui tanti attentati in Parigi, i tifosi lasciano la notte di venerdì 13 (giorno infausto) lo Stade de France intonando la Marsigliese, il canto che, nei momenti collettivi più difficili e in quelli più gioiosi, per i francesi di tutte le età e cultura è simbolo della solidarietà e della compattezza sociale dell’intero popolo. La Marsigliese fu scritta in poche ore nella notte tra il 24 e il 25 aprile 1792 da Claude-Joseph Rouget de Lisle, poeta, musicista e compositore, a Strasburgo dove era al seguito dell’Armata del Reno intenta a pattugliare il confine nord orientale dopo che la Francia aveva dichiarato la propria ostilità a Austria e Prussia. Il canto, dal titolo originario Chant de guerre pour l’Armée du Rhin, fu commissionato dal sindaco di Strasburgo per esaltare l’animo di un esercito afflitto dalla piaga delle diserzioni. Piacque subito, tanto da essere stampato in 100.000 copie da distribuire ai soldati e alle forze rivoluzionarie, per le sue caratteristiche: sia il testo, che riportava gli slogans gridati dai rivoluzionari del tempo, che la musica, estremamente semplice e ripetitiva, dal ritmo incalzante, erano facilmente memorizzabili e cantabili dai soldati. Sembra che Rouget per comporre, in poche ore lo Chant de guerre si rifacesse alla composizione, già conosciuta al suo tempo, Tema e variazioni in Do maggiore (1781) del musicista italiano Giovan Battista Viotti o, più probabilmente, ad alcuni passaggi del Concerto n°25 per pianoforte e orchestra in Do maggiore (1786) di Mozart. Dopo aver portato a termine con successo alcune operazioni di guerra l’Armata del Reno entrò trionfalmente a Parigi cantando lo Chant de guerre mentre marciava verso le Tuileries tra l’entusiasmo del popolo che ne ripeteva le parole e la musica. Nelle truppe c’erano molti volontari marsigliesi e per questo i parigini battezzarono subito l’inno la Marseillaise. Ben presto si diffuse nel paese e oltre i suoi confini e fino agli ul-

Allons enfants

Francesco Cusa info@francescocusa.it di

Sono uscito davvero scosso dalla visione del documentario di Amy Berg su Janis Joplin, prodotto dal taglio classico che descrive la parabola di una delle più grandi voci della storia. Un lavoro che rimanda a certa documentaristica degli anni Sessanta e dei Settanta, assemblato con sapienza artigiana in un riuscito contrappunto tra le vicende private e pubbliche della cantante texana. La regia della Berg, quasi in sottrazione, grazie al minuzioso processo di cucitura ordito con sapienza artigianale, rappresenta un sublime omaggio alla figura della Joplin, al canto e al fuoco della sua passione viscerale, linfa e veleno per i nostri cuori e soprattutto per la nostra anima. Tale resa filologica è forse troppo vivida e la poetica di Janis Joplin troppo sincera e maestosa per essere mostrata nell’oscena nudità delle contrastate sue vicende personali, tramite la schizofrenia di un personaggio

Amy Berg su Janis Joplin

ambivalente e in continua ricerca di una catarsi che non poteva che essere performativa. Un essere di tale potenza ancestrale che si offre quale oggetto sacrificale di scandaglio a noi poveri figli della cultura sintetica, può essere fonte di grande pertur-

bamento e generare perfino angoscia e disagio. Gli artigli della Grazia di questa sorta di semidivinità tantrica, creatura di mefitica purezza, scavano duri solchi sui nostri ansanti toraci: è la bestialità d’una vocalità che annichilisce ancora a distanza di lustri, rendendoci come impotenti testimoni d’una conclamazione di “verità”, è l’urlo d’un epoca che confluisce nel corpo di una ragazzina infelice, poco incline al rispetto delle regole e dell’ortodossia d’una società opulenta e sessista, urlo che si farà sempre più devastante distruggendo il corpo di Janis nel nome di una sacralità epica e incommensurabile. Portatrice di contrasti insanabili, veicolo d’una irriducibile urgenza espressiva, manifestazione del Sudicio, della Grazia, della Malinconia, della Vitalità, della Disperazione, del Delirio, questo è stata Janis Joplin, nella carnale e al contempo surreale visionarietà d’un canto che non potrà avere epigoni.


21 NOVEMBRE 2015 pag. 13 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

arti inferiori avevano smesso di crescere fermando la sua altezza a non più di un metro e mezzo), che da un certo periodo in poi cadde in preda all’alcolismo e a manie di persecuzione e che morì prematuramente nel 1901, a soli 36 anni. Fu probabilmente una certa condizione di (già iniziale, rispetto al prosieguo dell’esistenza) svantaggio a spingerlo nelle braccia dell’attività e della produzione artistica, avendo indubbiamente un grande talento per il disegno e acquisendovi una altrettanta padronanza. Non voglio dimenticare che accanto alle opere di Lautrec è in mostra una selezione di dipinti degli artisti italiani che più trassero ispirazione dalla sua arte, come Federico Zandomeneghi, Giovanni Boldini, Serafino Macchiati, Pompeo Mariani. Né che il catalogo della mostra, edito da Skira, raccoglie per la prima volta in lingua italiana l’opera grafica completa dell’artista.

I

l Palazzo Blu di Pisa ha già collezionato, nel passato recente, delle autentiche ‘chicche’ - in particolare con le mostre dedicate a Wassily Kandinsky e ad Andy Warhol - e conferma di non voler perdere il passo ribadendo il concetto con “Toulouse-Lautrec / Luci e ombre di Montmartre, esposizione curata da Maria Teresa Benedetti che potrà essere visitata fino al prossimo 14 febbraio. Si tratta di un evento importante nel suo genere, in terra di Toscana, con oltre 180 opere dell’artista di Albi (sud della Francia) provenienti da importanti collezioni pubbliche e private francesi e internazionali, tra esse figurando dipinti, locandine e molte litografie con l’intera raccolta dei più celebri manifesti. L’arte di Henry de Toulouse-Lautrec si concentrò su una ben precisa umanità, di cui condivise gioie e angustie, eccessi e debolezze. Forse meglio e più di altri egli avrebbe rappresentato lo stile di vita della Parigi di fine Ottocento, quella del Moulin Rouge, di Montmartre, dei teatri, dei caffé-concerto e delle maisons closes. Erede di una famiglia di alta artistocrazia, non disdegnò di frequentare e vivere nei bordelli, ove peraltro studiò la nudità per tradurla in arte, in colore, nel fondo viola o blu elettrico dei suoi ampi manifesti. Creò capolavori intrisi di elementi sperimentali che avrebbero dischiuso le porte alla modernità e, più di tutto, fu nuovo, inedito il suo utilizzo della rappresentazione artistica come veicolo pubblicitario. Con Tolouse-Lautrec si istituisce un rapporto profondo e fecondo tra grafica e pittura, si avvicinano cioè dei mondi che avevano fin lì proceduto separati: in questo si impone ancora oggi la sua qualità/eredità di innovatore. Quello che lui frequentava era un mondo sfavillante ma altrettanto decadente, un ambiente popolato da personaggi stravaganti e pittoreschi, ritratti con toni spesso forti e caricaturali. Pochi artisti sono riusciti a produrre come e quanto lui in un così breve lasso temporale (ben 351 litografie in 10 anni), considerato che fu affetto da gravi malformazioni fisiche (i suoi

Gioie e angustie, eccessi e debolezze

Tolouse-Lautrec al Palazzo Blu di Pisa Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili La sicurezza non può stare appollaiata sulle nostre spalle ma scaturire dal nostro cervello Disegno di Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni


21 NOVEMBRE 2015 pag. 14 Claudio Cosma claudiocosma@hotmail.com di

posto dove normalmente non verrebbero collocate. La maniera di esporre in una evidenza non consueta, motivo conduttore delle 3 mostre in questione è tratta da un racconto di E. A. Poe, La lettera rubata. Da questo racconto in poi il nascondere qualcosa

mettendolo in evidenza tra oggetti similari è divenuta prassi consueta per lo meno agli emuli dell’investigatore Auguste Dupin. Le tavolette in questione sono ottenute attraverso un sistema di raschiatura, togliendo il colore precedentemente steso sul fondo e lasciando apparire l’immagine attraverso il suo negativo. Anche il procedimento artistico “a togliere” sottolinea per similitudine l’atto del celare. Trattandosi, dopotutto, di una mostra in un ristorante, agli ospiti che si tratterranno a cena verrà fornito il testo del racconto di Poe, che leggendolo con calma, sebbene a tavola non starebbe bene leggere, potranno trarre indizi per trovare le 50 tavolette. Nella vetrina, invece verrà messa una tavoletta non di legno ma di vetro e di formato maggiore per rendere simultaneamente più facile e più difficile il vederla. 23 novembre 2015, ore 18:30 doppia inaugurazione: Sensus Vetrina Ristorante Vinandro, Ristorante India, via Gramsci 43 dal 24 novembre al 13 dicembre: Sensus Vetrina, aperta 24 ore - Ristorante India, nelle sue ore di apertura.

casa si trasforma in inespugnabile prigione. Mai più scuola. E questo però non è il peggio, la nonna e le vicine cuciono vestiti “color merda e senza forma” e si ingegnano di impartire lezioni di cucina e varia casalinghitudine. Nel successivo gradino dell’ancor peggio le due più grandi vengono “messe” sulla piazza e, volenti o nolenti, fatte sposare, se “Allah vuole e sperando sia loro favorevole”. Una riesce ad imporre il ragazzo di cui è innamorata e con il quale ha fatto sesso alternativo che l’ha lasciata vergine, l’altra subisce. Ma ecco il peggio in assoluto,lo zio, decerebrato infante dalla grossa mole, violento e privo di contenuto mentale o emotivo, prima di darle via le usa nottetempo...La nonna, sua madre, che a me sembra orribile donna, ma forse non lo è visto che anche lei è forgiata da esperienze similari, gli da uno schiaffo “questa cosa deve finire....” La terza, trattata dallo zio e messa sulla piazza, in silenzio si suicida. La quarta è una bambina ancora, ma meglio non aspettare oltre e lo zio si avvantaggia...La piccola Lale guarda e vede, ascolta e capisce. Pensa e con cauta

calma si organizza, ruba a poco a poco dei soldi alla nonna, si fa insegnare un po’ a guidare da un giovane camionista, unico maschio “umano”, cerca l’unica possibile via di fuga, un albero. In un clamoroso e notturno finale, acchiappata la sorella bambina poco più adulta di lei, vestita da sposa, chiude fuori casa futuro marito ed ospiti e poi con la chiave della macchina dello zio, uno zainetto, i soldi, arrampicandosi sui rami amici, scappa con lei. Le due piccole, grazie ancora all’aiuto dell’unico maschio bravo, comunque non sufficiente certo a risollevare la categoria, riusciranno a prendere un autobus e ad arrivare dalla “prof” amata. L’alba azzurrognola smorza le mille luci di Istambul la bella e si riflette nel magico e tortuoso Bosforo. La scuola ha aperto la mente di Lale e questo ci conforta, strada da fare colà ne hanno tanta. Il film è gradevolissimo, le cinque ragazze, mustang sempre, anche nella scelta della morte, vengono immerse dalla regista in immagini piene di colori e della loro fresca e liscia pelle che illuminano la casa anch’essa color merda come gli abiti cari all’Islam.

N

ell’intervallo fra dissoluzione e creazione, Vishnù-Sesha riposava nella sua sostanza, luminoso di energia dormente, fra i germi delle vite future. Queste parole tratte dai Purana, antichi testi sacri hindu, che ho “casualmente” letto nei giorni scorsi, mi rimandano per evocazione al lavoro di Aldo Frangioni dal titolo “ Nel nostro prossimo destino”, scelto per rappresentare l’artista nella seconda mostra della piccola rassegna fiesolana “A un passo da ...”. Si tratta di bestiario fantastico di draghi, demoni, personificazioni al limite dell’umano di protagonisti di antiche leggende, frutto di una fantasia sfrenata che tenta di abbracciare tutti i miti della storia. Un pullulare sacro di serpenti piumati, esseri sorpresi nel mezzo delle loro metamorfosi, sacerdoti di religioni perdute, figure impossibili che ci richiamano ad una liturgia scomparsa. Così presento la seconda mostra, affidata ad Aldo Frangioni, artista, giornalista, redattore della rivista on-line Cultura Commestibile, sindaco di Fiesole per più Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

Mustang è il film candidato dai francesi all’Oscar anche se è girato in Turchia ed è in turco, ha come regista l’esordiente Deniz Gamze Ergüven,turca, vissuta prevalentemente in Francia, con un periodo in madre patria dai 9 ai 12 anni...L’età della protagonista Lale, ultima di 5 sorelle orfane che vivono con nonna e zio e che vanno a scuola. La gioia della fine dell’anno scolastico, adombrata per lei dalla partenza della sua “prof” più amata, si concretizza in un bagno collettivo e in una lotta acquatica fra coppie formate da ragazzi che tengono sulle spalle una ragazza. Essere giovani può voler dire sprizzare gioia, vitalità, avere fantasmagorie di colori in sé e spargerli intorno. Ma.....a 1000 km da Istambul, in una, ricca da vedere e povera di libera intelligenza, casa, esplode lo scandalo e.... come una freccia dall’arco scocca corre veloce di bocca in bocca.. ”Voi avete messo la testa di un uomo fra le vostre gambe”tuona la nonna, chiude le svergognate in casa e procura alle maggiori una visita per

A un passo fra dissoluzione e creazione anni consecutivi e non ultimo cittadino di Fiesole o meglio delle Caldine e così candidato ideale ad aderire al mio invito. Per la mostra da India è stato scelto un intervento di apparente camouflage, disponendo 50 tavolette 8x10x2 appositamente preparate, in un

Mustang

certificarne la verginità. Crescere non è quasi mai facile, espone ad angosce, insicurezze, istanze ribelli miste ad altre regressive, qui da noi passa anche da disinibizione grazie a sostanze ed alcool ed esperienze sessuali precoci e variegate, non sempre di eccelsa qualità. Lì, ai mille chilometri di distanza dalla cosmopolita Istambul, essere donna e crescere appare una vera tragedia. Le protagoniste fresche e dolci,vitali e malgrado tutto allegre e reattive vedono alzare muri e sbarre intorno a loro, ogni volta che, con ingegno arguto e spirito indomito, sfuggono e sono scoperte vengono aumentate le misure di sicurezza di quella che da


21 NOVEMBRE 2015 pag. 15

Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

I

l 6 dicembre 2013 France 2, la più importante emittente televisiva transalpina, ha trasmesso un dibattito sul tema Y a-t-il une vie après la mort du créateur? (Esiste una vita dopo la morte del creatore?). Esperti di vario tipo giornalisti, giuristi, uomini politici e persone attive nel mondo della bande dessinée - hanno cercato di rispondere a questa domanda: un eroe dei fumetti può sopravvivere alla morte del suo creatore? A prima vista la domanda può sembrare oziosa: la maggior parte dei personaggi che conosciamo - da Asterix a Diabolik, da Tex a Superman - sono tuttora vivi, sebbene i loro creatori ci abbiano lasciato da molto tempo. Ma esistono delle eccezioni. Tintin, creato da Hergé, è morto con lui per espressa volontà del disegnatore belga. Di avviso opposto era invece Hugo Pratt, creatore del celebre Corto Maltese: il disegnatore non era affatto contrario all’idea che l’inconfondibile marinaio gli sopravvivesse. In altre parole, che altri continuassero a scrivere storie dell’eroe che lui aveva ideato e disegnato da solo. Hugo Pratt è morto il 20 agosto 1995, all’età di 68 anni. L’ultima storia di Corto Maltese, l’eroe più famoso creato dall’artista veneziano, era uscita sette anni prima (Mu, 1988). Dopo la morte di Pratt sono uscite numerose ristampe delle storie precedenti, da Una ballata del mare salato (1967) a Le elvetiche. Rosa alchemica (1987). Al tempo stesso, il disegnatore è diventato oggetto di un interesse che si è espresso in molte pubblicazioni eterogenee, come la biografia della figlia Silvina (Con Hugo. Il creatore di Corto Maltese raccontato dalla figlia, Marsilio, 2008) e un insolito omaggio musicale (Note di viaggio. Le musiche di Corto Maltese, Rizzoli Lizard, 2009). Senza contare le mostre, fra le quali spicca Periplo immaginario, tenutasi a Siena nel 2005 e curata da Patrizia Zanotti, ultima compagna dell’artista. Nonostante tutto questo, Corto Maltese sembrava defunto insieme al suo creatore. Poi, poche settimane fa, la grande notizia che nessuno si aspettava: era uscito Sotto il sole di mezzanotte (Rizzoli Lizard), il primo albo senza la firma di Pratt. Siamo sinceri: non era facile realizzare una storia di Corto

Ricomincia l’avventura

Maltese dopo Pratt. Chi conosce il personaggio sa bene che i due erano era così legati da arrivare quasi a confondersi. A raccogliere questa sfida sono stati due spagnoli, il soggettista Juan Díaz Canales e il dsiegnatore Rubén Pellejero, entrambi ben noti a chi segue la nona arte. Secondo chi scrive il risultato è buono, ma pensiamo che sia inutile riassumere la trama della nuova Sara Chiarello esse.chiarello@gmail.com di

19 opere a tecnica mista e 2 sculture dell’artista americano Chris “Daze” Ellis, uno dei più rinomati artisti della “Graffiti Art”, sono in esposizione fino al 10 febbraio presso la Galleria del Palazzo Coveri di Firenze (Lungarno Guicciardini n.19). Dal titolo “Recent works”, la mostra racconta le diverse forme di espressone che caratterizzano la sua opera, presente in numerose collettive e musei, come nelle permanenti delle collezione dei musei di New York, nel Museo d’Arte Moderna, nel Brooklyn Museum, al Groninger Museum in Olanda fra i tanti. Personaggi del mondo dello spettacolo quali Madonna e Eric Clapton hanno le sue creazioni. Daze ha iniziato a metà degli anni ’70 dipingendo nella metropolitana di New York mentre frequentava la Scuola Superiore di Arte e Design, ed è uno dei pochi artisti di quel periodo ad aver avuto successo nel passaggio dalle metropolitane allo studio. Ha detto durante l’inaugurazione

avventura, pubblicata in contemporanea da Rizzoli-Lizard in Italia, da Norma Editorial in Spagna e da Casterman in Francia. Quello che ci sembra interessante, invece, è vedere come sia stato accolto questo inatteso ritorno. Paul Gravett, uno dei massimi esperti inglesi di fumetti, esprime un parere favorevole: “Affidato ad artisti capaci e sensibili, un personaggio visionario come Corto Maltese può vivere ancora... Non ci sono regole valide per tutti, se non la qualita del risultato”. Del tutto contrario, invece, l’esperto di marketing francese Jean-Samuel Kriegk, che si esprime con una domanda polemica: “Ma era proprio necessario dare un seguito a Corto Maltese?”. Enki Bilal, celebre disegnatore serbo trapiantato in Francia, si dice incuriosito: quando parla non ha ancora letto Sotto il sole di mezzanotte. Aggiunge che “Per me, Corto Maltese è prima di tutto Hugo Pratt... [ma] la resurrezione del suo personaggio più noto non mi scandalizza affatto, dal momento che la questione dei diritti è stata trattata con la massima

trasparenza”. Ma non esiste soltanto il parere degli addetti ai lavori: anche gli appassionati hanno diritto alla parola. Concludiamo quindi col parere di Vittorio Nistri, cultore dell’opera prattiana oltreché musicista: “Corto Maltese senza Pratt mi fa un effetto strano… Un po’ come se qualcuno rifondasse la Jimi Hendrix Experience (il trio del celebre chitarrista, ndr)”... quando qualcuno prosegue un’opera dell’ingegno univocamente e totalmente legata al suo creatore, si trova di fronte a due opzioni, entrambe perdenti in partenza: o cercherà di assomigliare in tutto e per tutto al creatore defunto (…e in questo caso, verrà accusato di mancanza di personalità, se non di plagio)… oppure cercherà di imprimere un proprio carattere autonomo (…e in questo caso, verrà accusato di aver snaturato il personaggio)”. In ogni caso, sull’oceano si sta alzando una brezza leggera, mentre in lontananza compaiono dei gabbiani. Ricomincia l’avventura. Corto Maltese è tornato.

della mostra: “New York degli anni ’70 era un contesto completamente differente da oggi, era immerso nella povertà, nel crimine, nell’alienazione. Io ho cercato di fare qualcosa di creativo e esprimere la mia identità. Credo che qualcosa sia rimasto uguale, il mio nome è un veicolo che utilizzo

per esplorare diversi stili. E’ solo un’espressione di stile. Qui a Firenze c’è così tanta bellezza, se fossi un ragazzo di qui forse cercherei qualcosa di contemporaneo”. La prima mostra collettiva di Daze è stata in occasione dello spettacolo “Beyond Words” presso il Mudd Club di New York nel 1981, lavorando al fianco di artisti quali Jean Michel Basquiat e Keith Haring. Nell’ambito di quella mostra Daze vendette la sua prima opera, in collaborazione con Basquiat. Nel 1982 apre la sua prima mostra personale, al “Fashion Moda”, una galleria nel Bronx. Da allora Daze ha esposto ovunque, da Parigi, New York, Pechino, Chicago e Singapore. Tra le opere, si segnala il murale per il terminal dei Ferry Star a Hong Kong, e il progetto per la stazione ferroviaria di Hannover (Germania) in collaborazione con Lee Quinones e “Crash”. La mostra è visitabile da martedì a sabato, orario 11:00 13:00 e 15:30 -19:00. Ingresso libero, info 055 281044, www.galleriadelpalazzo. com.

Graffiti art a Palazzo Coveri


21 NOVEMBRE 2015 pag. 16

Scottex

Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella

Meno 6. La grandiosa opera in carta di Paolo della Bella, che a causa di certe untuosità, non è neppur riciclabile, sta avviandosi al termine. D’intesa con l’autore il lavoro si fermerà al numero 50. La discussione non è stata semplice, l’artista intendeva procedere fino all’esaurimento del rotolo, oppure di se medesimo, insistendo nell’affermare che il valore artistico delle opere compiute sta nella quotidianità ininterrotta. L’intesa è stata raggiunta con la formula provvisoria, anche se un po’ ambigua, che l’estensore degli scritti critici avrebbe preso in considerazione, senza impegno, di valutare la ripresa della collaborazione esaminando alcuni prototipi in Cuki Alluminio che l’artista ha realizzato negli ultimi mesi.

Scultura leggera

di

Vicent Selva

Consigliere comunale di Esquerra Unida

In Spagna, l’ IVA è divisa in tre categorie: Generico, Ridotto, Super ridotto. Nel 2012 il Governo della Destra Partito Popular decise di aumentare le aliquote delle imposte indirette. L’aumento per la categoria “generico” fu dal 18% al 21%; per il “ridotto” da 8% a 10%; e per il “super ridotto” fu mantenuto al 4%. Nel mondo della cultura questi aumenti hanno avuto conseguenze significative. Ad esempio, nonostante biblioteche, musei e archivi abbiano mantenuto l’aliquota ridotta (10%) e libri e pubblicazioni su carta, l’aliquota super ridotta (4%), le pubblicazioni digitali (ebooks, riviste digitali) e per la scuola sono passate al tasso generale (21%). Ma il settore culturale in cui la reazione negativa all’aumento è stata più forte è stato quello degli spettacoli, come il cinema e il teatro, passati al livello più alto di tassazione. La cultura non è percepita per la società, né per l’attuale governo spagnolo, come un bene necessario; ovviamente non come qualcosa di basico come il cibo, bensì come una delle spese che le persone, nei momenti di difficoltà, taglia più facilmente. Questo

Meno Iva sui libri

comportamento diventa ancor più evidente quando le imposte dovute dal consumo di tali beni o servizi crescono al punto in cui questi beni diventano accessibili solo a chi ha redditi più alti, creando un divario nell’accesso alla cultura con i meno abbienti. Quando l’accesso alla cultura è garantito solo ad una parte della popolazione, ci troviamo di fronte ad una limitazione significativa per una società democratica che aspira a raggiungere un alto grado di uguaglianza tra i cittadini. Secondo la Fondazione Alternative, legata al PSOE, dall’inizio della crisi nel 2008, il consumo di cultura si è ridotto del 27,7%.

Così oggi, mentre il settore rappresenta tra il 3,5% e il 4% del prodotto interno lordo (PIL), il consumo è sceso da 17.000 milioni di euro del 2008 a 12.000 milioni di euro nel 2013. Ogni spagnolo spende ogni anno, 107 euro in meno di quanto non spendesse nel 2008, passando da 372 euro a 265 euro nel 2014: un calo del 24%. Il calo maggiore del fatturato si registra nell’industria fonografica (56,2%), nei video (47%), nell’editoria (40%), nelle arti dello spettacolo (24%) e nel cinema (20%). Il 20 dicembre si terranno le elezioni politiche generali in Spagna: quali saranno le vere novità? Forse la reale possibilità - per la prima volta dopo l’instaurazione della democrazia - che il tradizionale bipartitismo (PP e PSOE) sia superato in direzione di un sistema in cui quattro partiti si contenderanno il successo. Fra questi quattro partiti, si discute molto sulle proposte relative alla cultura, e in particolare su tema dell’IVA sulla cultura. Il Partito Popolare ha sostenuto che l’aumento dell’IVA era una

44

necessità per soddisfare i vincoli sul deficit imposti dall’Unione Europea ma che, in ogni caso, è una misura che non intende mantenere. Cioè, coloro che hanno dato un colpo mortale alla cultura con l’aumento dell’IVA, ora dicono di voler cambiare la decisione: dobbiamo credergli? La sinistra, al contrario, ha fortemente osteggiato questa tassa culturale. Sia il PSOE che Sinistra Unita propongono di abbassarla. Il PSOE e IU ipotizzano di tenerla fra il 5% e il 4%. Anche PODEMOS propone un 4%. Invece, il partito di destra Ciudadanos che pure propone una riduzione, ma senza dire quanto. Sembra che, almeno nel periodo pre-elettorale, tutte le parti siano d’accordo nel voler ridurre l’IVA su un settore che in Spagna significa il 3,5% del PIL e genera milioni di posti di lavoro. E’ il momento di sostenere questo settore, e non solo per i dati economici, ma perché uno Stato che ostacola l’accesso, invece di gararantire, alla cultura per tutta la popolazione è uno Stato che non rispetta uno dei suoi obblighi fondamentali stabilito dalla Costituzione spagnola all’articolo 44: “Le autorità pubbliche promuovono l’accesso alla cultura, a cui tutti hanno diritto”.


lectura

dantis

21 NOVEMBRE 2015 pag. 17

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni Canto X

Gli eretici epicurei, atei e tombe di fuoco Impossibile attualizzare questo genere di dannati perché non vi sono più eretici nel nostro tempo ma soltanto ruffiani. Il poeta capisce di aver incontrato un “uomo eroe” che ai nostri non è più possibile riconoscere, infatti non lo riconosce Posso parlar con te, se sono degno? Uomo mi disse, immerso nella fossa. Ad ascoltarti io non ho ritegno, risposi a lui con aria non percossa: parmi la tua parlata fiorentina sarai mica quel re di testa grossa? M’hai visto ben? Ho l’aria sbarazzina? Sempre per l’ideal mi son battuto finché la gente mi mise alla berlina. Sei mica il prence che credeasi acuto? Che senza voglia per anni ha governato Fiorenza nostra che mai l’avea voluto? Così m’offendi, io ho sempre lavorato. Si vede che frequenti la gentaglia, ero altruista ma nessun fu grato se il nome non ti vien sei una canaglia. L’anima in pena io lasciai deluso, arroventata dentro la brodaglia.


L immagine ultima

21 NOVEMBRE 2015 pag. 18

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

S

iamo sempre al Central Park e sempre prima della grande manifestazione di protesta contro la guerra del Viet Nam! Gl ingredienti ci sono tutti: tantissime le presenze di giovanissimi, come il bel ragazzino biondo in primo piano. Sulla destra si vede una coppia di giovani “film makers” che stanno preparando la loro cinepresa in attesa dell’inizio dell’evento. Altri giovani e giovanissimi sono ancora seduti in attesa dell’arrivo degli “speakers” e guardano con curiosità questa coppia di registi. Un’altra coppia appartenente al “Gay Liberation Front” mostra invece uno striscione rosso che recita così: “Il Terzo Sesso sostiene le battaglie del Terzo Mondo”.

NY City, agosto 1969


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.