Cultura commestibile 162

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

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N° 1

Attacco alla Crusca

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia


Da non saltare

19 MARZO 2016 pag. 2

Simone Siliani s.siliani@tin.it di

A

lba Donati, poetessa affermata (la sua ultima raccolta “Idillio con cagnolino” Fazi, 2013, si è aggiudicato il Premio Lerici-Pea, il Premio Dessì e il Premio Ceppo; ma prima ancora con “La Repubblica contadina” City Lights, 1997, aveva vinto il Premio Mondello Opera Prima e il Premio Sibilla Aleramo), è da poco diventata presidente del Gabinetto scientifico-letterario “G.P. Vieusseux” di Firenze. Una intervista “a caldo” quella che ci ha concesso e, come in ogni nuova avventura, siamo nella fase vorticosa delle emozioni, delle idee e dei progetti. Come ci si sente sulla sedia in cui sedette Montale? In verità non ci penso. Intanto lui era direttore e io sono presidente, quindi sarei stata sopra di lui. Scherzo. Certo, fa impressione Montale, ma soprattutto lo fa l’essere a contatto con un luogo che è stato frequentato e che ha le carte dei miei poeti preferiti, Betocchi e Caproni. Domanda ovvia: dove pensi di portare il Vieusseux? Che impronta vuoi dare alla tua presidenza? Mi fa molto piacere che, a differenza di qualche anno fa quando mi sembrava che vi fosse un calo di interesse da parte delle istituzioni sul Vieusseux, vi sia una ripresa di attenzione. Anche la volontà di nominare un presidente attivo e non di mera rappresentanza da parte del sindaco, mi pare indice di una attesa di impegno. Io credo che si debba potenziare quello che c’è al Vieusseux e fatto conoscere anche ai più giovani. Il Vieusseux rappresenta, soprattutto nella sua parte archivistica, un mondo che non c’è più: quindi mettere anche i giovani scrittori a contatto con questa realtà, secondo me, potrebbe sortire degli effetti positivi. Dovremmo far avvertire il rilievo anche della struttura fisica di questa istituzione alle nuove generazioni e questo mi sembrerebbe già una gran cosa. Ad esempio, mia figlia non sa cosa è e come è fatto un manoscritto, ma far capire alla sua generazione che attraverso le varianti, le chiose si può anche rileggere uno scrittore, capire

La nuova Alba del Vieusseux quale sia stato lo switch che in quel momento lo ha spinto verso una direzione piuttosto che un’altra, è importante. Sono cose che oggi si perdono perché si scrive tutto con il computer. Vorrei fare una indagine tra i poeti per capire quale sia il loro procedimento di scrittura oggi rispetto al passato, capire cosa ci sia in mezzo e cosa rimane fra la prima stesura e la pubblicazione di un’opera. L’utilizzo del computer, magari, induce ad un maggiore ordine anche dal punto di vista dell’architettura del verso fin dall’inizio; almeno per me è così. Rimanendo su questo tema uno degli aspetti importanti degli archivi e della ricostruzione della storia della letteratura e della cultura, è quello della corrispondenza. Che, naturalmente, con il computer e internet si perde. Al Vieusseux invece questo patrimonio è immenso. Quanto ancora c’è da studiare di esso al Vieusseux? E quale sarà la politica di acquisizione di fondi? Posso dire che è già stata definita l’acquisizione di tutte le carte e della biblioteca di Arbasino e stiamo predisponendo lo spazio.

Al Vieusseux vi è ancora un oceano di carte da studiare. L’altro giorno guardavo le carte di Margherita Guidacci, ad esempio. Se penso al libro pubblicato sul carteggio Caproni-Betocchi, che secondo me è uno dei libri più belli pubblicati negli ultimi anni, possiamo renderci conto della grandiosità di questo patrimonio archivistico. Quali sono le tue idee sulle nuove attività? Vorrei invitare una serie di scrittori toscani, a partire da Sandro Veronesi, a fare delle lezioni agli studenti, dopo aver visto l’archivio, aver scelto un autore e attraverso una cosa trovata sugli appunti o sul manoscritto, rileggere quell’autore. Non per fare degli eventi esterni (che pure vanno fatti), ma per valorizzare il patrimonio. Io sono una teorica della “cover”: se dei giovani studenti reinterpretano degli autori del passato, dopo che sono state tramandate loro delle informazioni e degli strumenti anche da parte di intellettuali e scrittori che hanno un appeal per loro, si fa un’operazione culturale importante e quegli autori non muoiono. Gli

scrittori, ben più dei professori universitari, possono trasmettere ai giovani il fuoco della passione per la letteratura. E soprattutto gli scrittori toscani; infatti inizialmente volevo chiamare questa iniziativa “Maledetti toscani”. Al Vieusseux abbiamo le carte di scrittori importantissimi e allora perché non provare questo esperimento. Intanto per vedere chi di loro scrittori contemporanei sceglie fra gli autori negli archivi del Vieusseux; e poi vediamo cosa viene fuori da questo dialogo fra generazioni. Si potrebbero capire molte cose insieme: chi era quello scrittore, cosa è un manoscritto, quale è il procedimento della scrittura e anche lo scrittore contemporaneo. È un modo anche per fare una sorta di censimento di disponibilità degli scrittori toscani, che ormai sono molti: Fabio Genovesi, Giampaolo Simi, Francesco Recami, Marco Vichi, ecc. Una delle tue prime iniziative è stata “Lo Strega che vorrei”, che ci può portare a discutere della funzione dei premi letterari oggi. È difficile per i premi, soprattutto quelli più importanti,


Da non saltare

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essere veramente liberi. In questo Stefano Petrocchi è stato bravissimo perché ha immesso in un premio in cui la giuria era arrivata a non vedere neppure i libri, ma votava solo ed esclusivamente in base all’editore che li chiamava per primo (io ne sono testimone diretta), una nuova energia e nuove regole. Si tratta di persone, scrittori e critici, che io stimo moltissimo, ma quando entrano dentro il meccanismo dello “Strega” diventano altre persone. Il lettore comune non se lo immagina: crede davvero che quello che vince sia il miglior libro. E vincere lo “Strega” incide moltissimo sulla vendita di un libro, a prescindere dal suo valore letterario. L’iniziativa #LoStregachevorrei mi è venuta in mente quando mi occupavo del bellissimo libro di Luca Doninelli, “Le cose semplici”: le prime recensioni che uscirono lo indicavano come il libro che avrebbe dovuto vincere lo Strega. Questo voleva dire che era un libro di vera letteratura. Un libro che racconta una storia bellissima, però stratificata, di un autore che si pone tante domande a livello politico, sociale, sentimentale, psicologico, neuro-psichiatrico. Ma non sappiamo se Rizzoli deciderà di portarlo allo Strega. Allora mi è venuta in mente l’idea dell’iniziativa, che non è una critica al premio Strega (che sta cercando faticosamente di trovare una sua strada per essere più autentico, immettendo giovani, studenti, gruppi di lettura incontrollabili), bensì verso le case editrici. Un altro bellissimo libro come quello di Franco Cordelli, “Una sostanza sottile”, ad esempio, non è detto che Einaudi lo porti al premio. Poi, adesso, con la concentrazione editoriale sarà ancora più difficile capire le scelte del colosso editoriale Mondadori-Rizzoli-Einaudi: porteranno tre autori? E chi sosterranno? Fino all’anno scorso la situazione era pazzesca anche al premio Campiello. Ora sono entrate nuove persone (come Zecchi, Vecchioni), ma fino all’anno scorso vi era una giuria composta da professori universitari, molto competenti e molto compatta, e le scelte dei libri erano abbastanza ben orientati.

Intervista a Alba Donati nuovo presidente del Gabinetto Poi, però, la giuria dei lettori, portavano a scelte più facili, commerciali. Si devono trovare soluzioni più equilibrate. Ma a me interessava capire cosa dei lettori, veramente lettori comuni ma qualificati, avrebbero scelto. Altre iniziative? Ci sono alcuni temi che vorrei affrontare, da proporre alla città, a partire da alcune parole che mi sembrano decisive per la vita di oggi: Islam, pianeta, Francesco, Englaro, donna e violenza. Sulla scia dell’iniziativa che organizzò Enzo Siciliano sulla parola Italia, a cui avevo collaborato, e poi sulla parola Democrazia che fecero Gozzini e Cheli. Ho sempre pensato che questa idea delle parole andasse ripresa, soprattutto in questo

momento: penso, ad esempio, a quanto emblematica sia la parola famiglia. Questo è un progetto a cui tengo molto e nel quale voglio coinvolgere grandi nomi, italiani e internazionali. Ho citato Enzo Siciliano: lui ha avuto un trattamento terribile in questa città da parte di alcuni come “il Giornale”, ma ha fatto in verità delle cose importantissime al Vieusseux. È stato l’ultimo momento in cui il Gabinetto ha avuto una risonanza nazionale di rilevo. Oltre ad essere una bellissima persona. Dunque, un impegno di rinnovamento ma anche di consolidamento del Vieusseux? Avverto intorno un’attenzione rinnovata al Vieusseux: ho fatto incontri con Fondazioni bancarie e ho visto un grande entusiasmo,

perché viene sentito come un grande patrimonio della città. Quale ruolo immagini per il Vieusseux nel panorama delle istituzioni culturali fiorentine? C’è una possibilità di coordinamento, di lavoro insieme con istituzioni come l’archivio P.Conti, la Fondazione Michelucci, il museo M.Marini, la fondazione Tempo Reale, ecc., che hanno in comune il fatto di detenere pezzi importanti della storia del Novecento a Firenze? E il Vieusseux ha il pregio unico di essere una istituzione multidisciplinare: letteratura, scienza, musica, arti visive, ecc. Sì, questo era anche nelle intenzioni di Enzo Siciliano che, attorno alla parola Italia, aveva chiamato scienziati, linguisti, scrittori, politici, giuristi. Credo che dobbiamo riprendere questa ispirazione. Dovrebbe rinascere un Betocchi: lui aveva questa dimensione politematica della cultura (Vallecchi, “il Frontespizio”, la RAI a Roma, ecc.). Un vortice di attività, di passione e di generosità per cui riusciva a coinvolgere persone, soggetti. Ci vuole continuità e dedizione e non può essere la politica di oggi a farlo, che insegue troppo l’immediatezza, l’evento.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

La buca del buffet

Certo che la Toscana fa proprio buca! Non solo nel senso figurato che si usa da queste parti, cioè di luogo dove vanno a finire tutte le cose e persone, diciamo usando un eufemismo, strane. No, proprio perché “La buca” (il ristorante) è diventato il birillo rosso al centro del biliardo posto al centro del mondo, dove si è conclusa con una gran mangiata la gloriosa giornata fiorentina del nuovo ambasciatore della toscanità nel mondo, al secolo Carlo Conti. Eccolo, infatti, qui ritratto sul settimanale “Chi”che abbiamo trovato durante la nostra settimanale seduta dal parrucchiere – con il Gran Cerimoniere di Palazzo Panciatichi (in procinto di essere ribattezzato Palazzo del Pegaso) Eugenio Giani che, in una pregevole iniziativa, lo aveva appena nominato ambasciatore della toscanità. Come è noto l’essere nato toscano è una qualità che si acquisisce con un lavoro duro e per la quale occorre un talento non comune e per questo, nel giorno del suo genetliaco (13 marzo), il Presidente del Consiglio Regionale Eugenio Giani ha ritenuto indispensabile insignire Conti della più importante onoreficienza disponibile, appunto ambasciatore di toscanità. È stata istituita una commissione di studiosi di livello internazionale presso l’Accademia della Crusca che, appena avrà finito di studiare la genesi di “petaloso”, risolverà l’enigma del significato di “toscanità” Ma, intanto, quella del 13 marzo è stata una radiosa giornata per la Toscanina gianesca, con un profluvio di pergamene, fasce regionali, gonfaloni, pasticcini e buffet. E, infine, il coronamento con quello che Eugenione nostro non ha potuto fare a meno di definire un “bellissimo articolo” (da far impallidire Indro Montanelli e far venire

un travaso di bile a Eugenio Scalfari) su “Chi”. Prontamente rilanciato sul suo profilo Facebook – vera arma di distruzione di massa – con un post nel quale Giani conferma che #Carlo è il migliore ambasciatore di toscanità della tv italiana. E via verso nuove avventure toscane!

Lo Zio di Trotzky

La voglia

Venghino signori, venghino a magnificare le sorti del governo. Offriamo un posto di grande responsabilità per raccontare il progredire della rivoluzione rottamata, a colpi di #èlavoltabuona e di fatti, non pugnette. Una grande occasione di lavorare a fianco di un uomo d’onore e acuta brillantezza come Angelino Alfano,

Bobo

Le avventure di Nardellik La riunione della giunta comunale era arrivata ad un punto morto nella città di Sottofaesulum.. Dopo alcune ore di discussione non si era giunti ad una soluzione. La questione era il Tordo Lardellato. Con la nuova normativa, voluta dal Servitor Cortese, varata da pochi mesi per vietare la vendita di cibi non toscani nel centro della città, non si riusciva a decidere se questo piatto era o no ammissibile. Ora non c’era dubbio che il lardo era toscano. C’era quello di Colonnata sulle Apuane che era noto in tutto il mondo. Il problema era il tordo. Prima di tutto di tordi ce ne sono almeno due: il tordo sassello e il tordo bottaccio. E ci sono anche alcuni pesci che hanno questo nome. Ma limitandosi agli uccelli il problema era: è un prodotto toscano? Perchè il tordo è un migratore (un migrante si direbbe oggi) e d’estate vive nel nord Europa e nell’inverno viene a vivere nel sud Europa, ed in particolare nel nostro centro sud. L’assessore allo Sviluppo Economico, che veniva dal contado, sosteneva che in effetti si poteva ammettere poichè vivendo almeno sei mesi nel centro sud (di cui fa parte anche la Toscana) il tordo si poteva considerare anche toscano. Ma l’assessore alla demografia e statistica replicava che questo non era un metodo scientifico e che invece non poteva essere ammesso perchè non si era sicuri della sua toscanità. Ci voleva Nardellik. E Nardellik trovò la soluzione. “Ma il tordo lardellato è buonissimo. E se è buonissimo non può che essere toscano.” Nardellik sapeva di “bluffare” ma il tordo lardellato era la sua passione, e una piccola bugia valeva la pena. Il Servitor Cortese fu finalmente contento. La sua invenzione normativa era salva. Ma all’orizzonte si profilava un’altra grana. Il piatto successivo da esaminare erano le pappardelle sul cinghiale. I cinghiali erano toscani? O ormai erano tutti imparentati con i cinghiali della Slavonia. Come sempre i maggiori pericoli venivano da est e dalle migrazioni. Anche di animali. riportandone le sue parole alla massa informe, educandone i gesti e i pensieri. Tutto a gratis, niente soldi per fare il giornalista (professionista) al Ministero dell’Interno, ma una grande opportunità di visibilità e gloria futura. “Nessuno costringe nessuno - commenta Alfano -. Vediamo se qualcuno vuol dare una mano d’aiuto in questo modo, viceversa prenderemo atto che nessuno ha voglia”. E come non avere voglia...

I Cugini Engels

Rocco Nardella Inizia la fiera sex a Firenze con un problema non da poco. La superstar dell’hard, Rocco Siffredi, minaccia di dare forfait (non nel senso malizioso che pensate voi). L’assenza di Rocco potrebbe essere la rovina per gli organizzatori e un problema anche per la città che lo ospita, per uscire dall’immagine da cartolina che sempre contraddistingue Firenze. Ecco che corre in soccorso degli organizzatori il primo cittadino Nardella, anche lui alla ricerca di un’immagine diversa da quella del vice-renzi a vita; e anche da quella del musicista col violino suonato praticamente in ogni occasione che comincia a diventare una novella in città. Occorre quindi dare un po’ di pepe alla città e al suo sindaco ed ecco che Dario si palesa nello studio di un fotografo in posa ammiccante, pronto a stupire le fiorentine non solo con l’archetto.


19 MARZO 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

G

audenzio Marconi (18411885) è un fotografo di nazionalità svizzera, ma di genitori italiani, che a vent’anni si trasferisce a Parigi, dove apre nel 1862 uno studio in Rue de Buci, a pochi metri dal Boulevard Saint Germain, specializzandosi nella fotografia di nudo “artistico”, tanto femminile che maschile. All’epoca sono già molti gli artisti, pittori e scultori, che da anni si avvalgono dell’opera dei fotografi per realizzare i loro “studi” e per preparare le loro “composizioni”, senza doversi sobbarcare l’onere per il noleggio di modelli e modelle in carne ed ossa. È noto il ricorso alle immagini fotografiche da parte di Ingres, Corot, Courbet e molti altri, così come è noto il sodalizio nato negli anni Cinquanta fra Delacroix ed il fotografo Eugène Durieu (1800-1874), che su incarico ed indicazione del pittore realizza tutta una serie di fotografie di nudo. Un altro prolifico produttore di fotografie di nudo, utilizzate in maniera più o meno diretta dai pittori dell’epoca, è Auguste Belloc (1800-1867), le cui immagini oscillano fra lo studio “anatomico” e la raffigurazione più sfacciatamente “erotica”, ed è proprio nello studio di Belloc che Marconi si trasferisce nel 1868, raccogliendo in un certo senso anche la sua eredità “spirituale” e diventando fornitore di molti artisti dell’epoca, fra cui il suo coetaneo Auguste Rodin, fregiandosi inoltre del titolo di “Photographe officiel de l’Ecole des Beaux-Arts”. Nuovi trasferimenti lo vedono nei primi anni Settanta negli studi di Boulevard Saint-Michel e di Rue des Beaux-Arts. Dopo il 1872 e con la repressione messa in atto in seguito alla caduta della Comune di Parigi, Marconi lascia la capitale francese per rifugiarsi nel vicino Belgio, dove apre a Bruxelles nel 1874 una attività di “artiste peintre” con il nome Gaudenz, e dove continua a realizzare le sue foto “artistiche”. All’epoca la fotografia del corpo nudo non viene accettata in quanto tale, e Marconi per praticare la sua arte deve scendere a dei compromessi. Dopo avere frequentato pittori e scultori, abituati a trovare pretesti culturali di ogni natura per poter ritrarre le figure nude, dalla rivisitazione dei classici, di episodi letterari, mito-

Il genio di Marconi logici o biblici, e dopo avere realizzato per anni i suoi studi di nudo su cui altri “artisti” intervengono “mascherando” i corpi di modelli e modelle da fauni o ninfe, dee o semidei, odalische o schiavi, sembra liberarsi dal rapporto con i pittori. Adesso è lui stesso che proporre gli stessi personaggi nelle sue nuove fotografie, diventate non più “ancelle” ma “arte” autonoma. Le sue modelle vengono così accessoriate con oggetti e fondali di varia natura, interpretando di volta in volta angeli o demoni, figure allegoriche o mitologiche, streghe o guerriere, diventando protagoniste di vicende epiche o fantastiche. Esse vengono accostate a temi letterari, pittorici o musicali, impugnano spade e lance, violini o trombe, si circondano di putti alati o cherubini, si drappeggiano con veli o frasche, abitano nicchie o scogliere, mimano scene di lotta o passi di danza, sempre per creare un poco credibile alibi a quella che è la principale ragion d’essere delle immagini, l’erotismo. Una forma di erotismo che la “mise en scène” non riesce affatto a mascherare, ma che anzi viene sottolineata da tutta quella simbologia che nella cultura di massa dell’epoca serve da contorno, da stimolo, da completamento dell’avventura erotica. Marconi in questo gioco di adulazione del “voyeur” si dimostra un maestro, evita la volgarità sfacciata e solletica la fantasia, con visioni a suo modo raffinate, perfettamente adatte al gusto della sua clientela, costituita, si immagina, di grassi borghesi arricchiti, con più denaro ed appetiti che cultura.


19 MARZO 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

L

a nascita della filosofia fluxus ha materializzato l’esistenza di possibilità che vanno oltre l’immaginario e i comuni limiti della tecnica umana. Le opere di Yoko Ono indagano le derive e i processi surreali, che in modo totalmente casuale governano il quotidiano, esplorando le strette relazioni che arte e vita intersecano in una rete omogenea e complessa di energie. La voce, il corpo e il gesto divengono luoghi di conoscenza, territori ibridi su cui elaborare performance, video e sculture; la vita biologica si carica di assurdo, e l’opera d’arte scaturisce da una piena consapevolezza del mondo attraverso l’ironia sottile del gioco. Banalità, stranezza e mistero concretizzano forme apparenti, intermediali e dal grande impatto visivo, senza le quali l’osservatore è impossibilitato a entrare nel fantastico e mai ovvio mondo dell’artista. Yoko Ono sa come imprimere a ogni suo gesto un pathos teatrale destabilizzante, eccentrico e, al tempo stesso, surreale. Vi è nella pratica artistica di Yoko Ono la capacità di creare una poesia istintiva, vibrante e carica di tutto lo slittamento semantico del postmoderno. Una storia artistica e interartistica ricca di sperimentazioni: raffinatezza e complessità caratterizzano il suo mondo concettuale visionario e interdisciplinare. Tutto il lavoro di Yoko Ono è interattivo e costringe il fruitore a prendere coscienza dell’essenza di quella semplicità che il presente rende invisibile e celato da incomprensibili meccanismi. Ciò che sta alla base del Sistema viene decostruito, minimizzato e messo in contrasto con l’innocenza del quotidiano e la realtà delle cose del mondo. All’osservatore è chiesto di dimenticare il precostituito e ridare vita ai sensi, percependo da angolazioni intellettuali diverse ciò che di più innocente e puro è rimasto nel mondo: la vita stessa unita all’atto creativo.

Imagine Yoko Ono Quando riflette il sole esprimi un desiderio, 1973 / 1990 Specchio e legno cm 124x121,5 A destra Bag Piece (whit Y.O. in the bag, and Anthony Cox (Ono’s Husband) in the chair Behind. Knokke, 1968) Foto by Maarten Brinkgreve, 1968 Fotografia in b/n cm 26x16

Tutte le immagini Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

Senza titolo (performance di J.J. Lebel, Knokke, 1968), 1967, Fotografia in b/n cm 20,5x25,5


19 MARZO 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

tari isolani come Jacques Thiers e Jacques Fusina. Quest’ultimo è l’autore di “Lamentu di Nicoli”, che Diana ripropone in una bella versione. La canzone è dedicata a Jean Nicoli, che si oppose strenuamente all’occupazione italiana della Corsica (194243). Con questo brano tratto dal repertorio di Jacky Micaelli, voce storica della canzone corsa, Diana Saliceti rivendica la propria continuità con la tradizione isolana. Al tempo stesso, però, vuole continuarla e rinnovarla: la

maggior parte dei brani sono stati scritti da lei. Il gruppo che accompagna la protagonista è composto da Stéphane Albertini (chitarra acustica e mandolino), Miché Dominici (batteria), Arnaud Méthivier (fisarmonica), Martial Paoli (piano), Nicolas Torracinta (chitarre acustiche ed elettriche) e Jean-Marie Gianelli (basso). Con questo lavoro raffinato e spontaneo Diana Saliceti si appropria di una sapienza musicale antica e la proietta nel ventunesimo secolo. Ma la giovane cantautrice è importante anche per un altro motivo. In Corsica, come in tutta l’area mediterranea, il maschilismo ha radici antiche e profonde. Non fa eccezione la musica, dove il predominio maschile è un dato evidente. Negli ultimi tempi, però, la situazione sta cambiando. Lo dimostra il plotoncino delle nuove voci femminili isolane, che oltre a Diana Saliceti comprende artiste come Marianne Alzi, Letizia Giuntini e Carlotta Rini. Fate caso ai cognomi: questi corsi sono più toscani di noi...

ottobre. Padre Ignazio era riuscito a calcolare con assoluta precisione lo scostamento del vecchio calendario utilizzando i due marchingegni che potete vedere sulla facciata di Santa Maria Novella: l’armilla equinoziale sulla sinistra e il quadrante astronomico sulla destra; grazie ai due strumenti, nel 1574, verificò come l’equinozio di primavera, anziché il 21 marzo, cadesse l’11, quando l’armilla proiettava un’ombra rettangolare sulla facciata. Danti realizzò anche due fori

“gnomonici” sulla facciata della chiesa. Ora la gnomonica, per quel che ho letto, è una scienza di grande interesse ma non sono assolutamente in grado di svelarvene i segreti. Fatto sta che la luce del sole, attraversando i due fori, individua equinozi e solstizi con un’ellisse di luce sul pavimento della chiesa. Si è a lungo discusso se Danti avesse progettato uno dei fori per illuminare la formella dell’Annunciazione proprio il 25 di marzo, ma l’affascinante fenomeno si verifica a febbraio e a ottobre. Secondo alcuni Danti non riuscì a completare il lavoro, costretto a lasciare Firenze in fretta e furia, si disse per aver molestato alcune dame di corte ma più probabilmente perché antipatico a Francesco I, successore di Cosimo: se fosse rimasto qua, oggi anziché il calendario gregoriano avremmo quello mediceo.

I

l sorriso di Diana Saliceti è un inno alla vita. Animata da una passione sincera per la musica, questa giovane cantautrice corsa ha pubblicato da poco il suo primo CD, Forse (Association Cirnu, 2015), interamente cantato nella lingua autoctona. Comunque non è un’esordiente, dato che aveva già collaborato con gruppi isolani come Santavuglia, l’Altagna e Dopu Cena. Nata ad Aiaccio nel 1989, Diana sviluppa fin da piccola un forte attaccamento alla cultura isolana. Non potrebbe essere altrimenti: abita in paese di montagna che porta il suo nome (Saliceto, in corso U Salgetu). Non solo, ma fra i suoi ascendenti celebri c’è nientemeno che Pasquale Paoli, u babbu di a patria, che guidò la breve indipendenza dell’isola (1755-1768). Per inciso, a Firenze abbiamo un viale che porta il suo nome, mentre la basilica ospita una lapide sepolcrale dedicata a Paoli che Antonio Maraini realizzò nel 1935. Ma torniamo a Diana. La giovane apprende l’arte del canto polifo-

Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di

A Ignazio Danti (sacerdote e scienziato perugino del ‘500 che visse a lungo a Firenze alla corte di Cosimo I) è dedicata una strada secondaria che non rende giustizia all’uomo che, bene o male, è il responsabile dei nostri giorni: fu infatti uno dei più autorevoli membri della commissione per la riforma del calendario voluta da papa Gregorio XIII e fu grazie alle sue osservazioni che fu possibile correggere il fatale errore del calendario giuliano. La riforma del calendario voluta da Giulio Cesare era stata studiata dall’astronomo alessandrino Sosigene e fissava la durata dell’anno “civile” in 365 giorni e 6 ore, con l’introduzione ogni 4 anni di un giorno “bis-sextum” dopo il 23 febbraio. Considerato che l’anno “solare” (due passaggi consecutivi del sole dall’equinozio di primavera) ha una durata di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi, lo scarto sembrava irrilevante ma col passare dei secoli, si accu-

Femmina isolana nico da Natale Luciani (19492003), figura centrale del mondo musicale e politico locale, fondatore del gruppo Canta u popolu corsu. In Forse questa appartenenza culturale viene dichiarata fin dall’inizio con “U mo paese”. “Tarranu” è il nome di un minuscolo paese di montagna che ormai conta solo qualche abitante. “Forse” è un brano intenso dove Diana è accompagnata soltanto dal piano. I testi di molte canzoni corse sono state scritte da docenti universi-

Via Ignazio Danti

L’uomo che rubò due domeniche mularono una diecina di giorni di differenza. Con la riforma gregoriana, che prevedeva che gli anni secolari fossero bisestili solo se divisibili per 400 (lo è stato il 2000, non lo sarà il 2100), la durata dell’anno civile diventava di 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi: lo scarto, sia pur minimo, che ancora rimane con l’anno solare sarà corretto togliendo un giorno nel 5215. Ben più radicale l’intervento del 1582, quando fu necessario recuperare i famosi dieci giorni: chi andò a letto il 4 ottobre si fece una bella dormita svegliandosi il 15; per evitare ulteriori complicazioni, siccome il 4 era un giovedì, il 15 fu un venerdì, con buona pace di chi aveva programmato gite fuori porta per i fine settimana del 6 e 13


19 MARZO 2016 pag. 8 di

Fiorella Ilario

I

n una pagina del Dio delle piccole cose - il bel romanzo d’esordio (correva l’anno 1997) di Arundaty Roy - è tracciata una breve descrizione di cosa, nell’estremo sud dell’India alla fine degli anni sessanta, cambiò per sempre le giornate di Baby Kochamma, una delle figure femminili del libro più ostinatamente tradizionaliste. “Baby Kochamma passava i pomeriggi in giardino in sari e stivaloni di gomma. Come un domatore di leoni domava tortuosi rampicanti e ammansiva cactus irsuti. Teneva a freno bonsai e coccolava rare orchidee. Ingaggiò una battaglia contro il clima. Cercò di far crescere le stelle alpine e lo psidio giapponese. E ora, dopo aver resistito a più di mezzo secolo di cure incessanti e meticolose, il giardino ornamentale era stato abbandonato. Lasciato a se stesso si era inselvatichito, come un circo i cui animali avessero dimenticato i loro giochi di abilità. L’erbaccia soffocò le piante più esotiche. Solo i rampicanti continuarono a crescere, come le unghie di un cadavere. La ragione di tale improvviso e sbrigativo abbandono era un nuovo amore. Baby Kochamma aveva fatto installare un’antenna parabolica sul tetto e adesso presiedeva il Mondo dal soggiorno di casa grazie alla tivù via satellite. Non fu una cosa graduale. Accadde tutto in una notte. Bionde, sesso, musica, guerre, carestie, calcio, colpi di stato - arrivarono tutti con lo stesso treno. Disfecero tutti insieme le valigie e scesero nello stesso albergo. E ad Ayemenem, dove un tempo il rumore più forte era quello musicale della tromba della corriera adesso si potevano fare arrivare guerre, carestie, pittoreschi massacri e Bill Clinton, con la stessa facilità con cui si chiamano i domestici. Così tutto quel suo giardino ornamentale avvizzì e morì mentre Baby Kochamma seguiva il campionato Nba di basket o guardava Beautiful e Santa Barbara…” Svariati anni prima di questa e a latitudini assai diverse, molti altri narratori hanno descritto analoghe infatuazioni “televisive” e le susseguenti irrimediabili perdite. Appare qui superfluo citare le precoci vertiginose analisi di Pier Paolo Pasolini, dalle cui recenti celebrazioni per i quaranta anni dalla scomparsa è straripato un fiume di ripubblicazioni e rilet-

La corsa del tempo

ture in tutte le salse, anche le più indigeribili. Dunque per indagare sulle conseguenze delle paraboliche sui tetti delle case e quelle dell’uso e l’abuso dei nuovi media, basterà limitarsi ad osservare la realtà globale. Nel giro di pochi decenni e come mai prima, in tutta la storia dell’umanità, l’individuo contemporaneo, come un gatto scaraventato in una centrifuga, ha dovuto tenere il passo con una forsennata accelerazione tecnologica, strutturale, ambientale e naturalmente culturale. Con l’avvento di internet e la diffusione dei media digitali, si è passati da un Umanesimo delle diversità, che orientava progresso e tutela dei diritti fondamentali e delle dignità individuali e universali, a una condizione di perenne incauta insondabile fuga in avanti. Con quale ricaduta sulla comune evoluzione esistenziale e morale? Gli oggettivi vantaggi di un avanzamento informatico e tecnologico così rapido, sono accompagnati dalla affannosa esigenza di costante aggiornamento, siglando così un patto indissolubile con i consumatori planetari, ma anche smarrendo il senso ed il valore stesso del mutamento di velocità. E soprattutto marcando una incolmabile distanza tra i cittadini del primo mondo e le popolazioni dei paesi più svantaggiati. Nella sempre più eclatante e lancinante inadeguatezza a coinvolgerle, a tutelarle, ad accoglierle. “i pittoreschi massacri” contemporanei, la miseria, le disuguaglianze, le guerre, gli immani flussi migratori pongono domande che allo stato attuale non trovano

risposte adeguate né politicamente, né culturalmente. Oltrepassano la linea d’ombra oltre la quale la latenza dell’inumanità, silenziosamente scardina le peculiarità e il primato di una umanità ideale e paradigmatica. E producono concretamente una deformazione della percezione di cosa sia o non sia umano. La consuetudine della visione della sofferenza alla asettica distanza che il mezzo tecnologico oggi consente e l’attitudine a ricevere quasi in tempo reale la smisurata quantità di informazioni quotidiane spesso drammatiche e allarmanti, hanno evidentemente richiesto un “adattamento” in termini di coinvolgimento emotivo. Ciascuno per poter stare al passo sta abbandonando lungo il cammino qualcosa di sé. Il problema è capire cosa e quanto consapevolmente. Ma allora come finirà? “Come un circo i cui animali avessero dimenticato i loro giochi di abilità”? Come su uno scivolo, una spinta appena più forte alle spalle, d’improvviso la discesa senza che nessuno se ne accorga? Senza rumore senza dolore dall’umano al disumano fino a un nebuloso e grottesco post umano? Sarà questo il perimetro entro il quale ciascuno di noi si muoverà, come nel labirinto degli specchi di un lunapark? E in effetti la desolazione, persino l’orrore che l’atrofia dei nostri sensi ipertrofici ci fa tollerare e dimenticare, non ci metterà proprio davanti ad uno specchio in cui forse diventeremo irriconoscibili a noi stessi? Il filosofo tedesco Theodor Adorno paragonò le schegge dello specchio infranto della filosofia, ai

frammenti di Minima Moralia, il libro di aforismi che scrisse in esilio, durante la seconda guerra mondiale e la follia nazista, con l’anelito che anche le sue “Meditazioni sulla vita offesa,” riuscissero a rivelare seppure in visioni frantumate, gli indizi della discesa dell’umanità verso l’inumanità. Dimostrava come anche i più trascurabili mutamenti del comportamento quotidiano fossero in relazione con gli eventi più catastrofici del ventesimo secolo. Da allora ai cambiamenti più lievi se ne sono aggiunti di epocali. Con quali esiti su quei meccanismi di causa effetto? Quanto ancora la nostra resistenza “umana” potrà difendere se stessa da questa assuefazione, in primis “visiva” e dunque involontariamente psicologica, che diventa sempre più mostruosamente invasiva e contaminante? Che produce quando non indifferenza, un rigurgito oscuro, minaccioso, senza più grado o nazionalità, spaventosamente simile in troppi, alimentato dalla inconsapevolezza, dall’inerzia, dalla paura che lui stesso alimenta? Domenica scorsa è apparsa in rete e sui quotidiani nazionali la foto di un bambino appena nato. Lo era nel senso letterale di appena partorito. Un piccolo frutto dolente, vischioso e violaceo, inerme. Appena generato. Appena dato alla luce in un campo di accoglienza di quattordicimila rifugiati, al confine tra Grecia e Macedonia. Un accampamento senza nulla. Nel senso di privo di tutto. Un ammasso di esseri umani e stracci, nel fango. Il bambino era nudo, nelle mani di qualcuno che lo sollevava per lavare


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via i residui organici della espulsione dal ventre materno, versandogli addosso dell’ acqua da una comune bottiglia di plastica. All’aperto, al freddo, nel fango. Senza un riparo, una mangiatoia, un tetto. La madre non era nella foto. Lo scatto corredava, tra gli altri, un articolo compassionevole e aulico, francamente evitabile. Ma in realtà era forse il contrario. Era lo scritto che ridondantemente chiosava, risultando persino imbarazzante, la potenza devastante dell’immagine. Come la morte, la vita appena generata in una condizione di così totale e irrimediabile disumanità, risultava oscena. Perché rispecchiava la oscenità di una società che permetteva che accadesse. Come la morte e più della morte - perché la vita riguarda, senza scappatoie, i vivi. Ci hanno insegnato che “la poesia ci salverà dal disumano”. Dunque per una immagine insopportabile, per chiunque e più ancora per chiunque sia stata madre, l’estremo ricorso non può essere che alla parola poetica. I versi che seguono sono della gigantesca poetessa russa Anna Achmatova madre di un unico figlio deportato durante le purghe staliniste e moglie di un uomo fucilato durante la rivoluzione bolscevica. La donna che ha consegnato alla storia poesie che ancora oggi incarnano la più alta, pura, ostinata e disperata umanità, seppure nella esperienza del dolore.

Abbandonarono ai nemici da straziare.

e in un arido ghigno trema lo spavento.

La rozza loro lusinga non intendo, Non darò loro i miei canti.

E non per me sola prego, ma per quanti erano là con me

Però l’esule mi fa una pena eterna, Come un malato, come un detenuto.

nel freddo crudele, nell’afa di luglio, sotto la rossa, accecata muraglia. (da La corsa del tempo)

XI.

Segnali di fumo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E i decenni trascorrono: torture Deportazioni. uccisioni - cantare Nel presente terrore più non posso . (da Poema senza eroe) In che cosa questo secolo è peggiore? Forse perché nell’ebrietà di tristezza e d’angosce Ha toccato la piaga più nera Senza poterla sanare? In occidente il sole terrestre risplende ancora, E i tetti delle città ai suoi raggi sfavillano. Mentre qui, bianco, segna già le case di croci, E chiama i corvi e questi accorrono. (1919, da Piantaggine) Con coloro io non sto che la terra

È buia la tua strada, pellegrino, Sa di fiele il pane altrui. Ma qui, dove s’addensa il fumo dell’incendio, Struggendo i resti della giovinezza, Neanche un solo colpo Abbiamo da noi respinto E sappiamo che nel giudizio finale Ogni ora sarà giustificata … Ma nessuno al mondo ha meno lacrime, Nessuno è più altero e semplice di noi. (1922, da “Anno Domini”)22. I. Ho appreso come si infossano i volti, come dalle palpebre si affaccia la paura, come traccia il dolore sulle gote rigide, cuneiformi pagine, come d’un tratto, da cinerei o neri, i riccioli diventano d’argento, su labbra docili appassisce il sorriso di

Remo Fattorini

Furbetti e violenti. Aggressioni ed episodi di violenza sempre più frequenti su bus e treni. A farne le spese sono soprattutto loro: gli autisti e i controllori. Motivo, i controlli contro l’evasione. A cui si aggiunge, in particolari casi, l’esasperazione per l’inefficienza dei servizi. Due vicende molto diverse ma che, stando alle cronache, sembrano essersi intensificate. Da noi Trenitalia ha potenziato l’attività di contrasto all’evasione: su 25 mila controlli il 10% dei passeggeri è risultata senza biglietto. La maggiore evasione (13%) è stata riscontrata sulla Pisa-Firenze. A seguire la Viareggio-Lucca-Firenze e la Empoli-Siena. I più virtuosi sono

Dedicate al figlio I. A me, privata dell’acqua e del fuoco, separata dall’unico figlio... come sotto il baldacchino di un trono, sto sull’infame palco della disgrazia... II. E discusse il furioso ribelle Fino alle piane dello Eniséj... Un nomade, uno chouan, un cospiratore è per voi, per me è l’unico figlio. III. Settemilatrechilometri... non puoi sentire la madre chiamare, nel fischio tremendo del freddo polare, nella stretta delle intemperie, inselvatichisci, inferocisci: tu, adorato, tu, ultimo e primo, tu, nostro. Indifferente la primavera vaga sulla mia tomba leningradese ..

In luogo di prefazione

risultati i passeggeri sulla Arezzo-Firenze e sulla Faentina. Consistente l’evasione anche sui bus, con una media nazionale del 20%. Si distingue la tramvia di Firenze: nel 2015 solo un modesto 2,8% di “furbi”. Il fenomeno è arrivato fino a Roma ed è all’attenzione del governo, tanto che la ministra Madia, all’interno del decreto legge sui servizi di trasporto pubblico, ha introdotto un capitolo sulla lotta all’evasione. Si prevede un inasprimento delle misure di contrasto con multe più salate, fino a 200 euro per i furbetti che viaggiano senza biglietto; prevede l’attivazione della video sorveglianza per l’identificazione dei trasgressori violenti; conferisce più poteri ai controllori con l’attribuzione della funzione di pubblico ufficiale; prevede il rimborso del biglietto a partire dai 30 minuti di ritardo. Misure efficaci contro l’evasione? Secondo il Codancos, no. Per loro

Negli anni terribili della ežovščina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado . Una volta qualcuno mi «riconobbe». Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che sicuramente non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): - Ma questo lei può descriverlo? - E io dissi: - Posso. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto . (Leningrado, 1 aprile 1957) La crocefissione Non piangere per Me, Madre, vedendomi nella tomba. I. Salutò l’ora suprema un coro d’angeli, e i cieli si dissolsero nel fuoco. Disse al padre: “perché Mi hai abbandonato...?” E alla Madre: “Oh, non piangere per Me...” 2. Si straziava e singhiozzava la Maddalena, il discepolo amato era impietrito, ma là, dove muta stava la Madre, nessuno osò neppure guardare . la prima cosa da fare è migliorare il servizio troppo spesso inefficiente, anziché inasprire le multe agli utenti. Una reazione che non condivido. È vero che spesso l’offerta dei servizi è scadente, ma da qui a giustificare l’evasione ce ne corre. No. Il biglietto si paga, tutti. Come tutti mettiamo la benzina nelle nostre auto o moto. Nuove o vecchie che siano. Se poi l’azienda non riesce a garantire un servizio efficiente, come previsto dal contratto, deve essere multata. Cosa che accade. Com’è accaduto in questi giorni in Toscana, dove Trenitalia ha pagato alla Regione 850mila euro di penalità per i disservizi prodotti. E la Regione ha ridotto di 1,5 milioni il finanziamento per la soppressione di alcuni treni. Stesso discorso dovrà valere anche per i bus. Ma è proprio pagando il biglietto che noi utenti acquisiamo il diritto ad un servizio funzionante. Altrimenti non ci possiamo lamentare.


19 MARZO 2016 pag. 10 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

L

a prima storiografia dell’immediato dopoguerra fu di impronta patriottica, preoccupata più che altro di ascrivere la responsabilità del conflitto alle controparti e, segnatamente, alla Germania; poi arrivò il Fascismo che ne azionò una lettura retorica a tutto volume e con questo si dovette aspettare qualche decennio perché si iniziasse a produrre una narrazione più libera da condizionamenti e ideologie. La “Storia politica della Grande Guerra”, che Piero Melograni pubblicò nel 1969, si inserì a pieno titolo in questo tentativo: l’oggetto della ricerca, densa di riferimenti e di fonti (testi e saggi, giornali dell’epoca, carteggi privati, ecc.) era la partecipazione dell’Italia al conflitto, insieme agli effetti e agli echi che si riverberarono nella società e nella opinione pubblica; dunque, con una sistematica attenzione all’esperienza collettiva, senza tralasciare ed anzi traendo linfa vitale dalle vicende individuali. Emerge in tutta la sua evidenza, nell’opera, il carattere genuino del lavoro dello storico, il cui compito – è quasi banale dirlo – non è produrre una versione conforme o gradita ma ricostruire lo sviluppo dei fatti attraverso la ricerca delle fonti ed il loro utilizzo scrupoloso. Melograni ci conferma nella prefazione che, negli anni in cui stava redigendo il libro, “l’immagine olegorafica della Grande guerra, sostenuta dalla propaganda mussoliniana, si era quasi interamente dissolta”. D’altra parte, egli dà conto di come, dopo il 1969, si diffuse una storiografia ispirata alle idee marxiste e classiste che avrebbe accusato lui stesso di aver accettato una “interpretazione nazional patriottica della guerra” ovvero di non aver dato il dovuto risalto “alla energia esplosiva del proletariato e agli sforzi repressivi dello Stato boghese”. Si capisce che la storia è continuamente strattonata da istanze che vogliono manipolarla e piegarla alle loro volontà, onde non deve essere agevole per lo storico mantenere un equilibrio. Qualità che tuttavia al Melograni non doveva difet-

La guerra di Piero

tare se è vero che, nel fare propria l’osservazione dello storico lombardo Piero Pieri sull’inesistenza di uno studio di carattere Simone Siliani s.siliani@tin.it di

Uno spettro si aggira per l’Europa e ... se sei di Budapest, questo spettro di chiama György Lukács. Per rendere innocuo il pericoloso spirito del filosofo ungherese, casualmente marxista, la cosa migliore è chiuderlo insieme a tutti i suoi fogli e scartafacci in un armadio e buttare via la chiave. Magari, una sì gordiana azione, compiace anche il presidente della democratura ungherese Viktor Orbán e così si prendono due piccioni con una fava. Così devono aver ragionato all’Accademia Ungherese delle Scienze quando il presidente László Lovász, ha deciso che era l’ora di chiudere l’Archivio Lukács. Il filosofo marxista ungherese aveva vissuto, dall’autunno 1945 fino alla sua morte avvenuta il 4 giugno 1971 nel suo appartamento di 2 Belgrád rakpart a Budapest. Dal 1972 quell’appartamento è divenuto la sede del suo archivio, di proprietà appunto dell’Accademia Ungherese delle Scienze, i cui fini erano soprattutto quello di svolgere ricerche e realizzare pubblicazione a partire dalla massa di documenti, materiali grigi inediti, corrispondenza e biblioteca che lì erano raccolti.

generale (che abbracciasse gli aspetti militari ma anche quelli politici interni ed internazionali, economici e sociali) sull’Italia degli anni dal 1914 al 1918, egli comprendeva anche questo suo sforzo in tale esclusione. Leggendo il libro mi sono formato l’idea che, se anche esso non si possa considerare quel grande (nel senso di compiuto) affresco cui faceva riferimento il Pieri nel 1965 - probabilmente impossibile data la vastità dell’argomento e del materiale -, Melograni aveva concepito con la sua “Storia politica” un esempio concreto di come avrebbe dovuto e potuto essere concepito. Il lettore rimarrà ben impressionato (riprendendo alcuni dei canoni estetici codificati nelle “Lezioni americane” di Calvino) dalla ‘molteplicità’ e

dalla ‘esattezza’ dell’opera, oltre che dalla sua ‘leggerezza’, intesa come attitudine del racconto a scorrere in modo fluido e in forma pienamente intelligibile. Soprattutto è giusto esaltarne la continua sintesi che in essa si produce tra particolare e generale, tra micro-storie e grande storia - quest’ultima non avendo fondamento né sostanza senza le prime. Se ne ricava il senso di una positiva alienità da qualunque astrattezza e della necessità di un approccio razionale e scientifico alla ricostruzione storica come priorità logica rispetto al formarsi di un libero convincimento. Per tutto questo chiamerei quella di Melograni, con un rimando alla coeva e struggente poesia-in-musica di Fabrizio De André, la guerra di Piero.

Chi ha paura di Lukács? Apertura al pubblico tre giorni la settimana per complessive 15 ore: possiamo immaginare un costo insostenibile, forse avranno motivato all’Accademia. L’Achivio detiene un patrimonio inestimabile, dal punto di vista degli studi sul pensiero filosofico e politico del Novecento: i manoscritti del filosofo ungherese, le lettere, la biblioteca. Sono presenti gli autografi e i dattiloscritti dei libri, degli studi e delle note scritti da Lukács prima del 1917 e dopo il 1945. Migliaia di manoscritti contenuti in una valigia conservata dalla Canca di Heidelberg fra il 1917 e il 1971. Inoltre molti manoscritti degli anni ‘20 e ‘30 e note miscellanee del filosofo scritti a Vienna, Berlino e Mosca. Fra le oltre 14.000 lettere, si trovano le corrispondenze con Leó Popper, Paul Ernst, Ernst Bloch, Max Weber prima del 1917 e con Thomas Mann, Heinrich Böll, Erich Fromm, Max Horkheimer, Jean-Paul Sartre, Jürgen Habermas, Karl Polanyi, Arnold Hauser, Karl Mannheim, Ernst

Fischer, Michail Lifschitz, Lucien Goldmann, Adam Schaff dopo il 1945. L’appello lanciato in rete contro la chiusura dell’Archivio, vuole evidenziare come “L’Archivio Lukács non soltanto ha reso possibile, durante decenni, che un ampio pubblico accademico ed extra-accademico accedesse alla documentazione centrale sulla vita e l’opera del filosofo, ma inoltre ha funzionato come luogo storico, in quanto ospitato nella casa in cui il filosofo visse gli ultimi anni della sua vita; spazio di ricordo di una delle figure più affascinanti della nostra era.” http://www.petitions24.com/protest_against_closing_down_the_lukacs. Sono tempi duri in Europa questi per la ricerca e lo studio; ancor più se parliamo di studi su autori o temi marxisti; ma se pretendi di farli nell’Ungheria di Orban, può essere un vero incubo.


19 MARZO 2016 pag. 11 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

N

on sarà un capolavoro, ma a me i film che raccontano la vecchia Hollywood e mostrano attori e personaggi di quel perduto e per me favoloso mondo piacciono sempre molto. Mi appassionano le biografie, auto o etero scritte, documentarie e anche interpretate e filmate. L’ultima parola- La vera storia di Dalton Trumbo ci fa tornare al periodo della caccia alle streghe nella Hollywood dei miti, della fama e delle favolose ricchezze,in quell’America in cui si iniziò a vedersi circondati da spie comuniste, in cui dominava la scena il senatore McCarthy e in cui presero vita i Comitati di indagine sulle attività antiamericane, le cui scomuniche e liste di proscrizione rovinarono persone e carriere ben avviate. I metodi di indagine erano approssimativi e sleali, le accuse di sovversione venivano mosse spesso più per eliminare avversari politici che per riscontrate reali colpe, e tutto si muoveva senza che fosse, non dico necessario, ma nemmeno utile uno straccio di prova. Dalton Trumbo era uno dei più bravi, famosi e pagati sceneggiatori degli anni Quaranta, era comunista, in un modo tutto Hollywoodiano sia chiaro, splendido ranch con lago e piscina, champagne e caviale a volontà, cene e ospiti per godere e chiacchierare insieme, una bella moglie, due figli, intelligenti ed eleganti che praticano l’equitazione.... Però era iscritto al Partito Comunista, produttori e Studios lo sapevano, per un po’ ci hanno scherzato nel corso di party e prime piene di starlets e personaggi dall’eterno whiskey in mano, poi, a un tratto, passa tutto alle aule di Comitati e Tribunali. Il nostro simpatico chiacchierone, insieme ad altri 9 amici, si rifiuta di rispondere al Comitato non ritenendo legale perseguire un’opinione, viene condannato a 11 mesi di carcere. Uscito, non può più lavorare, al limite della povertà, venduto il ranch, riesce, con un geniale colpo di coda, ad esprimere e se stesso e la sua invincibile voglia di combattere follie ed ingiustizie, magari prendendo in giro alla grande

L’ultima parola la pretesa avvenuta epurazione. Inizia a scrivere copioni a bizzeffe con nomi vari per film meno che di serie B, soprattutto per un produttore, Frank King che ben ne riconosce il genio e mal tollera soprusi e limitazioni al suo business, simpaticamente interpretato da John Goodman, che attacca letteralmente al muro chi tenterà di costringerlo a licenziare il collaboratore di cui si è intuito la vera identità. Compaiono in questo film

Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Scomposizione delle liste elettorali per le prossime elezioni amministrative

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

alcuni miti della stronzaggine hollywoodiana, tipo John Wayne e la regina delle pettegole maccartiste Hedda Hopper, interpretata dalla regina Helen Mirren. Edward G. Robinson, storico amico sinistrorso del protagonista, costretto dall’ostracismo lavorativo a fare la spia, si vede da lui rifiutare e la comprensione

e il danaro che gli offre per aiutarlo. Tanti fecero i nomi, fra essi il più famoso Elia Kazan. Bryan Cranston è perfetto, è Trumbo, occhialini, baffetti e aria sprezzante, ce ne ripropone meriti e vezzi, scriveva nella vasca da bagno, beveva come una spugna ed aveva atteggiamenti vagamente dispotici all’interno della sua famiglia. Mentre era alla gogna un prestanome vinse l’Oscar con il suo soggetto di Vacanze Romane, un altro lo vinse per La più grande corrida prodotto da King. Solo negli anni 70 gli furono riconosciute queste paternità e restituiti i maltolti Oscar. La entrata in scena di Otto Preminger che lo esige come sceneggiatore del suo Exodus è esilarante. Kirk Douglas combatte strenuamente insieme a Kubrick e per fargli scrivere Spartacus e soprattutto per far ricomparire nei titoli il suo vero nome. Piacevoli le inserzioni di filmati d’epoca, comprese le manifestazioni di attori contro quel clima di folle paranoia.


19 MARZO 2016 pag. 12 di

Mario Setti

L’approccio fortemente aziendalista che da qualche anno guida la Fondazione del Maggio Musicale ha un suo fascino comunicativo indubbio. Sulla politica, sull’opinione pubblica, sull’informazione. Nell’economia globalizzata dei nostri tempi risulta però, ad una più attenta analisi, troppo caratterizzata da vecchi parametri e modalità operative: proprio negli Usa già nel 1968 Bob Kennedy indicò una diversa possibilità di lettura in relazione a tutto ciò che sta fuori dal pil, ma che ha un valore inestimabile. Sembra che trovare un equilibrio tra queste due visioni costi troppa fatica. L’episodio del Teatro Goldoni è l’esempio lampante: per la dirigenza è un asset. Il Goldoni non è un asset, è un teatro. E un teatro non è di una fondazione, è di tutti. O se la si vuol vedere con cinismo non è di nessuno. In teatro, in quel teatro, è passata la storia, emozioni, ricordi, sogni: tutto questo ha un valore inestimabile, anche economico: superior value. Dal febbraio 2013 il Maggio è stato commissariato e ha intrapreso questa nuova strada: nessun amministratore delegato avrebbe avuto così tanto tempo e così grande libertà per salvare una azienda. Un anno, due, dopodichè bisogna vedere i risultati. Essendo passato un tempo lungo, e ancora ne passerà, il brand ne ha risentito tantissimo, troppo: non si ripartirà da zero, ma da sotto zero. Magari il bilancio mostrerà un pareggio, ma tutto il valore immateriale che è la prima risorsa del Maggio non esisterà più. Il progetto produttivo e artistico previsto dopo il risanamento è di secondo piano, è strutturato con spirito punitivo e avvilente: la città, Firenze, si merita almeno di provare a tornare ad un grande Maggio, di livello internazionale, che abbia una spinta propulsiva verso le sfide del futuro: sociali, artistiche, produttive. La cultura deve essere inutile, non deve avere scopi o fini, non deve servire a niente: pena quella di divenire asservita. Deve produrre conoscenza, e per fare questo non può perdere mai una direzione artistica, non può tradire la sua mission, cioè quella di produrre

Maggio futuro

cultura aspirando sempre ad un livello superiore, proprio come un prodotto di una azienda. E per dare una direzione artistica servono competenze. I numeri sono spesso la prima via tramite la quale si va in tasca agli ultimi: i poveri, i lavoratori, coloro che non hanno potere politico, economico o di contrattazione. Così è capitato e sta capitando ora con i numeri del Maggio: abbiamo bisogno di ispirazione, di coinvolgere intelligenze e idealità nuove. Sembra che si ignori coscientemente una questione di fondo: la complessità del Maggio è proprio quella di essere un bene pubblico, universale. La grande difficoltà, ma anche il fascino, è Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

S cavez zacollo

quella di dover dialogare con le Istituzioni che ti finanziano, gli artisti, i macchinisti, i sindacati, il consiglio comunale, con sempre ben presente che la maggioranza dei soldi sono pubblici, di tutti noi. Non è possibile non rendere pubblico tutto: il Maggio deve diventare una torre di vetro, è proprio questo che ha condotto la Fondazione in gravi difficoltà e non è accentuandole che potrà uscirne. Rispondere ai bilanci è facile, soprattutto con così ampio tempo e potere: dare alla comunità una Fondazione in pareggio ma lobotomizzata, svuotata di valore artistico (il suo valore primario) con una attività di secondo piano è come il medico che invece

di curare il pazzo gli asporta una parte del cervello: non darà più problemi, certo, ma non sarà più in grado di esprimersi. Senza questa cura non ci sarebbe stato più il Maggio? Può darsi, certo. Ma il Maggio non è solo una Fondazione, un Ente, un bilancio. È qualcosa che ha un valore immateriale enorme. La Fondazione poteva crollare, essere tutti licenziati e magari per uno o due anni o più non avere nulla: ma sempre ci sarebbe stata la possibilità di una ripartenza dignitosa, e non con una prospettiva limitata e penalizzante. La Fiorentina è ripartita dalla C2, ma nel minor tempo possibile è tornata in serie A e in Europa. Sembra che non si abbia fiducia nel prodotto: come si può risanare una azienda se si pensa che questa produca e abbia prodotto roba scarsa? Che si è montata la testa e deve invece puntare ad un pubblico come quello delle masse dei turisti, spesso impreparati e impossibili per ovvi motivi da affezionare, legati solo a tour e gite? Questo vuol dire investire in maniera sbagliata il proprio business: bisogna investire nella nascente Area Metropolitana, arrivare ad avere abbonati, in tutte le fasce generazionali e sociali. Questo verrà ricordato come un periodo buio che prepara un altro periodo buio, ben più lungo. Ma se questo discorso vale per il Sovrintendente può valere allo stesso modo per chi la pensa diversamente da lui, e forse la storia del Maggio avrà la forza per inventarsi un futuro ancora diverso, che raccolga magari foglie verdi nascoste sotto le tante secche che nessuno di noi riesce ad intravedere.


19 MARZO 2016 pag. 13 Francesco Cusa info@francescocusa.it di

L

a sofisticata orchestrazione realizzata in “Ave Cesare” da Ethan e Joel Coen, questa volta non entusiasma. Il progetto, davvero ambizioso, si arena nelle ampollisità dell’impianto progettuale, nell’ipertrofia della messa in scena, densa di rimandi, citazioni, ricostruzioni della gloriosa Hollywood degli anni Cinquanta. E il peso di questa esplorazione ricade tutto sulle spalle del povero Mannix, l’amministratore degli studios, che, come un padre antico e saggio, riporta a suon di ceffoni gli attori alla realtà del cinema e delle sue regole. In definitiva, a questo ardito mosaico che mira a ricostruire (in tutti i sensi) le atmosfere e le storie dei protagonisti di quella gloriosa epoca cinematografica, manca la seduzione, l’appeal, la verve che normalmente caratterizzano tutta la produzione dei due cineasti americani, da sempre non solo “registi”, ma anche critici-cinefili, ed epigoni di una tradizione onnivora che potrebbe trovare un corrispettivo musicale nell’opera del musicista John Zorn. Insomma la consueta distanza dei Coen, il distacco che ha da sempre caratterizzato le loro opere come tratto saliente e pregevole (pensiamo allo stupendo “Non è un Paese per Vecchi” oppure a “Fargo”, o ancora, andando più indietro nel tempo, a “Barton Fink”), in questo caso diventa cronico, siderale iato tra Deux e Mondo. A me è sembrato di assistere ad un noioso, per quanto pregevole, esercizio di stile; ho trovato forzato il riadattamento scenografico, ostentati gli omaggi al cinema di quell’epoca e stucchevoli le strutture dei dialoghi (sovente poco più che scadenti “calembour”). Si ride poco, a dispetto di tutta una struttura dialogica che parrebbe alludere ad una sorta di colto sarcasmo in divenire che mai si conclama compiutamente, e anche le prove degli attori paiono di maniera, troppo aderenti alla versione caricaturale dei personaggi. Ciò al netto del canonico margine di libertà offerto dai Coen ai loro attori, che immaginiamo preveda proprio una tale approccio forzato della recitazione. Ma è proprio questa torsione tra regia e interpretazione a generare un prodotto ibrido, privo di personalità, amorfo.

L’orchestra di Cesare

Mannix opera in un contesto filmico che oscilla tra il canzonatorio e il rigore storicistico, tra il divertissement e la ricerca del preziosismo; non si capisce bene, insomma, quale sia il reale intento dell’opera. Si vuol mostrare che quel contesto non poteva tollerare

“rivoluzioni”, né Marcuse di sorta? Oppure che tutta questa romanzesca adesione alla causa comunista da parte di interi settori degli studios era a sua volta una singolare pantomima di quegli anni della Guerra Fredda? Non saprei rispondere ai due quesiti.

È però evidente che lo iato tra il vero e il verosimile finisce col dissolversi in “Ave Cesare”, che rimane a tutti gli effetti un film “anti-pirandelliano” (la prendo allegramente da lontano). Significativa, in questo senso, una delle scene più belle del film, quella della compenetrazione del legionario Clooney col Cristo, in una prova di recitazione memorabile che viene meno giusto nel suo culmine, per poi dissolversi nelle repliche infinite del dettaglio che non corrisponde alla battuta del copione (Clooney dimentica la parola chiave). La proverbiale cura per i dettagli dei Coen, finisce col soffocare “Ave Cesare” in una pletora di citazioni, o per dirla con un perfido Sacks, ne “il cappello che venne scambiato per la moglie che venne scambiata per un cappello dalla moglie ecc.”, ovvero in un percorso infinito di associazioni senza fascino.

Tre fotografe a Empoli Presso “Filarete Art Studio” di Empoli espongono fino al 9 aprile, con testi critici di Angela Sanna, tre fotografi, diversi per collocazione e poetica, tutti con un considerevole percorso artistico e professionale alle spalle: l’americana Joan Powers, il free lance Paolo Tosti ed il pubblicitario Gianni Otr (Gianni Baggi). Joan Powers, fotografa da oltre quarant’anni, docente di fotografia, e nota per tutta una serie di lavori di reportage ed indagine sociale svolti in USA, Europa e Corea del Sud, oltre che per le immagini notturne di New York e per i ritratti di suonatori di jazz, presenta alcune recenti immagini della serie “still life” in cui sembra rinnegare il suo precedente approccio con la realtà e con l’umanità che percorre le strade della vita, per indagare con metodo e precisione il mondo vegetale, in uno splendido bianco e nero, isolando le foglie ed i fiori su sfondi neutri o completamente neri. Nelle sue immagini raffinate si intravede il richiamo a Karl Blossfeldt, ad Albert Ren-

ger-Patzsch o ad un certo Robert Mapplethorpe, esperienze che Joan Powers reinterpreta secondo il proprio punto di vista e la propria sperimentata sensibilità visiva. Il più giovane Paolo Tosti, fotografo da poco più di vent’anni, ma con un percorso ricco di esperienze e collaborazioni con agenzie fotografiche, presenta una selezione di immagini in bianco e nero tratte da lavori e ricerche personali, come “Exodus”, “Terrasanta” “Dejavue” o “Estafeta”, privilegiando fra tutte le immagini quelle meno nitide, meno leggibili, leggermente o totalmente mosse e spesso fuori fuoco. Tosti rientra in quel gruppo di fotografi che considerano la messa a fuoco ed il mosso come una sorta di reazione emotiva rispetto alla scena inquadrata, confidando molto sulla indeterminatezza, con un atteggiamento che rischia di trasformare la fotografia in metafotografia. Gianni Baggi (Otr) si autodefinisce “photographiccomminication” e proviene da una lunga

attività commerciale nel settore della pubblicità, da cui si distacca completamente nel 2005 al termine della carriera professionale, per dedicarsi a ricerche personali ed intimiste di natura filosofica e poetica. Se le immagini di Paolo Tosti rinunciano a descrivere la realtà per descrivere fotograficamente delle emozioni, quelle selezionate dalla produzione recente di Gianni Otr rinunciano definitivamente al figurativo, superando definitivamente il mezzo fotografico in quanto tale, per librarsi in libere composizioni coloristiche in cui non esistono vincoli con la realtà visiva, ma con una realtà psichica fatta di sfumature, intuizioni e vibrazioni


19 MARZO 2016 pag. 14 di

Francesco Gurrieri

F

inalmente un’iniziativa che restituisce ad Antonio Berti la pienezza della sua dimensione artistica nel panorama europeo. Ci voleva l’appassionata e inesauribile volontà di Domenico Viggiano per coagulare così tanti soggetti riportandoli ad unum in questa rassegna, consegnata alle due mostre nei centri della “Soffitta” di Colonnata e del Centro Espositivo nel tessuto vivo di Sesto Fiorentino intitolato ad Antonio Berti; con un bel catalogo (Polistampa) curato dal bravo Viggiano. Il titolo unificante dell’iniziativa è assai semplice: “Antonio Berti, 1904-1990”. Ricordiamo intanto i presenti in catalogo: Antonio Lucio Garufi, Francesco Mariani, Giovanni Berti (figlio di Antonio), Domenico Viggiano (allievo adottato dal maestro), Giulia Ballerini e Susanna Ragionieri. Se dobbiamo alla Ballerini il profilo storico-culturale del Berti, riconosciamo alla Ragionieri la trattazione del côté più impervio relativo alla pittura (meno nota e che si conferma, mi pare, davvero marginale nella sua generale produzione) e alla bella ritrattistica femminile. È a diciassette anni che il giovane Antonio inizia concretamente il suo tirocinio (inizialmente “istintivo”), quando comincia a lavorare come “formatore” alla Richard Ginori nella città-fabbrica di Doccia; ed è a Doccia che Ugo Ojetti scopre Berti e lo avvia, convincendone il padre, agli studi all’Istituto d’Arte di Firenze, allora ancora a Santa Croce, prima di spostarsi alle Scuderie Reali di Porta Romana. Qui conoscerà Libero Andreotti, a cui farà sempre irreversibile riferimento e avrà compagno di viaggio Bruno Innocenti. Nel ’34 si trasferisce a Sesto Fiorentino che diverrà la sua città d’adozione; nello stesso anno espone per la prima volta le sue sculture alla XIX Biennale di Venezia. La sua affermazione è rapida, soprattutto nella ritrattistica. Già nel 1930 il suo Tennista, monolito marmoreo, sarà

Antonio Berti Una plastica di luce e di silenzio

nella tradizione rinascimentale

Roberto Pupi controrilievi a cura di Gianni Caverni

dal 19 marzo al 6 aprile 2016 inaugura sabato 19 marzo - ore 17,30

immaginaria arti visive gallery via guelfa, 22/ar - firenze - tel. +39 0552654093 info@galleriaimmaginaria.com - www.galleriaimmaginaria.com h. lun/ven 9.30/19.30 sab 9.30/13.00 - 15.30/19.30 dom su appuntamento

collocato al Foro Italico e del ’33 sarà il bellissimo bronzo femminile sdraiato, Risveglio. Del 1935-37 è il monumento al Foscolo, collocato in Santa Croce e ininterrotti saranno i tanti ritratti per la borghesia, la nobiltà fiorentina, per i reali: Paola Ojetti, Marian Ruspoli, Madina Arrivabene, Barbara Hutton, Maria Josè di Savoia, Volpi di Misurata, Amedeo d’Aosta, Vittorio Emanuele III. Dopoguerra la plastica tornerà ad affermarsi, ripartendo proprio dal ritratto del Generale Clark (comandante del Corpo d’Armata Alleato in Italia), con Baccio Maria Bacci, Papa Pacelli, Caligiani, Valdoni, Scaglietti, Anna Miserocchi e i bei ritratti di Loffredo e di Viggiano. È anche da dire che nulla aggiunge – forse tradito dalla grande dimensione – il monumento celebrativo a De Gasperi a Trento. Ma se questa ricca rassegna ci conferma la grandezza della ritrattistica di Berti, sono forse da sottolineare, in particolare, due opere fondamentali: la Maternità (bronzo, 1950) e il Tabernacolo con l’Annunciazione (San Piero a Sieve, 1947), soprattutto nell’originale in terracotta conservato nella Biblioteca Comunale “E. Ragionieri” nella Villa di Doccia. C’è da esser grati a tutti coloro che hanno concorso a ricordare con semplicità ed efficacia questo “maestro” che ha ben testimoniato quella “linea figurativa” che è stata una delle corde forti del nostro Novecento.


19 MARZO 2016 pag. 15 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

I

l Centre d’art La Malmaison a Cannes in collaborazione con il museo nazionale Marc Chagall di Nizza espone fino al 23 aprile Marc Chagall, les couleurs de la vie, piccolo, prezioso compendio della mostra in corso al Grand Palais a Parigi Marc Chagall et le triomphe de la musique della quale ho già scritto qualche settimana fa. L’esposizione di Cannes è una tappa fondamentale per capire la genesi del colore nelle opere di Chagall, parte essenziale, insieme ai temi poetici e onirici, della sua arte. In mostra 200 pezzi della collezione di Castor Seibel, unica nel suo genere, perché creata in quasi cinquant’anni acquistando non solo le litografie numerate e firmate dell’artista ma soprattutto i fogli preparatori con i diversi tentativi e prove di colore che Chagall realizzava nell’atelier del maestro incisore Fernand Mourlot prima di arrivare all’opera definitiva. I fogli esposti ci offrono così per la prima volta l’opportunità di seguire questa avventura cromatica attraverso variazioni e modificazioni spesso con le annotazioni di Chagal, fogli che, nonostante l’intrigante bellezza delle opere incompiute, non sarebbero mai entrati in commercio e che sarebbero sicuramente stati dimenticati e perduti in qualche angolo dell’atelier se non fossero stati amorevolmente raccolti da Mourlot e collezionati dallo scrittore Seibel. La litografia a colori era stata scoperta da Chagall durante il suo soggiorno negli Stati Uniti e da allora diventerà la sua forma d’arte preferita. Al suo ritorno a Parigi, per meglio penetrare nei misteri di questa tecnica, si affidò a Fernand Mourlot, già al tempo famoso, e soprattutto al suo collaboratore Charles Solier. La stamperia Mourlot fu fondata a Parigi nel 1852 iniziando con la riproduzione di carta da parati. La svolta la diede il giovane Fernand che con il suo talento e il suo intimo coinvolgimento richiamò nel laboratorio artisti come Matisse, Braque, Bonnard, Mirò, Buffet e tanti altri. Con lui Picasso creò oltre 400 litografie

L’avvento del colore

e questa preziosa collaborazione fu talmente stimolante da dare all’opera dell’artista spagnolo una nuova dimensione. Jean Cocteau che faceva stampare le sue opere da Mourlot negli anni 50-60 ha descritto più volte nel suo giornale Le passè défini l’atmosfera amicale e collaborativa che regnava nella stamperia. La nascita di una litografia a colori è un viaggio che via via insegue percorsi diversi fino al risultato che soddisfa l’artista. Nella stamperia Mourlot, insieme al litografo e amico Sorlier, Chagall passava molto tempo a cercare di catturare in mille prove la tonalità perfetta del verde smeraldo, del rosso fiammeggiante, dell’arancione, del viola, del blu. Poi Mourlot, oggi ricordato come un maestro nella storia della litografia moderna, con cura meticolosa e grande passione stampava la versione definitiva, spesso con 25 colori (ciascuno dei quali richiede un passaggio di stampa separato) sulla quale l’artista metteva finalmente la firma. L’opera era compiuta.

RAI RADIOTRE SUITE

Sabato 19 Marzo 2016 ore 22.30 IL CARTELLONE RAVENNA FESTIVAL

DIVINA.COM evento mixed media in 36 parti per vocalist, orchestra, live electronics e video di Daniele Lombardi (versione per orchestra commissionata da Ravenna Festival) Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore Tonino Battista voce David Moss regia del suono, Tempo Reale (Damiano Meacci) Registrato il 12 giugno 2015 al Teatro Alighieri di Ravenna


lectura

dantis

19 MARZO 2016 pag. 16

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Furfanti che prendevan senza scosse, ciò che non gliera mai appartenuto, e al canapo non eran buone mosse.

Fregava gli infedel come i cristiani, dovete immaginar di chi vi dico, peccatore fra prim degli italiani.

Ma ecco un animal da stare attenti si trattava del figlio di Vulcano quel Caco, che sanza complimenti

Vidi fra lor, villano strafottuto, un laido assai veloce con le mani a tutto rubur, e s’era fatto astuto.

Egli di molti era stato amico, acuto nell’illudere le menti un serpe gli sbocciò dal suo bellico.

ad Ercole rubò, con atto invano, del re Gerione gli splendidi bovini, al principio non si scoprì l’arcano, ma l’eroe non discendea da dei cretini: d’Alcmena e Giove era stato figlio e dov’eran gli animal scoprì i confini. Caco sbarrato aveva il nascondiglio e ad Eracle ruttò tutto il su foco ma per il prode fu solo sbadiglio e lo strozzò togliendolo dal loco. Ora la bestia le sue fiamme sputa su chi tanto rubò e anche a chi poco.

Canto XXIV 8° cerchio 7a bolgia

I ladri sono condannati a continue metamorfosi si trasformano in rettili repellenti. Nella bolgia imperversa Caco ucciso da Ercole per aver rubato un armento. È un mostruoso centauro con un nido di serpenti in groppa ed un drago attaccato alle spalle che sputa fuoco contro i mutanti.


L immagine ultima

D

19 MARZO 2016 pag. 17

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

a quando l’ho stampata per la prima volta ho vissuto questa immagine come un’icona, una terribile icona della violenza istituzionale dei tutori della legge negli Stati Uniti. Ho sempre pensato che avesse una grande forza evocativa e gli innocui dettagli del mignolo fasciato con il “cerotto” e i due strumenti di scrittura hanno contribuito, secondo me, a rafforzare in modo esponenziale tutta la sua carica di violenza banalizzata.

NY City, agosto 1969


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