Cultura commestibile 156

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NI NZERLI

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

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N° 1

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ULTURA OMMESTIBILE

di Giustizia di o vissuto sulla Avevo circa 10 messo di pardisparte agli Piano di Ex Area Fiat, o nello studio icci. Un lungo e tanti grandi no con i peni in mano era devo, ma perquella stanza ndo qualcosa avrebbe potula mia città. ni catalogani mio nonno, un rotolo di all’apparenza tti gli altri. guardandolo enzione vidi bambina non la possibilità essere teatro ed unica speartistica, ed architettoprogetto pard ogni archideato il suo contemporali altri annoi pensieri per eriormente la n relazione dal ipale. gettazione di erizzato dalla o la riqualifiomo nella proà, permettendi aggregati on si sentisse Palazzo di Firenze è un lla vita per mbiente nel pena di viveteatrale dove e crescere il la giustizia, ere il rapporto e la comunità o tutti responon amava la degli spazi e considerava denaro (per la di muri) e di alla vita in ogetto, infatattraverso un mplementare ecessità pratiati per lavorao filosofico di

LE SORELLE MARX

La cultura non si mangia

Giulio Tremonti

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razie Giulio! La tua battuta sulla cultura che non si mangia ci ha spinto a realizzare queste pagine Kulturkampf. Noi sappiamo benissimo che tu non credi a quello che hai detto. Il dileggio del culturame lo fai per far piacere ai sodali della Lega. Nate e cresciute al di sotto della Linea Gotica, non ce ne volere, ma noi siamo più sensibili all'otium latino che alla sua negazione (che a voi tanto piace) del negotium. In tanti dicono che hai il merito di tenere in ordine i conti italiani, cioè mantenendone il loro disordine storico e che potresti rappresentare il dopo Berlusconi. Siamo quindi combattute fra il diventare delle trhee mountains girls o mettere dei sacchetti di sabbia alla finestra come canta Lucio Dalla in “Caro amico ti scrivo”.

Vuoti &Pieni La ricerca di un significato nel Palazzo di Giustizia di Novoli nei progetti originari di Ricci

Il palazzo di Giustizia In basso e a destra l’installazione luminosa di Giancarlo Cauteruccio (Foto Scirea), sopra uno schizzo originale di Leonardo Ricci

Primo: non separare

di cui abbiamo bisogno: di significato. Della comunicazione di questo significato. E’ necessaria la promozione di progetti architettonici di senso che non siano solamente teche, ma che siano l’espressione artistica del sogno dell’architetto in relazione alla collettività. La politica ha nel tempo bloccato questo grande contributo inserendolo in un nuovo piano guida (Krier), criticato come anti-moderno. La lentezza ingiustificata ha contribuito a complicare ulteriormente, ed oltre ogni immaginario, la costruzione, creando vacui spazi di critica. Le istituzioni hanno, come sempre, evitato di promuovere l’ideale di un proprio cittadino, che come molti è fuggito altrove e Firenze ha perso l’occasione di rispecchiare una contemporaneità priva di retorica. Tuttavia, il Palazzo di Giustizia ci ricorda che la città ha ancora un futuro e che, nonostante le difficoltà, esiste la possibilità di poter creare una realtà che rispecchi il nostro pensiero.

5 anni di Cuco Cinque anni fa, esattamente sabato 5 febbraio 2011, usciva il primo numero di Cultura Commestibile, in formato cartaceo, otto pagine allegate al Nuovo Corriere di Firenze. Ogni settimana, per 67 numeri in carta e 156 online, abbiamo cercato di proporre riflessioni e cronache di cultura: un’impresa, di questi tempi. Certamente non ci abbiamo mangiato, ma non siamo neppure morti d’inedia. Siamo sempre in piedi e continuiamo a svolgere un piccolo servizio, in totale libertà, alla cultura. Da allora le Sorelle Marx (cui si sono affiancati poi altri parenti rivoluzionari) ci hanno sempre accompagnato con elzeviri ironici e ficcanti. Ripubblichiamo qui il loro primo intervento, che è un po’ il nostro “manifesto”. Ancora abbiamo tanta strada da fare insieme. La redazione

Un dibattito internazionale

“Il tema dei figli adottivi: quello che in inglese si chiama Stepchild association”

Domenico Scilipoti, senatore della Repubblica

LARGA LA FOGLIA

lus fiducias. Agricolae praemuniet adquireret Medusa, iam oratori praetitolo per 1000 battute circa xxxxxx saburre, muniet perspicax ossifragi, etiam iamViale matrimonii pessimus 131, editore Nem Nuovi Eventi Musicali dei Mille 50131 Firenze

V

conubium santet matri Adlaudabilis rures agnascor ossifragi, utcunque Aquae Sulis optimus infeliciter imputat matrimonii, iam

infeliciter adquireret optimus lascivius apparatus bellis corrumperet rures. Registrazione del Tribunale di semper Firenze n. 5894 2/10/2012 pretosius apparatus bellis iocari fiducias, concubine senesceretdelSatis

comiter insectat syrtes. Fragilis catelli imputat apparatus bellis, semper Augustus miscere ossifragi, utcunque saetosus suis suffragarit aegre quin-

syrtes, ut utilitas fiducias circumgrediet tremulus saburre. Syrtes incredibi-

parsimonia agricolae, quod saburre deciperet Caesar, et zothecas vocificat


Da non saltare di Aldo Frangioni, e Jonh Stammer

A

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Il nuovo Niccolini

Simone Siliani

ndré Benaim è architetto e scenografo. La sua attività di scenografo precede quella di architetto. La sua prima scenografia fu quella per “Il Pellicano” di August Strindberg realizzata quasi come il modello che conserva ancora nel suo studio. Da allora ha prodotto scene e costumi per innumerovoli rappresentazioni teatrali nei maggiori teatri italiani. Oggi però parliamo della sua architettura. Siliani Partiamo dal racconto di questo tuo sogno realizzato. La tua tesi di Laurea che diventa un’opera compiuta di restauro. Tutto nasce negli anni ‘80 quando stavo lavorando con Carlo Cecchi alla scenografia per “Il ritorno a casa” di Harold Pinter al teatro Niccolini. In quella occasione ho conosciuto questo luogo meraviglioso di cui mi innamorai. Successivamente il teatro aveva anche bisogno di interventi di adeguamento sia perche era bruciata la canna fumaria sia perchè in quel periodo furono emanate norme molto severe per i luoghi di spettacolo dopo l’incendio del cinema Statuto a Torino. Per fare questi interventi mi misi quasi a frugare nel teatro. Il teatro era un grande spazio ovattato ricoperto in ogni parte da moquette. Sotto questi rivestimenti c’erano pavimenti in marmo (quelli che si vedono oggi), anche nei corridoi. In quella fase restaurammo alcune parti e feci il rilievo completo del teatro (che mi servi poi come lavoro per l’esame di Restauro dei monumenti) ed infine anche per la tesi di laurea. Frangioni Chi era il relatore alla tua tesi di Restauro? Fu il prof. Giorgi del corso del prof. Rocchi, in commissione c’era il prof. Francesco Gurrieri che era molto interessato. L’ho rivisto all’inaugurazione del teatro qualche settimana fa e gli ho detto “professore siamo davvero alla conclusione di quel percorso iniziato molti anni fa.” Il teatro Niccolini l’ho sempre considerato bello. Anche più del teatro della Pergola. Sui due teatri c’è una storia che vale la pena di essere raccontata. Il Niccolini nasce nel 1652 come “luogo teatrale” e quindi nasce prima della Pergola. L’accademia dei Concordi (che aveva dato vita al luogo) divenne subito quella dei “discordi” e l’Accademia si divise dando origini alle accademie degli Immobili e degli Infuocati. Gli Infuocati rimasero nel salone creato nel palazzo di via del

Cocomero. Gli Immobili fondarono un nuovo teatro, La Pergola appunto. L’architetto Ferdinando Tacca (figlio dell’artista Pietro Tacca) fu incaricato della progettazione e il teatro, i cui lavori iniziarono nel 1652, furono terminati nel 1661, mentre l’inaugurazione fu fatta durante il Carnevale del 1658, in tutti e due i teatri (la Pergola non terminato), con la rappresentazione del “Il Podestà” di Jacopo Melani. Quindi come teatro all’italiana è sicuramente più antico la Pergola, ma come “luogo teatrale” il Niccolini esisteva prima. Ritornando al Niccolini la proprietaria era la famiglia Ghezzi dal 1934 al 2005 quando il teatro è stato venduto a Mauro Pagliai. Negli anni la famiglia Ghezzi mi ha fatto incontrare molti probabili acquirenti ma chi per un motivo chi per un altro si sono tutti persi. Ci fu un interessamento anche del comune di Firenze da parte dell’assessore alla Cultura Guido Clemente della giunta Primicerio, che giunse fino ad una deliberazione che ipotizzava l’acquisto, con un supporto economico della Regione Toscana. In quel momento vidi una possibile conclusione del lungo percorso per il recupero del teatro, anche perchè non avrei mai pensato che un soggetto privato potesse essere veramente interessato ad acquistare il teatro. Ho sempre pensato che il Niccolini non avrebbe potuto vivere solo con un uso serale o poco più. Occorreva molto altro per poter sopravvivere da un punto di vista commerciale. Occorreva trovare un uso che lo tenesse aperto tutto il giorno. Un luogo che potesse guidare la lettura delle città sia per i turisti sia per i cittadini. Il centro di Firenze è così raccolto e “piccolo” che per sua

fortuna ha già insito in sé il concetto di “museo moderno”. Un luogo cioè dove vedi una mostra, mangi qualcosa, hai un posto dove fare acquisti ecc. Un museo diffuso. Ma non è sufficiente avere le idee se esse non sono supportate da persone in grado di influire sulla realtà. Rimangono appunto idee. Ora vedo che queste idee sono maturate e sono diventate in qualche caso realtà. Un luogo che potesse mettere insieme e raccontare i diversi percorsi che sono possibili nella città. Il percorso della scultura, dell’architettura, della pittura, dello shopping ecc. per una città che ha bisogno di progetti. Alla fine arrivò Mauro Pagliai. Stammer Quindi anche prima del 2005 ci furono ipotesi progettuali per il recupero del teatro? Sì prima del 2005 elaborai alcune idee progettuali per conto della signora Rusconi che aveva comprato i locali della libreria Marzocco in via Martelli e voleva aprire quei locali sulla corte interna dell’edificio dove è collocato il teatro e collegarsi con il teatro stesso. Per questa possibilità è stato presentato un progetto ed ottenuto il nulla osta dalla sovrintendenza. Ma all’improvviso questa persona scomparve. E la vicenda fini in mano agli avvocati. Era all’incirca il 20032004. Siliani Infatti mi ricordo che poco dopo venne da me (allora assessore alla Cultura del comune di Firenze) Mauro Pagliai che mi disse: “Compro il Niccolini. Te lo dico per informazione e non chiedo niente al Comune”. Ma prima avevo avuto altri colloqui con altre persone. Il progetto che feci per la Rusconi non ebbe seguito, anche se avrebbe risolto alcuni dei problemi del teatro. Infatti per ragioni strettamente

economiche, a partire dal 1934, i proprietari del teatro hanno via via ceduto parti dell’originale complesso. Prima i negozi sul fronte di piazza Duomo, poi i negozi sul lato di via Ricasoli adiacenti al teatro. Il progetto che è stato realizzato ripercorre l’idea della tesi di laurea e ha fra i suoi aspetti più importanti il recupero del foyer che era stato realizzato nel 1914 quando fu fatto il nuovo ingresso che tagliava trasversalmente i vecchi accessi, utilizzando la sala da ballo dell’accademia. Foyer che poi si è perso a causa delle cessioni di locali del piano terra, a favore di negozi come la Galleria il Faro. Un pezzo del foyer era poi diventato l’ingresso per i piani superiori e l’alloggio del custode, alcune parti erano state trasformate in bagni, e altre utilizzate come retro di un negozio di cartoline. Ora questo negozio di cartoline è diventato l’accesso per i portatori di handicap. Quindi con questo intervento si è invertita la tendenza alla cessione di parti dell’originario complesso, e si sono invece recuperati spazi che erano appartenuti al teatro. Una parte maggiore che è stata persa è quella relativa ai camerini che erano stati ceduti alla pellicceria Cioni. Un inizio di diminuzione degli spazi si era avuto all’inizio del settecento perchè i pompieri avevano fatto chiudere l’arco che esisteva sul retro del palcoscenico. Questo arco molto profondo non forniva maggiore profondità al palcoscenico stesso ma costituiva un locale di servizio importante, considerando che uno dei problemi del teatro è proprio la mancanza di spazi di servizio al palcoscenico. Il teatro è un teatro all’italiana, con platea e palchi, realizzato all’interno di un palazzo e quindi ha tutte le costrizioni che derivano da questa condizione iniziale, a cominciare dal perimetro del palazzo stesso e dai suoi confini. Frangioni Si potrebbe dire che è un teatro “scavato” all’interno di un palazzo. Sì. All’inizio sostanzialmente era una grande stanza di forma vagamente trapezoidale con il lato maggiore parallelo a via del Cocomero, oggi Ricasoli, con il lato posteriore dove è ora la grande scala in pietra di accesso alla platea, dal lato opposto un palcoscenico lunghissimo. Poi nell’arco di circa 100 anni furono realizzati quattro ordini di palchi, in considerazione dell’aumento degli affiliati all’Accademia degli Infuocati,


Da non saltare

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fino a quando si rese necessario aumentare il numero possibile di palchi e di spettatori. Da qui la volontà di demolire tutto e creare un nuovo teatro all’italiana comunque all’interno dello stesso palazzo. Nel 1763 iniziano i lavori di trasformazione del teatro come teatro all’italiana, con l’acquisizione di case laterali che permettevano di sviluppare la platea con la forma desiderata. Il teatro è stato completamente demolito e ricostruito con quattro ordini di palchi con un palcoscenico più corto del precedente ma comunque adeguato e dotato di un proscenio che inglobava le “barcacce”. Un recinto per l’orchestra riduceva la dimensione della platea. Nel corso dell’800 si sono avuti interventi che hanno modificato non sostanzialmente il teatro fino al 1914 quando con la realizzazione del loggione, la demolizione del proscenio, la demolizione della parte superiore delle pareti di separazione tra i palchetti, la creazione del lucernario, si cercava di rendere più popolare il luogo teatrale. Dal 1764 oltre ad accogliere il maggior numero di accademici si ha uno sbigliettamento, il Cocomero diviene il secondo teatro aperto al pubblico. Fino ad allora l’unico teatro aperto al pubblico, il teatro di Baldracca, si trovava dove ora ha sede la biblioteca Magliabechiana. Tutti gli altri erano riservati ai nobili e agli “accademici”. Nel 1766 il granduca fa la sua prima apparizione al teatro del cocomero dove il palco reale aveva dietro una sorta di appartamento che si sviluppava fino alla attuale “sala del cocomero”. Frangioni Quale era il programma a quei tempi? Sostanzialmente opere e prosa e nel 1800 rappresentazioni in gran parte di Gian Battista Niccolini, tragedista livornese, da cui poi il teatro ha preso il nome (1853). Stammer Quindi nel 2005 il teatro viene comprato da Pagliai e si inzia a studiare il recupero. All’inizio e fino a circa quattro anni fa è una fase di studio e di attesa direi. Poi si iniziano i progetti. Nel 2010 si rifanno le facciate e diciannove mesi fa si parte davvero. Stammer Ma il progetto era precedente? Sì il progetto risale al 2006 ma poi la situazione ha subito un rallentamento. L’avvio dei lavori è di poco meno di due anni fa. Le condizioni operative sono state trovate poco tempo fa. Stammer È possibile che lo sbloc-

Intervista all’architetto André Benaim che ha restaurato il teatro fiorentino co della situazione sia coinciso con l’accordo con l’Opera del Duomo che ha garantito appunto quello che tu dicevi in precedenza e cioè un’apertura del teatro non solo per gli spettacoli e le attività serali. Penso che questo accordo abbia contribuito in modo significativo al consolidamento del progetto. Siliani E da un punto di vista del restauro vero e proprio quali sono stati gli elementi di maggiore difficoltà? Come in gran parte di importanti restauri su edifici destinati ad uso pubblico e collettivo, ed in particolare nei teatri, il problema del posizionamento degli impianti è cruciale. E come era stato fatto nel 1984-1985 per il primo intervento di messa a norma, non volevo che gli impianti fossero visibili. Stammer E quale è stata la soluzione? In questi casi per le grandi macchine degli impianti o si usa il sottotetto o il sottosuolo. Gli impianti sono nel sottotetto ma il problema più grande è stato portare le bocchette di aerazione in ogni luogo del teatro. È vero che abbiamo fatto un restauro totale e quindi avevamo qualche grado maggiore di libertà, ma non potevano “distruggere”. Ad esempio nella volta della sala mi sono dovuto accontentare di una soluzione che non mi soddisfa completamente. Nella parte centrale della copertura della sala sono stati installati degli anemostati, che sono stati verniciati cercando di mimetizzarsi il più possibile, con la parte restante del lucernario centrale coperto da specchi. Quelli che si vedono non sono specchi veri e propri, ma specchi da scena di PVC di 1 mm di spessore. Naturalmente alcuni registi e attori non sono contenti dello specchio perchè sostengono che in alcune circostanze riflette la sala e “disturba” gli attori in scena. Ma in quel luogo c’era un lucernario e in questo modo abbiamo cercato di restituire l’idea della luce che filtrava dal vetro. Il lucernario fu realizzato negli ultimi interventi dei primi del novecento quando la volta della sala fu ribassata e fu tolto il grande candelabro. Ora questa volta è racchiusa, al di sopra di essa e quindi invisibile al pubblico, da un grande “tamburo” antincendio che isola tutta la sala dal sottotetto vero e proprio dove sono collocati gli impianti. Gli anemostati sono le aperture di “mandata” dell’aria condizionata mentre i “richiami” sono collocati sotto la platea. Stammer La copertura del teatro è a capriate classiche?

La copertura è costituita da capriate settecentesche meravigliose che sono le antisegnane del “lamellare”. Sono costituite da “mezzoni di legno” inchiavardati, con tiranti, e fra capriata e capriata ci sono le centine, degli arconi in legno che si appoggiano sulle colonnine di ghisa. Una vista bellissima. Una sorta di selva di legno che è stata completamente restaurata, introducendo strutture collaboranti in fibra di carbonio, per rinforzo strutturale. Abbiamo di fatto mantenuto, salvo che in alcuni elementi della graticcia del palcoscenico, le strutture originarie. L’intervento è stato di fatto un grande riordino e una “ripulitura”, con il recupero di volumi che erano perduti all’uso teatrale, spostamenti di porte ecc. Dal palco reale, ad esempio, abbiamo tolto la porta che era stata realizzata a ridosso della piccola gradinata centrale e l’abbiamo riposizionata in una collocazione idonea. Ma l’idea di base era togliere quella cupezza che pervadeva il teatro e farlo sorridere un poco. Abbiamo cercato e trovato alcune coloriture settecentesche originarie sia all’interno sia nell’esterno. Le abbiamo verificate con l’architetto Vincenzo Vaccaro della Soprintendenza che è stato molto attento e disponibile, che ha condiviso questo ritorno del colore più gentile, anche attraverso semplici operazioni di ripulitura. Nell’arcone del palcoscenico ad esempio il colore era quasi completamente oscurato dal fumo. I colori della balconata e delle lesene erano ad esempio un color tabacco chiaro, quasi nocciola. Il primo obbiettivo del progetto è stato quello di non tradire la originaria “semplicità” del teatro. Tutto il complesso è sempre stato un luogo “poco ricco”, anche se era nato come teatro degli aristocratici. E questa sua caratteristica doveva rimanere. Anche perchè si sposava con una riduzione dei costi dell’intervento che non poteva non piacere alla proprietà. Stammer Questo è un tema classico del restauro quando si interviene su un edificio che ha subito molte trasformazioni nel tempo. Quale edificio restauro? Quello settecentesco, quello ottocentesco ecc.? Si può dire che in questo caso si è intervenuto prevalentemente restaurando l’ottocento? In realtà l’intervento di restauro è un insieme di interventi. Le coloriture, ad esempio il verde ed alcune finiture sono del settecento, ma la configurazione architettonica generale del teatro è quella derivante dalla ristrut-

turazione del 1914, con la creazione del loggione. Anche se in questo caso con le finiture in ghisa, quasi un “frangia” che costituisce la balaustra del loggione, l’intervento del primo novecento è stato meno invasivo che in altri casi. Penso ad esempio a quello della Pergola. In questo caso il loggione rimane all’interno di quello che è “lo strumento musicale” cioè lo spazio contenuto dalla scatola palco/ sala. Siliani Possiamo dire quindi che di ogni epoca si è recuperato quello che era funzionale all’idea di teatro, garantendo comunque la funzionalità ottimale del teatro stesso? Sì in parte, perchè ad esempio la ricerca del “settecento” con i colori e alcune finiture è un “ritorno all’origine”. Frangioni A eccezione degli interventi non ricomponibili, o non citati, che sono stati oggetto di pesanti interventi di trasformazione nel passato naturalmente. La lettura storica, molto raffinata devo dire, si compone della riscopritura dei colori originari inseriti in un contesto prevalentemente ottocentesco ma con un impianto architettonico dei primi del novecento. Direi però che la pianta rimane quella settecentesca. Quindi un impianto ottocentesco ma inserito in una pianta classicamente settecentesca. È un progetto che si è mosso in equilibrio fra questi contesti storici cercando di non squilibrare il risultato finale. Un progetto che in alcuni casi ha una sorta di “understatement” come quando prevede i numeri dei palchi disegnati sui muri, o nel mantenimento dei semplici ganci in ferro, come attaccapanni, come quando riprende i colori scuri per i corridoi dei palchi per segnare quasi visivamente il perimetro del teatro incastonato nel vecchio edificio. Il progetto è stato un gioco di equilibri per evitare di tenere troppo elevato un particolare settore o materiale e così rendere meno omogeneo e leggibile il tutto. E questo nonostante la grande invasività degli impianti. Cercando di “inventarsi” soluzioni, come la canalizzazione degli impianti in alcuni corridoi, che possono sembrare una decorazione. O come il riutilizzo degli spazi di canalizzazione realizzati nel 1984 che sono stati riutilizzati sotto la platea. Il teatro oggi può ospitare 408 posti. Compresi i palchi nei quali sono stati abbattutti i divisori laterali che hanno limitato la privacy dei presenti, ma molto migliorato la visibilità.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx Palazzo Vecchio, in una radiosa mattina d’inverno. Il sindaco a colloquio con il suo capo di gabinetto. “Manuele, ma che ragazzo bravo, vispo e intelligente che è questo Tommaso Sacchi, eh?! Capisce tutto al volo ed è creativo! Pensa che idea coraggiosa e originale ha avuto per l’Estate Fiorentina: String City! 100 concerti per violino in 100 musei in 48 ore! Fantastico! Sarà la mia apoteosi! Che intuizione!”. “Eh sì, bravo e furbo, non c’è che dire! … sai che palle!” “Ma senti qui cosa ha dichiarato... che linguaggio immaginifico: abbiamo cento musei: li vogliamo svegliare tutti insieme! Un esercito di archi! Ma è proprio un genio. Via, ora mettiamoci al lavoro che dobbiamo far funzionare al meglio questa cosa”. “Ascolta Dario, io qui ho da fare: bisogna far funzionare il Comune, i servizi, gli uffici. Non star qui a taché tacà ai dij” [espressione dialettale piemontese: non starmi appiccicato alle dita]. Nel pomeriggio riunione di Giunta in Sala degli Otto. Dirige l’orchestra, il sindaco Dario Nardella. “Allora ragazzi, oggi si inizia con la prima lezione di violino, ché vi voglio tutti pronti per la String City d’estate. Via, Vannucci inizia te, visto che fai tanto lo spiritoso... ti ho visto sai che ridacchiavi con quell’altro suonato del Bettarini”. “No, dai Dario... io non so suonare nemmeno il piffero” “Ragazzi, non mi fate inquietare: chi non suona, lo caccio dalla Giunta. Su, Cristina [Giachi, vicesindaca] fai un bel do” “Sì Dario, ma per String City posso mettermi il vestito lungo giallo ocra da concerto?” “Oh Cristina, mettiti quello che vuoi, anche un saio, basta che fai questa nota. Perra, Giorgetti e Gianassi, non vi nascondete là in fondo: venite avanti, imbracciate il vostro violino e fatemi all’unisono un la”. I violini emettono degli orribili rumori. Il sindaco salta sulla sedia con la bacchetta e dà in escandescenze: “No, no e poi no! Fate schifo! Alessia [Bettini], Sara [Funaro] e Nicoletta [Mantovani], almeno voi che siete così cari-

String city ne e pisserine, fate una noticina a modo, su...”. I violini sono sempre più striduli e stonati. “Guardate ragazzi che se non imparate almeno un motivetto per luglio, io vi affido alle amorevoli cure di Marco Agnoletti e poi vi passa la voglia di fare gli scansafatiche. Sentite, via, vi

faccio ascoltare io come si fa”... e imbraccia il suo violino e suona per mezz’ora. “Ragazzi, avete sentito come si fa? Bene, allora prendete i violini e andate ad esercitarvi in ufficio; la Giunta è finita” “Ma come finita Dario... Ci sono da fare le delibere...” “Manuele, non c’è da perdere

tempo con queste quisquillie e pinzillacchere. Bisogna fare la Florence Government String Orchestra! Chiamami Tommasino Sacchi piuttosto che dobbiamo preparare l’evento” “Ma vate a caté ‘n casul [lett. Vai a comperarti un mestolo, cioè vai a quel paese]... Qui c’è da désse d’ardriss [darsi una regolata]

Bobo

Lo Zio di Trotzky

Riso amaro

Le avventure di Nardelik Il tempo volgeva al meglio. Una pioggia vista da tutti come una liberazione dopo mesi di un inverno siccitoso era in arrivo.C’era infatti una promessa di pioggia per la seconda settimana di febbraio. Ma il Servitor Cortese era infuriato. Non era possibile che anche il buon Dio si fosse messo a cospirare contro di lui. “Ma come è possibile che proprio per San Valentino mi piova sul Piazzale dei Baci”. Aveva infatti deciso, cercando di copiare il Leader Mininum, che anche il Piazzale Michelangelo, come piazza del Duomo, era da dedicare solo a chi voleva “rimirare a piedi la città felice nella valle”, togliendo le auto in sosta. E per festeggiare aveva invitato tutti a baciarsi proprio lì, in piedi, stretti stretti. Ma se pioveva sarebbe stato un disastro. Ci voleva Nardellik. E Nardellik ebbe l’idea geniale. Mettiamo un GRANDE DEHOR cosi staranno tutti al coperto. Alla parola Dehor il Servitor Cortese ebbe un orgasmo bellissimo. E la sua idea fu salva. Prepariamoci al meglio nella città di Sottofaesulum. Viva il bacio all’asciutto.

Il presidentissimo Giani è inarrestabile. Durante il suo Never Ending Tour per i Comuni della Toscana, è arrivato a Massarosa e in men che non si dica ha trasformato il sistema produttivo della zona, restituendolo a vita nuova e prosperosa. Così, si è tirato su i calzoni fin sopra le caviglie, si è denudato i piedoni e, col cappello di paglia, è sceso in risaia a trapiantare le nuove piantine di “riso rosso”. Mentre dirigeva i lavori, sprezzante delle zanzare tigre e delle bisce d’acqua, cantava a pieni polmoni le canzoni delle mondine: « Saluteremo il signor padrone con la so’ risera neta pochi soldi in la cassetta e i debit da pagar... » A tarda sera, stanco ma felice, ci delizia con un bel post: “Massarosa (Lucca). Il centro “La Brilla” ove si può vedere come la coltivazione del riso si trasformava in prodotto per la tavola. Ai margini del lago di Massaciuccoli il “riso rosso” di Massarosa era preziosa produzione che ci stiamo organizzando per ripristinare! #vivatoscana #toscana”


6 FEBBRAIO 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

J

ean Luc Gelin, fotoreporter free lance, nasce nel 1961 nella provincia francese del Poitou e comincia fino da giovanissimo ad interessarsi alla fotografia di reportage, collaborando con alcuni giornali locali, per convincersi a metà degli anni Ottanta, che per potere esprimere se stesso in completa libertà, deve cominciare a lavorare in maniera del tutto indipendente dalle committenze. Comincia così a viaggiare, a proprie spese ed a proprio rischio, soprattutto fra il Nord Africa e l’Africa Equatoriale, realizzando un paio di progetti importanti, fra cui un fotolibro, ed inseguendo altri progetti che invece non riescono ad essere sviluppati, e rinnovando così l’eterno dilemma tra l’essere dei servi ben pasciuti o degli artisti liberi ed affamati. Ma nonostante le difficoltà Jean Luc persegue il suo proposito, ben conscio del fatto che “la fotografia è una forma di espressione personale, necessaria al mio equilibrio di vita così come alla mia memoria, io la pratico ogni giorno e non la considero completata se non quando viene condivisa”. I viaggi e la fotografia diventano per lui due elementi inscindibili “un viaggio senza foto non è che una frustrazione, mentre una foto è essa stessa da sola un viaggio, e per chiudere il cerchio bisogna cominciare a raccontare delle storie, delle storie di viaggio, in bianco e nero o a colori, poco importa, purché ci portino verso la bellezza dell’essenza delle cose”. Fra i reportages più riusciti di Jean Luc ve ne è uno, realizzato all’inizio degli anni 2000 al Cairo, che gli è valso per la seconda volta il premio francese “Coup de coeur” della “Borsa del Talento” (un trampolino per la professione) nella categoria “reportages” nel 2009. A una dozzina di minuti da piazza Thair, ai piedi del Jebel El Mokkatam, nel quartiere Manchiyet Nasser, sorge una sorta di discarica all’aria aperta, in cui dei bambini, affiancati dai fratelli maggiori, si rompono la schiena per combattere la dittatura della plastica, sotto forma dei rifiuti prodotti in maniera incessante dai diciotto milioni

Jean Luc Gelin

La rivoluzione di plastica di abitanti del Cairo. Le immagini di Jean Luc raccontano in maniera drammatica questa sorta di lotta impari fra le figure minuscole dei bambini, impegnati in queste operazioni di selezione, raccolta e smistamento degli oggetti, imballaggi e bottiglie in plastica, e gli enormi sacchi che vengono trasportati sulle spalle, da un capo all’altro della discarica. Anche se si tratta di materiali leggeri, come è facile immaginare, l’impatto visivo dovuto alla sproporzione fra i piccoli lavoratori, simbolo della umanità stessa, fragile e sottomessa, ed i carichi trasportati, simbolo di ogni avversità e di ogni dolore, ma anche di una sciagurata scelta di politica economica ed industriale compiuta a monte, l’effetto delle immagini è notevole e sembra voler riecheggiare il mito di Sisifo, condannato a trasportare sulle sue spalle un peso che quotidianamente si rinnova, per l’eternità. Ma le immagini di Jean Luc ripropongono anche il vecchio e mai risolto dilemma su quanto sia “fotogenica” la miseria degli altri, su quanto sia lecito indulgere sull’estetica del “miserabilismo” e della “linkemelancholie”, nella consapevolezza che nessuna immagine, per quanto forte, ha mai cambiato il mondo. Del resto neppure l’arte o la letteratura hanno mai cambiato granché del mondo. Ma la fotografia, e quella di reportage in particolare, a differenza delle altre arti, un merito almeno ce l’ha. Nessuno può giustificarsi dicendo “non lo avevo visto”.


6 FEBBRAIO 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

È

tipico dell’Arte contemporanea tendere verso gli infiniti slanci dello sconfinamento e della partecipazione collettiva. Non a caso la ricerca estetica si insinua nei meandri più profondi e intimi della poetica personale, per poi aprirsi al mondo con una forza comunicativa ineguagliabile. L’espressione dettata dalla propria intenzionalità si muove alla base dei linguaggi contemporanei, rivoluzionandoli e reinventandoli attraverso processi originali, capaci di destabilizzare il normale sentire comune, favorendo la crescita e il progresso culturale in un continuum storico-temporale inesorabile e inarrestabile. Con la consapevolezza che la creazione non può essere vincolata a nessuna condizione di privilegio artistico, Robert Filliou ha operato lavorando con ironia alla mescolanza di generi e alla casualità aleatoria dell’effimero e del vago, per svincolare l’opera d’arte dall’individualità dell’artista: ogni individuo possiede in sé la capacità di creare e di comunicare in senso estetico, per cui l’opera d’arte altro non è che un’istituzione di infinite possibilità operanti. All’uomo non resta altro che sperimentare la propria vena espressiva, gettandosi nel mare della complessità e dell’innovazione, imparando a conoscere se stesso e il mondo circostante. Robert Filliou pose l’accento sulla necessità di rifiutare le categorie estetiche, annientando le barriere dell’Arte, unendo più media e facendo della scrittura un cardine performativo, in grado di disarticolare i canoni e di rendere incontrollabili le possibilità semantiche. Nella sue opere azione e riflessione si uniscono in una sintesi paradossale e innovativa: una tensione poetica, ideale, consapevole e definita che concepisce l’Arte in una dimensione di compartecipazione e coinvolgimento. In tal modo i principi estetici si assolutizzano in una rete di connessioni che operano contro lo scetticismo comune e omologato, partendo dal fondamento sociale che l’atto creativo porta in sé e con sé nel processo di

“Non sono solo interessato all’arte ma alla società della quale l’arte è un aspetto. Sono interessato al mondo come a un tutto, un tutto del quale la società è una parte. Sono interessato all’universo del quale il mondo è un frammento. Sono anzitutto interessato alla Creazione costante della quale l’universo è soltanto un prodotto”

Robert Filliou

Creazione

realizzazione dell’opera finale. Robert Filliou ha messo in pratica una vera e propria rinascita dell’Arte contemporanea, insegnando che ogni individuo ha una responsabilità etica nei confronti dei fondamenti estetici che da sempre hanno animato il mondo umano e, proprio da quelli, è necessario ripartire e crescere. Dall’alto Optimistic Box n.1 Editions Vice-versand. Scatola in legno cm 10,7x10,9x10,5 Optimistic Box n. 3, 1968 Scatola in legno cm 6x12x3 Recherche sur l’origine, 1974 Scatola di cartone con rullo contenente carta millimetrica con testo e grafici cm. 10x32x9 Tutte le immagini Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


6 FEBBRAIO 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

L

a cantante greca Maria Símoglou è nata a Salonicco. Oggi questa è una città ellenica, ma fino al 1913 ha fatto parte dell’impero ottomano. Lo stesso Atatürk, fondatore della Turchia, era nato in questa città. Gli stretti legami storici e culturali fra il mondo ellenico e quello turco sono tuttora vivi nella musica, e in particolare nel rebetiko. Questa forma espressiva si è sviluppata in Grecia e in Turchia, nel triangolo che include i porti di Salonicco, Istanbul e del Pireo, fra gli anni Venti e gli anni Quaranta del secolo scorso. I suoi eroi sono ladri, marinai e prostitute che frequentano le taverne del porto, fra alcool e hashish. Dati i contrasti fra Grecia e Turchia, il regime autoritario di Metaxas (1936-1941) bandì il rebetiko per occultare questo legame culturale col paese confinante. Nel dopoguerra è cominciata la riscoperta. In tempi più recenti l’interesse per questa musica ha superato ampiamente i confini locali, come dimostrano Rembetika: Songs of the Greek Underground 19251947 (Trikont, 2005), Mortika (Arko Records, 2005) e il CD di Vinicio Capossela Rebetiko Gym-

Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di

Se i casi Montesi, Ghiani-Fenaroli, Bebawi e altri suscitarono grande clamore e discussioni nel secondo dopoguerra, Firenze può senz’altro vantare la primogenitura di un crimine che, grazie alla carta stampata, ebbe vasta eco in Italia: fu l’affare Fuscati, che accadde nel 1905 e che sembra quasi anticipare sinistramente quanto accaduto pochi giorni fa in Via Santa Monaca. La mattina del 14 febbraio di quell’anno la signora Linari bussa a lungo alla porta di un appartamento in Via Vittorio Emanuele n. 3, dove da alcuni mesi si è trasferita la figlia diciannovenne Argene, dopo aver sposato Adolfo Fuscati, un impiegato delle Ferrovie. Non ottenendo risposta, la donna chiede aiuto ai vicini che sfondano la porta e trovano Argene morta strangolata con una cordicella legata a un arpione infisso nel muro di un salottino messo sottosopra in modo tale da far pensare subito a una messinscena. I carabinieri piombano nel Pa-

Profumo di hashish

nastas (La Cupa/Warner, 2012). Nell’area d’origine, intanto, il rebetiko è rimasto una fonte d’ispirazione per numerosi artisti, come Çiğdem Aslan (vedi numero 78) e la suddetta Maria Simoglou. Profonda conoscitrice di un patrimonio tradizionale che spazia dalla Macedonia alla Turchia, Maria ha fatto parte di Oneira, un gruppo a geometria variabile col quale ha realizzato due album, Si La Mar (2010) e Tâle Yâd (2012). La

formazione comprende musicisti provenienti da varie parti del Mediterraneo e del Medio Oriente: Francia, Grecia, Iran, Sardegna, etc. Uno di questi, il suonatore di ney Harris Lambrakis, compare anche nel recente Minóre Manés (Buda Musique, 2015), che segna l’esordio solista della cantante greca. Il sottotitolo, Rebétika songs of Smyrna, sottolinea il legame col mondo turco (o per meglio dire, ottomano).

I tredici brani sono tutti composti da autori dell’epoca, fra i quali Giannis Dragatsis, Kóstas Skarvélis e Panagiótis Toúndas. La ricca strumentazione comprende fra l’altro cetra, kanonaki (dulcimer), lafta (liuto), lira, percussioni e saz. In molte canzoni prevale una certa tristezza, ma la gamma espressiva è varia, perché si passa da un brano ballabile come “Apefásisa polí mou” ai toni introspettivi di “Gínoum’ ‘andras”. In “Tserkéza” la musica si fa più nervosa e ritmata, con le percussioni in evidenza. Alla voce versatile della protagonista si alterna talvolta quella di Periklis Papapetropoulos, come in “To glykó filí”, tratta dal repertorio di Roza Eskenazi (1895-1980). Presente nel disco anche come autrice, la cantante greca di religione ebraica è una figura centrale del rebetiko. A chi vuole conoscerla consigliamo il bel documentario My Sweet Canary (2011), diretto da Roy Sher. I musicisti che accompagnano le scene sono greci, turchi e israeliani, a conferma ulteriore dell’anima multiculturale del rebetiko.

tribunale si trasforma in un giornaliero scontro fra le due fazioni contrapposte, a stento contenute da un cordone di polizia. Il tribunale, comunque, crede a Isolina, che viene condannata a trent’anni di carcere mentre ad Adolfo viene comminato l’ergastolo. Tutto sarebbe finito lì se nel 1921 “La Nazione Sera” non avesse pubblicato una rievocazione a puntate dell’“affare Fuscati”. Fra l’altro tornò fuori la deposizione (rilasciata in istruttoria ma poi ritrattata in dibattimento) del signor Cipriani che aveva la bottega di fabbro nello stesso edificio

del delitto: sosteneva di aver incrociato Adolfo in Piazza della Libertà mentre andava a bottega dove, una volta arrivato, aveva distintamente sentito rumori e grida, ai quali al momento non aveva dato peso, provenire dalla casa di Fuscati. Al giornale si presentò allora il signor Loni, amico di vecchia data di Cipriani, che riferì come spesso il fabbro gli avesse confidato il suo rimorso per aver sostanzialmente mandato all’ergastolo un innocente. I giudici non ritennero però di riaprire il processo su queste basi. Isolina, scontata la pena, finì i suoi giorni in un monastero del Veneto, Adolfo morì in carcere e, al sacerdote che lo confessò in punto di morte, continuò a dichiararsi innocente.

Via Vittorio Emanuele

L’affare Fuscati

lazzo del Sonno in Viale Regina Margherita (oggi Viale Lavagnini) e trovano Adolfo, noto per un’intensa attività extra-coniugale, intento a mangiare tranquillamente pane, salame e fichi (suppongo secchi altrimenti, a febbraio, la vedo dura). Adolfo viene arrestato e poco dopo lo raggiunge in caserma Isolina Grassi (di professione non si sa bene se sigaraia o sarta) che la vox populi indica come amante ufficiale del Fuscati. Rinviati a giudizio per omicidio, mentre Adolfo protesta a gran voce la sua innocenza, Isolina ammette, sì, di aver progettato il delitto, ma che a strangolare Argene, lei presente, era stato Adolfo. I fiorentini si dividono in due partiti pro e contro Adolfo e il trasferimento degli imputati dalle carceri al


6 FEBBRAIO 2016 pag. 8 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

L

a sonata di Vinteuil da cui Swann e Odette estrapolano la “petite phrase” che accompagna e sottolinea il loro amore, ne diviene l’inno e ne fa riemergere il ricordo quando finisce è “personaggio” importante del monumento Recherche, un mistero totale per me non esperta di musica, malgrado la curiosità di conoscere ed ascoltare i brani riferiti come suoi principali modelli mai ne sono venuta a capo. Sapere che c’è uno spettacolo in cui si suonano i pezzi da cui si pensa Proust abbia tratto i frammenti per costruire e il musicista Vinteuil e le sonate da cui il magico refrain mi stimola moltissimo. L’idea, davvero notevole, l’ha avuta il pianista Andrea Lucchesini, che suona con il violinista Marco Rizzi ed il noto violoncellista Mario Brunello, si aggiunge a ciò, che già non sarebbe poco, la voce recitante di Maria Cassi che legge brani della Recherche sul tema. In una lettera ad Antoine Bibesco Proust scrive “la Sonata di Vinteuil non è quella di Franck. Se la cosa ti interessa, ma non penso, ti dirò con il testo alla mano tutte le opere che hanno “posato” per la mia Sonata. La “piccola frase” è una frase della Sonata per piano e violino di SaintSaëns che ti canterò (trema!). I sovrastanti tremoli sono di un Preludio di Wagner, gli alti e bassi lamentosi dell’inizio sono della Sonata di Franck, i movimenti spaziati della Ballata di Fauré e via dicendo. E la gente crede che queste cose si scrivano per caso, per facilità di vena.” Ai pezzi surriferiti si aggiungono, nel nostro concerto, Debussy e Chopin, di cui spesso Proust parla, il primo per la modernità e il secondo per l’amore che gli porta, al di là del suo essere caduto in disuso. Non può certo mancare un omaggio all’amato Reynaldo Hahn. Musica bella, musicisti bravissimi, ma ...ma ...Maria Cassi sarà simpatica, brava, un clown impagabile, ma a me è apparsa proprio del tutto inadatta a leggere La Recherche. La prosa proustiana è sfolgorante, ricca, sofisticata, mai banale il senso delle parole, sempre non ordinarie,

Sconsigliamo ai clown di leggere Proust

che vi si usano, è un’opera grandissima, anzi sublime, non necessita di essere interpretata, di

animata, ironizzata, urlacchiata. Controindicate gestualità pacchianotte, smorfie, boccacce, occhi sgranati, ululati, strilli, gridolini, storpiature ironiche dei nomi et similia. Ascoltare il racconto della riabilitazione di Chopin, musicista prediletto di Debussy, fatta dal Narratore alla terribile nuora della signora Cambremer e la impareggiabile descrizione della gioia, spumeggiante saliva, di quest’ultima,

interpretata con voce altissima, strascicata, quasi in falsetto ed assistere al contorno del “tirarsi su le poppe” più volte relativamente alle parole “i suoi seni si sollevarono e battè l’aria con le braccia” fa davvero un effetto sgradevole. La prosa proustiana evoca ed illumina ciò che narra, non le serve affatto una messa in scena, tanto meno se questa è esasperata per sottolineare le attitudini caricaturali dell’interprete. Sia pure quest’ultimo, l’interprete, bravo o bravissimo non potrà mai emergere se non, e soltanto, tenendo basso il suo smisurato egocentrismo per mettersi, invisibile, al servizio di tale granduer. Così per esemplificare meglio vi pare necessiti di interpretazione creativa quanto segue? “... le frasi dal lungo collo sinuoso e smisurato di Chopin, così libere, così flessibili, così tattili, che s’iniziano cercando e trovando il loro posto fuori e ben lungi dalla direzione di partenza, ben lontano dal punto cui si credeva giungesse il loro tocco, e che si librano in quella lontananza fantastica solo per tornare più deliberatamente, - in un ritorno più premeditato, con precisione più grande, come su un cristallo che risuoni fino a strappare un grido, - a colpirci nel profondo del cuore....”

euro con revoca di licenza. Per gli amanti della nicotina, reticenti a cambiare le proprie abitudini, si preannunciano tempi duri. Per me che non sono un fumatore sarà come vivere in paradiso: tutto pulito, dalle piazze ai giardini fino all’aria che si respira. D’ora in vanti non vedremo più quel tappeto arancione sui nostri marciapiedi. Non ci saranno più fumatori in azione vicino agli ingressi di ospedali, scuole e università. E la guerra alle cicche selvagge avrà finalmente partorito cittadini virtuosi. Era l’ora che si facesse una legge come questa, che porterà l’Italia ai livelli della Svizzera. Mi domando: perché si è aspettato così tanto tempo! Esco di casa e vado alla fermata della tramvia. Ahimé il tappeto di cicche c’è ancora. Arrivo alla

stazione di Santa Maria Novella idem. Cicche ovunque. Faccio un giro in centro, tutto come prima. Qualcuno dirà: se non vogliamo le cicche per terra servono dei posacenere accanto ad ogni cestino dei rifiuti. Qualcuno ha fatto due conti: a Firenze di bidoni spegni-cicca ce né uno ogni 600 abitanti, mentre a Parigi uno ogni 74 residenti. Lo sappiamo tutti: non basta fare una legge per far cambiare comportamenti e abitudini. Né si risolvono i problemi con multe e divieti. Tanto più se nessuno è in grado di farli rispettare. Manca chi vigila, manca chi controlla, manca chi fa le multe. Dice che spetterebbe ai Comuni, a cui è destinato il 50% delle sanzioni. Di sicuro c’è la società civile. C’è, ma non ci si può fidare: si dimostra spesso sempre più incivile.

Remo Fattorini

Segnali di fumo Per rendere la società civile più civile dal 1 febbraio è in vigore una nuova legge: è la green economy. Così si chiama. Prevede il divieto di fumare in auto in presenza di bambini e donne incinta a bordo. Prevede il divieto di fumare nei pressi di ospedali, scuole e università. E per i trasgressori c’è una multa da 50 a 500 euro. Prevede una multa da 150 a 300 euro per chi getta a terra i mozziconi delle sigarette. Prevede una multa da 500 a 3mila euro per chi vende sigarette ai minori. Per i recidivi la multa può arrivare fino a 8mila


6 FEBBRAIO 2016 pag. 9 Marco Minoja Soprintendente per i Beni Archeologici della Sardegna di

Il Ministro Franceschini ha fatto un ulteriore, forte passo nel progetto di riorganizzazione del MIBACT. Si prevede la creazione delle “Soprintendenze Archeologia, Belle Arti e Paesaggio” di fatto unificando in un’unica testa i tre ambiti di tutela (archeologico, patrimonio artistico e architettonico). L’obiettivo del Ministro è quello, se ho ben capito, di una semplificazione dei rapporti tra amministrazioni e cittadini e imprese. La riorganizzazione territoriale, dice il Ministero, è stata creata tenendo conto del numero di abitanti, consistenza del patrimonio culturale e dimensione dei territori. Ogni Soprintendenza sarà organizzata in sette aree funzionali: organizzazione e funzionamento; patrimonio archeologico; patrimonio storico e artistico; patrimonio architettonico; patrimonio demoetnoantropologico; paesaggio; educazione e ricerca. Sono inoltre definiti altri 10 istituti autonomi, oltre a quelli già precedentemente creati. Facciamo qualche esempio per la Toscana. Saranno istituite 4 Soprintendenze: per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato, con sede a Firenze; per le province di Siena, Grosseto e Arezzo, con sede a Siena; per le province di Lucca e Massa Carrara, con sede a Lucca; per le province di Pisa e Livorno, con sede a Pisa. Attualmente l’organizzazione della Toscana è la seguente: 1 Soprintendenza archeologica della Toscana 3 Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio: per le province di Firenze, Prato e Pistoia, per le province di Lucca e Massa Carrara; per le province di Pisa e Livorno; per le province di Siena, Grosseto e Arezzo 1 Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici per: Comune di Firenze; Province di Firenze, Prato e Pistoia; Siena e Arezzo; Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara. A seguito di questa nuova riforma, non ancora ben chiara nelle sue modalità organizzative e di distribuzione di ruoli e incarichi a livello operativo, si è aperto un ampio dibattito. Ospitiamo di seguito l’intervento di Marco Minoja, Soprintendente per i Beni Archeologici della Sardegna,

La riforma del Mibact che ringraziamo per la disponibilità. (Barbara Setti) “Vorrei proporre qualche riflessione che consenta di guardare con consapevolezza al presente e con qualche intenzione strategica al futuro. Sento anche il bisogno personale di spiegare perché non mi trovo in accordo con la scelta di muoversi in questo momento con l’obbiettivo individuale della difesa delle Soprintendenze Archeologiche in quanto tali. Sono infatti convinto che ad oggi, nell’ambito di una riforma del Ministero che ha preso le mosse con la commissione Bray e che è già passata attraverso il Decreto dell’agosto 2014 di riorganizzazione del MIBACT, appigliarsi al mantenimento delle Soprintendenze Archeologiche sia non solo debole, ma incoerente con il quadro generale. Oggi purtroppo il problema non può essere ravvisato soltanto nell’ennesimo accorpamento (solo l’ultimo in ordine di tempo), ma deve essere imputato a una deroga complessiva al principio della competenza tecnica in capo a chi deve assumersi la responsabilità delle scelte di tutela; principio che ha caratterizzato complessivamente la riforma. Il principio andava difeso all’inizio per tutti, e sostenuto da tutti; oggi accorpare l’archeologia è conseguenza naturale di quello che ha avuto inizio allora. Deroga che possiamo vedere non solo nelle forme organizzative che ha assunto il Ministero, ma nei numeri complessivi, che sono estremamente rivelatori. Se infatti, in assoluto, il tema fosse effettivamente quello di un tentativo di tutela integrata del patrimonio, allora di certo gli aspetti organizzativi potrebbero essere discussi senza preconcetti e senza chiusure settoriali. La visione integrata del patrimonio non costituisce infatti né una novità per il Ministero né un’idea

peregrina e distante dal sentire di molti; la necessità di un approccio integrato tra le diverse discipline è sentito da molti di noi e praticato peraltro in numerosi settori della nostra attività. E già dalla creazione delle Direzioni Regionali il Ministero ha adottato un orientamento verso un indirizzo procedurale che tende a unificare i diversi contenuti tecnico-scientifici nei pareri emanati dal Ministero. Tanto che nella pratica ciò avviene, e da anni, in tutte le conferenze dei servizi a carattere intersettoriale; avviene in alcuni procedimenti essenziali come i pareri in fase di autorizzazione paesaggistica. Il dato strutturale che invece colpisce e deve essere oggetto di attenzione è quello della rarefazione strutturale dei presidi di tutela che questa serie di riforme ha progressivamente prodotto. Nel 2009 le Soprintendenze diffuse sul territorio nazionale, per il settore oggi accorpato all’interno del sistema archeologia belle arti e paesaggio, erano 78, di cui 6 a carattere speciale. Domani saranno 41, di cui due a carattere speciale. Il dato va oltre ogni doveroso rispetto delle norme sulla contrazione della spesa: la riduzione complessiva si avvicina al 50% (47,43 per gli amanti della precisione). A questo dato penso debba essere sommato un altro elemento altrettanto evidente. La capacità complessiva di direzione e indirizzo dell’azione degli uffici è stata analogamente rivoluzionata da questi percorsi di riforma. Nel 2009 il MIBAC contava su 9 uffici di direzione generale collocati a Roma, compreso il Segretariato generale e ben 17 Direzioni regionali di livello generale, con tutta la capacità di coordinamento e indirizzo che una visione integrata del patrimonio per l’appunto richiede, dislocate sul territorio nazionale.

Oggi il quadro è radicalmente mutato. A Roma gli uffici di livello generale sono diventati 12 compreso il Segretariato Generale, cui si affiancano altri 10 istituti di livello dirigenziale, ossia 10 musei autonomi, con tutta la deflagrante contraddizione tra i concetti di Istituto autonomo e Direzione Generale – di fatto dieci istituti che dirigono espressamente se stessi. Tre dei quali ancora accentrati nella capitale, cui si aggiunge una Soprintendenza speciale di livello generale ancora a Roma. Il totale è di 16 Direzioni Generali romane in un Ministero che rivolge la propria azione all’intero territorio nazionale. Il dato raffrontato al 2009 anche in questo caso è emblematico: le direzioni romane passano dal 34% al 67% del totale; in pratica raddoppiano. In questo quadro rivolgere lo sguardo all’accorpamento delle Soprintendenze Archeologiche rischia di essere strabico e deviante. Per tutto questo ritengo che sia necessario interrogarsi in modo celere e per forza costruttivo (se non vogliamo derogare alla nostra volontà di tutela del patrimonio) su nuovi modelli di funzionamento che facciano reale argine nei confronti dei rischi connaturati a questo nuovo assetto organizzativo. Una riflessione che parta necessariamente dalla capacità di ritrovare una dimensione collegiale e coesa tra i dirigenti di tutti i livelli, tutti ugualmente privati della propria sicurezza tecnica. Dalla capacità di rinnovare un patto di collaborazione con le strutture tecniche degli uffici, dove albergano grandi capacità e competenze straordinarie, ma che saranno molto più variegate di oggi e con le quali bisognerà imparare a parlare con rispetto e competenza. Solo così forse troveremo il modo di fare ancora tutela e in definitiva cultura. Altrimenti rischieremo di non fare altro che piangerci addosso, mentre il resto del mondo continuerà a sorridere della nostra divisione, proprio come si sorride dei capponi di Renzo i “quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’un(o) con l’altr(o), come accade troppo sovente tra compagni di sventura”.


6 FEBBRAIO 2016 pag. 10 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

N

on è facile scrivere della grande retrospettiva che Parigi dedica fino al 18 aprile a Anselm Kiefer, artista più volte celebrato in questa città come quando nel 2007 ebbe l’onore di inaugurare il ciclo Monumenta al Grand Palais. La mostra, che si sviluppa in 13 sale con 150 opere tra immensi quadri, teche in ferro e vetro e installazioni, ha infatti una sua tragica e lirica “fisicità” difficilmente trasmettibile a parole. Tutto il percorso di Anselm Kiefer, nato nel 1945 tra le rovine di una Germania sconfitta, è stato dedicato a scalfire quell’assenza di memoria, che lui chiama coltre di silenzio, del suo paese sui crimini del periodo nazista, con la convinzione che l’arte deve sempre tentare di rendere la realtà evidente. L’artista tedesco, fin dalle sue prime provocatorie opere, cerca di rispondere alla domanda posta dal filosofo Theodor W. Adorno su come fare arte in Germania dopo l’Olocausto costruendo un linguaggio composto da una stratificazione di simboli presi dalla mitologia nordica, dalla religione cristiana, dalla mistica ebraica, dalla stessa storia e poesia tedesca e dai suoi ricordi personali. Nelle sue tele monumentali di grande bellezza che attraggono lo spettatore quasi con effetto ipnotico i materiali usati si sovrappongono: terra, sabbia, paglia, gesso, carbone, fiori secchi, cenere ma anche libri bruciati dei suoi poeti preferiti, piccoli oggetti rotti e arrugginiti trovati nel suo immenso atelier a Parigi, pezzi di sue opere distrutte, frammenti di metallo proveniente dal tetto della cattedrale di Colonia smantellato nel 1985....I temi si ripetono sempre diversi: possenti prospettive d’interni e rovine ricche di tensione tra caos e ordine con riferimenti all’architettura neoclassica del terzo Reich, paesaggi brulli attraversati all’infinito da grandi solchi neri che evocano il filo spinato dei campi di concentramento e attraversati dai versi del poeta ebreo rumeno Paul Celan, la foresta tedesca silenziosa e vuota, in attesa, o

Rimuovere la coltre del silenzio

popolata di personaggi della storia tedesca e parole, un autoritratto con il corpo allungato per terra sotto immensi girasoli, simbolo di una natura che inghiotte e si riforma sempre di nuovo....Nell’ultima sala con la grande installazione Madame

de Stael, creata nel 2015 in occasione della mostra, il rapporto con il passato sempre essersi momentaneamente risolto con un omaggio al romanticismo e un’ambientazione, la foresta, che questa volta è luogo di rinascita e non degli orrori della guerra. Alla fine della mostra la sensazione che tutte le opere viste facciano parte di un lungo intimo collo-

Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili Suonata per austerità e conti in ordine

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

quio viene rafforzata dalla grande torre a più piani in lamiera che si erge nella hall del Centre Pompidou. All’interno, visitabile, pendono strisce di piombo con migliaia di foto scattate da Kiefer negli anni. Queste bande opache non vogliono rappresentare, come si potrebbe pensare in un primo momento, delle pellicole fotografiche. La loro funzione non è infatti la proiezione ma l’introspezione di un artista tormentato da un passato che non ha vissuto ma che continua a inseguirlo.


6 FEBBRAIO 2016 pag. 11 di

Chiara Ulivi

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roseguendo con la nostra ricognizione sul campo, genitoriale e non specialistica, intorno al tema della valorizzazione delle diversità e dei talenti nelle scuole italiane e statunitensi, propongo alcune osservazioni sulla didattica americana. Dopo aver infatti rilevato che il Ministero della pubblica Istruzione in Italia con una circolare si trova a dover raccomandare alle scuole di valorizzare gli studenti particolarmente competenti, stabiliamo un confronto tra il nostro approccio con l’apprendimento e quello della scuola pubblica newyorkese, basato sulla semplice osservazione da utenti di entrambe e senza alcuna pretesa di esaustività. Abbiamo detto come la scuola italiana non si trovi ancora pronta a gestire il tema delle competenze speciali. Vediamo se nella struttura di base della scuola americana ci sono spazi per lo sviluppo autonomo e individuale delle abilità, senza parlare naturalmente delle scuole speciali destinate ai cosiddetti “gifted and talented”. Ciò che salta subito agli occhi di noi genitori italiani (e iperprotettivi) è il livello di autonomia e di disciplina che viene chiesto ai bambini fin dall’inizio: classi di 30-35 bambini sono gestite da una sola maestra, coadiuvata da insegnanti specifici per le materie particolari, come art, computer, movement, games (…giochi, sì…), clay, music, library… L’impegno educativo è tutto della maestra prevalente che cambia ogni anno, come ogni anno cambia la composizione della classe: i bambini della scuola vengono ricombinati ogni anno in maniera diversa e ogni anno si trovano un insegnante diverso. Tutto ciò è molto lontano dall’idea della maestra-chioccia che abbiamo in Italia (e a cui per personale e fortunatissima esperienza sono molto affezionata). Ci sembra disorientante e spersonalizzante, ma i suoi lati positivi forse ce li ha e i miei bambini ne hanno colto uno importante: “I bambini con la maestra nuova e in una classe nuova faranno più i bravi che se avessero la stessa maestra e gli stessi

La scuola e i talenti Da Firenze a New York (parte 2)

compagni dell’anno prima”. Chissà se è vero, forse sì. Sta il fatto che quando è il momento di parlare e giocare sul tappetone in classe (una cosa tipo “angolo morbido” delle nostre scuole dell’infanzia), si gioca e si parla tra bimbi e con la maestra; quando la maestra dice “stop: si lavora”, tutti si siedono ai tavoli e riprendono da dove avevano lasciato. A proposito, niente cattedra e niente banchi: tavoli da 6 bambini con al centro un portamatite con materiale per tutti; niente astucci o grembiuli, ma attrezzature comuni da condividere. Ho visto personalmente in quale situazione ordinata Michele Morrocchi twitter @michemorr di

Ci sia consentito l’inconsentibile ma la traslazione della salma di Padre Pio a Roma per il Giubileo non è un buon segno. Non lo è per tanti motivi. Il primo è che il Vaticano con il Frate ha sempre avuto un rapporto piuttosto controverso. Non amato in vita, così come non lo amava il regime fascista, ne ha tollerato il culto prima perché capace di garantire coesione e consenso popolare poi perché, negli anni della secolarizzazione spinta della società, era rimasta una delle poche figure genuinamente popolari della Chiesa Cattolica. Non è un buon segno, da laico e laicista sia chiaro, perché ritorna centrale ai fini della devozione non l’insegnamento, l’opera e il mistero del Santo ma il suo corpo, la reliquia, l’oggetto di devozione.

e concentrata lavorano anche i bimbi di seconda elementare, persino nel giorno di Halloween in cui si va a scuola tutti in costume, pronti per la parade a giro per il quartiere. Ci siamo anche trovati a leggere con i bambini, che poi lo hanno dovuto sottoscrivere e firmare, un codice scolastico in cui si richiamano gli studenti di ogni età al rispetto delle regole di convivenza e alla autovalutazione del proprio comportamento. I bambini si muovono in autonomia tra gli ambienti e le attività: vengono invitati a recarsi insieme, e senza insegnante, a mensa dove personale apposi-

to si occupa di loro (niente servizio ai tavoli ma vassoi da self service… come nei film!), nel cortile per la ricreazione o, se il tempo è brutto, nell’auditorium dove il coach proporrà loro giochi “indoor”, nella palestra dove faranno le attività fisiche… I miei bambini la prima settimana si sono persi nella scuola, complice la struttura grande e la difficoltà di comunicazione; nel giro di pochi giorni hanno acquisito meccanismi e abitudini nuove e si sono orgogliosamente resi indipendenti. Apparentemente il raggiungimento dell’autonomia personale sembra non inserirsi nel nostro ragionamento, ma penso di poter dire che invece una sua parte ce l’ha: acquisire piccole autonomie è parte del processo di crescita e aiuta nella valutazione di se stessi e del proprio potenziale, incidendo in maniera importante e positiva sull’autostima. E mi permetto di aggiungere che, nell’indipendenza e responsabilizzazione dei bambini, possa anche risiedere il segreto della disciplina in classe.

Un ritorno al medioevo dove il rapporto tra clero e popolo era mediato dagli oggetti apotropaici e mitici, in una sorta di “semplificazione” ad uso delle masse del discorso divino. Padre Pio è paradigmatico di un modo di intendere, da parte della Chiesa

Cattolica, il rapporto con i propri fedeli, più il frate è esaltato e meno è matura la considerazione che il clero ha dei propri fedeli. Il fatto che sia proprio Papa Francesco a riportare in auge Padre Pio credo qualche dubbio possa porlo.

Il corpo del santo


6 FEBBRAIO 2016 pag. 12 Diego Salvadori diego.salvadori@unifi.it di

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1 febbraio 1963: dopo aver posato del pane e del latte accanto ai letti dei propri figli, Sylvia Plath si suicida aprendo il rubinetto del gas e infilando la testa nel forno. Un epilogo preannunciato sei giorni prima, in quella poesia dal titolo fin troppo presagico – “Limite” (“Edge”) – dove “La donna ora è perfetta” e “La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,/ non ha motivo di essere triste”. La morte quale soglia e, in un certo qual modo, varco che pone fine, una volta per tutte, alla perfettibilità dell’umano. Financo l’elemento astrale, in quei versi, abbandona la sua mestizia, nel deflagrare di un male interiore, banalizzato con l’etichetta di ‘depressione’. Una poesia, quella di Plath, pronta a intessere un dialogo con la natura e i suoi abitatori, in un corteggio saturo di presenze, animali e vegetali. Già da “Conversazione fra le rovine” (“Conversation among the ruins”), del 1956, chi scrive si rivolge a un interlocutore in absentia, invitandolo a “gran passi per il portico della mia casa elegante/ […] disturbando ghirlande di frutti/ e i favolosi liuti e i pavoni, lacerando la rete/ di ogni decoro che imbriglia l’uragano”. Ormai ridottosi a spettro e topografia slabbrata, il paesaggio è da subito ‘limite’, pronto a siglare non solo l’incontro di due entità, quanto piuttosto il riemergere di una natura repressa, imbrigliata e che reclama una sua autonomia: “Ora è crollato il ricco ordine di mura; gracchiano i corvi/ sulle rovine spaventose; alla luce tetra/ del tuo occhio aggrondato la magia fugge/ come strega atterrita dal castello al nascere dei giorni veri”. La rappresentazione è da Sabba stregonesco, laddove i corvi – nel riecheggiare quel “nevermore” dall’eponima poesia di Edgar Allan Poe – presidiano questo ‘rinascere al nero’. Un’oscurità, in fondo, ravvisabile in un altro scritto della poetessa confessional – “Paesaggio invernale, con corvi” (“Winter landscape, with rooks”): “L’acqua della gora da una chiusa di pietra/ si riversa a capofitto in quello stagno nero/

Soglie lunari: Sylvia Plath e la parola alterata

dove, assurdo e inopportuno, un solo cigno/ galleggia casto come neve, scherno della mente ottenebrata/ che brama strappar giù il bianco riflesso. // L’austero sole scende sulle paludi,/ occhio ciclopico arancione disdegnoso di guardare/ più a lungo un tale

panorama di scontento;/ in un nero piumaggio di pensieri, mi aggiro come un corvo,/ cupa, mentre scende la notte invernale”. La narrazione della (e sulla) natura si polarizza verso due estremi: da un lato, il candore del cigno e la sua grazia salvi-

fica; dall’altro, l’oscurità dello stagno e, soprattutto, del corvo. Ecco che la parola diviene creatura vivente e l’animale, nel suo esistere sulla pagina, dischiude gli estremi dell’anima umana, in bilico tra dannazione e purezza. Una natura, quella della Plath, vista attraverso una prospettiva allucinatoria, sformante, dove – citiamo sempre dallo stesso componimento – “I giunchi dell’estate sono incisi nel ghiaccio/ come la tua immagine nel occhio; arido gelo/ invetria la finestra della mia ferita; quale conforto/ può scaturire dalla roccia percossa e rinverdire/ il deserto del cuore? Chi mai verrebbe in questo tetro luogo?”. È un sovrapporsi di spazi, confini, prossimità edulcorate; mentre il reale e le sue mappe effettive sono privati della loro carica referenziale, presi in un gioco di tristi sinestesie: il segreto linguaggio della biosfera del cuore.

Poli e che invece ne dimostra la grandezza attoriale ma anche la capacità registica e intuitiva di Angelo Savelli che ha lavorato sul testo creando una riduzione teatrale a misura sia dell’attri-

ce che dell’ambiente in cui è andata in scena. Una magnifica serata, arricchita dalla presenza, a sorpresa, dell’autore belga che pareva davvero soddisfatto della resa scenica delle sue opere.

Lucia Poli magnifica intrusa Michele Morrocchi twitter @michemorr di

Due donne, il tempo che scorre. Felicità, solitudine, amore (presunto o reale), la malattia. Tutti temi cari a Eric Emmanuel Shmitt raffinato autore belga, che è stato messo in scena da Pupi e Fresedde nella sala da ballo del relais Santa Croce, nuovo spazio della stagione del Teatro Verdi. In scena una magnifica Lucia Poli i cui personaggi delle due donne dei due racconti, inscenati quasi come due atti consequenziali dal regista Angelo Savelli, cadono a pennello come un abito di alta sartoria. Soprattutto ne l’Intrusa l’interpretazione di Lucia Poli è stata magistrale. Il passaggio dal tono tragico all’ironico, la levità nell’affrontare (senza mai svelare) l’intrusa sono stati resi in modo magnifico, trasmettendo tutto il caleidoscopio delle emozioni del racconto. Una interpretazione che poteva far pensare ad un testo costruito proprio sulla


6 FEBBRAIO 2016 pag. 13 Francesco Cusa mario.cantini@gmail.com di

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narritu ci tiene incollati alla sedia in questo suo “Revenant”. Fotografia sensazionale, scenari gelidi e sangue che scorre a irrorare le anime, a ridestarle dal sonno cui sembrano destinate. Già la scena iniziale dell’assalto indiano ai cacciatori di pelli (che ricorda per analogia quell’altra di “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg), per non dire poi di quella dell’orsa che si avventa su Hugh Glass/Di Caprio, meritano la visione. Il film è avvincente, a tratti crudo come pochi. Su tutto campeggia questa cristica passione di Glass, nell’ingiuria del fisico, nella menomazione, una sorta di martirio del corpo e dello spirito. È un’agonia lunghissima che ci accompagna per quasi tutto il film, tramite la sofferenza di un uomo che striscia, che guadagna i metri coi gomiti, fra le asperità, il gelo, e gli squarci malickiani d’una natura suprema, siderale. La metafora dell’uomo strisciante è quella del verme, del soggetto deprivato di tutto che torna alla vita dopo esser morto, in una catarsi (quella del redivivo) che presuppone la fusione uomo/natura (in ogni suo ordine e grado) quale principio iniziatico della rinascita. Anche qui i riferimenti si sprecano: penso a “Into the wild” di Sean Penn, ma anche (per ciò che riguarda il martirio del corpo) a “La passione di Cristo” di Mel Gibson. Sullo sfondo delle storie dell’America dei primi decenni del XIX secolo, fra traffici loschi, lotte intestine fra tribù e patti fittizi tra clan di colonizzatori, si consuma la tragedia personale di un uomo che è figlio di quell’epoca violenta, epoca in cui la brutalità e l’onore sono l’ombra sterile del graffio della natura, codici non scritti ma vibranti che sovrintendono le leggi dell’uomo. E così Hugh Glass percorre la strada della propria vendicativa passione, strada lastricata di ogni sorta di orrore, luminosa, tenebrosa, sanguinolenta, pura, percorso esterno e interno, intimo, fra le piaghe

Revenant

cia” alla vendetta terminale, al sacrificio necessario che viene delegato alla legge dei nativi, per quello che si rivelerà essere vano ma sublime gesto da consegnare all’Indicibile, all’equilibrio silente delle cose. Ogni cadavere - quello dell’empio e quello del santo - trova dignità e viene riconsegnato al ciclo delle permutazioni che non conosce limiti, etiche, o morali di sorta, partecipe com’è delle sottili trame ordite dalle Moire. Il difetto di “Revenant” si palesa tutto in questo iato tra la forza straripante delle immagini, delle maschere stravolte del volto di Di Caprio e la sua simbologia scarna e di prammatica che accompagna didascalicamente le vicende di un’epopea. Stiamo comunque parlando di un film da vedere assolutamente, senza tergiversazioni di sorta.

del corpo putrescente, incancrenito e rattoppato che trova requie e calore solo nel ventre

squarciato di un cavallo. L’acme del calvario si tocca al momento in cui Glass “rinun-

Michele Rescio mikirolla@gmail.com

Il maiale dei poveri

di

In Italia, da quando fu importata dall’America, divenne molto apprezzata, addirittura si guadagnò l’appellativo di “maiale dei poveri”, perché meno costosa della carne ma indubbiamente ricca di nutrimento: vitamine A e C, betacarotene, fosforo, potassio, calcio; la zucca è un mix nutritivo per adulti e bambini. Della zucca non si butta via niente: fiori, polpa e semi sono le parti da mangiare, mentre la buccia può essere utilizzata per addobbi e ornamenti. Nientemeno per i Romani la zucca svuotata ed essiccata diventava un prezioso contenitore leggero per trasportare sale e cereali, vino e latte. La zucca in cucina è un vero jolly, la utilizziamo per preparare diverse portate e cucinare saporite pietanze: dai primi piatti ai risotti, dai dolci ai ravioli, fino ai contorni. La zucca dona colore in ogni piatto e si sposa con gusti diversi per creare sapidità uniche. La zucca gratinata si presenta come un soufflé internamente tenero e la parte superiore croccante. Può essere gustata accompagnata ad arrosti e bistecche con pane fresco croccante, meglio se baguette francese. Ingredienti per 4 persone: 500g di zucca 150g di burro

½ l di latte 100g di parmigiano grattugiato 2 cucchiai di fecola 3 uova Preparazione: Priva la zucca di semi e buccia. Tagliala a cubetti. Fondi 50 g di burro in una casseruola e aggiungi la zucca lasciandola insaporire. Aggiungi 4 cucchiai di acqua e del sale. Quando la zucca si sarà ammorbidita, passala al setaccio raccogliendo il ricavato in una casseruola. A esso aggiungi il latte, 70 g di burro,

60 g di parmigiano e la fecola di patate sciolta in un po’ di latte. Metti la casseruola sul fuoco e lascia cuocere per 20 minuti mescolando continuamente. Togli dal fuoco e lascia raffreddare. Monta gli albumi a neve densissima e insieme ai tuorli aggiungili al composto. Imburra i bordi di una teglia e versa il composto. Aggiungi in superficie il formaggio rimasto e fai cuocere in forno a calore medio finché sarà ben gratinato.


lectura

dantis

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Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Allievi di Simone, senza sbaglio, eran ficcati in vasche con la testa né il loro agitar togliea l’abbaglio.

sacerdoti di ogni simulacro sopra loro, di diavola sembiante, la statua stava dimensionata macro.

dei segreti narrò del labirinto Catemosse ell’era nominata. L’autore del metallo ridipinto

Di credenza terren fecero festa nel commerciar quant’era di più sacro coi piedi in alto al par d’una foresta

Ad occhio mi sembrò rassomigliante splendente, ma vestita d’auro finto donna scrivana, sui dannati stante,

avea la piazza grande sbeffeggiata con un accrocchio di cattivo gusto, dal signorin del fior più che omaggiata.

Canto XIX 8° cerchio 3a bolgia

Simoniaci. Una moltitudine di papi, cardinali, ayatollah, califfi, rabbini, conficcati a testa in giù in pozzi a forma di fonte battesimale sgambetta inutilmente per spegnere i fuochi che ardono sulla pianta dei piedi. Una diavolessa dorata dalle sembianze di Kate Moss osserva dall’alto. Un’altra trovata dell’imprevedibile Jeff Koons


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Bodini. Sculture, disegni, incisioni

“Bodini. Sculture, disegni, incisioni 1958/2000“ è la prima esposizione che si organizza a 10 anni dalla scomparsa del grande sculture di Gemonio, che ha caratterizzato il ‘900. Bodini con Guerreschi, Vaglieri, Romagnoni, Ceretti, Ferroni e Banchieri, fa parte del gruppo milanese di giovani artisti definito Realismo Esistenziale. Le sue opere esprimono il disagio e l’inquietudine dell’esistenza, in particolar modo nei ritratti, di grande forza espressiva e drammaticità. La mostra, a cura di Flavio Arensi e Nicola Loi realizzata insieme a Maria Stuarda Varetti, coordinatrice del Comitato gestione eventi della Fondazione Banca del Monte di Lucca, raccoglie una importante rappresentativa della produzione dell’artista italiano nel palazzo delle esposizione della Fondazione della Banca del Monte di Lucca (piazza San Martino, 7 – Lucca) ed è realizzata in collaborazione con il Museo Civico Floriano Bodini (Gemonio) con la Fondazione Materima (Casalbeltrame), con Tessere colorate di un mosaico in eterno divenire, incastri e geometrie che si pongono come “arte assoluta”. I dipinti-istallazioni di Marcello Bartalini presentati nella mostra personale dal titolo “Colore assoluto”, che sarà ospitata dal 12 gennaio al 14 febbraio 2016 negli spazi del Lu.C.C.A. Lounge&Underground, sono il risultato della sua ricerca pittorica di oltre trentacinque anni. L’esposizione, che si compone di circa 15 opere, presenterà una panoramica della produzione dell’artista empolese a partire dal ciclo dell’Astrattismo informale realizzato dalla metà degli anni ’70 fino al 1998, includendo quello Materico floreale degli anni 1999-2012 fino ad arrivare a quello più recente che segue il filone dell’Astrattismo geometrico e delle estroflessioni. Per molti dei suoi lavori Bartalini utilizza come palinsesto tela e legno, un supporto misto che gli permette infiniti giochi di inserzioni e cromie. Come scrive il critico d’arte Maurizio Vanni nella brochure di presentazione della mostra: “Bartalini punta ad eccitare la fantasia

lo Studio Copernico (Milano) e con l’Archivio Bodini (Milano), con il patrocinio del Comune di Gemonio. Floriano Bodini nasce a Gemonio, in provincia di Varese, nel 1933, frequenta l’Accademia di Brera, sotto la guida di Francesco Messina. Ha insegnato all’Accademia di Carrara, di cui è stato direttore fino al 1987 e presidente dal ‘91 al ‘94; e al Politecnico di Architettura di Darmstadt dal 1987 fino

al 1998. Nel 1962 è invitato alla XXXI° Biennale d’Arte di Venezia, dove espone sette opere. Nel ‘68 espone la scultura “Ritratto di un Papa”, in legno di cirmolo, che suscita enorme interesse, ed è poi collocata nei Musei Vaticani. A partire dal 1970, dopo il legno e il bronzo, la sua ricerca si allarga all’uso del marmo, materiale essenziale per il ciclo delle grandi opere pubbliche, che inizierà negli anni

‘80. Lavora prima negli studi di Carrara, poi di Viggiù. Tra le sue opere monumentali il monumento in marmo a Virgilio di Brindisi, il bronzo a Paolo VI del Sacro Monte di Varese, l’altare maggiore del Duomo di Varese, il monumento al Cardinal Ferrari per il Duomo di Parma, il complesso dell’altare maggiore del santuario della Santa Casa di Loreto, il monumento in marmo ai Caduti sul lavoro della città di Carrara, l’altare maggiore del Santuario di Rho, l’altare delle Grotte Vaticane a S.Pietro a Roma, il volo di colombe in bronzo per la sede Agip di S.Donato Milanese, il monumento a Stradivari a Cremona, il complesso bronzeo dei Sette di Gottinga per la piazza del Parlamento di Hannover (Germania), la Porta Santa per la Basilica di S.Giovanni in Laterano a Roma, l’altare dell’Eucarestia a San Giovanni Rotondo nel complesso architettonico di Renzo Piano e il Monumento a Paolo VI nell’Aula Nervi in Vaticano. Nel 1999, a Gemonio, è stato inaugurato il Museo Civico “Floriano Bodini”, con una donazione di opere sue e di suoi contemporanei e un’ingente collezione di libri.

Bartalini, colore assoluto

di ogni spettatore, come in un sogno vigile, per sorprenderlo ed allontanarlo da pregiudizi e convenzioni: per lui l’arte visiva non corrisponde alla capacità di creare una costruzione basata sul gusto estetico, ma piuttosto sulla

base del peso, del tempo, dello spazio e della velocità”. L’artista gioca col ritmo e con il movimento prendendo spunto per la simmetria delle sue composizioni dalla gestualità della danza, della ginnastica ritmica e delle arti

marziali, ma nella costruzione dei suoi lavori inserisce anche richiami alla geometria e alla matematica. Quello di Bartalini è anche un recupero della manualità, del piacere fisico di creare dando voce ai materiali e ai colori decisi. “Bartalini – prosegue Vanni – lavora sul colore, sulla sua essenza, sul superamento della sua materialità, sui contrasti simultanei provocati dall’occhio che esercitano una funzione tanto estraniante quanto ‘riappacificante’; infatti è proprio la percezione visiva che proietta lo spettatore in un mondo soggettivo, che lancia le cromie in una dimensione dove risultano essere qualcosa di differente da quello che crediamo, sollecitando la psiche in modo inedito”. La mostra vuole essere anche un omaggio ai grandi artisti italiani innovatori dell’arte astratta del Novecento come Bonalumi, Fontana, Manzoni e Castellani, e una celebrazione della creatività come arte gestuale.


L immagine ultima

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Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

G

ruppo di giovani manifestanti contro la guerra del Viet Nam che si reca verso l’area del Central Park dove si stava raccogliendo il popolo di coloro che si aggregavano contro l’impegno degli Stati Uniti in quella parte del mondo. I giovani erano decisamente i più presenti a questo tipo di manifestazione, ma per me che ero abituato alle recenti vicende del ’68 in Italia, restava sempre il dubbio che si potesse fare decisamente molto di più. Col passare del tempo mi sono poi reso conto che fasce sempre più ampie della popolazione giovanile stavano entrando a far parte di coloro che si opponevano con più energia a questa orribile avventura.

NY City, agosto 1969


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