Cultura commestibile 172

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

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N° 1

Errore umano; chi ha sbagliato, pagherĂ Dario Nardella Cercheremo il responsabile

Filippo Vannoni

Chercher le plombier editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

28 MAGGIO 2016 pag. 2

Simone Siliani s.siliani@tin.it di

È

trascorso il 450° anniversario della morte di Miguel de Cervantes e il mistero di come il romanzo capolavoro dell’autore continui ad alimentare sogni e passioni di uomini e donne nati secoli dopo di lui resta aperto. Il riferimento metaforico al “Don Chisciotte della Mancia” contenuto nel murales realizzato da un gruppo di artisti adolescenti per contestare il “sistema” è sintomatico di questo mistero. Perché un romanzo tragi-comico del XVII secolo su un matto infatuato dai miti cavallereschi continua a parlare a dei ragazzi del terzo Millennio, tanto che ne usano una immagine per identificare quel Palazzo d’Inverno che la loro adolescenziale follia vorrebbe conquistare? Credo che una risposta vada ricercata in quell’inestricabile groviglio di realtà e illusione attorno cui ruota la vicenda e l’architettura di “El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha” di Cervantes, dove tradizionalmente a Sancho Panza viene attribuito la parte del realismo (il presente, la sopravvivenza quotidiana, la concretezza dei sensi sono le sue Muse) e a don Chisciotte quella dell’illusione (dell’utopia, si direbbe, se non fosse che il Cavaliere dalla Triste Figura vive in un passato remoto, in un tempo che è già stato e che lui, allucinato dalle letture dei romanzi cavallereschi, pretende di sostituire ad un presente ben più triste e grigio). Ma è proprio questa la corretta lettura della dialettica dei due personaggi? Non per amore di paradosso, ma per convinzione in una delle possibili (infinite?) letture del romanzo, vorrei sostenere come forse sia altrettanto vero l’inverso: è don Chisciotte il realista, che si misura con l’obiettivo di trasformare, cambiare la realtà e sarà alla fine trionfante, non sconfitto come comunemente si intende con la sua morte e la “disillusione” finale. È Sancho Panza invece l’illuso, che pensa sia possibile assecondare la realtà lasciandosi trasportare da un mondo che, essendo immutabile, è il migliore dei mondi possibili e che si illude di poter domare la vita cavalcando il presente, ma è la vita, il presente che domina lui. Naturalmente, il genio di Cervantes sta nel tradurre questi opposti in una unità letteraria, quella del romanzo.

“E forse sai che vinco contro i tuoi mulini a vento” Murales presso il liceo Machiavelli-Capponi Firenze

E forse sai che vinco contro i tuoi mulini a vento Ma torniamo al paradosso. Nella storia della letteratura mondiale non sappiamo pensare un eroe sconfitto, folle, comico e drammatico prima di don Chisciotte: egli ci appare il prototipo di molte figure spaesate, malmenate, allucinate e perdenti che hanno segnato la letteratura del Novecento. don Chisciotte non è l’eroe – magari anche sconfitto – che si scontra consapevolmente con un mondo e una organizzazione sociale del presente che rifiuta e combatte;

no, lui non lo riconosce quel mondo, ne vive un altro nel quale i valori sono rovesciati e di cui egli è il paladino. Ma di quali valori parliamo? Quelli cavallereschi, dell’epica medievale? Si, certo, ma non solo. In realtà don Chisciotte è l’alfiere della lettura: posseduto dal raptus della lettura egli pretende di trasformare in realtà ciò che ha letto, cioè i libri di cavalleria. Il fatto straordinario è che don Chisciotte vi riesce, è il trionfatore di questo ciclopico conflitto: egli

Disegno di Paolo della Bella

trasforma davvero la realtà e lo fa stabilmente per i secoli a seguire, attraverso l’invenzione di Cervantes, il romanzo moderno. Ma è ancor più straordinario il fatto che ciò non avvenga a posteriori, dopo che il romanzo è stato scritto, fabbricato e celebrato da una critica e da un pubblico che ha travalicato le generazioni e i secoli. No, è don Chisciotte che scrive il libro di se stesso, il romanzo dentro il romanzo e che alla fine (e anche durante) contempla l’opera che lui stesso sta scrivendo mentre vive quella storia oggetto del romanzo. “Don Chisciotte” è il primo romanzo che contiene la critica della creazione nelle sue stesse pagine ed è una critica dell’atto stesso della lettura e della scrittura. Per inciso, questo elemento è anche la prova della estrema libertà di Cervantes e della sua concezione del rapporto fra passato e presente, fra tradizione e innovazione, fra ortodossia ed eresia. Ma soffermiamoci sul romanzo dentro il romanzo. Il punto più clamoroso di questa innovazione assoluta è quando don Chisciotte, il lettore folle, scopre che lui, il lettore, sta per essere letto a sua volta. Il personaggio letterario don Chisciotte entra in una stamperia a Barcellona (l’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutemberg è di poco più di un secolo prima ed è uno dei fondamenti della modernità): don Chisciotte è a Barcellona per denunciare la versione apocrifa delle sue avventure pubblicate da tale Avellaneda e, passeggiando per la città, vede il cartello, ”Qui si stampano libri”; entra, osserva il lavoro di stampa e si accorge che ciò che sta per andare in stampa è il romanzo di sé stesso, “L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia”, nel quale si narrano cose di cui solo lui e il suo scudiero sono a conoscenza trattandosi dei loro colloqui personali. I protagonisti della loro storia sono così esposti al giudizio della critica, del pubblico. Realtà e immaginazione si mescolano e si confondono: questa è il romanzo (che appunto gli inglesi chiamano fiction). Da allora i libri sono diventati depositari di una verità rivelata dall’immaginazione, cioè dalla capacità umana di mediare tra la sensazione e la percezione e fondare, attraverso questo mediazione, una nuova realtà che non


Da non saltare

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esisterebbe senza il “Don Chisciotte” di Cervantes. Ecco il trionfo di don Chisciotte sulla realtà, dell’immaginazione sul realismo. Il “rinsavimento” di don Chisciotte in letto di morte è la celebrazione della sua vittoria sul presente. Egli non è più don Chisciotte della Mancia, ma Alonso Quijano il Buono, può ripudiare Armadigi di Gaula e “tutte le storie profane dell’errante cavalleria”, perché ha compiuto la sua opera rivoluzionaria: ha terminato il libro (l’oggetto) della sua vita e ora può anche prendersi gioco della vecchia realtà. La passata pazzia, di cui chiede scusa a Sancho Panza, è diventata possibile nel romanzo nuovo che lui ha scritto e è diventata tanto reale che il “realista” Sancho Panza la invoca come trionfo sui grigi dogmi del suo mondo (“non muoia la signoria vostra…e viva molti anni; perché la pazzia più grande che può fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morire…e che non lo faccia perire nessun altra mano fuorché quella della malinconia. ….Se muore dal dispiacere di vedersi vinto, getti pure la colpa su di me…quello che oggi è vinto domani è vincitore”). don Chisciotte ripudia i libri di cavalleria perché vi è un modello nuovo, che è già segnato dal crisma della modernità, l’assurdità cioè l’inverosimile, il fantastico, l’immaginazione, il molteplice: “supplico i suddetti signori esecutori [il curato e il baccelliere nel testo, ma in realtà si rivolge a noi lettori-esecutori delle sue ultime volontà, n.d.r.] che se la buona sorte li portasse a conoscere l’autore che dicono abbia composto una storia che è divulgata in giro sotto il titolo di Seconda parte delle imprese di don Chisciotte della Mancia, gli chiedano da parte mia, quanto più calorosamente è possibile, che mi perdoni per l’occasione che io senza volerlo gli ho dato, di scrivere tante e tanto enormi assurdità quante in essa ne scrive; perché esco da questa vita con il rimorso di avergli dato motivo si scriverle”. Chi è che sta morendo e chiede scusa all’autore della seconda parte del libro? Chi è che riconosce di aver raccontato assurdità? Come realtà e immaginazione si sono sovrapposti per tutte le oltre mille pagine precedenti, così si sovrappongono Cervantes e don Chisciotte (“...egli [don Chisciot-

A 450 anni dalla morte di Cervantes Don Chisciotte fa sempre sognare te] ha saputo oprare, ed io scrivere; noi soli siamo due in uno...”). Ma chi dei due interpreta la realtà e chi l’immaginazione? Cervantes che racconta la cronaca o la fantasia della vita di don Chisciotte? Oppure il cavaliere che ammette di aver vissuto delle assurdità? Ogni confine fra realtà e finzione è superato, abbattuto. È questo il tratto fondante della modernità in letteratura, che subentra al mondo monocorde, immobile del Medioevo: l’immaginazione del moderno nasce da un apparente anacronismo, cioè il protagonista di un romanzo, instancabile lettore di romanzi del passato, che si imbatte nel mondo moderno e invece di pretendere di ricondurre tutto ad unum, accetta la diversità, il molteplice, l’immaginazione come architrave di un mondo nuovo. Ed è la finzione (cioè la lettura, la letteratura) che rende credibile un’altra realtà. Per innovare, ci dice don Chisciotte, bisogna mantenere una forte relazione con la tradizione. Ma essa può essere accolta e poi ripudiata, solo dopo averla trasfigurata accettando il dualismo, l’aporia come punto di vista possibile sul mondo: il racconto dentro il racconto ci rivela una struttura fondata sul molteplice e sulla possibilità, fino alla celebrazione triplice del dualismo (quello temporale dell’hidalgo Alonso Quijano e del cavaliere don Chisciotte, dell’hidalgo che vive nella Spagna del XVII secolo e del cavaliere che vive nel medioevo cavalleresco, e quello spaziale fra la provincia della Mancia e i territori immaginari in cui cavalca don

Chisciotte). Octavio Paz descrive questo dualismo: “l’epica medievale nella quale, a differenza che nell’epica classica, non c’è tragedia perché non è ammessa eccezione alla norma o ambiguità, e l’età nuova.”. È anche il dramma di Cervantes che vive e scrive nel periodo della Controriforma, ma anche in un tempo in cui nuovi ed eterodossi pensieri minano le fondamenta dell’ordine medievale (Copernico scopre il cielo e l’universo si dilata; Pico della Mirandola introduce gli insegnamenti della Qabbalah e dello Zorah ebraici; Marsilio Ficino traduce gli scritti ermetici; Giordano Bruno viene bruciato nel 1600; nel 1618 la Chiesa condanna il sistema copernicano; nel 1633 Galileo viene costretto a rinnegare le proprie idee davanti al Sant’Uffizio). È un epico scontro fra passato e presente quello in cui vive Cervantes e che lui risolve attraverso il linguaggio: Cervantes rompe l’ordine che reprimeva la possibilità della finzione narrativa, fondando la sua novità proprio su quello che tenta di negare. Ma Cervantes vive nella Spagna di Filippo II, baluardo dell’ortodossia e per questo assume maggiore rilevanza rivoluzionaria il suo metodo che pone la critica della creazione all’interno della creazione stessa e la concepisce come pluralità di letture possibili. Ancora oggi viviamo lo scontro fra il reale, questo mondo ingiusto

e storto, come unica realtà e la possibilità di una diversa lettura di quella realtà. Tramortito a terra dopo lo scontro con i mulini a vento, don Chisciotte non si arrende a quella dura realtà: è stato il mago Frestone (quello che gli ha rubato i libri!) a convertire i giganti in mulini, per togliergli la gloria di vincerli. Per quanto vinto, ma solo per la magia che ha trasfigurato la realtà (che sono i giganti, non i mulini), don Chisciotte si rialza e continua la sua avventura, sconfiggendo “due incantatori” che hanno rapito una principessa, perché “bisogna che io raddrizzi questo torto con tutte le mie forze”. Tutto è così reale, vero che per non veder soccombere anzi tempo il suo protagonista, Cervantes deve inventarsi uno stratagemma letterario, riprendere in mano la storia (che sta vivendo di vita propria) e con un fermo-immagine cinematografico, spiegare che il manoscritto della seconda parte (di un ignoto autore arabo, Cide Hamete Benengeli) si interrompe, ma Cervantes si affretta a precisare che, nonostante sia scritta da un arabo per natura bugiardo, la storia è vera. Di nuovo, intreccio e confusione fra reale e immaginazione. Ma ciò che risolve questa perenne aporia è ciò per cui esiste ogni don Chisciotte, di ieri e di oggi: “abbattere la prepotenza e soccorrere e prestare aiuto agli oppressi”.

Disegno di Paolo della Bella


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx Moderno Zelig, il Nostro presidentissimo Giani non ha saputo resistere alla tentazione di farsi immortalare davanti alla voragine sul lungarno Torrigiani. Ad imperitura memoria, eccolo lì che con il ditone presidenziale indica lo sbrago rivierasco. Pare che la Panini Modena abbia deciso di fare un album di figurine dedicate al Nostro sulle sue molteplici pose, travestimenti ed epiche gesta, intitolando questa (eu)Genio Civile. Ciascun bambino collezionista potrà riempire a piacimento la didascalia per la risposta all’arboriana domanda “Che sta pensando quest’uomo quiz?”. A titolo d’esempio si potrà vergare: “L’avevo parcheggiata qui”, “c’è da spostare una macchina”. Per coloro che non riusciranno a completare la raccolta delle 340 figurine, si potrà richiedere le

[Eu]Genio civile

Bobo

mancanti al Consiglio Regionale della Toscana, ottenendo in omaggio anche le 12 pose con fascia regionale (limited edition) e visita guidata dal Nostro in versione “Eugenio Guida” al Palazzo del Pegaso. Pregevole iniziativa.

I Cugini Engels

Lo Zio di Trotzky

Achtung, achtung

La memoria dell’acqua

Nel grande supermercato “Piazzale degli Uffizi”, il più grande spazio commerciale della città, dotato di ogni comfort e di ogni tipologia di oggetti in vendita (e recentemente anche fornito di una riproduzione in scala 1:1 di una camionetta dell’Esercito Italiano), improvvisamente risuonò la voce metallica dell’altoparlante. I pochissimi cittadini fiorentini che frequentavano il supermercato, e fra di loro quelli che hanno oggi una certa età, trasecolarono. Era dal maggio del 1938 che non udivano una voce metallica che parlava in italiano con forte inflessione tedesca invadere quello spazio commerciale. E anche la città. Dai tempi della visita a Firenze di Lui. Ma il timore che sempre accompagna l’udire una voce dall’altoparlante che parla al popolo in italiano con forte inflessione tedesca fu presto superato dall’ilarità. Perché il testo del messaggio era rivolto ai turisti e ai cittadini che erano in coda da ore per entrare a visitare il supermercato. La persona che parlava

Nell’omeopatia la “memoria dell’acqua” è quella caratteristica dell’acqua di mantenere traccia delle sostanze con cui è venuta in contatto in precedenza e quindi di continuare a trasmetterle. Nell’urbanistica, toscana per ora, ma ne aspettiamo vista la rivoluzione che porta, la “memoria dell’acqua” è invece è la capacità dell’acqua di portare rispetto agli edifici di funzioni di interesse pubblico

era nientemeno che il direttore del supermercato e il testo diceva sostanzialmente di avere pazienza e di non comprare i biglietti dai bagarini. I pochi fiorentini presenti si ricordarono che qualche mese prima il nuovo direttore del supermercato aveva affermato, con il suo italiano con forte inflessione tedesca, che era indecente che per entrare al supermercato ci fossero tutte quelle file e che, come allo stadio o ai grandi concerti, ci fosse chi se ne approfittava. Ma Lui (da non confondere con l’altro Lui di prima) aveva detto che avrebbe trovato la soluzione. Eccola la soluzione. Fare annunci all’altoparlante. I pochi fiorentini nel Supermercato si tranquillizzarono. Tutto regolare. Tutto come prima.

storicizzate. In pratica in caso di esondazione il fiume fa una rapida scansione catastale per verificare la data di costruzione, una visura alla Camera di Commercio per analizzare la tipologia di attività e un passaggio in Comune per controllare se l’edificio ha avuto il lasciapassare dell’apposita Commissione: solo a questo punto decide se travolgere l’edificio o passare oltre. E la storia, degli amici, è salva.

Le avventure di Nardellik La situazione era disperata. Il povero Servitor Cortese non sapeva più letteralmente che pesci prendere. Erano tutti entrati negli abitacoli delle macchine, i pesci dell’Arno, dopo che il Lungarno Torrigiani era sprofondato nel fiume. Ma non era solo questo che lo preoccupava. Cominciava a pensare di portare sfortuna. E non sapeva appunto che pesci prendere. Da quando si era insediato sulla poltrona che era stata del Leader Minimum, e che aveva attraversato i quattro anni senza neppure una buca più grande nelle strade, erano accadute molte cose negative. Cedimenti improvvisi di alberi, fortunali stile tropicale, tempeste di vento che nemmeno nell’artico si erano mai viste. E il tutto in meno di due anni. Quale sarebbe stato il futuro? Non ci voleva pensare. Perchè agli occhi si paventavano disastri tremendi e poi nel 2016 si ricordava anche il 50° anniversario dell’alluvione del 1966. Magari quel “fiumicel che nasce in Falterona” stava pensando di festeggiare alla grande questo anniversario. Ci voleva Nardellik. E il Supereroemascherato trovò la soluzione. Un pellegrinaggio a piedi al Santuario di Santa Maria Elena a Laterina passando dalla Pieve di San Matteo in Rignano. L’anima laica del Servitor Cortese era riluttante ma dovette cedere. Ora è in cammino in prossimità dell’abbazia di Montescalari. Da solo nel bosco. Ma si sa il potere certe volte esige dei sacrifici.


28 MAGGIO 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

L

a storia, in genere, è fatta di scoperte o di riscoperte, che permettono di scrivere o di riscrivere interi capitoli e di raccontare in maniera nuova o diversa quegli stessi eventi che si davano per acquisiti e per scontati. Alla luce delle nuove scoperte alcune certezze vengono ridimensionate, alcune convinzioni vengono messe in discussione, altre vengono minate alla base, e l’ombra del dubbio si estende anche verso il passato, e non solo verso un futuro sempre caratterizzato da incertezze e precarietà. Neppure la storia della fotografia e dei fotografi si sottrae a questo processo fatto di rivisitazioni, riscoperte, riscritture e nuove interpretazioni, e mentre alcuni personaggi un tempo acclamati ed osannati vengono ridimensionati, altri a suo tempo ingiustamente trascurati vengono studiati e rivalutati ed acquistano tutto il loro peso ed il loro spessore. La lista dei fotografi dapprima ignorati e poi riscoperti, per caso o per fortuna, è lunghissima, e spesso include delle donne fotografe, come ad esempio Alice Austen (1866-1952), americana nata e vissuta a Staten Island. Abbandonata dal padre ancora prima della sua nascita, e battezzata Elizabeth Alice Munn con il cognome paterno, Alice rifiuta per tutta la vita di usarlo, firmandosi invece Elizabeth Alice Austen, dal nome della madre Alice Cornell Austen, con la quale torna a vivere presso la grande villa di famiglia degli Austen, detta “Clear Comfort”, e situata in una delle zone più esclusive di Staten Island. Lo zio Peter Austen è un docente universitario di chimica, ed il marito della zia Minnie, Oswald Muller, regala ad Alice una macchina fotografica quando la piccola ha solo dieci anni. Questi due fatti sembrano segnare la vita e la carriera di Alice, che si dedica da subito alla fotografia, incoraggiata dagli zii che l’aiutano ad allestire la sua prima camera oscura. La situazione di relativo benessere economico della famiglia permette ad Alice di dedicarsi alla fotografia senza cercare un profitto diretto, fotografando soprattutto amici e parenti, documentando le diverse fasi della vita familiare, ed occupando il suo tempo

Alice Austen

Per le strade di NY fra i viaggi in Europa, la pratica del tennis e la cura dell’ampio parco che circonda la villa. La sua vita cambia con l’incontro, nel 1899, con Gertrude Amelia Tate (1871-1962) di New York, con la quale si lega in un profondo rapporto sentimentale destinato a durare per oltre trent’anni. Grazie a questo legame Alice impara a conoscere la New York dell’inizio del secolo, e ne rimane talmente affascinata da decidere di fotografarne la vita, le strade ed i personaggi, portando la sua attrezzatura per le strade, diventando così una delle prime, se non in assoluto la prima donna a praticare la “street photography”. Se i suoi autoritratti, le immagini dei familiari, della cerchia degli amici e quelle scattate nell’esclusivo Club Darnet, frequentato da sole coppie femminili, rappresentano una faccia dell’interesse di Alice Austen ed un mondo un poco distante dalla concretezza della vita quotidiana, le immagini scattate nelle strade di New York rappresentano uno spaccato della società e delle contraddizioni dell’epoca, e vanno a completare in un certo modo il quadro tracciato da fotografi come Jacob Riis e Lewis Hine, che nella stessa città e quasi nello stesso periodo documentano le condizioni di vita e di lavoro delle classi meno agiate. Alice Austen è a suo modo ribelle ed anticonvenzionale, è una delle prime donne ad usare la bicicletta ed a possedere e guidare un’automobile, e dal 1917 porta Gertrude a convivere con lei nella residenza di “Clear Comfort”, ma tutto questo non le impedisce di provare interesse ed empatia per le classi popolari e per le loro misere condizioni, che sperimenta direttamente dopo che la crisi del 1929 fa letteralmente scomparire il patrimonio di famiglia, riducendola in miseria e cacciandola dalla sua adorata residenza. Poco prima della sua morte la sua opera fotografica viene casualmente scoperta ed utilizzata in parte da un editore di New York, ma la vera riscoperta avviene molto più tardi, ad opera della Società Storica di Staten Island. In seguito “Clear Comfort” viene acquistata dalla città di New York, trasformata in un museo ed aperta al pubblico, con il suo contenuto di mobili ed arredi, comprese le oltre ottomila lastre firmate da Alice Austen.


28 MAGGIO 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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e nelle tele del dopoguerra di Zoran Mušic, Fernando Melani e Fabrizio Clerici vi fu la volontà di mutare il rapporto tra l’uomo e il tempo storico, all’inizio degli anni Cinquanta anche lo spazio fisico venne reinterpretato, al fine di superare il dilemma di come rappresentare la realtà, oltre la verosimiglianza e la prospettiva. Con lo Spazialismo la superficie della tela si costituì come uno spazio artistico differenziato rispetto all’ambiente e gli artisti crearono su essa costruzioni tridimensionali, per dar forma alle nuove energie che vibrano nell’atmosfera postbellica. Roberto Crippa, figlio delle avanguardie storiche, si aprì alle molteplici possibilità espressive dell’Arte attraverso una sperimentazione che, dal cubismo picassiano all’astratti-

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I

di Kindu

Roberto Crippa

smo geometrico e agli influssi dell’arte concreta, si diresse verso l’espressione del gesto puro. Le Spirali rappresentarono una personalissima modalità di concepire lo spazio pittorico, teso a dar voce al pathos espressivo e all’intenzionalità di un artista che necessitava di un rinnovato ordine razionale e di una primigenia iconografia, purificata dalle contingenze e colma di un’emotività immediata e sintetica. Passando per i Totem la prassi artistica di Ro-

berto Crippa approdò al segno materico con sugheri e collage che connotarono l’opera d’arte di una concretismo inedito e di una forza rappresentativa che si faceva carico degli stimoli culturali e del fervore dell’epoca per caratterizzarsi con fantasia esplosiva e vitalismo. Tuttavia nelle sue opere è riscontrabile quella sensibilità pittorica che assaporò il dramma novecentesco e che si fece portatrice di una parola mai nata. In tal senso le potenzialità segniche

e semantiche composero, con severi cromatismi, sovrapposizioni di forme e materie, come un gioco alchemico che volge alla creazione di principi capaci di reinventarsi costantemente e di fare dell’opera d’arte un organismo vitale in grado di perdurare nei secoli nonostante la degenerazione del mondo. Appassionato di voli acrobatici che gli costarono la vita, Roberto Crippa si è spinto oltre gli orizzonti del fare artistico, operando in nome della sperimentazione, per creare opere vitalistiche e dense di pathos. Fedele al desiderio di superare i limiti imposti all’uomo con I Tredici di Kindu ha reso omaggio ai tredici aviatori italiani che furono trucidati tra l’11 e il 12 novembre del 1961 nell’ex Congo belga, durante una missione di pace delle Nazioni Unite per ristabilire l’ordine nel paese sconvolto dalla guerra civile.

I Tredici di Kindu, 1961 Sughero e collage su compensato cm 99,5x149,6 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


28 MAGGIO 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

trito panorama di gruppi vecchi e nuovi merita comunque di essere esplorato con cura. Per farlo è necessario addentrarsi nei cataloghi di due etichette americane, Cuneiform e Moonjune, e dell’italiana Altrock. In questo modo si scopre che la nuova ondata del Rio comprende gruppi provenienti da ogni parte del globo: dal Belgio al Giappone, dal Messico alla Bielorussia. Non mancano gli inglesi, come Syd Arthur e Guapo.

Quest’ultimo è un quartetto fondato nel 1997 dal chitarrista Matt Thompson e dal batterista David Smith. La formazione originaria ha subito qualche combiamento. Fra i membri attuali spicca Kavus Torabi, un valido chitarrista iraniano che si divide fra vari gruppi (Knifeworld, Mediaeval Baebes, etc.). La musica del quartetto si basa su una strumentazione semplice (chitarre, tastiere, basso e batteria), con influenze di gruppi come King Crimson e Magma. Il gruppo inglese ha pubblicato recentemente il suo decimo lavoro, intitolato Obscure Knowledge (Cuneiform Records, 2015). Nel brano che intitola il Cd, lungo venticinque minuti, prevalgono i toni cupi, arcani, quasi inquietanti, spezzati periodicamente da aperture epiche ma asciutte. Chitarra, tastiere e sezione ritmica esprimono una varietà timbrica notevole, anche se talvolta prolungano eccessivamente qualche fraseggio. Gli altri tre brani confermano l’originalità del gruppo. Il risultato è una musica elegante e matura nella quale si coagulano esperienze diversissime, fuse armoniosamente in una proposta originale di vera avanguardia.

finisce alla fine con l’essere la cosa migliore di tutto il film. Per il resto tutto procede in maniera abbastanza piatta e oserei dire scontata; lo stesso Magneto appare avvitarsi malinconicamente nel suo stesso contrasto, nel dualismo che lo vede sempre in bilico tra “bene e male”, per quello che appare oramai come un clinico disturbo schizoide

della personalità (ammesso che una simile diagnosi sia spendibile per un’autorità semidivina). Ma il fulcro d’interesse del film, ripeto, sta a mio avviso nell’esplorazione (certamente fugace, e non approfondita) di alcune simbologie importanti, cosa alquanto rara nella filmografia da blockbuster. Su tutte quella del numero quattro dell’Apocalisse, e dunque dei Quattro Cavalieri, che trova attualizzazione del mito tramite la socializzazione del “problema dei mutanti”, ovvero di esseri superiori che devono essere controllati e uniformati alla massa (potremmo dire lo stesso del “4” dei Fantastici Quattro, vero simbolo della croce in movimento sul cerchio). Del resto, la “X” degli X-Men è stemma araldico che riporta alla famosa croce di Sant’Andrea, tratto distintivo dei Borgognoni. Ma mi spingerei forse oltre la natura specifica di una recensione cinematografica, e dunque mi fermo qui.

I

l termine Rock in Opposition (spesso citato con la sigla Rio) indica una delle esperienze più originali espresse dal rock europeo. Tutto ebbe inizio a Londra nel 1978, quando gli inglesi Henry Cow organizzarono un concerto al quale parteciparono anche altri quattro gruppi: Etron Fou Leloublan (Francia), Samla Mammas Manna (Svezia), Stormy Six (Italia) e Univers Zero (Belgio). Dato singolare, era proprio da un gruppo inglese che veniva la ferma intenzione di costruire un’alternativa europea al rock angloamericano, tracciando una via che fosse al tempo stesso estranea allo spirito commerciale del rock imperante. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma, come ha scritto Tolkien, le radici profonde non gelano. Dal 2007, infatti, vecchi e nuovi gruppi di questa tendenza si ritrovano ogni anno nel Rio Festival che si svolge a Carmaux (Francia). Magma, il gruppo francese guidato da Christian Vander, assicura il legame fra il Rio originario e quello attuale insieme ai belgi Present. La differenza più

Francesco Cusa info@francescocusa.it di

Bryan Singer conosce molto bene il cinema e non si smentisce affatto in “X-Men Apocalisse”, film poco riuscito ma denso di rimandi e simbologie importanti. L’ho vissuto più come un vero studio accurato sulla mitologia contemporanea, nello specifico espressa dal complesso universo della Marvel, sorta di Olimpo metropolitano partorito in tempi di Guerra Fredda e in perenne metamorfosi grazie all’imperituro genio di Stan Lee. I primi minuti del film sono un vero e proprio trattato di simbologia comparata in cui si esplorano la mitologia di “Apocalisse” (qui nelle vesti di primo mutante), dello “Zed” di pincherliana memoria e della storia recente dell’uomo; vengono insomma poste le basi per uno sviluppo non propriamente organico delle vicende che culminerà poi nella celebrazione della rinascita dell’Araba Fenice. Il problema è che tutto questo ben di Dio non trova poi adegua-

Rock in Opposition 2.0 importante con l’esperienza originaria è la mancanza di riferimenti politici: se prima il nome Rock in Opposition esprimeva un’alterità rispetto all’establishment musicale, oggi questa è possibile anche senza dichiararsi rivoluzionari. Questo non significa comunque che si tratti di musica commerciale o disimpegnata: la sostanza rimane lucida e creativa come allora. Naturalmente non è tutto oro quel che luccica, ma questo nu-

Apocalisse mutante

ta armonizzazione nello scontro tra mutanti, che da titanico si fa cialtronesco, parodistico, a tratti quasi comico. La scena più avvincente rimane quella del salvataggio di Quicksilver, davvero una perla rara che gioca (ancora, come nel precedente episodio) sul gap tra esplosione del raggio distruttivo e spazio-tempo, in una incredibile sequenza che


28 MAGGIO 2016 pag. 8 di

Paolo Albani

L

’umorismo è notoriamente una delle esperienze umane più difficili da spiegare. Ci hanno provato in molti a spiegarlo: scrittori, artisti, filosofi, psicanalisti, “magnetizzatori del linguaggio” e altri ancora, tutti personaggi qualificati a parlare dell’argomento, ma l’hanno fatto con risultati non proprio esaltanti né tanto meno definitivi: “I più grandi pensatori – ha scritto Eco a questo proposito – sono scivolati sul comico. Sono riusciti a definire il pensiero, l’essere, Dio, ma quando sono arrivati a spiegarci perché un signore che scende le scale e improvvisamente scivola ci fa morire dal ridere, si sono avvolti in una serie di contraddizioni e ne sono usciti, dopo immensi sforzi, con risposte esilissime”. In modo sintetico, e senza pretendere di sfiorare minimamente le dissertazioni filosofico-letterarie su questo campo minato, mi limito con molta prudenza a dire che l’umorismo può essere definito un congegno, un dispositivo capace di indurci al riso, o più blandamente al sorriso, arricchendo le nostre conoscenze, nel senso che, nello stesso tempo in cui ci predispone al buon umore, è altresì capace di farci riflettere. Mi limito anche a ricordare, poiché la ritengo ancora stimolante, la distinzione pirandelliana fra il comico, che è l’avvertimento del contrario, e l’umorismo che ne è invece il sentimento. Com’è noto, riguardo a questa distinzione, l’esempio riportato da Pirandello è quello di “una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili”: avverto che quella vecchia è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile dovrebbe essere e mi metto a ridere; ma se interviene in me la riflessione e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma forse ne soffre e lo fa soltanto per piacere al marito molto più giovane di lei, ecco – dice Pirandello – che io non posso

Comici senza volontà

di

più riderne come prima perché la riflessione mi ha fatto passare dall’avvertimento al sentimento del contrario. Per Pirandello sta in questo la differenza tra il comico e l’umorismo […] Fra le molteplici declinazioni in cui l’umorismo può articolarsi, forse quella più nutriente, e per certi versi sublime, è a mio avviso l’umorismo involontario, frutto di una ricreazione non voluta (inconscia, scomodando Freud) della nostra mente. Nel Trattato delle barzellette (1961) Achille Campanile ha dedicato all’”umorismo involontario” (termine che anche a me − campaniliano resistente – piace qui adottare) un intero capitolo (il capitolo V della parte terza) in cui il fenomeno è definito in modo cristallino: l’umorismo involontario “è quando uno vuol fare o crede di fare una cosa seria e invece, o per errore, o per sbadataggine, o per ignoranza, o per caso, fa una cosa comica”. Estratto dalla premessa dell’ultimo libro “L’umorismo involontario” di Paolo Albani)- Quodlibet Compagnia Extra

Remo Fattorini

Segnali di fumo Scusate se insisto. Torno sul tema della scorsa settimana, sul fatto di come e quanto le notizie condizionano la percezione della realtà. È infatti proprio sulla percezione che - noi tutti - ci facciamo un’idea di cosa funziona e cosa no, di cosa è giusto o sbagliato. L’Ipsos - l’istituto diretto da Nando Pagnoncelli che ogni martedì, nella trasmissione di Floris su La7, ci racconta cosa pensano gli italiani – ha rilevato, in 33 paesi del mondo, l’opinione che i cittadini hanno sulle singole questioni. Opinioni poi confrontate con i dati reali, in modo da evidenziare gli scostamenti. Il risultato è sorprendente: in genere, noi cittadini, tendiamo a sovrastimare, ingigantire i problemi, drammatizzando la realtà. Da noi, in Italia, questa tendenza è più consistente che altrove. Il percepito è di gran lunga peggiore

della realtà. Il dato più clamoroso è quello relativo alla presenza degli immigrati, che ci vede al primo posto di questa speciale classifica che potremmo definire “dell’ignoranza”. Interrogati sul tema, la loro presenza viene data al 30% mentre è solo del 7%. Così anche per i giovani che convivono con i genitori: dati al 39% mentre il fenomeno interessa appena il 19, praticamente la metà meno. Stessa cosa per la diffusione di internet, valutata al 75% mentre gli italiani connessi si fermano al 60. Idem per credenti e religiosi, percepiti al 35% mentre sono tre volte meno, il 12 per cento. Altri temi, invece, vengono sottovalutati. Accade quando viene chiesto il dato sulle donne occupate, quelle con un posto lavoro: la percezione si ferma al 44% mentre in realtà sono un po’ di più, il 48. Così per le donne impegnate in politica, dove si passa da una stima del 26% ad una realtà un po’ meno disastrosa: il 31%. Accade anche per la salute: si stima che l’obesità interessi il 36% delle persone mentre in realtà sono il 50%:

la metà degli italiani risultano in sovrappeso. Il fatto è che abbiamo un’immagine distorta e negativa del proprio Paese. Siamo quasi tutti pessimisti. Sul perché accade tutto questo, ci sono tante teorie. Due a mio parere quelle prevalenti: le molte delusione accumulate nel corso degli anni e un’informazione che ogni giorno drammatizza tutto, ci nasconde le notizie positive e qualche volta ci racconta pure qualche balla. Il dramma è che a distorcere la realtà siamo pure bravi: in Italia più che altrove.


28 MAGGIO 2016 pag. 9

Mibact, avanti c’è posto?

Barbara Setti twitter @Barbara_Setti di

D

alle 24 del 31 maggio 2016 si aprono le candidature per 500 posti a tempo indeterminato per funzionari al Mibact. Si chiuderanno il 30 giugno 2016. Sono banditi posti per 9 profili, così articolati: 5 posti per funzionario antropologo, 90 per archeologo, 130 per architetto, 95 per archivista, 25 per bibliotecario, 5 per funzionario demoetnoantropologo, 30 per promozione e comunicazione, 80 per restauratore e 40 per storico dell’arte. L’inquadramento è il medesimo per tutti i profili, III area non dirigenziale, posizione economica F1. Significa, in sostanza, una retribuzione mensile lorda di 2.035,01 euro. I requisiti sono i medesimi, con l’unica eccezione, non chiara, della posizione per la promozione e comunicazione. E i requisiti specifici per il ruolo di restauratore. Ma andiamo con ordine. Oltra la laurea è richiesta la specializzazione, oppure il dottorato, oppure un master universitario di secondo livello biennale. Nel punteggio il dottorato vale fino a 20 punti, la specializzazione 15, il master 10; una seconda laurea 8. Si aggiungono fino a 10 punti per ogni voto di laurea superiore a 100 su 110. Il maggior punteggio applicato al dottorato rispetto alla specializzazione non mi è affatto chiaro. Le scuole di specializzazione furono istituite intorno alla metà degli anni ’90 proprio con lo specifico scopo di specializzare i futuri funzionari del Ministero – numerose infatti sono le ore di didattica sulla legislazione dei beni culturali e sul funzionamento del Mibact – mentre il dottorato è da sempre rivolto a chi è interessato alla ricerca universitaria. Perché quindi questo punteggio invertito? Incomprensibile. Per i restauratori, dopo il lunghissimo e accidentato iter del riconoscimento della qualifica, vale: la laurea magistrale in conservazione e restauro dei beni culturali, oppure il diploma accademico di secondo livello di durata quinquennale in restauro delle Accademie delle Belle Arti, oppure un diploma delle Scuole di alta formazione e di studio che operano presso l’Istituto per la conservazione e il restauro, l’Opificio delle Pietre Dure e l’istituto

centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario; oppure, appunto, il restauratore riconosciuto. Per loro non è richiesto alcun diploma post-laurea. I 130 architetti devono essere abilitati all’esercizio della professione. I futuri esperti di promozione e comunicazione, in alternativa alla specializzazione, dottorato eccetera di cui sopra, possono avere una esperienza professionale di almeno 36 mesi complessivi maturata presso le pubbliche amministrazioni o da soggetti privati. Ma come si vedrà in seguito, l’esperienza nel privato, nella valutazione del punteggio, scompare. Il bando prevede già la dotazione organica delle singole figure professionali per regioni. I candidati potranno scegliere la sede di assegnazione al termine delle selezioni, secondo la graduatoria di attribuzione: chi ha conseguito il punteggio più elevato, in sostanza, sceglie per primo. E quella scelta vale per minimo 3 anni. La distribuzione delle pianta organica è interessante, perché cambia molto a seconda della specializzazione. La distribuzione degli esperti della comunicazione è la più omogenea, e comprende 15 regioni: rimangono fuori, con l’eccezione del Friuli Venezia Giulia, le regioni a statuto speciale, oltre all’Emilia Romagna. I numeri più elevati sono per il Lazio, 8, e la Campania, 4. 15 i funzionari Storici dell’Arte previsti nel Lazio, 5 in Lombardia, 4 in Piemonte, Toscana e Veneto. Le regioni coinvolte sono in totale 11. Gli Architetti si concentrano soprattutto nel Lazio, ben 39, 12 in Campania, 8 in Calabria e poi al centro-nord con 11 posti in Lombardia, 7 in Piemonte e Veneto, 10 in Toscana. Non previste le regioni a statuto speciale, tranne la Sardegna e il Friuli Venezia Giulia. Anche per i restauratori la maggiore concentrazione è nel Lazio,

con 20 posti, così come in Toscana; da segnalare i 5 posti previsti per la Basilicata. I funzionari demoetnoantropologici sono previsti solo nel Lazio. Dei bibliotecari 10 nel Lazio e 5 in Lombardia, il resto omogeneamente distribuito. Gli archivisti sono numerosi in quasi tutte le regioni, soprattutto nel Lazio e in Toscana (14), 10 in Lombardia e Piemonte, 9 in Veneto e 8 in Emilia Romagna e Sicilia. Dei 5 antropologi 4 sono nel Lazio, 1 in Sardegna. Gli archeologi, infine, sono concentrati soprattutto nel sud: 22 nel Lazio, 11 in Puglia,10 in Campania, 7 in Calabria e in Sardegna, 5 in Basilicata. Non sono previsti in Sicilia. La prova è per tutti i casi strutturata in 4 fasi. La prima è preselettiva, una prova a test per la verifica di base possedute dai candidati. E qui un altro sobbalzo sulla sedia. C’è bisogno di una verifica di base per candidati che devono avere un titolo post laurea? Queste materie di base risultano essere elementi di diritto pubblico amministrativo, di diritto del patrimonio culturale, nozioni generali sul patrimonio italiano; 10% sulla lingua inglese. L’obiettivo di questa prova, leggendo l’art.6, è quello di sfoltire i candidati a 5 volte il numero dei posti messi a concorso, oltre agli ex-aequo. Ecco il significato della verifica di base. Chi supera la prova sarà ammesso alle altre 3 fasi. Il punteggio della prima prova non concorre alla formazione del voto finale di merito. La seconda prova è scritta, specifica per i 9 profili, oltre a elementi di diritto del patrimonio culturale e lingua inglese (non è bastata la prova iniziale, evidentemente), il funzionamento e l’organizzazione del Mibact e tecnologie dell’informazione e/o della comunicazione e/o del Codice dell’Amministrazione Digitale.

Una seconda prova verte sulla predisposizione di un atto amministrativo nello specifico del ruolo per cui si concorre. Chi consegue almeno 70 punti su 100 è ammesso all’orale, che verterà sulle materie della prima prova scritta. Anche in questo caso, il punteggio minimo sarà 70 su 100. Infine, per la graduatoria finale, saranno attribuiti i titoli, per un totale di 80, così suddivisi: massimo 30 di servizio, massimo 45 di studio, 5 per altri (pubblicazioni o riconoscimenti scientifici, da inserire nel curriculum che va allegato alla domanda di partecipazione). Dei titoli di studio ho già detto sopra. Quelli di servizio meritano un approfondimento. Sono previsti: 2 punti per ogni anno nella pubblica amministrazione – con qualunque tipologia contrattuale -, fino a un massimo di 20; 5 punti per ogni semestre di esperienza professionale acquisita mediante tirocinio presso il Ministero, per un totale di 10. In sostanza, 30 punti in più per chi è già nello stato oppure è precario dello Stato. In un concorso in cui è così forte la standardizzazione della valutazione dei titoli – l’iter di studio richiesto è ormai comune e le votazioni sotto i 100/110 sono molte rare in profili così umanistici – questi 30 punti appaiono dirimenti. Non solo a me, ovviamente, tanto che la polemica sta già infuriando, fortissima, soprattutto tra chi un’esperienza nel pubblico non ce l’ha, ma magari ne ha una molto più lunga e significativa nel privato, sia da strutturato in impresa che da libero professionista. E a proposito di privato, per il profilo della comunicazione, che è l’unico che prevede l’equivalenza di titolo post laurea e lavoro nel settore privato, appunto, questa equipollenza scompare nell’attribuzione dei punteggi per i titoli di servizio: sono previsti solo, come tutti gli altri, i 2 punti per ogni anno nella PA e i 5 per il tirocinio. Spero che se ne accorgano in fretta, al Mibact, e corrano ai ripari, prima di copiosi ricorsi o di fare invalidare la prova. La domanda si presenterà solo online. Non è già questa una prova delle competenze informatiche? Comunque, cari colleghi, in bocca al lupo.


28 MAGGIO 2016 pag. 10 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

È

una storia vera, quantunque raccontata con la leggerezza che hanno i prodotti della fantasia. Una storia breve, frutto di una ricerca condotta con il metodo degli storici, come l’autore Edgardo Franzosini testimonia, citando al termine del libro una sorta di bibliografia, con i testi (in lingua francese, dal momento che il protagonista ha vissuto anni importanti a Parigi) consultati per ricostruire la vita e comprendere la personalità dello scultore Rembrandt Bugatti (1884-1916). Peraltro non reputo qui opportuno parlare del protagonista, almeno troppo di più di quanto già faccia il titolo dell’opera (“Questa vita tuttavia mi pesa molto”, Collana Piccola Biblioteca Adelphi, € 9,00), tratto com’è da una lettera scritta da Rembrandt al fratello Ettore (il fondatore della famosa casa automobilistica) in cui allude ad un persistente ‘male di vivere’. Per non togliere gusto ed anzi - se possibile - stimolare la curiosità in chi non conosce il personaggio, mi limito a dire che si è trattato di uno scultore assai quotato al tempo e negli anni successivi alla morte, divenuto celebre quale ‘ritrattista’ di antilopi, elefanti, leoni, tigri, pantere. L’interesse verso gli animali, fatto di osservazione, ascolto, rispetto, empatia, dovette in lui essere così intenso da consentirgli di eseguire poi “di getto, deciso e senza esitazioni” sculture capaci di restituire agli osservatori l’’anima’ dei soggetti selvatici. Un interesse che, d’altro canto, dovette escludere buona parte di ogni altra cosa - se si eccettuano gli affetti familiari. Franzosini gestisce la vicenda dello scultore con una letteratura di vaglia, garbata, a volte anche ironica, e già solo per questo il libro merita di essere scoperto, letto, soppesato; mi è parso di trovarvi alcune molto condivisibili scelte di fondo, che intendo menzionare: l’utilizzo del tempo presente, che richiama la leggerezza ma anche quel po’ di suspence o senso dell’ attesa in più, tipici

Garbata, infelice storia di Rembrandt Bugatti di una narrazione orale; le descrizioni di fatti e di persone sempre dentro la misura, mai faticose o estenuate; infine i dialoghi, limitati all’essenziale, essendo la brevità quella ‘forma’ in cui si incornicia e si dà risalto a ciò che conta: la sostanza, il peso della parola. Considerato che Franzosini è autore contemporaneo, la sua opera testimonia un fatto di non poco conto: che la letteratura può ancora fungere da presidio contro quel fenomeno di precipitazione della cultura e della buona lingua cui mass media, social network e nuove tecnologie, in modo convergente, procurano per lo più un malinteso ossigeno. Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Ubriacatura geometrica

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni


28 MAGGIO 2016 pag. 11 Matteo Rimi lo.stato@libero.it

Narrazione a puntate con finale a sorpresa

adeva il buio alle sue spalle, su un declivio sparpagliato per incantesimo dove prima non c’era niente. L’aria fresca, resa mordente dalla notte, gli fece intuire di essere capitato in un ambiente montano sperduto chissà dove, nel quale non si sentivano altro che due piedi svelti che, dallo scivolare rischioso ad ogni passo, davano l’impressione di sguazzare in scarpe sformate e scalcagnate. Anche i profondi respiri dell’uomo che notò arrampicarsi con fare esperto e caprino tra le rocce, rompevano con la loro irregolarità quella pace ma in questa penetravano e si distendevano nelle loro ultime note. Alzando gli angoli della bocca in un accenno di sorriso sarcastico al pensiero che la sua misteriosa guida avesse pensato anche a tenere in forma il suo corpo oltre che ad arricchirgli la mente, cominciò a seguire il fuggitivo con una sveltezza che

Capitolo 9 Scarpata

di

C

Michele Rescio mikirolla@gmail.com di

Pulite la seppia eliminando le interiora, l’osso, gli occhi e la pelle. Private il calamaro della pelle e delle interiora. Sgusciate i gamberi e privateli del filo nero interno. Lavate i molluschi e riduceteli a pezzetti. Raschiate le cozze, privatele della “barba” e lavatele, quindi fatele aprire in una padella coperta, con il vino e poco prezzemolo tritato. Fate aprire le vongole in una padella coperta. Togliete i molluschi dai gusci, eliminate quelli rimasti chiusi e filtrate il liquido di cottura. In un tegame con olio, aglio e peperoncino, rosolate la seppia, i gamberi e il calamaro per 2-3 minuti, quindi prelevateli con un mestolo forato. Ponete nello stesso tegame i pomodori, salateli e fateli cuocere per 7-8 minuti. Poi unitevi i gamberi, la seppia, il calamaro, le cozze e le vongole con un poco del loro liquido di cottura e fate cuocere per 1 minuto. Lessate la pasta,

non era del tutto sua, facendogli nuovamente baluginare la speranza di trovarsi davvero dentro un sogno e di svegliarsi prima o poi. Sogno e realtà non hanno confini netti tra loro dentro la mente, come non li hanno vita e poesia se l’una compenetra l’altra fino a togliere la capacità di distinguerle. Il pensiero intruso nella sua testa ricoprì di cenere quel baluginio e lo fece tornare alla condizione di attento studente come non mai, in bramosa ricerca di cogliere dal suo intangibile insegnante gli strumenti per ritornare prima o poi alla realtà. La vita di Dino Campana, infatuato da alcuni modelli suoi contemporanei e privo di molti di quei paletti imposti dall’unanimità, fu travolta dalla poesia fino a confondere tra loro i vari

livelli di esistenza e perdersi tra essi. La mia opera è come flusso, ragazzo, e non sempre l’impetuosità permette di depositare la giusta dose dentro l’involucro umano. Ma la poesia ha sempre il sopravvento: per molto tempo dopo la sua morte, come per tanti altri, fu ritenuto più pazzo che poeta non comprendendo che l’unica differenza tra i due è che il poeta riesce a gettare più in là dei propri limiti un segno che andrà ad arricchire la nostra bellezza. Mentre parole e passi impegnavano la sua attenzione, si accorse che l’uomo davanti a sé si era finalmente seduto su di una piatta roccia in cima alla scarpata. L’affanno nel suo robusto petto perdeva poco a poco di intensità e lasciava spazio ad un movimento lento, ritmato, fatto della stessa

calma di quella voce che uscì da sotto due appuntiti baffetti e che trovò il proprio posto sulla vastità tutta intorno come se da sempre ne facesse parte: E dalle altezze agli infiniti albori Vigili, calan trepidi pei monti, Tremuli e vaghi nelle vive fonti, Gli echi dei nostri due sommessi cuori... Hanno varcato in lunga teoria: Nell’aria non so qual bacchico canto. Salgono: e dietro a loro il monte introna: ...... E si distingue il loro verde canto. Le stelle si spensero una ad una sulle teste del poeta e del ragazzo. La notte si fece muro. (continua)

In barba alle cozze scolatela e conditela con il ragù di pesce. Mescolate, trasferite su un piatto da portata, cospargete con il prezzemolo tritato e servite in tavola.

Ingredienti per 4 persone: 350 g linguine 1 calamaro 1 seppia 300 g gamberi 500 g cozze

500 g vongole veraci 500 g pomodorini maturi e sodi 1 dl olio extravergine 1 aglio a spicchi 1 mazzetto di prezzemolo 3 cucchiai vino bianco


28 MAGGIO 2016 pag. 12 Serena Cenni serenacenni@virgilio.it di

C

he i quadri del pittore Gianfranco Mello avessero, negli anni, affascinato Emy Sgalambro, lo si era intuito ascoltando la sua bella presentazione presso l’Archivio Storico del Frutto e del Fiore dal titolo Il giardino dipinto di Borgo Pinti, ma la successiva visita allo Studio d’Arte “Le Colonne” presso il palazzo Bellini delle Stelle, ha contribuito a dare forma e corpo a quelle parole che accennavano all’esistenza di un suggestivo giardino, protetto dalle antiche mura di una dimora fiorentina. E lì, davanti agli occhi meravigliati dei visitatori, si è aperto uno spazio insolito e inatteso: allestita in quello che è stato, nel Cinquecento, il laboratorio e la bottega del Giambologna, una raccolta di immense tele dalle svariate forme (rettangolari, ottagonali, a lunetta, tonde…) si avvicenda tra le colonne e lungo le alte pareti, ma anche sui pavimenti o sulla mobilia antica, costruendo scenari di fiori variegati, colti “en plein air” nel loro sbocciare o nel loro fulgore. Un vero e proprio giardino dipinto, dunque, che nulla sottrae alla bellezza e alla vitalità della natura, ma che anzi la celebra in una esaltazione che ne fissa lo splendore, prima della trasformazione o dell’appassimento. Un itinerario affascinante è quello offerto dai quadri di Mello, che una voce femminile sapientemente valorizza, ricordandone la creazione dal vero, l’ambientazione, i momenti della rivelazione all’interno del paesaggio toscano; un itinerario, però, anche straniante, ma proprio per questo attraente, in cui le stagioni non si avvicendano sequenzialmente, ma si mescolano e si confondono, in una sorta di tavolozza immaginifica, alternando distese estive di girasoli a ciclamini invernali, ciuffi di dalie a fiori di biancospino e pyrus, cespugli di rose a peonie e lillà… Attenuata è la presenza umana e architettonica in questi dipinti; e anche se un nudo di donna sembra attraversare silenziosamente la scena, o l’autoritratto dell’artista, o la cupola di Santa

Un giardino incantato nel cuore di Firenze Maria del Fiore e il chiostro di Santa Croce affiorano come potenti presenze sulla tela, la percezione che l’osservatore ne ha è sempre di una fusione tra le forme plastiche e le forme di quella natura che i colori cangianti o intensamente delicati ammantano di sensualità. I dipinti di Gianfranco Mello (veneziano, ma fiorentino d’adozione, che ha iniziato la propria carriera giovanissimo), raccontano, dunque, la storia di una vita che si è svolta - e ancora fortunatamente si svolge - all’insegna della ricerca e della dedizione per quell’aspetto organicistico e poetico del ‘bello’ che solo le piante riescono a incarnare; e narrano, al contempo, la storia di una grande fascinazione per i momenti vitalistici della fioritura che, fissati per sempre, si sottraggono alla caducità del tempo, donando al visitatore l’incanto di una inestinguibile presenza. Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

S cavez zacollo


28 MAGGIO 2016 pag. 13

Sculture in città a Montelupo Giovedì 2 giugno 2016, in occasione della manifestazione Cèramica, sarà inaugurato a Montelupo Fiorentino l’intero percorso di Sculture in città con le opere di Bertozzi & Casoni, Loris Cecchini, Ugo La Pietra e Hidetoshi Nagasawa realizzate, insieme a quelle di Gianni Asdrubali, Lucio Perone e Fabrizio Plessi (presentate lo scorso 19 marzo), per Materia Prima, la ceramica dell’arte contemporanea, progetto a cura di Marco Tonelli, organizzato dalla Fondazione Montelupo onlus e sostenuto del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, nell’ambito di Cantiere Toscana Contemporanea promosso dalla Regione Toscana. Montelupo Fiorentino è uno dei maggiori centri di produzione della ceramica in Italia e sede di uno dei tre musei ad essa dedicati, insieme a Faenza e Deruta. Una città della ceramica deve avere una sua riconoscibilità non solo in senso storico e artigianale, ma anche nella ricerca e nella creazione dell’arte contemporanea, così è nata la manifestazione Materia Prima, articolata in varie sezioni, due all’interno del Palazzo Podestarile e Sculture in città, con opere permanenti collocate nei centri nevralgici del percorso urbano. Gli artisti che hanno partecipato a quest’ultima sezione Asdrubali, Bertozzi & Casoni, Cecchini, La Pietra, Nagasawa, Perone e Plessi – hanno lavorato fianco a fianco con maestranze e industrie ceramiche locali per l’ideazione e la realizzazione di questi progetti site specific, prodotti dalle aziende della Strada della Ceramica e realizzati con materiali forniti da Colorobbia. Una collaborazione insolita e

“In ogni epoca, in ogni luogo della terra, presso ogni popolo, i culti e le credenze per un mondo ideale perduto o da rimeritare si sono sempre materializzati in un giardino”

LA BIBLIOTECA DI FIESOLE PER PIETRO PORCINAI

Sabato 4 giugno dalle 16.30 alle 18.30 GIARDINI LETTERARI

Happening di lettura collettiva ad alta voce sui giardini nella letteratura e nelle arti Le letture saranno accompagnate dall'ascolto di suoni e proiezioni di immagini Loris Cecchini al lavoro

innovativa per il territorio ma anche per gli artisti stessi, alcuni dei quali si sono trovati per la prima volta ad utilizzare la ceramica come “materia prima” dei loro lavori.

PARTECIPA ALL'EVENTO! Intervieni con letture da testi letterari scelti tra quelli da te più amati Porta una pianta per arredare la biblioteca come un giardino Segnala un testo da leggere, un film o un'immagine da proiettare Comunicaci la tua presenza: Biblioteca di Fiesole - Via Sermei 1 - Fiesole tel. 055.599.659 - fax 055.59.405 skype: biblioteca.di.fiesole - e-mail: biblioteca@comune.fiesole.fi.it http://www.comune.fiesole.fi.it/opencms/opencms/cultura/biblioteche/Biblioteca_Comunale/

All’amico caro, firmato Michelangelo Il restauro di un significativo nucleo di lettere di Michelangelo Buonarroti indirizzate a Giorgio Vasari e la digitalizzazione dell’intero archivio, interventi promossi e diretti dalla Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Toscana, rappresentano l’occa-

sione per esporre per la prima volta a Firenze i documenti più rilevanti di questo fondo, conservato ad Arezzo presso il Museo Casa Vasari. L’esposizione, Michelangelo e Vasari. Preziose lettere all’“amico caro” dall’archivio Vasari, a cura di Elena Capretti e Sergio Risaliti, si tiene a Firenze, in Palazzo Medici Riccardi, fino al 24 luglio.


lectura

dantis

28 MAGGIO 2016 pag. 14

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Spiegami mio duce cosa accade: vedo dell’infame solo gambe. Ma è così che dallo cielo cade,

al centro della terra ora s’affiora capo in giù Lucifero arrivò, coraggio che usciremo di buon’ora.

ed è da queste posizioni strambe che scenderemo per salire fora ed uscire verso l’aere entrambe,

Insieme a te io poi mi partirò ai peli tenendosi aggrappati del re dei demoni che fin qui volò

guarda avanti che siamo alleati nel trovar del Cocito la cesura ridi pure: non siamo affogati!

Canto XXXIV

Virgilio aiuta Dante a risalire, aggrappandosi ai peli della coscia di Lucifero, per raggiungere la fenditura nella parete ghiacciata di Cocito da cui ha inizio la burella. È arduo uscire dagli Inferi


L immagine ultima

U

28 MAGGIO 2016 pag. 15

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

na bella giornata di sole nella parte alta della città. È un pomeriggio mite dal punto di vista della temperatura ed anche l’umidità, generalmente asfissiante in questo mese di agosto, sembra essere sparita come per incanto. Un evento quasi straordinario che ha permesso alle due giovani amiche il lusso di una tranquilla passeggiata. Poca frenesia e un po’ di relax, cose abbastanza difficili da vedere nella Grande Mela in questo periodo dell’anno.

NY City, agosto 1969


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