Cultura commestibile 167

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

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N° 1

“Some said it was a symbol of the part-Kenyan president’s ancestral dislike of the British empire”

Boris Johnson, sindaco di Londra, parlando di Barak Obama

Frequentano lo stesso parrucchiere editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Giuseppe Centauro giuseppe.centauro@unifi.it di

L

a Loggia della Signoria è un unicum museale inscindibile dal contesto urbano e dall’architettura che lo realizza: questo assunto è universalmente condiviso, un postulato sul quale non possono sussistere dubbi di alcun tipo. La Loggia è un lascito che appartiene alla città tutta, ai suoi abitanti e al mondo intero: uno spazio che, di giorno e di notte, d‘estate e d’inverno, permette a chiunque di godere dei capolavori, che qui si conservano da secoli, in piena e non condizionata libertà. L’emozione di trovarsi di fronte agli originali usciti dalle officine artistiche dei maestri del passato, dalle mani stesse di grandi artisti è pari solo alla bellezza che suscitano le opere, specie se tutte insieme congiunte in un proscenio meraviglioso, dove il primo, il secondo e il terzo piano prospettico esaltano una scena osservata a 360° che via via si anima con lo sguardo che corre ora sull’una ora sull’altra monumentale composizione, nessuna esclusa. Dal Cinquecento in avanti la loggia è stata la ribalta d’eccezione dello splendore artistico fiorentino (questo fatto non va mai dimenticato!). Da quando il Perseo (1545-1554) di Benvenuto Cellini, veniva qui magistralmente collocato seguendo l’esempio dell’antesignana “Giuditta e Oloferne” (1455-1460) di Donatello (ora in Palazzo Vecchio), è stato un susseguirsi di arricchimenti, taluni spregiudicati, fino all’Ottocento, rappresentando sempre ai massimi livelli la qualità della produzione scultorea del tempo. Pensare oggi di spostare il “Ratto delle Sabine” (15811583) del Giambologna, per sostituirlo con una copia, non può che essere una boutade, una provocazione per segnalare una criticità ambientale che ormai da decenni accompagna i rischi indotti dal turismo di massa. Non credo che possa trattarsi di un’idea speculativa al fine di dotare ancor più di adesso la Galleria degli Uffizi, già strabordante di eccellenze. Un modo, forse, per il diret-

Siamo tutti lanzichenecchi tore della Galleria di marcare un punto nell’attenzione dei maggiorenti che tuttavia suscita inquietudine nel pronunciamento stesso che, di questi tempi, suona come una minaccia imminente che può trasformarsi in una “miccia corta” accesa in faccia all’opinione pubblica per la risonanza stessa che viene a manifestarsi con quell’annuncio autorevole. È come dire, apertis verbis, che la Loggia della Signoria, non è più un luogo difendile e sicuro quale che siano i provvedimenti che si possa pensare di prendere per la sua protezione, così da rendere giustificata e plausibile la rimozione dell’originale, magari a favore dell’istallazione di una copia. L’idea stessa che si reputi di essere giunti a tale limite estremo di pericolosità ci fa riflettere non poco sul danno incalcolabile che questo genere di pensiero può recare in sé. In realtà non ci sono drammatiche condizioni ambientali da scon-

giurare, l’opera è al coperto e la situazione dell’inquinamento atmosferico è persino migliore di qualche anno fa. Lo stesso rischio dell’atto vandalico o terroristico può e deve essere gestito con altri mezzi ed è, in ogni caso, statisticamente non così allarmante. Partiamo dal fatto inconfutabile per chi ama l’Arte che l’essenza di Firenze, il genio stesso che alberga nel suo centro storico, patrimonio dell’Umanità, vive nella speciale unicità che proprio la Loggia della Signoria esprime ai massimi livelli, tanto da apparire come un diritto costituzionale godere della città attraverso la libera fruizione delle opere d’arte, rese a tutti visibili. Si tratta per altro di un diritto acquisito da secoli che la storia ha conferito alla città del Giglio, che per questo ha speso denari e dato il proprio sangue, un diritto sancito dunque senza condizioni che si è consolidato ben oltre le intenzioni della

famiglia de’ Medici che, pur promotori, si erano arrogati per sé il piacere e gli onori derivanti dalla magnificenza dell’esposizione. Firenze in realtà ha riscattato da tempo questo privilegio per sé e a vantaggio di tutta l’Umanità. Dovremmo semmai sentirci debitori e partecipi di una custodia vigile e attenta, di amorevoli cure da sostenere per il mantenimento migliore di quello spazio, reso sacro da tutto ciò che vi si contiene. A scanso di equivoci è bene ribadire a chiare note il concetto che un’eventuale decontestualizzazione delle opere d’arte che sono qui collocate, nessuna esclusa (compreso il loro sacrosanto diritto di un naturale invecchiamento in quello spazio), equivarrebbe ad una resa incondizionata nei confronti di un degrado resosi ormai non più arginabile, di una tale gravità da sovrastare gli eventi bellici più cruenti, i terremoti più devastanti, il ter-


Da non saltare

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rorismo più bieco e criminale. La paura di vedere infranto questo muro di libertà deve essere combattuta in tutti i modi possibili, ogni uomo, ogni donna che ha a cuore la cultura dovrebbe ergersi a paladino di questa straordinaria dimensione architettonica ed artistica. Come fecero i lanzichenecchi chiamati dai Medici a difendere il loro patrimonio da furti e depredazioni, dovremo altrettanto fare noi nei confronti di ogni tentativo di sottrazione, di allontanamento, di rinuncia alla tutela attiva. Ricordo ancora bene il primo sfregio dei tempi recenti che si fece al basamento del “Ratto delle Sabine”, quando, nel febbraio del 1976, s’imbrattò con vernice rossa l’alto piedistallo. Lo ricordo bene perché, oltre al clamore che suscitò quel primo atto vandalico all’interno della loggia, fu parte, solo due mesi più tardi, della mia discussione di tesi di restauro. Da allora, all’interno della Loggia dei Lanzi ci sono stati altri sette o otto episodi di danneggiamento e vandalismo, numeri certamente significativi, di certo non trascurabili, ma pur sempre limitati e contenuti in ragione del gran flusso di persone. Nel 1998, dopo l’ennesimo caso di sfregio vandalico capitato ai due leoni posti all’ingresso della loggia, divenuti sedili per souvenir fotografici, durante l’esecuzione di indagini diagnostiche condotte per valutare i danni procurati i marmi d’epoca classica del grande Leone di destra, ebbi occasione di sostare a lungo accanto a quei monumenti e quindi di osservare il comportamento della gente, il loro grado di educazione nell’avvicinarsi a quell’impareggiabile “museo all’aperto”. Più della stupidità di qualcuno, mi colpì vedere lo stupore nei volti della maggioranza dei visitatori, di ogni età, di ogni estrazione sociale e provenienza, di misurare l’effetto evocativo suscitato dal vedere tutte insieme quelle statue, dal sapere che si trattava di testimonianze autentiche, vecchie di secoli. In partico-

Salviamo la Loggia della Signoria

lare quella vista suscitava in molti quella sorta d’affezione psicosomatica, da capogiro, conosciuta come “sindrome di Stendhal”, specialmente la simbiosi che si realizzava tra la piazza della Signoria con i grandi palazzi di pietra e il suo grandioso arredo urbano visto dall’interno dello spazio voltato della loggia con tutte quelle figure del mito plasmate nei marmi e nel bronzo: da quelle aggiunte nell’Ottocento come “l’Ercole in lotta col Centauro Nesso”, “Menelao che regge il corpo di Patroclo”, “Pirro che rapisce Polissena”, fino a quelle di più antica presenza quali il “Ratto delle Sabine” e il “Perseo”. Adesso non posso in alcun modo pensare che la presenza delle copie al posto degli originali possa produrre un pathos così altrettanto forte. Se pensassimo di sostituire la forza intrinseca della comunicazione artistica di un originale affidandosi ad un multiplo, ad un clone, come ormai si fa di routine coi telefonini, con le immagini digitali anche dentro i musei per promuovere un’informazione didascalica e fare divulgazione, perderemmo l’afflato sensoriali, al tempo stesso emotivo e razionale, che solo la visione diretta dell’opera d’arte può suscitare. Stoppiamo dunque ogni tentativo di rimozione, di sostituzione e sosteniamo piuttosto, con lucido realismo, tutti gli accorgimenti utili per scongiurare o ridurre al minimo gli effetti negativi dell’impatto eccessivo prodotto sul patrimonio dalla gran massa di visitatori, e allo stesso tempo salvaguardiamo anche il diritto di fruire della bellezza dell’arte ovunque essa si trovi o si rappresenti, proteggendola così com’è nel suo originario contesto che, al pari dell’opera, merita rispetto. Facciamo tutto questo consapevoli che il contatto con l’autenticità e l’espressività della materia artistica non è cosa surrogabile; ma piuttosto adoperiamoci una volta di più nella prevenzione, nella manutenzione, del resto è questa l’ardua missione del restauro per la conservazione.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx A Palazzo vecchio si preparano grandi festeggiamenti per l’80° compleanno del Maestro Zubin Metha. Il sindaco Nardella non sta più nella pelle e ha convocato una Giunta straordinaria. “Allora, ragazzi, mi raccomando sabato si fa la festa per Zubin, qui nel Salone dei Cinquecento, quindi venite vestiti tutti a modino e non fatemi fare brutta figura. Soprattutto tu, Cristina: cerca di metterti qualcosa di sobrio o non troppo estroso”. La vicesindaca Giachi, un po’ risentita per l’osservazione del sindaco, dichiara che per l’occasione andrà a farsi acconciare la chioma da Hairforce, nella top list dei migliori parrucchieri fiorentini. Invece si diffonde il panico fra gli assessori maschi: spaesamento di Bettarini (il mugellano) e Vannucci (lo sportivo): “Ma chi è ‘sto Zubin?”. Gianassi fa il primo della classe: “Oh ragazzi, gl’è ‘i maestro dell’orchestra; quello indiano!”. Giorgetti si defila: “Io non posso ho da controllare i cantieri. Ciaone!”.

I Cugini Engels Via del Collegio Romano, sede del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Il Ministro Franceschini misura a grandi passi l’immenso salone-studio, arrovellandosi su un’ANSA: “Ma guarda questi stronzi di tedeschi! Dicono che ISIS starebbe pianificando attentati sulle nostre spiagge con kamikaze vestiti da ambulanti? Proprio oggi che ho fissato la pensioncina a Riccione! Ora li sistemo io questi mangia crauti!”. Vengono convocati subito i tre sottosegretari: Ilaria Borletti Buitoni, Dorina Bianchi e Antimo Cesaro. Mai avvenuto prima durante il dicastero Franceschini... infatti lui si stupisce un po’ di vederli. La Buitoni con i capelli mezzi cotonati e mezzi no (ha dovuto interrompere la seduta quotidiana dal parrucchiere); la Dorina ancora in maglia rosso-blu (i colori del suo Crotone Calcio); Cesaro irritato perché stava scrivendo un saggio sull’ermeneutica del linguaggio renziano. Franceschini vuole concordare con loro un duro comunicato: “Quello che giù fu l’alleato germanico, ha deciso di volgere contro di noi i suoi turgidi strali e

Tanti auguri Maestro Bobo

Il cielo sopra Berlino

intende sollevare il terrore nei lidi nostri con illazioni e seminando il panico fra i bagnanti, indigeni e stranieri. Ma si sappia, nelle terre del Reno, che noi non arretreremo: difenderemo la nostra italica terra fermando l’invasore arabo-tedesco

sul bagnasciuga! Nessun terrorista, da venditore ambulante africano, si è mostrato finora. I nostri Servizi Segreti si sono infiltrati nelle fila nemiche e sono ora impegnati a smerciare asciugamani e occhiali da sole sulle nostre spiagge per con-

Lo riprende subito Nardella: “Ciaone una mazza, Stefano: te ti levi subito quel casco e la giacchetta catarifrangente, ti metti finalmente una giacca e una cravatta e ti presenti sabato alle 19 nel Salone, sennò ti mando a dirigere il traffico a Porta al Prato, capito? E poi, ragazzi, ho una sorpresona per voi, per il pubblico e soprattutto per il Maestro: dopo Accardo, mi pregerò di far ascoltare una musica sul mio violino anche al Maestro Metha! Ganzo eh? Non ve l’aspettavate, dite la verità. E poi accompagnerò sullo strumento un corale Tanti auguri a te. Quindi, incominciate a prepararvi e non stonate, sennò vi licenzio tutti!”. Gianassi e Perra cercano di guadagnare il bagno assaliti da conati di vomito; Vannucci e Bettarini sono presi da riso convulsivo; a sinistra invece grande sbattere di ciglia dalla componente charmant della Giunta, Mantovani-Bettini-Funaro. Mentre il capo di Gabinetto Braghero, disperato, sfonda una porta a testate. Tanti auguri Maestro! trollare in situ. La Bild, foglietto scandalistico germanico, intende gettare discredito sulla nostra bella Italia e danneggiare il nostro turismo: respingiamo fermamente queste ingiurie!”. Franceschini è orgoglioso del testo che ha personalmente computato, ma Cesaro (docente di ermeneutica del linguaggio politico) e Bianchi (esperta di linguaggio ultrà) sollevano qualche dubbio, vorrebbero un testo più sintetico, più gggiovane (la Buitoni è invece impegnata a rassettarsi la fulgida chioma). Il Nostro ci pensa un po’ e gli torna alla mente il corso di comunicazione politica che ha di recente seguito alla scuola di formazione del PD, di cui era docente Ernesto Carbone, e verga di propria mano un letale tweet: “Ciaone a Bild...Vi accoglie questo #Azzurro che gli italiani stanno fotografando. #WillkommenInItalien @ENIT_Italia”. “Tiè [gesto dell’ombrello] tedeschen di Scheiße!”, chiosa Franceschini. Applausi dai tre sottosegretari e tutti e quattro, intonando “Azzurro” e “Il cielo è sempre più blu” , registrano un video promozionale per il sito del turismo italiano www.italia.it.


23 APRILE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

F

ra i giovani fotografi che fra gli anni Cinquanta e Settanta rinnovano il panorama italiano, portandolo allo stesso livello del resto della fotografia europea, Fulvio Roiter (1926-2016) è senza dubbio uno dei più attivi, prolifici e significativi. Nell’immediato dopoguerra frequenta il circolo veneziano “La Gondola”, assorbendo la lezione dei maestri dell’epoca, ma emancipandosi quasi subito dall’attività amatoriale, passando con decisione al professionismo. Nel 1954 pubblica alcune immagini sulla prestigiosa rivista internazionale “Camera” ed espone alla seconda mostra della “Subjektive Fotografie”. Nello stesso anno pubblica con l’editore svizzero “Guilde du Livre” il fotolibro “Venise à fleur d’eau”, con immagini in bianco e nero che mostrano una Venezia lontana da quella raccontata dai fotografi nel corso di un secolo, una Venezia vista con gli occhi disincantati di un veneziano, fatta di persone più che di monumenti, di vita quotidiana più che di facciate, palazzi, chiese e canali. “Venise à fleur d’eau” è forse il primo fotolibro pubblicato all’estero da un fotografo italiano, ed è per Fulvio Roiter l’inizio di una carriera lunga ed intensa. L’anno successivo pubblica con lo stesso editore “Ombrie, terre de Saint François” a cui viene assegnato nel 1956 il prestigioso premio Nadar, l’equivalente in fotografia del premio Goncourt in letteratura. La strada di Fulvio Roiter sembra tracciata, dopo i primi leggendari viaggi in Italia, fra Umbria, Toscana e Sicilia, allarga i suoi orizzonti, continuando a pubblicare con editori stranieri, soprattutto svizzeri, una serie di fotolibri dedicati a diversi paesi, regioni o città: “Andalousie” nel 1957, “Bruges” nel 1960, “Persia” nel 1961, “Naquane” (parco rupestre) nel 1966, “Liban” nel 1967, “Mexico” nel 1968, “Brasil”, “Turquie” e “Algarve” nel 1971, “Espagne” e “Tunisie” nel 1973, “Irlande” nel 1974. La quantità non sembra danneggiare la qualità, le sue immagini sono sempre equilibrate, meditate, composte con gusto ed armonia, la ricerca del punto di vista

À fleur d’eau

Addio Fulvio Roiter è originale, quasi mai scontata, il racconto è ampio e piacevole, quasi mai drammatico o eccessivo, i suoi personaggi sono autentici, inseriti in ambienti e paesaggi altrettanto autentici, raffigurati mentre compiono i gesti di sempre. Il passaggio dal bianco e nero al colore all’inizio degli anni Settanta comporta un graduale mutamento del suo linguaggio, che da essenziale e sintetico si fa descrittivo e accattivante, a tratti sovrabbondante, ed al racconto puntuale subentra una ricerca formale di natura diversa, più morbida e meno incisiva. Dalla metà degli anni Settanta in poi, con poche eccezioni come “Viva Mexico” e “Africa” del 1981, il suo interesse torna a concentrarsi sull’Italia, con la pubblicazione di oltre una trentina di fotolibri dedicati a singole zone o città, uno per tutti “Pianeta Italia” del 1987, ed in maniera quasi ossessiva, su Venezia, con fotolibri come “Venezia viva” nel 1973, “Essere Venezia” nel 1977, “Laguna” nel 1978, “Carnevale a Venezia” nel 1981, “L’Oriente di Venezia” nel 1982, “La mia Venezia” del 1994, a cui si aggiungono le riedizioni e le diverse edizioni bilingue. La pubblicazione dei fotolibri non si esaurisce con le opere tematiche, nel 1981 viene pubblicato “Fulvio Roiter fotografo” con testi di Alberto Moravia, nel 2012 Roberto Mutti pubblica la biografia “Fulvio Roiter”. Da autore di libri, Roiter diventa quasi il personaggio di una lunga storia che si articola nello spazio e nel tempo. Il ciclo dei fotolibri veneziani si conclude con “Una vita per Venezia” del 2006, quasi un testamento, quasi un modo di farsi perdonare per i lunghi viaggi e le lunghe assenze, per i vagabondaggi che lo portano in ogni angolo del pianeta, ma che lo riportano fatalmente sempre lì, nella sua città, nella sua Venezia, la Venezia che ha visto il suo primo successo editoriale, ed in cui Roiter si spegne, alla soglia dei novant’anni. Una Venezia che è ancora, come nelle sue immagini di allora, “à fleur d’eau”.


23 APRILE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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l Novecento è stato un secolo drammatico e complesso, denso di avvenimenti e colmo di trasformazioni: un contesto storico e culturale che ha segnato profondamente l’uomo moderno e che ha permesso la nascita di nuove forme e tendenze artistiche, capaci di superare gli scarti generazionali e di rinnovare un passato che non poteva più soddisfare le nuove esigenze ontologiche. Lo stato di crisi fu avvertito soprattutto dalla generazione prebellica che visse i drammi della seconda guerra mondiale e che aveva assaporato da vicino le esperienze delle avanguardie storiche, a tratti anche partecipandone. Il loro interesse fu rivolto all’esigenza di reperire una nuova identità, scrutando se stessi e la cultura figurativa europea per metterne in luce gli elementi primari. Paradigmatica fu la prassi di Zoran Mušicˆ che nei primi disegni immortalò l’orrore della prigionia nei lager nazisti. Il campo di concentramento venne vissuto come un’esperienza personale, un’occasione intima di analisi e di introspezione e nelle carte affidò, con pochi tratti essenziali, il senso di abbandono e di sfinitezza che lo avvolgeva. Il disegno raggiunse una connotazione estrema e inimmaginabile, in cui la prospettiva della morte predominava sulla realtà quotidiana. Per l’artista rappresentare il dramma umano del genocidio manifestò un’esigenza espressiva e comunicativa che solo un pittore può possedere. Non si trattò infatti di testimoniare un avvenimento o una realtà, quanto piuttosto la scoperta di un rifugio patetico all’atrocità e alla crudeltà del mondo: in una tale atmosfera irreale non c’è più posto per la logica né per la pietà, ma una coabitazione sdrammatizzata fattasi quotidianità. Dall’esperienza di Dachau Zoran Mušicˆ trasse la capacità di ripulire il segno dall’inessenziale, di sviluppare una pittura pure e priva di retoriche visive, capace di comunicare l’indicibile. La poeticità dell’artista venne filtrata da un modo di vedere le cose completamente

diverso: i Cavallini, i Paesaggi e i Motivi riscoprirono una gioiosità infantile inedita e originale. Il dato naturale venne sganciato dalla concretezza del reale attraverso lo slancio lirico e l’essenzialità stilistica e iconografica oltre il tempo. Dalla fine degli anni Quaranta in poi l’opera dell’artista si mosse nella dire-

zione della precarietà umana, nel superamento dell’elemento presente, invocando luoghi senza tempo, in una visione fiabesca e incantata che spinge l’anima nell’eterno fluire del pensiero e pongono l’osservatore nel cammino trascendente dell’Io pittorico, perso in un mondo idilliaco che vaga nelle

La musica

tonalità calde e morbide dei gialli e degli ocra e nell’impasto tenue dell’azzurro. Un cromatismo polveroso che rivendica la semplicità naturale e primigenia di un uomo, il cui spirito è stato portato agli estremi e che nell’Arte ha saputo trovare un riparo sicuro di sopravvivenza e rivelazione.

Mušiĉ


23 APRILE 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

no per costruire una simbiosi perfetta. “Giselle”, composta da Galliano, lambisce i territori della chanson, mentre Lundgren spazia con disinvoltura dal boogie (“Leklåt”) al tango (“Blue Silence”). Fresu tocca vertici notevoli in “Le livre d’un père sarde”. Come il precedente Mare Nostrum, che comprendeva brani

di Jobim/De Moraes, Ravel e Trenet, anche questo contiene alcuni omaggi ad altri autori. Galliano riarrangia con gusto “Gnossienne 1” di Erik Satie, mentre Fresu chiude il disco con una rilettura del monteverdiano “Si dolce è il momento”. I due pezzi confermano che i tre musicisti sanno esprimere la sostanza del jazz europeo anche attingendo a contesti completamente diversi. Il disco possiede una varietà espressiva, una ricchezza timbrica e una sensibilità che vanno ben oltre i confini del genere. Per lungo tempo, almeno fino agli anni Ottanta, il jazz era stato un fenomeno prevalentemente americano. Poi, grazie anche a etichette come ECM, ACT e la nostra Egea, l’Europa si è affermata con una voce autonoma, tanto che oggi le proposte più stimolanti non vengono dagli Stati Uniti, ma dal Vecchio Continente. Non è l’opinione di chi scrive, ma quella ben più autorevole di un esperto come Franco Fayenz.

anche con presenza minoritaria di enti pubblici e privati. Obblighi di rendicontazione e trasparenza saranno identici a quelli previsti per le imprese, con specifici vincoli sulla remunerazione del capitale e del lavoro. Qualora si svolgano attività economiche o d’impresa, non potranno essere distribuiti utili, che vanno a una riserva indivisibile. Solo le imprese sociali potranno distribuire parte minoritaria degli utili, ma con vincoli chiaramente definiti. Associazioni e fondazioni. Maggiore trasparenza e informazioni statutarie, per garantire i terzi e in particolare i creditori; favorite le trasformazioni e le fusioni; previste regole di rendicontazione. Volontariato. Per i Centri di servizio, nati per promuovere e sostenere il settore, è riaffermato il ruolo di erogatori di servizi e potranno essere costituiti solo da soggetti del Libro I del c.c.. Viene introdotto il “principio della porta aperta”, tipico del settore cooperativo, che garantisce una maggiore democraticità. Promossi programmi per sensibilizzare i

giovani nelle scuole. Compensi organi. Specifiche soglie per amministratori, revisori e dirigenti. Consiglio nazionale del terzo settore. Costituito quale organismo di consultazione degli enti del terzo settore a livello nazionale. Vengono eliminati gli Osservatori. Controlli potenziati. Faranno capo al Ministero del Lavoro e saranno svolti, oltre che attraverso le reti associative di secondo livello, anche con i Centri di servizio per il volontariato. Fisco e contabilità. Si prevede una revisione complessiva del sistema da realizzare nei decreti legislativi, al fine di una drastica semplificazione amministrativa e l’utilizzo della contabilità separata. Finanza. Istituiti due distinti fondi per sostenere gli investimenti: uno per le imprese sociali, l’altro per le associazioni di volontariato, di promozione sociale e per le fondazioni. Stimolati nuovi strumenti di finanza: ad esempio, raccolta di capitale di rischio tramite portali telematici e titoli di solidarietà. Immobili pubblici. Saranno semplificate e incentivate le concessioni agli enti del terzo settore.

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dischi ispirati al Mediterraneo sono ormai moltissimi, forse anche troppi, ma Mare Nostrum II (ACT, 2016) si differenzia nettamente dagli altri per due motivi. Anzitutto perché non è legato alla musica tradizionale o alla world music, ma nasce in ambito squisitamente jazzistico. Inoltre perché a due artisti mediterranei – il sardo Paolo Fresu e l’italo-francese Richard Galliano – se ne affianca uno svedese, Jan Lundgren, che viene da un altro contesto geografico e perciò inserisce una nota diversa. I tre solisti hanno collaborato con jazzisti di tutto il mondo – da Baker a Garbarek, da Gaslini a Rava – ma anche con artisti di tanti altri ambienti, come la musica leggera o quella tradizionale. Esponenti prestigiosi del jazz europeo, con questo nuovo lavoro proseguono il progetto che avevano iniziato con Mare Nostrum (ACT, 2007), all’epoca accolto molto favorevolmente

Roberto Giacinti rogiaci@tin.it di

Avviato nel 2014, il Senato ha finalmente approvato il ddl n. 1870, recante delega al Governo per la riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale. Per terzo settore si intende il complesso di enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, che promuovono e realizzano, in attuazione del principio di sussidiarietà, attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi. Il terzo settore potrà operare solo in alcuni comparti di interesse generale e potrà essere previsto che in alcuni campi operino solo alcuni soggetti del terzo settore da cui sono escluse le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche. Entro un anno potranno essere adottati appositi decreti per sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche

Tris di assi dalla critica. Tromba, fisarmonica e piano esprimono le rispettive diversità e al tempo stesso le utilizza-

Senza fini di lucro

in forma associata, a perseguire il bene comune. Avremo un Testo unico, il Codice del terzo terzo settore ove pur con caratteristiche comuni riconosciute per legge, i singoli soggetti mantengono le loro specificità e diversità organizzative. Saranno valorizzate reti associative di secondo livello, sia in funzione di rappresentanza, sia per lo svolgimento di attività di controllo nei confronti delle realtà loro associate. Un Registro unico suddiviso per sezioni sarà tenuto presso il Ministero del Lavoro anche se articolato su base regionale. In sintesi: Impresa sociale. La qualifica potrà essere assunta non solo dalle cooperative sociali (di diritto), ma anche da associazioni, fondazioni e da varie forme di società. Si possono realizzare imprese sociali


23 APRILE 2016 pag. 8 Annamaria Manetti Piccinini piccinini.manetti@gmail.com di

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osra era una città con imponenti resti di epoca romana: grande teatro, cittadella, archi, porte, e una basilica paleocristiana. Ma quello che colpiva di più era il fatto che fosse abitatissima con case sulle strutture romane: una specie di Matera, ma appoggiata e sostenuta da resti archeologici monumentali: galline e altri animali domestici giravano intorno alle case, alcune tenute con cura, altre quasi capanne per rimesse; e tanti ragazzini che giocavano liberamente. Dalle ultime notizie sembra che sia una delle città più colpite, centro di scontri feroci. Altrettanto può dirsi di Sueida, animato villaggio del sudovest, dove vere e proprie case che risalivano al periodo imperiale romano, erano abitate da Drusi. Qanawat, a sud ovest, aveva un grandioso parco archeologico di epoca romana, di cui non è possibile non ricordare lo spettacolare acquedotto, rimasto attivo per secoli e fonte vita per la popolazione. Un grandioso tempio pagano del II-III sec., divenne basilica paleocristiana del IV sec. e ancor oggi impressiona per la grandiosità tutta imperiale della costruzione (Qanawat all’epoca fece va parte della Decapoli ed ebbe un grado particolare di autonomia). Lasciando le “Città vive”, oggi morte, o colpite a morte. Palmira Una traversata in un deserto rosato del primo mattino. Una luce azzurrina del cielo e poi… la comparsa di una città, o qualcosa di simile, di un colore della stessa tonalità della sabbia del deserto, ma più forte, più luminoso. Quanto la città di pietra stupisce L’Oasi di Palmira (Tadmor ): vedere, dopo la traversata del deserto, tutto quell’ondeggiare di palme e tutte quelle coltivazioni, orti, frutti ecc. sembra veramente un miraggio. Lì vivevano famiglie da tempo immemorabile, grazie al dono di una fonte perenne. Vi è qualche asino e dromedario in riposo, senza contrasto. A Palmira, i resti archeologici sono spettacolosi,

Siria: alla ricerca di paesaggi perduti

co esaltante, una specie di sindrome di Stendhal, ma ‘attiva’, da cui scuote appena la la vista del castello arabo di Qalaat in cima alla collina. Certo anche la suggestione storica di

Zenobia - divenuta leggenda - può avere la sua parte; ma personalmente ho la capacità di immedesimarmi nell’emozione del momento senza orpelli. In questi giorni alcuni notiziari, ottimistici e ignari di che cosa significa ‘archeologia’, dicono soltanto “semidistrutta”. Mai e poi mai riuscirò a pensare che tutto questo non esista più o sia stato violato al punto da rompere ogni incanto.

svolto per il referendum sulle trivelle. Media nazionale dei votanti 32%. Ma in Toscana vota solo il 30,8%. Ancora una volta sotto la media. Nel giro di pochi anni si sta consolidando una tendenza che inverte una tradizione: quella di un affluenza al voto media-alta. E le cosiddette “regioni rosse” sono quelle più colpite. Tanto che anche qui il non-voto è ormai il primo partito: il Pd continua a vincere contro gli altri partiti, ma perde di brutto contro l’astensione. Dal Pd mi sarei aspettato ricerche e seminari, studi e convegni per capire e interpretare questo fenomeno, per dare voce al non-voto e cercare rimedi a questa “malattia” che colpisce la partecipazione. Invece dopo le elezioni regionali in Emilia e Calabria del 2014 il premier su twitter scrive “2-0 per noi”. Anche nel 2015

commenti limitati alle poche ore successive alla chiusura dei seggi. Si è trasformato il non-voto al referendum del 17 giugno in un’espressione di consenso nei confronti del governo. Scioglie così il dubbio amletico: l’astensione non è un problema, ma una risorsa. Non la penso così. E avverto due rischi. 1. Non si tratta di indifferenza o disinteresse ma, al contrario, di elettori insoddisfatti verso questa politica carente di onestà pubblica. E nelle regioni “rosse” di elettori delusi dal Pd, per come opera, per quello che propone o non-propone. 2. Il rischio, serio, è che se questa insoddisfazione verso l’attuale offerta politica si prolungherà nel tempo gli elettori che hanno scelto il non-voto diventino, allora si, del tutto indifferenti e disinteressati. Trasformando l’Italia in un democrazia zoppa.

Parte 2

com’è noto. La sensazione che si riceve percorrendo la via colonnata è quella d’immettersi in un passato così presente che per un momento si può avere una sorta di transfert psicologidi

Da sinistra due scatti di Bosra e Qanawat - basilica IV sec. poi moschea. Foto di Annamaria Manetti Piccinini.

Remo Fattorini

Segnali di fumo Voto o non voto: questo è il problema! Un dubbio amletico che sempre più spesso, soprattutto nelle regioni “rosse”, si trasforma nel non-voto, nello stare a casa, nel rinunciare. La conferma ci arriva dalla vertiginosa crescita dell’astensione. 2014. In Emilia Romagna si vota per rinnovare il consiglio regionale: ma il 67% degli elettori non vanno alle urne. 2015. Il 31 maggio si vota in 9 Regioni, tra cui la Toscana. In questa occasione vanno alle urne il 52%. Ma in Toscana l’affluenza si ferma al 48, il 4% in meno rispetto alla media. 2016. Domenica scorsa si è


23 APRILE 2016 pag. 9 Andrea Caneschi can_an@libero.it di

R

aggiungiamo Lao Cai da Hanoi, con un treno notturno in “cabine Vip” a due letti, lussuose per gli standard locali, ma piuttosto sacrificate per dei viaggiatori dall’opulento occidente, tuttavia suggestive di comodità riservate a pochi. Le fermate notturne, in stazioni perse nel buio, si animano di silenziose figure cariche di pacchi e pacchetti, che cercano lungo i binari gli accessi a carrozze che immaginiamo ben più spartane delle nostre, con l’aiuto della fioca luce di qualche torcia elettrica. Da Lao Cai ci muoviamo in auto, dopo una veloce colazione, diretti a Sa Pa, a 1600 metri tra le montagne a nord ovest di Hanoi, lungo una strada di montagna ben tenuta, frequentata da un rado traffico locale, prevalentemente motocicli, pochi camion, e pulmini di turisti. Ci arrampichiamo con l’auto per visitare queste zone abitate da minoranze etniche, coinvolte dal governo in uno sforzo di integrazione che sembra aver stemperato differenze e conflitti anche sanguinosi della guerra, durante la quale queste tribù erano spesso schierate con gli Americani, in una convivenza che oggi appare al turista del tutto pacifica e rispettosa dei costumi e delle tradizioni di queste popolazioni. La cittadina, costruita dai Francesi nei primi decenni del Novecento come stazione climatica per le élite del tempo, è cresciuta intorno alla strada che l’attraversa, intasata da un traffico lento, l’aria di montagna sconfitta dagli scarichi fumosi dei mille motori accesi. L’aria è grigia sotto un cielo ancora più grigio che promette pioggia, ma l’animazione per le strade e nella grande piazza – una specie di arena aperta – è grandissima; al via vai indaffarato delle merci, si aggiunge la passeggiata curiosa dei turisti e il radunarsi, sin dalla mattina e per tutto il pomeriggio, degli abitanti locali, affluiti dai loro sperduti e poverissimi villaggi dispersi sui monti e nelle vallate circostanti, nei loro caratteristici, coloratissimi costumi, che ne denunciano l’appartenenza all’una o all’altra delle diverse tribù insediate in queste

Good morning Vietnam Parte 3

Sa Pa Un paese fra le nuvole montagne. Folate di nuvole o nebbia attraversano il centro cittadino, togliendo visibilità all’improvviso, folate di vento ripuliscono altrettanto rapidamente e riaprono la scena: poco a poco la piazza e le due vie principali si riempiono di gente, gli stretti e precari marciapiedi

vengono occupati da tappeti e da mercanzia sciorinata sopra, per lo più piccolo artigianato per turisti. Accanto, accoccolate su minuscoli sgabelli di plastica o direttamente per terra, donne e bambini di queste genti di montagna; colpisce l’assenza quasi totale degli uomini, im-

maginiamo intenti al lavoro dei campi – risaie dappertutto, in terrazzamenti più grandi e più piccoli, che degradano verso il fondo delle vallate in un effetto spettacolare che l’assenza di sole non riesce a spegnere del tutto – lavoro che scopriremo ancora duro ed arcaico, con il bufalo che tira vecchi aratri primitivi, su pendenze che non potrebbero ospitare nessun trattore. Si sta preparando il grande mercato notturno, che animerà la cittadina fino alle ore serali, offrendo ai turisti l’occasione fugace di un contatto con culture tanto diverse, qui purtroppo colte in un contrasto di immagini tra povertà arcaica e modernità sfacciata. Alle donne, coloratissime con i loro vestiti, scialli e cappelli secondo la foggia del gruppo etnico di appartenenza, si affiancano i bambini, come sempre numerosi, questa volta sporchi e stropicciati, ma sorridenti e pazienti, affettuosamente responsabili dei fratellini, che le madri impegnate nel mercato hanno affidato alla loro attenzione: se li portano per mano, li tengono nel gruppo o se li caricano sulle spalle, negli scialli colorati usati come porta bebè, come tanti piccoli genitori responsabili. Immagini che non sai quanto fresche e vivaci di uno stile di vita semplice, ma affettivamente carico, e quanto invece tristi, di una miseria irreparabile, che costringe bambinetti di cinque, sei anni nel freddo della sera, a piedi scalzi nelle ciabatte di plastica che tutti qui usano, a fermare i turisti per chiedere di poter partecipare appena un poco al disinvolto benessere che viene per lo spettacolo del mercato e dà spettacolo esso stesso. Vedremo il giorno successivo un vero mercato, non per turisti, la stessa miseria, ma contestualizzata in un vissuto di socialità articolate, un’occasione di incontro e di scambio, dove il valore economico della vendita vale quanto il ritrovarsi e raccontarsi in un mondo antico, ma poi non così distante dalle occasioni sociali delle nostre fiere di campagna, ancora nella metà del secolo scorso.


Bizzaria degli oggetti

23 APRILE 2016 pag. 10

Atabagico Dalla collezione di Rossano

Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it a cura di

S

i intende per atabagico un prodotto che più che curare la dipendenza dal fumo di sigaretta, elimina gli effetti intossicanti della nicotina che si assorbe fumando. La sostanza così denominata è estratta dal crescione (nasturtium officinale), pianta che cresce lungo i corsi d’acqua e che pare abbia il potere di sciogliere e far sparire la nicotina negli esperimenti in vitro. Per disintossicarsi occorrerebbe mangiare un piatto colmo delle sue foglie, condite con olio e limone, a digiuno, per almeno venti giorni...In alternativa chiunque si può preparare un ottimo sciroppo mettendo in infusione crescione, timo, e fumaria, acqua e zucchero, con un paio di bicchieri al giorno per molto tempo si può continuare ad asfaltarsi e sfondarsi i polmoni con profonde aspirazioni di fumo di sigaretta! Consigli di erboristeria forse recenti, un po’ prima degli anni ‘50 esistevano compresse e sciroppi, venduti in farmacia penso, e reclamizzati come disintossicanti dal fumo, ma con anche il fine di scoraggiarlo direi, almeno osservando i manifesti pubblicitari scovati chissà dove dal solito Rossano. In uno un polpo con sigaretta in bocca avviluppa un ignaro ed armato di coltello fumatore, nell’altro un cervello viene circondato da volute di fumo infestanti. In un altro, dal minaccioso colore rosso, cervello laringe e polmoni vengono colpiti da sigarette-pugnali. Per il quarto servono parole speciali, è opera di Silvano Campeggi, che sempre si è detto e firmato Nano, nomignolo affibbiatogli dalla madre. Trattasi di artista fiorentino,oggi 93enne, famosissimo creatore di una serie infinita, dicesi più di 3000, di manifesti cinematografici di film hollywoodiani e non solo, fra essi che so Casablanca, Via col vento, West Side Story, A qualcuno piace caldo, La gatta sul tetto che scotta, Bambi...Sua passione assoluta, molte volte ritratta, fra le tante attrici che ha conosciu-

to, Marilyn e chi se no? Nano stesso ha raccontato “Era il 1957, l’avevo disegnata per Il principe e la ballerina. La Warner m’invitò a conoscerla di persona. Non avevo mai viaggiato in aereo e in prima classe: rimasi impressionato dal fatto che lo champagne non ondeggiasse nella coppa. Nello studio di Holywood la Monroe, ritardataria cronica, non arrivava mai. A un tratto, la visione. ‘Maestro, do I need to get undressed?’, cinguettò. Maestro, devo spogliarmi? Furono le sue prime parole” E lui sono venuto fin qui apposta... Le case produttrici gli inviavano le pizze con i film, li vedeva in anteprima e cercava di condensarne senso e bellezza in una immagine. Ritrattista di molti divi e non solo. Mostre su mostre negli ultimi decenni, un autoritratto agli Uffizi e gloria imperitura fra cinefili e non solo. Ha smesso di fumare a 80 anni... forse nel ‘48, quando dipinse il manifesto per l’Atabagico, sperava di convincere se stesso ad usarlo... Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Toproletari di tutto il mondo unitevi Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni


23 APRILE 2016 pag. 11 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

U

scì nel ‘46 e nei decenni successivi è stato quasi dimenticato. Per questo è importante la nuova, pregevole edizione del “Diario Fiorentino” di Gaetano Casoni (Polistampa, pp. 320, € 18,00), dal piccolo formato che allude all’intimità del cuore, della sofferenza e dell’impegno che hanno ispirato le sue pagine. È la ‘piccolezza’ di un protagonismo quasi inevitabile ma umile, tenace. Gaetano Casoni - avvocato e uomo sensibile all’espressione delle arti, collezionista di quadri, in contatto con artisti del calibro di Lewellyn Lloyd - non ne aveva certamente bisogno; aveva una famiglia, la propria attività e non pochi interessi. Un’attenzione continua ai problemi, alle emergenze individuali e collettive della comunità fiorentina, una sollecitudine per gli altri salgono sommessamente da queste pagine. Fu uomo di parte, prudente ma senza equivoci e soprattutto senza mai scadere nella faziosità, mettendosi in condizione di stabilire ponti tra le parti confliggenti ed essere così utile, incisivo. In gioco era tutto: la vita, la dignità umana. Di quel contegno incline a mantenere al centro l’uomo, il singolo al di sopra di ogni casacca, troviamo il segno lungo lo sviluppo dell’intera narrazione ma qui si può rammentare, per esempio, che dopo l’assassinio di Giovanni Gentile egli versò una somma in sua memoria a favore dei profughi e dei sinistrati, gesto che gli avrebbe procurato qualche infondata e gratuita insinuazione. Il problema, in quell’estate del ‘44, era la gestione del trapasso dei poteri e il disarmo delle formazioni fasciste. Dalla sua posizione di persona stimata, ferma ed autorevole, gestì un ruolo di intermediario di fatto tra C.T.L.N. ed ultimi rappresentanti della Repubblica di Salò. Proficue furono anche le relazioni con il console tedesco Wolf, al quale riconosce di essersi “addirittura prodigato per evitare i peggiori soprusi ed errori”, a dimostrazione che non tutti i tedeschi erano (almeno intimamente e, in qualche caso, anche formalmente) nazisti e che molti tra loro, pur operando sotto un’insegna intollerabile - non di rado lancinati da profondi conflitti interiori -, non avevano smarrito il

Resistenza liberale

senso di umanità. Le trattative furono interrotte nel mese di giugno, al diffondersi della voce che Alessandro Pavolini stava organizzando squadre di franchi tiratori. Ma la fattiva preoccupazione di risparmiare a Firenze dolori, sacrifici e Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

S cavez zacollo

perdite umane avrebbe proseguito, convergendo con l’incessante opera del Cardinale Elia Dalla Costa e del suo Segretario Monsignor Giacomo Meneghello. Si può dire che Casoni sia stato espressione di quella tradizione

cattolica e liberale fiorentina che ha lasciato una qualche traccia - si spera non proprio effimera - nella storia della comunità. Va anche ricordato, con Giulio Conticelli (Istituto Storico della Resistenza) come il “Diario” ci permetta di osservare “l’ampia costellazione di esponenti del ceto forense che a Firenze furono attivi nella Resistenza e che vennero poi a costituire nell’immediato Dopoguerra i gruppi dirigenti sia delle istituzioni cittadine sia degli organi politici dello Stato repubblicano”. Compaiono, qua e là, uomini di varia estrazione e fede politica – cito tra tutti Eugenio Artom, Adone Zoli, Giuseppe Poggi. Infine il “Diario” è una testimonianza importante, oltre al resto, della vita quotidiana a Firenze prima e durante i giorni terribili (tra fine luglio e la prima metà di agosto): Casoni vi si inserisce come una sorta di Cincinnato, che si occupa della ‘res publica’ (nel senso più sostanziale) e si dà anima e corpo per essa, mettendo a repentaglio la propria incolumità. Ma un attimo dopo che non sarà più necessario, tornerà alla vita di sempre e alla professione. Il “Diario” corre di pari passo con questa parentesi, che si apre e si chiude senza strascichi, né pretese. La resistenza di cui, a distanza di oltre 70 anni, ci parla quest’opera non è solo quella contro un regime totalitario; vi leggo, sotto traccia, anche quella contro l’idea che la politica sia un servizio permanente effettivo, prestato da gente che non ha molto da dare e tutto da prendere.


23 APRILE 2016 pag. 12 Siliani Siliani s.siliani@tin.it di

S

i celebra ovunque nel mondo il quattrocentesimo anniversario della morte del bardo dell’Avon, William Shakespeare, avvenuta il 23 aprile 1616. Scomparsa che, nonostante la fama ormai affermata, non fu celebrata – se non da pochi – nel 1616. Certo fu sepolto nel coro della Holy Trinity Church, la chiesa parrocchiale di Stratford, ma non per la sua fama bensì per il pagamento della decima di 440 sterline. Altri suoi contemporanei, come il commediografo Francis Beaumont morto nello stesso anno o come Ben Jonson, ebbero l’onore post mortem di essere sepolti nella cattedrale di Westminster. Non risulta che gli fosse pagato un tributo pubblico per il suo genio artistico. La sua morte fu un evento locale. Stephen Greenblatt, in un articolo sulla New York Review of Books dal titolo “How Shakespeare Lives Now”, ci fornisce una bella interpretazione di questa scomparsa in sordina, partendo dalla scomparsa nel 1619 del famoso attore Richard Burbage cui, a differenza di Shakespeare, fu riconosciuto un pubblico tributo e una sorta di lutto nazionale. Una elegia anonima così motivava questo dolore nazionale per la perdita di Burbage: “...e con lui, quale mondo è morto, che lui ha fatto rivivere, che non potrà mai più risorgere: il giovane Amleto, il vecchio Hieronimo, re Lear, il Moro afflitto, e altri che hanno vissuto in lui sono adesso morti per sempre”. Che cosa suggerisce questa elegia? Che per molti suoi contemporanei, la vera vita dei suoi personaggi non era nei testi shakespeariani, ma nella rappresentazione teatrale di quei testi. Questa, sostiene Greenblatt, era anche la dimensione sociale del suo tempo. Sebbene l’arte teatrale di Shakespeare producesse piacere, non era un tipo di piacere che determinava una distinzione culturale a chi lo gustava. Shakespeare era il maestro dell’intrattenimento di massa, tanto accessibile agli illetterati quanto alle èlite. Le sue opere teatrali mescolavano l’alto e il basso in una sorta di carnevalesca violazione di ogni

400 Shakespeare

regola sociale; era indifferente alle regole e ostile alla definizione e all’adeguarsi ai confini del gusto letterario; il successo che le sue opere riscuotevano era, in qualche modo, sovversivo. Non a caso la prima edizione delle sue opere (commedie e tragedie) che attestò l’altezza della sua cultura, arriva sette anni dopo la sua morte ad opera degli amici J.Hemings e H.Condell. E solo allora, Ben Jonson per la prima volta dimostrò e dichiarò il significato più generale della sua produzione artistica, “sdoganandolo” dalla nicchia popolare

per elevarlo - “nonostante abbia poco latino e ancor meno greco” - a poeta “non di un’epoca ma per tutti i tempi”, un artista globale. Ma la grandezza e il crescente e persistente successo dell’opera di Shakespeare, prosegue Greenblatt, sono dovuti anche alla sua volontà di distaccarsi dalle sue opere, di lasciarle andare. Così, per secoli, abbiamo amato la sua arte a prescindere dalla sua vicenda biografica, finanche dalla sua identità e dubbia esistenza. I suoi personaggi hanno preso vita autonoma e

Michele Morrocchi twitter @michemorr

Il cannibale ciclista

di

Eddy Merckx era il cannibale. Un corridore così forte da addentare ogni trofeo, annichilire ogni concorrente, piegare la giustizia sportiva. Un ciclista così forte da ergersi su un intero periodo storico, talmente alto da coprire con la sua ombra chiunque altro. E “L’ombra del cannibale” è il titolo dello spettacolo, tratto dall’omonimo libro edito da Instar, di Marco Ballestracci al Teatro Dante Carlo Monni di Campi Bisenzio nell’ambito di Campi in gioco, rassegna di teatro dedicata allo sport; quest’anno dedicata al ciclismo visto che la cittadina della piana è tappa anche del giro di Italia. Lo

spettacolo, in tempi di narratori improvvisati su un palco, è un vero e proprio spettacolo, con tempi giusti, le emozioni e le musiche di Claudio Cecchetto alla fisarmonica. Una storia che

hanno, per secoli, agito liberamente e interagito con tempi e società diverse da quelle del loro creatore; hanno agito per conto di Shakespeare, ma non in suo nome e comunque senza vincolo di mandato. Lui, Shakespeare, è stato un grande “distributore di personalità”, ma anche il loro liberatore, affidando ai suoi personaggi un solo messaggio, una sola regola: “rompete ogni schema, infrangete le regole, devastate i recinti che pretendono di costringervi in gabbie stilistiche o morali: siete e siate liberi!”

vale la pena di essere raccontata, quella del cannibale e dei corridori alla cui ombra vinsero e (soprattutto) persero, che Ballestracci tratta con l’amore del bambino tifoso che lui era quando Merckx macinava chilometri e avversari. L’emozione di fughe eroiche, di tragedie sportive e umane, la tensione del bambino inginocchiato davanti al televisore, sono rese identiche e trasmesse con forza allo spettatore, che si gode l’epica di un ciclismo che forse non era già più “pulito”, ma era ancora abbastanza epico, sicuramente irrecuperabile. Uno spettacolo che apre una serie di appuntamenti sul ciclismo, lo sport probabilmente più teatrale che ci sia.


23 APRILE 2016 pag. 13 Claudio Gherardini claudiogherardini@gmail.com di

I

domeni domenica 17 aprile 2016 A.C. Tutti i diritti umani in tempo di pace e soprattutto in tempo di guerra sono sistematicamente violati ogni giorno da molte settimane a Idomeni. La foto di gruppo come sempre l’ho guardata dopo averla scattata e mi sembra incredibile. Questo gruppo aveva raggiunto legalmente la Fyrom e il confine con la Serbia distante 200 km circa a nord. Fermato dal blocco con altri 800 circa, invisibili, in un centro statale in tendoni giganti. Sabato 9 aprile alle 4 del mattino sono stati svegliati in malo modo e scaraventati stipati in una camionetta militare che li ha riportati per le 6 di sabato mattina alla famosa rete di confine fatta dagli stessi militari Fyrom, dove sono stati infilati e cioè ributtati non distante da Idomeni. Hanno prove cartacee e video. La seconda foto dimostra che agli scalmanati che hanno provocato i militari Fyrom non è stata risparmiata una risposta esagerata. La terza foto è di un bimbo che stamani è ripartito per un centro legale governativo greco con la promessa che la famiglia avrebbe avuto una stanza e non un posto in un capannone con altre centinaia. Cosa che non credo proprio abbiano poi trovato. Stamani poi abbiamo visto persino un bus di visitatori turistici che ha attraversato tutto il campo indisturbato sfruttando l’effetto sorpresa. Se ne arriverà un secondo non so come andrà. Qui stanno perdendo ogni speranza e non hanno più niente da perdere. L’inedia, il tempo che scorre senza significato. Migliaia di bambini a rischio. Non si è detto ma fra i primi riportati in Turchia dalla Grecia ci sono stati suicidi. Verifichiamo assieme questa notizia se la troviamo. Domattina riparto e mi fermo all’ambasciata italiana a Skopje a raccontare qualcosina al vice ambasciatore. Lacrime amare nel lasciare il mio ormai fraterno amico Mohammad e questo osceno ZOO dell’orrore che rimarrà come macchia letale per l’Unione Europea. Buona giornata

Andarsene in lacrime dalla valle di lacrime


23 APRILE 2016 pag. 14 di

Cadere nel cielo

Francesco Gurrieri

Portatore di case e di cieli, 2013, olio su tavola centinata in cornice dorata, cm 73x40

L

a Valdinievole è la più silenziosa, la più dolce, la più incantevole delle valli toscane. da Coluccio salutati al Giusti, al Fucini e Ferdinando Martini, è riuscita a rimaner fuori dalla virulenta occupazione turistica manifestatasi altrove così che, ancor oggi, affacciandosi da Monsummano Alto o dalla terrazza di Massa Cozzile è ancora possibile godere di un paesaggio che ben ritroviamo negli sfumati di Leonardo. Così, passata serravalle e la Torre di Castruccio, prima di arrivare a quella città di “nuova fondazione” voluta dal Granduca Pietro Leopoldo e progettata da Gaspero Maria Paoletti, oggi nota come Montecatini Terme, si traversa il territorio di Pieve a Nievole. Qui, adagiato a godere del sole “a bacìo”, c’è lo studio di Roberto Giovannelli, di un artista vasarianamente formatosi, fra la pittura, la scultura, le biografie e la letteratura artistica. Ma Giovannelli è, soprattutto, un genius loci, davvero un’entità naturale e soprannaturale oggetto di culto e legata a un luogo: la Valdinievole, appunto! infatti, anche se ha insegnato all’Accademia di Firenze, di Bologna, di Carrara e si è formato alla Rijksakademie di Amsterdam, siccome nullus locus sine Genio, alla fine, è proprio qui, nella silenziosa Valdinievole, che possiamo ancora godere di uno studio d’artista, di una conversazione, di una riflessione filologica quieta e appagante. È ciò che ho provato io, recentemente, in visita in questo atelier dove gli olii, le tempere, i pastelli, le sculture, sono un tutt’uno con le monografie d’arte, con i trattati, con i tanti appunti che accompagnano i suoi studi e i suoi amori, da Giovanni da Sangiovanni al meno noto artista dell’ottocento. Già, Giovanni da Sangiovanni, un artista considerato “secondario” fino ad alcuni decenni or sono (se pur nobilitato dai lontani studi del Giglioli e della Banti), tanto da mandarne quasi in malora le meravigliose lunette del portico della santa Maria della Fontenuova; lunette che, come dimostra l’ultimo omaggio del Giovannelli, devono essere

state determinanti per la sua vocazione artistica e per la sua “cifra” espressiva: ritengo infatti che il tondo degli Uffizi di Giovanni Mannozzi da Sangiovanni – Apollo e Fetonte – sia da considerare il paradigma dell’intera sua ispirazione. La geometria compositiva, la delicatezza cromatica, la postura delle figure fanno di quest’opera quasi l’apparato generativo della vasta e pur sempre meditata pittura (intellettuale) del nostro Artista. Ma cosa fa del linguaggio di Giovannelli una continua affascinante vibrazione poetica, distinguendola, ad esempio, da compagni di viaggio a lui non lontani come Roberto Barni o Andrea Granchi? La

risposta la troviamo in un passo autobiografico di una lettera scritta a Pier Carlo Santini nel 1976: “Tra le maniere di esprimersi il disegno e la pittura, le tecniche più antiche della rappresentazione, sorelle della luce e delle ombre (generate dalla mente e dal cuore della giovane di Corinto), sono quelle che formano la sostanza più autentica della mia capacità di comprendere e di comunicare; sono l’anima della mia intuitiva percezione del mondo e i mezzi istintivi del mio linguaggio. La consapevolezza del rapporto reciproco esistente fra tutte le arti, della loro possibilità di combinarsi nelle maniere più diverse, la cognizione che – ars una, species mille – la pittura nelle traiettorie della vita

contemporanea non è la sola maniera di fare arte visiva, suscita in me una determinazione ancora più forte nel seguire la strada della pittura, un fascino grande e dichiarato nei confronti della suprema povertà di questa silente (volubile e naturalmente infedele) ‘Arte Bella’”. Mutuo da Carlo Sisi (Ecfrasi) il richiamo all’eleganza della scrittura pittorica di Giovannelli: “la quieta astrazione dei dipinti di Bugiani ha dunque accompagnato la formazione di Giovannelli, che in alcuni suoi disegni di umili oggetti recupera infatti la nitida definizione del segno di tradizione antica, ma soprattutto sembra far propria l’attitudine spirituale a coltivare l’immaginazione lirica che gli fa eleggere l’atelier domestico a ‘cantuccio’ pascoliano o a scontroso osservatorio del mondo oltre la siepe. I giovani estatici in ammirazione del firmamento, protagonisti di alcuni suoi quadri, come pure l’esile uomo che traguarda dall’edificio in bilico nello spazio immisurabile e silente evadono da quel recinto rassicurante e introverso, ma pur sempre ancorando l’infinito desiderato ai canoni di un’esperienza terrena fatta di conoscenza e di misurazioni, di analisi logica e di meditate ecfrasi, di seste e di matite colorate. Un vento primaverile scompiglia le forme e i colori di risorgente ansia di imbrigliare l’attimo, di trattenere un lembo della veste di Artemisia, di cogliere l’inesprimibile essenza d’una ‘lucciola errante’”. Così si torna alla poesia in Valdinievole e a quell’“attraversare e interrogare la contemporaneità con una visione colta e raffinata, che è attenta a un ideale classico di bellezza che l’artista declina con ironia e leggerezza” (Vezzosi). Si torna ad un angolo di mondo ancora quasi incantato, quasi incontaminato, testimone ultimo di un’Arcadia perduta, che avremmo voluto frequentare e che Giovannelli, appunto, ci ripropone con la discrezione, la leggerezza, l’eleganza della sua “scrittura pittorica”. E di ciò dobbiamo ringraziarlo. Testo tratto da “Cadere nel cielo – di Roberto Giovannelli” a cura di Paola Cassinelli Edizioni Polistampa - 2016


23 APRILE 2016 pag. 15

Un Meridiano per Rebora

Simone Siliani s.siliani@tin.it di

L

’uscita di un Meridiano Einaudi è sempre un evento nel mondo letterario, ma la pubblicazione di questo dedicato a Clemente Rebora (a cura e con un saggio introduttivo di Adele Dei, con la collaborazione di Paolo Maccari, 2015, pp. CXXXIV-1338 € 80) è davvero un evento speciale perché restituisce al grande pubblico un grande poeta, sconosciuto ai più, dimenticato anche dagli addetti ai lavori, come ha ammesso Walter Siti durante la presentazione fiorentina del volume che si è tenuta al Gabinetto Scientifico-letterario “G.P. Vieusseux” il 19 aprile scorso. Diversi fattori concorrono all’oblio di questo poeta. Certamente la sua posizione laterale ai movimenti e centri letterari a lui coevi, a partire dall’ambiente della “Voce”, se si esclude in parte Prezzolini e l’amicizia invece profonda con Boine. Le stesse scelte stilistiche e linguistiche contribuiscono a fare di Rebora un isolato: soprattutto

Cristina Acidini cristinaacidini@gmail.com di

Alla luce della storia degli ultimi decenni, Alighiero Boetti ci appare non solo come un grande artista, di quelli che segnano la propria epoca con opere destinate a restare ammirate e valide nel tempo, ma anche come un intuitivo, autentico profeta, che oggi sarebbe forse un ambasciatore di pace fra i popoli di questo tormentato pianeta. Non per caso, anzi in riconoscimento di tale ruolo, due sue grandi Mappe furono scelte per accogliere, nella Sala dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, il forum internazionale dei sindaci “Unity in diversity” nel novembre 2015. L’ingresso di questo artista del secolo scorso, scomparso nel 1994, nella serie dei professori e maestri che hanno esposto nella sala dell’Accademia delle Arti del Disegno in piazza San Marco rappresenta, per l’Accademia stessa, un motivo di soddisfazione nell’averne confermato il proprio ruolo odierno, in sintonia con i movimenti e le personalità di maggior rilevanza nell’arte del passato recente e del presente. E per questa mostra ringrazio vivamente l’Archivio Alighiero Boetti, il

la sua prima compiuta prova poetica, i “Frammenti lirici”, centrata sul dissidio fra natura e storia, fra autenticità e artificio, fra città e campagna che però si riflette nella condizione psicologica dell’Italia dell’epoca (1913), è costruita su schemi lirici, metrici e sintattici complessi e oscuri (pensiamo al Frammento “Dal grosso e scaltro rinunciar superbo...” in cui il soggetto, la vetta, arriva dopo 45 versi). Inoltre, il lungo periodo di silenzio compositivo dopo il 1930 e

la conversione al cattolicesimo, hanno contributo all’oblio di questo grande poeta. Eppure, Rebora ha interpretato nelle sue prose di guerra quanto e più di Ungaretti il dissidio storico del suo tempo, giacché – come ha concluso Fortini che non poco si è occupato di Rebora - “non è possibile ridurre il dissidio reboriano né a una situazione psicologica né ai termini della scelta religiosa”. Basti ricordare l’incipit di Voce di vedetta morta: “C’è un corpo in poltiglia/

Il filo del pensiero di Boetti

curatore Luca Tomio e tutti i professori della nostra Accademia che a vario titolo hanno collaborato, a partire dal Segretario Generale, dal Tesoriere e dalla Segreteria, con l’indispensabile contributo dei sostenitori privati. La selezione di opere presenti nella

mostra propone i temi frequentati da Boetti in un arco di tempo che va dagli anni Settanta – con i primi ricami realizzati in Afghanistan fino alla guerra del 1979 – poi ripresi alla metà degli anni Ottanta e proseguiti fino ai primi anni Novanta, grazie alla rinnovata

con crepe di faccia, affiorante / sul lezzo dell’aria sbranata. / Frode la terra. / Forsennato non piango: / affar di chi può, e del fango. / Però se ritorni / tu, uomo, di guerra / a chi ignora non dire; / non dire la cosa, ove l’uomo / e la vita s’intendono ancora...”. Così, in qualche modo, si compie in queste liriche la lacerazione psicologica presente nei “Frammenti”. È vero che poi, dopo la conversione, la sua produzione diventa meno elevata, più controversa, intermittente, marchiata da un nichilismo estremo, quasi di preparazione alla morte soprattutto nei suoi “Canti dell’infermità”. Eppure, come ha rilevato Walter Siti, Rebora ha avuto un indubbio influsso su poeti come Montale e Sbarbaro. Il Meridiano reboriano ha il merito indubbio di riproporre poesie, prose e traduzioni di questo poeta ingiustamente dimenticato, con apparati di note, cronologia e documentazione importante, compresi epistolari finora inediti.

collaborazione con le donne afghane tra i fuorusciti di Peshawar, in Pakistan. Opere tutte di alta qualità, alcune – le più antiche – assai rare, che bene espongono nella sintesi del medio formato la complessa poetica di Boetti: dal principio semiotico mutuabile da Ferdinand de Saussure, secondo cui il segno (qui, visivo) è l’unione di significante e significato, all’elemento materico tessile scelto, predisposto e infine affidato a mani sapienti, che ci conduce nella sfera delle abilità tecniche non meno profondamente intrinseche e necessarie alla creazione artistica. Un’Accademia come la nostra non può che riconoscersi in un processo che vede protagonista il Disegno, dallo schema progettuale all’ultimo punto dato sulla stoffa, in quel profondo riconoscimento del lavoro umano che Alighiero Boetti ha saputo elevare al livello della più alta espressione dell’arte. Testo tratto dal catalogo della mostra all’Accademia delle Arti del Disegno Firenze “Alighiero Boetti – il filo del pensiero” – a cura di Luca Tomìo – Edizioni Polistampa - 2016


lectura

dantis

23 APRILE 2016 pag. 16

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Il suon d’un corno si fece cantante venendo a noi da una grande altura non fu, quello d’Orlando, sì aberrante,

se nel profondo buco noi guardiamo, più chiaro ti sarà andando avanti, non son grandi palagi che crediamo

Voglion volare alto senza l’ali soverchiatori delle altrui ragioni uom di potere senza gli d’ideali

torri vidi apparir pien di paura Vate, chiesi: ma in che posto siamo? Quel che tu hai l’è un’accecatura

ma i figli di Gea, gli alti giganti, in terra troverai credenti tali girati intorno, ‘e ce ne son tanti

almeno questi quì son de’ vagoni e impression ti fan davanti agli occhi chi le tue terre tien son de’ cialtroni

XXXI Canto verso il IX cerchio

Nell’immenso pozzo i giganti ribelli sono incatenati. Soltanto Anteo gigante eroe che da solo avrebbe potuto sconfiggere gli dei, non è in vincoli. Virgilio si rivolge a lui e chiede aiuto per discendere in fondo al pozzo. Anteo ormai vecchio ma ancora vigoroso li fa salire nel cavo della sua mano e li depone ai bordi del lago ghiacciato

quei che conosci te son de’ pidocchi, ma andiamo verso ste’ montagne d’omo quel che tu vedi è anima da sciocchi malvagio e gretto Nembrot fa di nomo inutile parlar nulla lo muove. Questo a sinistra di catene domo volle lottare con il sommo Giove Fialte si chiama, stretto per l’eterno. E Briareo, dimandai, ove si trove? , Lungi da noi egl’è verso l’esterno imo trovar un libero di questi, disse la guida col suo far paterno e Anteo ci porterà come dei cesti giuso al pozzo già strapien di ghiaccio. Al loco senza dir giungemmo lesti


23 APRILE 2016 pag. 17 Roberto Mosi mosi.firenze@gmail.com di

È

stato presentato di recente al Museo del Novecento di Firenze l’ultimo libro di Milo De Angelis “Incontri e agguati”, della collana “Lo Specchio” di Mondadori (2015). Si è trattato di un’iniziativa d’indubbio interesse per l’insolita cornice museale e per la presenza di questo famoso poeta italiano. Milo De Angelis è nato a Milano 65 anni fa ma è legato a Firenze, amico di Piero Bigongiari e altri illustri personaggi fiorentini. L’incontro è stato promosso dalla Scuola di scrittura creativa della rivista “Semicerchio”, fondata a Firenze da Francesco Stella nel 1989, che ha ospitato lezioni e incontri con alcuni degli autori più importanti della letteratura italiana e internazionale. All’inizio un gruppo di allievi del Laboratorio di poesia “Semicerchio” ha letto alcune poesie di “Incontri e agguati” e in seguito sono intervenuti alcuni degli interpreti più accreditati della poesia di quest’autore, Luigi Tassoni (Università di Pecs, Ungheria), Luigi Prete (Università di Siena), la poetessa fiorentina Elisa Biagini. Luigi Tassoni ha illustrato le parti che compongono il libro: la prima sezione, Guerra di Trincea, introduce al tema della “conversazione con la morte”, che si configura come una Michele Rescio mikirolla@gmail.com di

È uno dei piatti nazionali argentini e significa “uccidi-fame”. Da notare che in Argentina viene considerato come un piccolo assaggio di carne prima di altri ben più sostanziosi piatti Ingredienti per 6 persone: 1 kg di controfiletto di manzo 1 dl aceto di vino rosso 1 cucchiaino di aglio in polvere 2 cucchiaini di timo Per il ripieno: 250 g spinaci freschi e ben lavati 4 carote pulite e tagliate per il lungo 4 uova dure tagliate in 4 per il lungo 1 cipolla tagliata ad anelli 3 cucchiai di prezzemolo tritato 1 cucchiaio di sale grosso 750 ml brodo di carne

Incontri e agguati

sorta di leitmov nella poetica di De Angelis, introdotta da un invito al lettore: Questa morte è un’officina/ ci lavoro da anni e anni/ … / Vieni, amico mio, ti faccio vedere,/ ti racconto. La seconda parte del volume è quella che dà il titolo al libro e si apre con una lirica di notevole bellezza: Questa sera ruota la vena/ dell’universo e io esco, come vedi,/ dalla mia pietra per parlarti ancora/ della vita, di me e di te, della tua vita/ … La tematica è quella degli “incontri” e degli “agguati” che cadenzano le nostre giornate, e delle espressioni proprie di un’umani-

tà degradata, emarginata, la cui fisionomia emerge nelle nebbie delle periferie milanesi o sotto il neon di una stazione ferroviaria: Ti ritrovo alla stazione di Greco/ magro e ulcerato da un chiodo/ … La terza e conclusiva parte, Alta sorveglianza, accoglie un poemetto ispirato a un efferato fatto di cronaca e al tema difficile della reclusione: l’attenzione è rivolta a un fatto reale, a un “omicida”. De Angelis – che nel recente incontro al Museo del Novecento ha declamato per intero questa parte dedicata al carcere – insegna peraltro da molti anni a Opera, un carcere di massima sicurezza. Antonio Prete si è soffermato sulla “grazia del pensare-in-versi”, sul “tu” che emerge con una modulazione dolce e amara, allo stesso tempo. Si coglie nei versi una tonalità sommessa, quasi confidenziale che porta a porre domande estreme, una sorta d’incantamento, uno stupore che emerge di continuo. L’aspetto che risalta è la costante presenza della morte non espressa per simboli ma corporea, fisica che ci porta a immergerci nella dimensione tragica della nostra epoca. Alla poesia è affidato il compito, ancora una volta, di porre domande estreme, di intrecciare il dialogo fra le ombre e

L’uccidi fame argentino

500-750 ml acqua Preparazione: fatevi preparare dal vostro macellaio la carne: deve essere una fetta alta circa 1/2 cm, larga circa 30 cm e lunga circa 40-50 cm. Una volta a casa, posatela completamente aperta in una pirofila di vetro o ceramica, bagnatela con l’aceto e spolverizzate con metà dell’aglio e del timo.

Ripiegatela poi a metà e di nuovo bagnate con l’aceto e aggiungete gli aromi rimasti. Ricoprite con la pellicola trasparente e lasciate a marinare per tutta la notte a temperatura ambiente. Riscaldate il forno a 200 gradi, togliete dalla marinata la fetta di carne, scolatela bene e adagiatevi sopra le foglie di spinaci, le carote a fette di circa

la luce. Elisa Biagini ha rilevato come la poesia di De Angelis parla del silenzio, un compito oggi faticoso in un’epoca assediata dal rumore e ammira la capacità del poeta all’ascolto, a cogliere momenti belli, fuggevoli, della vita di altri tempi, immersi nella dimensione della passione, dell’attività agonistica, di tracce della vita della scuola. Leggendo Incontri e agguati l’ultimo libro di Milo De Angelis, tornano dunque in mente, per concludere, le famosissime scene de Il Settimo sigillo di Ingmar Bergman – come rileva in una nota di lettura Francesco Filia - in cui il cavaliere Antonius Block, di ritorno dalle crociate, gioca a scacchi con la Morte che è venuta a prenderlo. Incontri e agguati si presenta come una vera e propria partita a scacchi con la morte, gli scacchi non sono altro che una guerra simulata e, non a caso, la prima sezione del libro è intitolata Guerra di trincea, la guerra di trincea è quella che il poeta, appunto, conduce con la morte. Morte che in parte sembra ritrarsi, in altri momenti incalza, altre volte sembra prendersi gioco dell’io lirico in maniera crudele, altre volte si manifesta come elemento chiarificatore dell’esistenza. 1 cm, le uova disposte nello spazio lasciato libero fra una carota e l’altra, gli anelli di cipolla e per ultimo spolverizzate col prezzemolo e il sale. Arrotolate con delicatezza la fetta in modo da ottenere un cilindro, legatela con uno spago, deponete il matambre in una pirofila con coperchio, bagnatelo con il brodo caldo e aggiungete l’acqua in modo che la carne ne sia completamente coperta. Mettete il coperchio alla pirofila, infornate e fate cuocere per circa un’ora. Appoggiate poi l’arrosto su di un tagliere di legno e, dopo averlo fatto riposare per circa 10 minuti, togliete lo spago e tagliatelo a fette abbastanza spesse bagnandole con il succo di cottura rimasto. Si può mangiare anche freddo.


L immagine ultima

23 APRILE 2016 pag. 18

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

E

ast Harlem, lo dice l’insegna all’ingresso di une dei molti uffici che si occupavano della gestione dei cosidetti “projects”, programmi di edilizia pubblica destinati a famiglie con basso reddito che costituìvano, almeno all’epoca, la maggioranza degli abitanti di questa parte della città. Gli appartamenti non erano ovviamente molto grandi ma lo stato di conservazione dei locali, pur non essendo al massimo, era comunque accettabile rispetto agli standards della città. Gli affitti erano decisamente sostenibili rispetto alle cifre del libero mercato e il clima che si respirava nella zona era, almeno apparentemente, piuttosto tranquillo. Non saprei dire con certezza se questa fosse veramente la realtà dei fatti, ma questa fu la mia percezione al momento.

NY City, agosto 1969


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