Cultura commestibile 173

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

Non potete cambiare il mondo, ma potete cambiare i fatti e quando cambiate i fatti cambiate i punti di vista. Se cambiate i punti di vista potete cambiare un voto Marco Stella “censore” della mostra di Tommaso Rossi a Palazzo Panciatichi

Minculpop de’ noartri editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Almeno il 2% di noi è Neandertal

Barbara Setti twitter @Barbara_Setti di

L

’uomo moderno, cioè l’Homo Sapiens Sapiens, ha preso il posto dell’uomo di Neandertal 40 mila anni fa. Poco prima di questo fondamentale momento di “sostituzione”, i Neandertal mostrano comportamenti simili a quelli dell’uomo moderno arrivato in Europa, compreso l’utilizzo di strumenti specializzati in osso, oggetti di ornamento del corpo e piccole lame. C’è un grande dibattito scientifico se questi comportamenti moderni si siano sviluppati autonomamente o come risultato del contatto con l’uomo moderno. Nel 2012, un articolo a cura di Marie Soressi presenta un tipo di strumento specializzato in osso rinvenuto in due siti francesi, scavati di recente e quindi con i metodi più avanzati: Abri Peyrony e Pech-de-l’Azé I. Questo strumento ha stringenti confronti con il cosiddetto lisciatoio, ben conosciuto in Europa dal Paleolitico Superiore, sempre associato all’Homo S. Sapiens, utilizzato per trattare la pelle, renderla elastica, lucida e più impermeabile. Le micro tracce di usura sui reperti ritrovati dalla Soressi indicano anche per questi lisciatoi la medesima funzione, ma provengono da un contesto sicuramente neandertaliano, precedente a quella fase di coabitazione/sostituzione di cui si parlava prima, e vengono così a rappresentare gli strumenti in osso specializzati più antichi ritrovati in Europa. Perché questo rinvenimento è importante? Perché in quanto tali, o questi lisciatoi sono una dimostrazione di una invenzione autonoma da parte dei Neandertaliani, oppure una indicazione che l’uomo moderno ha sì influenzato i Neandertaliani europei, ma molto prima di quanto si ritenesse. La scomparsa dei Neandertaliani è uno dei temi più dibattuti sicuramente della paleoantropologia, ma più in generale della preistoria. Costituisce, si può dire, la componente biologica di un processo di cambiamento che avviene in Europa e nel Vicino Oriente tra circa 45 e 35 mila anni fa. Questo processo porta alla sostituzione di una popolazione arcaica (l’Homo Sapiens

Neanderthalensis) che aveva una tecnologia propria del Paleolitico Medio, con una popolazione moderna (Homo Sapiens Sapiens) con una tecnologia del Paleolitico Superiore. Lo studio di questo processo di transizione è avvincente perché integra dati e studiosi di una vasta gamma di discipline, dall’archeologia all’antropologia fisica, da specialisti di datazione a genetisti. Intorno agli anni 1980 si riteneva in genere che i Neandertaliani si fossero evoluti nell’uomo moderno (o meglio nell’uomo moderno europeo) e che il Paleolitico Superiore derivasse dalla cultura neandertaliana del Paleolitico Medio. Un orientamento opposto invece assumeva per l’uomo moderno una origine autonoma e una sostituzione delle popolazioni arcaiche, Neandertaliani compresi, da immigrati di Homo S. Sapiens da un’area per allora sconosciuta. Questa teoria ottenne un riconoscimento sostanziale e definitivo grazie al progresso degli studi

nel campo della genetica e della datazione dei fossili e dei siti in Africa, Europa e Vicino Oriente. Nel 1987 fu presentato in modo estremamente convincente uno studio del DNA mitocondriale che dimostrava una origine africana recente dell’uomo moderno. In seguito, questa prova genetica è stata confermata da rinvenimenti fossili, che confermavano come gli Africani avessero un aspetto molto più moderno dei Neandertaliani a loro contemporanei. La datazione di due crani in Etiopia (Omo Kibish 1 e Herto) implicava che la morfologia dell’uomo moderno fosse emersa in Africa Orientale già da 195 mila anni. È ormai quindi generalmente riconosciuto che l’uomo moderno ebbe origine in Africa e poi si espanse nel Vicino Oriente e più tardi in Europa: è la cosiddetta “teoria della migrazione dell’Africa” (Out-of-Africa hypotesis). Questa migrazione avviene nel Pleistocene Superiore ed è stata alla base di una muta-

zione neurale che ha portato allo sviluppo del cervello dell’uomo moderno. Lo prova il confronto del genoma umano moderno con quello neandertaliano. La scomparsa dei Neandertaliani è abitualmente spiegata in termini di “superiorità” dell’uomo moderno, che in Africa aveva sviluppato la capacità di evolvere tradizioni culturali complesse ed era diventato dotato di capacità cognitive che gli permettevano di espandersi a livello globale e sostituirsi quindi a tutti gli altri ominidi. La superiorità dell’uomo moderno, riscontrata in ritrovamenti archeologici in Africa sub-sahariana e confrontati con quelli contemporanei in Europa, sarebbe: inventiva e capacità di innovazione; complesse abilità simboliche e linguistiche; più efficienti strategie di caccia; sfruttamento di una più ampia gamma di risorse, tra cui piante, anche acquatiche; utilizzo di strumenti con funzione di proiettile; trattamento termico di


Da non saltare

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materiale litico; realizzazione di impugnature in materiale litico; capacità di pianificazione, tra cui reti sociali su grande scala, come per il trasporto su grandi distanze di materiali grezzi; flessibilità ambientale; capacità di memoria. Fino allo scorso ultimo decennio questo elenco era considerato come una manifestazione esclusiva del Paleolitico Superiore occidentale. Un articolo pubblicato nel 2014 da Paola Villa e Wil Roebroeks rappresenta il primo studio sistematico sulla scomparsa dei Neandertaliani, attraverso l’analisi comparata di tutti i rinvenimenti archeologici neandertaliani e i contemporanei rinvenimenti dell’uomo moderno. Analizzando una imponente mole di dati sulla base degli elementi di “superiorità” sopra descritti, la ricerca arriva alla conclusione che tutte le spiegazioni basate sui rinvenimenti archeologici sono “sbagliate”, perché basate su molti meno dati di quanto siano a disposizione oggi e soprattutto sono in buona parte il risultato di una lunga tradizione orientata sulla dicotomia Neandertaliani – uomo moderno. Per l’utilizzo del lisciatoio, ne abbiamo parlato all’inizio. Lo stesso discorso vale per oggetti di ornamento personale, l’utilizzo dell’ocra o della manganese. Un nuovo, incredibile ritrovamento, recentemente pubblicato su Nature, sembra fortemente confermare questa linea di ricerca. Nel sud-ovest della Francia, nella Grotta di Bruniquel, sono state rinvenute, scavate, analizzate e datate costruzioni circolari realizzate con stalagmiti spezzate intenzionalmente dal suolo. Le analisi radiometriche delle strutture danno una datazione affidabile e ripetuta di 176,5 migliaia di anni: si tratta delle più antiche costruzioni conosciute, scientificamente datate, realizzate intenzionalmente. La loro presenza a circa 336 metri dall’entrata della grotta indica che chi aveva realizzato queste strutture era in grado di controllare l’ambiente sotterraneo, dato che può essere considerato un considerevole passo verso la modernità. L’occupazione di contesti carsici in profondità non sembra essere mai avvenuta in Africa, se si escludono rifugi ed entrate di grotte con evidenza di presenza umana in Sud Africa,

Il dibattito scientifico intorno al “babbo” dell’uomo moderno Etiopia e Magreb. L’accumulo di corpi umani a Sima de los Huesos in Spagna (0,35 milioni di anni) è molto diverso dalle strutture di Bruniquel. In questo caso si tratta di strutture composte da stalagmiti intere e spezzate: due anulari (la più grande è di 6,7 x 4.5 metri, la più piccola di 2,2 x 2,1), e quattro più piccole di accumulo in cataste (diametro da 0,55 a 2,60 metri); due si trovano nel centro della costruzione anulare più grande, le altre due sono all’esterno. Complessivamente, sono stati utilizzati circa 400 pezzi, per una lunghezza totale di 112,4 metri e un peso medio di 2,2 tonnellate di calcite. La metà degli elementi che compongono le strutture sono costituite dalla parte centrale delle stalagmiti (cioè senza punta o radice) e pochissimi pezzi sono interi (circa il 5%). Le tracce lasciate dalle stalagmiti divelte sono visibili vicino alle strutture. Gli autori della scoperta non hanno ancora una risposta sul significato di questo ritrovamento, in termini funzionali (rituale? utilizzo domestico? un “semplice” rifugio?), ma è chiaro che la loro attribuzione ai Neandertaliani è senza precedenti per due motivi: perché rivela l’appropriazione di uno spazio carsico profondo (comprendendo quindi un sistema di illuminazione) da una specie umana pre-moderna; per-

ché si tratta di strutture elaborate, realizzate con centinaia di stalagmiti, in parte intenzionalmente spaccate, che sembrano essere state deliberatamente spostate e poste nella loro attuale posizione, associate alla presenza di numerose zone volontariamente riscaldate. Indice senza ombra di dubbio di gruppi di Neandertaliani con un livello di organizzazione sociale più complesso di quanto precedentemente ipotizzato per questa specie di ominidi. Quindi, ancora una volta, o certi livelli di astrazione sono propri dei Neandertaliani, oppure i contatti tra neandertaliani e uomo moderno sono avvenuti molto prima di quanto si pensasse. Ma, alla fine, se i Neandertaliani non erano tecnologicamente e cognitivamente svantaggiati, perché non sono sopravvissuti? Nel 2010 un progetto di sequenzionamento del DNA neandertaliano ha fornito chiare evidenze di incrocio (ibrido interspecifico) tra i Neandertaliani e l’uomo moderno, valutando che “l’eredità neandertaliana” compone circa tra l’1 e il 4% del genoma delle popolazioni di uomo moderno fuori dall’Africa, ora ristretta tra l’1,5 e il 2,1%. Il flusso genico tra Neandertaliani e l’uomo moderno è avvenuto tra 47 e 65 mila anni fa, soprattutto nel momento di incontro tra Neandertaliani e uomo moderno in Europa e nel

Vicino Oriente, intorno a 50 mila anni fa. Il loro incrocio si pensa abbia aiutato l’uomo moderno ad adattarsi a un ambiente non africano, ma ha anche contribuito allo sviluppo di alleli (cioè ciascuno dei due o più stati alternativi di un gene che occupano la stessa posizione su cromosomi omologhi e che controllano variazioni dello stesso carattere) che non erano tollerati, contribuendo così alla sterilità dell’ibrido maschile. Un altro studio recente ci dice che la diversità genetica mitocrondiale di 8 uomini europei moderni databili tra 38.000 e 4.500 anni da (da Kostienki 14 all’Uomo di Similaun) è 1,5 volte più elevata di quella di 5 Neandertaliani europei databili tra 38 e 70 mila anni fa. Anche lo studio del genoma dei Neandertal dei Monti Altai evidenzia una bassa diversità genetica. I Neandertaliani, in sostanza, erano gruppi di popolazione di piccole dimensioni, che si mescolano solo tra loro, poco con gli altri. Molto probabilmente, quindi, questi piccoli gruppi di “indigeni residenti” sono stati assorbiti dall’uomo moderno. Questo significa che i fondamentali cambiamenti culturali susseguenti all’arrivo dell’uomo moderno, con conseguente scomparsa dei Neandertaliani, non sono dovuti tanto alla loro inferiorità cognitiva o tecnologica, ma sono piuttosto il risultato di un processo complesso e protratto nel tempo, che comprende fattori quali la bassa densità di popolazione, l’incrocio tramite contatto culturale, la probabile sterilità dell’ibrido maschile e la contrazione della distribuzione geografica. Dopo 40 mila anni – che significa alla fine “soltanto” 2.000 generazioni – la frazione neandertaliana nel genoma dell’uomo moderno non africano continua a costituire una notevole eredità da parte di questi ominidi, diversi dall’uomo moderno sia per corredo genetico (genotipo) sia per tutte le sue caratteristiche morfologiche, di sviluppo, biochimiche e fisiologiche (fenotipo), ma che, dal punto di vista del dato archeologico, non mostrano differenze tali da sostenere il famigerato gap cognitivo con l’uomo moderno. Insomma, erano diversi, non inferiori.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx Al Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana è giunta l’ora delle decisioni storiche. Il Presidente Renzi, con tono solenne, apre i lavori: “Ragazzi, bisogna trovare una stanza per Erasmo D’Angelis: torna a Palazzo Chigi”. Si diffonde il panico fra i Ministri. La Boschi, che è la più coraggiosa, fra il contrariato e lo sfrontato, replica: “Scusa Matteo, o non ce lo eravamo finalmente tolto dai piedi mandandolo all’Unità? O che ci torna a fare qui, danni?”. Renzi, che si sa subisce il fascino della Ministra delle Riforme, risponde senza la tradizionale sicumera:

L’osservatore “Ma Mary, come si fa? L’Unità non la comprano nemmeno ‘i mi’ babbo e ‘i tuo’?! Volevo mandarlo a dirigere “Topolino”, ma Qui Quo e Qua mi hanno piantato una vertenza sindacale preventiva! Bisogna riprenderlo all’Unità di crisi contro il rischio idrogeologico!”. La Pinotti prontamente indossa l’elmetto e chiama i parà della Folgore; Galletti chiama la Protezione Civile; la Lorenzin allerta gli ospedali; Gentiloni, per non saper né leggere né scrivere, convoca gli ambasciatori di

I Cugini Engels

Storace al Quirinale Ai tempi d’oro, quelli in cui faceva persino il ministro o il Presidente del Lazio, i camerati lo accoglievano alle adunate, pardon riunioni, urlando “A France’ dicce quarcosa de destra!” e lui rispondeva in modo assolutamente politically uncorrect come si addiceva a un missino popolare come lui. Lui è ovviamente Francesco Storace, una volta gran protagonista dei tempi berlusconiani, ancora oggi capopopolo capace di influire sul prossimo voto comunale a Roma. Ma non di questo vorremmo parlare bensì del fatto che mercoledì primo giugno è andato a sentenza il processo d’appello per vilipendio al Presidente della Repubblica, odioso reato d’opinione, in cui l’ex ministro è coinvolto. Già condannato in primo grado, Storace

Bobo

è stato assolto per aver espresso un giudizio non piacevole verso l’allora Presidente Napolitano nel 2008, che però non è stato ritenuto lesivo della maestà del presidente. La data e l’ora della sentenza tuttavia coincidevano con il tradizionale brindisi del Presidente Mattarella per i festeggiamenti del 2 giugno a cui il solerte ufficio del cerimoniale del Quirinale aveva invitato anche Storace stesso. Il quale, bisogna dire, non ha gradito molto l’invito e la coincidenza e ha infatti commentato questa notizia su Radio Radicale esclamando e, ribaltando la domanda al suo intervistatore: “ma secondo lei ce devo andà? Che se mi assolvono brindiamo e se mi condannano litigamo? Ma le pare?”. Dategli torto.

Francia e Inghilterra; Poletti ne approfitta per addentare una piadina, la Madia per farsi i boccoli; Martina e Orlando approfittano del parapiglia per allenarsi con la Play Station in vista della sfida con Orfini. Uno solo, impassibile, vestito da scout, cerca di guadagnare, fischiettando, l’uscita: Dario Franceschini. Lesto e vigile, lo blocca Renzi: “Oh rincoglionito, dove credi d’andare vestito da scemo, con il binocolo e la macchina fotografica”. “Io? Caro Matteo, io ho scelto di non essere più dentro

le vicende politiche, mi sento quasi un osservatore. E osservo: ho fissato con Giuliano da Empoli d’andare a fare birdwatching a Ostia. Ci si vede domani”. “Oh fringuello, vedi di fare poco il simpatico! Qui c’è da lavorare! Si sta per abbattere su di noi una sciagura e tu vai ad osservare uccelli? Te la do io la cultura! Datti da fare e difendi il tuo governo (che è anche la tua pagnotta), piuttosto!”. “Va bene, Matteo: faccio il tiro al piccione. Anzi, a quel gufo spelacchiato e garrulo di Cuperlo. Lo abbatto subito, ma con stile ed eleganza giacché son Ministro della Cultura: “Chi vota no, gli puzza il fiato!”.

Lo Zio di Trotzky

Piccola grande Italia C’è un’Italia minore, destinata naturaliter alla marginalità, che avrebbe al più avuto l’ambizione in tempi normali di svolgere una decorosa eppure fondamentale funzione di governo del territorio e della società alla periferia del sistema. Ma non viviamo in tempi normali: il renzismo ha tutto ingigantito, amplificato; in particolare le parole, quelle le ha proprio esagerate, talché potremmo battezzare una nuova corrente politico-culturale: il bombismo. Insomma, se uno di Rignano ce l’ha fatta sparandola grossa, ciascuno può emularlo e contare in un posto al sole. Così questa Italia politica periferica si crede Italia felix. Ne è campione tale Alberto Baccini, sindaco della ridente cittadina di Porcari in provincia di Lucca. La cittadina ha avuto un passato glorioso: fin dal 780 sede di signori longobardi, sulla via Francigena chiamata dall’Arcivescovo di Canterbury Forcri, sede di un importante castello e luogo di nascita di Azzo da Porcari (architetto vissuto fra il XI e il XII secolo). Oggi molto ridimensionata, la cittadina viene riportata sugli scudi dal suo sindaco Baccini, ultrà renziano. Nominato ambasciatore renziano della marca lucchese si è prima distinto come fine psicologo suggerendo agli inquieti politici del centro-destra lucchese (Fazzi, Fantozzi, Marchetti) la cura per le loro paturnie: “seguite l’esempio della ministra Giannini: avvici-

natevi a Matteo Renzi”. Venite a noi, o voi che dubitate: c’è posto (anzi, posti) per tutti, finanche per me. Poi ha piazzato la bomba: “Anch’io lascerò se dovesse vincere il no al referendum costituzionale. Un atto di grande coerenza personale e sicuramente di alto valore morale”. Certo, perché è noto che i cittadini di Porcari hanno eletto Baccini perché modificasse la Costituzione e su un programma che si incentrava su questo! Cosa non si farebbe per un minuto di notorietà! E così, ecco il nostro Baccini sfilare in corte a Roma il 2 giugno anniversario della Repubblica nella delegazione di 400 sindaci dell’Anci. Vi segnaliamo l’altrimenti grigio sindaco di Porcari, certi di vederlo approdare a ben altri e più elevati lidi della politica renziana perché, come cantava uno, “e bomba e non bomba, arriveremo a Roma”. A meno che, ad ottobre, il referendum bocciando ahinoi la riforma costituzionale, non ci liberi almeno di qualche bombarolo di periferia.


4 GIUGNO 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

L

a metafotografia, come ogni metalinguaggio, parla di sé prima che del mondo che descrive, e racconta quali sono i mezzi tecnici utilizzati dal fotografo per i suoi scopi espressivi, indipendentemente dal raggiungimento o meno di tali scopi. Questo accade ogni volta che il fotografo utilizza fotocamere, obiettivi, filtri o pellicole speciali, ed oggi bisogna aggiungere all’elenco anche i programmi di ripresa e di elaborazione digitale. Indipendentemente dal supporto utilizzato, fisico o digitale, l’obiettivo fornisce comunque l’immagine di partenza, e fra tutti gli obiettivi speciali, quello che maggiormente si presta ai giochi metalinguistici, è quello così detto “occhio di pesce” o “fisheye” alla maniera degli americani, ma definito più propriamente come obiettivo emisferico, dato che viene progettato per riprendere l’intero campo di circa 180 gradi posto davanti alla fotocamera, cioè quasi l’esatta metà dell’intero possibile campo visivo sferico. Come succede quasi sempre, è da

Fotografia emisferica una necessità tecnica che deriva uno strumento linguistico, e gli obiettivi emisferici nascono all’inizio degli anni Venti del Novecento per lo studio della luminosità della volta celeste. Diversamente dai grandangolari classici gli obiettivi emisferici sono privi della correzione della distorsione ottica così detta “a barilotto”, che viene pertanto prospetticamente accentuata. Inoltre, allo scopo di sfruttare l’intera immagine rotonda prodotta dall’obiettivo, essa viene inserita per intero nella cornice rettangolare del formato, anziché ritagliare la cornice del formato all’interno del cerchio dell’immagine, come accade invece normalmente. Alla fine degli anni Cinquanta gli obiettivi emisferici cominciano ad essere utilizzati anche nella fotografia generica, quasi sempre con finalità ludiche o spettacolari, generando delle immagini dal forte impatto visivo, ma che raramente trovano delle giustificazioni di tipo linguistico o narrativo. Nella fotografia emisferica solo le linee centrali, sia orizzontali che verticali, rimangono dritte, mentre tutte le altre assumono una curvatura sempre

maggiore allontanandosi dal centro dell’immagine. Fotografando una serie di linee parallele l’obiettivo emisferico fornisce l’immagine di un fascio di linee curve, come se le linee fossero disposte sulla superficie di una semisfera anziché su di un piano. Puntando l’obiettivo emisferico verso la linea dell’orizzonte, questa appare fortemente incurvata verso l’alto rivolgendo la fotocamera verso il basso, e fortemente incurvata verso il basso rivolgendola verso l’alto. Solo fotografando una sfera questa mantiene le sue proporzioni corrette, mentre un cubo si deforma, incurvando i lati ed assumendo nelle riprese ravvicinate l’aspetto simile a quello della sfera. L’effetto delle immagini ottenute con gli obiettivi emisferici è esattamente quello delle immagini riflesse da uno specchio sferico o semisferico. Solo una sfera si riflette in una sfera rimanendo uguale ad una sfera. Nati per fotografare in maniera “corretta” l’interno di una semisfera, quello costituito della volta celeste, gli obiettivi emisferici forniscono della realtà tridimensionale una immagine deformata in base a

delle precise regole fisiche ed ottiche, regole che vengono spesso confuse per una facile forma di “creatività”. Le immagini deformate dagli obiettivi emisferici possono essere di volta in volta fantasiose, oniriche, curiose ed inquietanti, talvolta perfino interessanti, e rappresentano uno degli esempi tipici di immagini metafotografiche. Negli anni che vanno dai Sessanta agli Ottanta i fotografi hanno usato ed abusato delle immagini emisferiche, con la complicità delle industrie ottiche che hanno messo sul mercato obiettivi emisferici di diverse lunghezze focali e luminosità, talvolta ingrandendo l’immagine circolare per ritagliarvi dentro il più comune formato rettangolare, riducendo l’ampiezza dell’inquadratura, ma senza rinunciare ad un effetto emisferico evidente. Nonostante la iniziale esaltazione provocata dagli obiettivi emisferici si sia progressivamente stemperata, molte industrie mantengono ancora oggi in catalogo questi obiettivi, e molti fotografi continuano ad abusarne, come di facili scorciatoie in mancanza di una vera maturità di linguaggio


4 GIUGNO 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

E

nrico Baj, artista automono e isolato rispetto alle compagini estetiche del secondo dopoguerra, reagì agli eventi catastrofici della seconda guerra mondiale e all’esigenza di rinnovamento con un volontario disprezzo per l’iconicità tradizionale a cui contrappose una figurazione inconsueta: personaggi grotteschi, truculenti e leggendari dall’alto valore materico, cromatico e composito divulgavano la lettura personale dei nuovi miti moderni, sperimentando la volontà di sfruttare diversi materiali pittori e plastici. Nel 1950 alla Galleria San Fedele di Milano venne allestita la mostra Pittura Nucleare e nel 1952 venne pubblicato il Manifesto tecnico della Pittura Nucleare, con l’intenzione di abbattere tutti gli “ismi” accademici e il proposito di reinventare la Pittura, disintegrando le forme e facendo coincidere la bellezza con la rappresentazione dell’uomo “nucleare”, poiché l’opera d’arte si configurava come un atto irripetibile: “I Nucleari vogliono abbattere tutti gli ‘ismi’ di una pittura che cade inevitabilmente nell’accademismo, qualunque sia la sua genesi. Essi vogliono e possono reinventare la Pittura. Le forme si disintegrano: le nuove forme dell’uomo sono quelle dell’universo atomico. Le forze sono le cariche elettriche. La bellezza ideale non appartiene più ad una casta di stupidi eroi, né ai robot. Ma coincide con la rappresentazione dell’uomo nucleare e del suo spazio. [...] La verità non vi appartiene: è dentro l’atomo. La pittura nucleare documenta la ricerca di questa verità”. Nel 1957 Enrico Baj firmò un altro manifesto programmatico dal titolo Contro lo stile, opponendosi ad ogni forma di manierismo nell’arte e affermando con forza ed energia l’irripetibilità dell’opera d’arte e la necessità di una tabula rasa, capace di dar vita a una rivoluzione concettuale e pittorica senza precedenti: “Tappezzieri o pittori: bisogna scegliere. Pittori di una divisione sempre nuova ed irripetibile, per i quali la tela è ogni volta la scena mutevole di una imprevedibile ‘commedia dell’arte’. Noi affermiamo

Contro lo stile

Enrico Baj

l’irripetibilità dell’opera d’arte: e che l’essenza della stessa si ponga come presenza modificante in un modo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenza”. La nuova poetica firmata da Enrico Baj e Sergio Dangelo ridefiniva

l’idea di artista e di tela, come mutevolezza imprevedibile e presenza incontestabile, all’interno delle conseguenze storiche della seconda guerra mondiale e degli effetti devastanti della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki: l’Arte divenne attimo

gestuale, esplosione cromatica e vitale, nonché senso estremo del cambiamento, che cerca le proprie soluzioni nell’immaginario e non più nel reale apparente. Nell’universo artistico dell’artista l’uomo si fa personaggio pulviscolare, presenza grottesca e fantascientifica, che sente su di sé tutto il peso delle conseguenze storiche. La rappresentazione dell’Uomo viene essenzializzata nelle forme e valorizzata dall’uso di materiali plastici che danno risalto alla presenza esistenziale ma, al tempo stesso, arricchiscono la tela di una rinnovata vitalità stilistica, priva di retoriche e colma di purezza espressiva.

Personaggio, 1968 Plastica cm 33x24 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


4 GIUGNO 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

a loro suonano Ali Byworth (batteria), Esyllt Glin Jones (arpa gallese, voce), Mirain Haf Roberts (voce, piano e dulcimer) e Dan Swain (basso).

Il legame con la cultura gallese è molto stretto: i brani sono tutti cantati in questa lingua. Llyn Du è ispirata a un libro di Caradog Prichard; Si Hwi Hwi è una vecchia canzone gallese contro la schiavitù; Heno è un lamento sulla morte della cultura gallese, con parole del poeta Gerallt Lloyd Owen. Non mancano comunque toni balcanici, come in Cyfaddefa, che odora di rebetiko. La confezione contiene un altro cd, Yn dy lais/In Your Voice, con i brani del cd principale interpretati da alcuni musicisti, poeti e attori, fra i quali Peter Gabriel, Rhys Ifans e Maxine Peake. Questa è una musica ricca e vitale che attinge alla tradizione gallese per proiettarla nel ventunesimo secolo. Un particolare molto significativo: le note del disco sono scritte in due lingue (inglese e gallese). Purtroppo, però, manca una versione inglese dei testi. Bilingue è anche il loro sito (www.9bach.com). Dubitiamo che qualcuno dei nostri lettori conosca questa lingua celtica, ma crediamo che sottolineare la propria diversità culturale sia sempre positivo.

gli anni e rimane l’assenza, colmata solo dalla follia della brama che acceca i cuori di madri, figli e amanti, nell’eterno ciclo delle responsabilità che si tramutano in colpe, del divenire perenne, intenso, faticoso di cui non rimarrà traccia, se non quella del

profumo del nostro passaggio sulla Terra. L’architettura anatomica di “Julieta” è quella tipica di Almodovar, con i toni stilizzati della recitazione e lo splendore del fuoco delle immagini che pare incendiare ogni scena per colorarla di un ardore metafisico. I legami sono il leitmotiv del film, trame di fili invisibili che intersecano le vite soprattutto nei silenzi, nella solitudine delle case, nel decoro delle malattie, legami che intrecciano vite distanti e prossime senza un’apparente logica, per orditi inconcepibili e quasi disumani che riconducono inevitabilmente ad un’armonizzazione dell’assurdo, alla sublimazione di ogni dolore. La morte non dà pace ma speranza, speranza in chi rimane a contemplarla: forse questo è il messaggio intimo della pregevole opera di Almodovar.

I

l Galles, poco più piccolo della Toscana, è una regione sudoccidentale della Gran Bretagna. Fa parte del Regno Unito da quasi cinque secoli, ma ha conservato una diversità culturale che si esprime anche nella sua lingua celtica. Oggi questo idioma viene usato da pochi, ma curiosamente conta circa 10.000 parlanti nella remota Patagonia argentina, dove esiste una comunità gallese radicata da molte generazioni. Al contrario, una delle forme artistiche dove questa lingua prospera indisturbata è la musica. Nel 2015, per esempio, il Bbc Radio 2 Folk Award è andato per la prima volta a un gruppo gallese, mentre in precedenza era stato conferito soltanto ad artisti ingledi, irlandesi o scozzesi. Il gruppo in questione è 9bach, che ha pubblicato da poco Anian (Real World, 2016). Il cd conferma le impressioni favorevoli suscitate dal precedente Tincian (Real World, 2014), del quale abbiamo parlato nel n. 91. Il titolo significa “spirito” in

Francesco Cusa info@francescocusa.it di

Ho molto amato l’’ultimo film di Pedro Almodovar, “Julieta”, un film che parla del dolore, del rapporto viscerale che investe gli amanti, le madri e le figlie, e di quanto poi questo dolore possa trasmigrare, mutare carsicamente, nutrendosi della speranza, del possesso, dell’egoismo, della malattia. Tuttavia, ogni cosa, perfino la morte, pare essere un segnale, un ammonimento, un granello infinitesimale di senso che produce bellezza, sempre e comunque, come nello squarcio paesaggistico del subitaneo, strepitoso finale. Tutta questa sofferenza, a tratti straziante, è narrata come in contrappunto, nella delicata danza dei flashback, diretta con classe e toni da operetta, che cela il racconto intimo e sussurrato, scritto (tutto il film è nella lettera di Julieta) con grafia sofferta ma decisa, la penna usata come stiletto, a scavare solchi nelle cicatrici, a riaprire ferite purulen-

Spirito gallese gallese. Contiene 11 brani composti dalla cantante-pianista Lisa Jên Brown (testi) e dal marito, il chitarrista Martin Hoyland (musiche). Insieme

La speranza oltre la morte

te, a liberare il sangue del sacro, della libagione mestruale che unisce nel fluido madri e figlie e si contrappone alla fallocratica, seminale ricerca di un senso. È il lento inesorabile incedere del tempo che incide come un bisturi sui corpi, mentre passano


4 GIUGNO 2016 pag. 8 Daniele Gardenti busillis@busillis.it di

E

lvis Costello, al secolo Declan Patrick MacManus, inglese di origine irlandese, è un grande musicista. Pur appartenendo fortemente alla scena inglese degli anni settanta/ ottanta con sonorità del rock and roll strapazzato dal punk, ha da subito manifestato la capacità di scrivere ballate appassionate e canzoni dalle belle melodie ma mai convenzionali. Ha portato aventi in modo intelligente anche la sperimentazione che lo ha portato a collaborare con la musica colta, come, ad esempio, nel lavoro discografico con il mezzosoprano Anne Sofie von Otter, sviluppando al contempo il suo innegabile talento da crooner. Ha fatto progetti musicali con celebri musicisti scrivendo insieme a loro belle canzoni, come nel disco con Burt Bacharach o in quello registrato con Sir Paul McCartney. Una decina di anni fa fece tappa a Firenze dove trascorse una settimana fiorentina, nota nelle cronache di via de’ Macci, dove il critico musicale fiorentino Ernesto De Pascale lo accompagnava per sostare nei piacevoli bar fiorentini. In quell’occasione anche il direttore di questo foglio e io lo incontrammo e la memoria è in una foto di tutti e tre in via della Ninna. Il concerto dell’epoca era con il gruppo, gli Attractions, ed ebbe un inizio esplosivo di pezzi rock’n’roll per poi vedere l’artista solo a cantare ballate e finire in un ritmo trascinante con il gruppo. Venerdì, al teatro Verdi, Costello si è presentato da solo. La scenografia era dominata da un grande televisore anni ‘50 che fungeva da monitor e, prima del suo ingresso, mostrava i video del nostro eroe negli anni ottanta. Lo spettacolo si organizzava sullo sbobinare la vita e la carriera dell’artista con lunghi racconti tra un brano e l’altro sulla sua storia di musicista, gli incontri e le varie esperienze fino a mostrarci suo padre, musicista anche lui, in un vecchio video mentre cantava If I Had a Hammer, celebre brano di Pete Seeger dal contenuto politico, ridotto a successo commerciale anni dopo da vari musicisti, con versioni in altre lingue com-

40 anni di Elvis (Costello)

presa la nostra con Datemi un martello cantata da Rita Pavone. Poi foto di lui bambino, foto di famiglia, immagini da vecchi programmi televisivi. La scena era completata da un bel parco chitarre e un pianoforte. Aiutandosi proprio col filo rosso della propria storia, intrisa di storia della musica e storia sociale, Costello ha cantato le più celebri canzoni del suo repertorio, cominciando, accompagnato dalla Michele Rescio mikirolla@gmail.com di

Anatra all’arancia

Preparate l’anatra insaporendone l’interno con un pizzico di sale e con un cucchiaio scarso di burro; spalmatela di burro anche esternamente e spargete un pizzico di sale. Mettete sul fuoco vivo un tegame già imburrato. Quando il burro sarà sciolto, ponetevi l’arancia e fatela rosolare leggermente. Coprite quindi il tegame e mettetelo in forno a brasare lentamente a 160° C. Dopo circa 1 ora e mezza togliete l’anatra dal tegame: la carne deve risultare leggermente rosata. Sgocciolate l’anatra dal liquido di cottura (che metterete però da parte) e tenetela in caldo. Spelate un’arancia con un coltellino molto affilato, in modo da ottenere delle listarelle di buccia lunghe circa 5 cm, ma facendo attenzione a non staccare la parte bianca della scorza. Sbollentate le bucce per 6 minuti, sgocciolatele, fatele raffreddare e tagliatele in bastoncini finissimi nel senso

chitarra, dalle più vecchie, come Accidents will Happen, seguite da un gruppo di canzoni recenti e alternate con cover di celebri brani, come la bellissima She di Aznavour. Con i primi brani però sembrava che la serata non partisse, un canto azzardato al limite della tonalità, usualmente sostenuto dagli altri strumenti del gruppo, creava un suono poco armonico. Tutto è cambiato quando Costello si è messo al

piano e ha cantato Shipbuilding suo storico brano, critico verso la guerra delle Falklands dell’82, che nell’incisione discografica si fregiava dal caldo suono della tromba di Chet Baker. Un brano coinvolgente che ha riportato il musicista sui corretti toni e ha scaldato il pubblico. Le canzoni più celebri le ha riservate ai bis, numerosi e calorosi. Allora Everyday I Write the Book, Watching the Detective, Alison, I Want You e What’s so Funny in Peace Love and Understending. Brani che il pubblico voleva sentire e che hanno infiammato l’atmosfera. Costello pareva molto contento e che gli dispiacesse abbandonare un pubblico come quello e Alison l’ha cantata addirittura senza microfono (e rende bene in un teatro all’italiana), avvicinandosi al proscenio, come per avvicinarsi all’orecchio delle persona alle quali sta raccontando la propria storia, il bilancio di una carriera quarantennale.

della lunghezza; ne occorre una cucchiaiata abbondante; fate macerare i bastoncini per un paio d’ore ricoprendoli con il Grand Marnier. Con lo stesso coltellino affilato asportate la buccia delle altre due arance in modo che sia ben visibile la polpa senza la parte bianca interna alla scorza. Quindi ricavate da ogni arancia degli spicchi tagliati ‘a vivo’, cioè incidendo i singoli spicchi appena all’interno delle pelli di separazione, in modo che ne siano totalmente privi. Mettete sul fuoco il fondo di cottura dell’anatra a calore piuttosto vivo e, mescolando, fatelo ridurre a 2/3 di volume. A questo punto aggiungetevi i bastoncini d’arancia

e il Grand Marnier della marinata, diluito col succo di un’arancia. Fate ridurre di metà a calore vivace. Staccate le cosce e le zampe dell’anatra, tagliatele in pezzi senza eliminare la pelle. Spellate il petto e ottenetene dei filetti. Disponete su un piatto da portata caldo i pezzi con la pelle, poi allineatevi sopra i filetti spellati. Ricoprite con la salsa ben calda e guarnite il tutto con gli spicchi d’arancia pelati a vivo. Ingredienti per 6 persone: 1 anatra pulita ed eviscerata, di circa 2 chilogrammi, 3 arance fresche e di scorza spessa; 100 g di burro sale e pepe q.b.; Mezzo bicchiere di Grand Marnier


4 GIUGNO 2016 pag. 9 Filippo Polenchi filippo.polenchi@gmail.com di

C

’è un’espressione abusata che dichiara di aver rincontrato un vecchio amico in occasione della lettura di un libro. È la formula magica che nasconde l’aleatorietà della lettura, l’incontro imprevisto e dunque benedetto dall’eventualità del caso. È quanto accade durante la lettura de La mia Francigena di Andrea Vismara. Il libro è l’assunzione in prima persona di una voce che si spiega in senso letterale: è nel cammino che essa trova la sua costruzione. Naturale che il pensiero vada ad altri celebri scrittori di viaggio, ma i tempi sono mutati. E soprattutto è mutata la sostanza del racconto. Là (vedi Chatwin o Paul Theroux) era l’altrove, un desiderio traslato, una realtà in fuga da se stessa – il riconoscimento lacaniano di quest’essenza dell’errare – a occupare la scena. In questa personale Francigena, invece, è di nuovo un antropocentrismo a dominare la narrazione. Un vecchio amico, appunto. L’uomo. La prosa di Vismara è lineare, limpida; come lui stesso scherza nel prologo non è fatta per essere presa sul serio. È un taccuino di viaggio appena ripensato alla luce del ritorno. Infatti questo libro nasce come rielaborazione di un primissimo blog aggiornato tappa dopo tappa, giorno dopo giorno. a cura della redazione di

Cuco

Da anni nei locali del Consiglio Regionale (Palazzo Panciatichi) si organizzano mostre di pittura e scultura. Nel primo periodo della presidenza Nencini l’idea aveva suscitato un certo interesse anche per la qualità degli artisti scelti: il primo fra questi era stato Igor Mitoraj. Col passare del tempo è stato esposto un po’ di tutto, compresa una vasta schiera di “pittori della domenica” svilendo l’idea iniziale e la “sacralità” dello spazio istituzionale, tanto da domandarci se un’attività espositiva priva di qualsiasi indirizzo artistico, sia compito del Consiglio tanto per scimmiottare una “galleria d’arte di second’ordine” spendendo fondi a disposizione della Presidenza. Ma, a parte questa riflessione, vale la pena di far conoscere un vero e proprio intervento censorio a danno dell’artista Tommaso Rossi che avrebbe dovuto presentare 6 lavori al secondo piano del palazzo

Il lavacro del cammino La vicenda esistenziale che soggiace a questa storia è condivisibile; di più: è largamente percorsa oggi. Sono le stazioni di un’umanità che sempre più di frequente cerca strade per riappropriarsi del tempo, ora che lo spazio è del tutto colonizzato, compreso l’etere. Addio al lavoro logorante, addio a una metropoli verminosa, addio al pendolarismo sentimentale. Con i risparmi e con oculati investimenti si può vivere con meno, e non di meno. Si può vivere nel tempo. E il tempo, in questo libro, è quantificato fin dalla quarta di coperta: 913 km. 39 giorni di cammino lungo la via del Pellegrino, la via Francigena, dalla Val di Susa a Roma. Andrea, da storico camminatore per i sentieri del Nord Europa, prepara il suo viaggio con meticolosa precisione, da savio pellegrino. Durante la lettura del libro sono frequenti gli stop della narrazione che aprono digressioni sulla cura delle proprie scarpe, sull’alimentazione da seguire, su incredibili miraggi del pensiero e automatismi della parola che colgono la persona da sola. Andrea compie il viaggio da solo. È fondamentale questa scelta in vista

dell’esito che il libro sortisce nel lettore, che è quello di un salutare lavacro. Sono abluzioni intermedie. La vita non cambia, le relazioni e le inquietudini non cambiano. Quello che si assume è un balsamo per lenire ferite e accelerare ripartenze. È un occhio esterrefatto (si veda la parte senese del cammino, continuamente ammirata dagli acquerelli naturali che il paesaggio dolcemente disegna) che non si prende sul serio, che fin dalle prime righe annuncia il suo onesto scetticismo in materia di fede. È la nostalgia che cammina; quella dei nostri padri, dei quali Andrea Vismara è un figlio. Sono le lemon-soda di frequente bevute nei bar della sosta, sono quelle campagne italiane che attirarono gli sguardi di gente troppo impegnata a lavorare durante la settimana nelle grandi città e che destinavano i loro momenti liberi (di nuovo il tempo) agli spazi liberi da impegni. Il tempo è il vero protagonista di questo spazio. Tempo da dedicare alla cura della propria solitudine. Le giornate scandite dalle partenze aurorali per combattere il caldo, dagli animali totemici incontrati lungo la strada come ridefinizione delle pro-

Lo spirito artistico di Goebbels in Regione

Le opere censurate e non esposte nella mostra

della Regione. Rossi è un artista fiesolano, diplomato all’Accademia di Firenze, può essere inquadrato nella vasta corrente post-dadaista, concettuale nella scia di Maurizio Cattelan (uno degli artisti italiani più famosi al mondo, l’inciso fra parentesi è per informare alcuni consiglieri regionali che forse

prie compagnie, dagli altri pellegrini intercettati e con i quali si adempie a un “brano” dell’intero racconto che è la via in sé (ma soltanto se obbediscono a un movimento “elastico” e cioè se si possono incontrare e lasciare per strada e di nuovo incontrare). Quanto vorremmo essere con Andrea, mentre percorre i saliscendi che spezzano il fiato, quando domanda il timbro sul libretto del Pellegrino, che chiede di essere vidimato dai preposti all’azione (il parroco spessissimo). Quanto vorremmo avere la sua dieta di colazione abbondante, pranzo leggerissimo e cena da “cristiani”, perché questo significherebbe essere in cammino noi stessi e non è soltanto questione di spazio, di libertà geografica (che pure è importante), bensì di tempo. Non sono i limiti del corpo quelli che impediscono la Francigena per ciascuno di noi, ma quelli del tempo. Gli orari dell’ufficio. I compromessi indispensabili. Le rinunce. Se questo rimosso tossico e doloroso rimane fuori dalla pagina a prevalere è l’impressione di una persona che si è liberata dalle costrizioni spesso auto-inflitte e ha deciso di avanzare giorno dopo giorno in maniera letterale. Questa Francigena allora si apre a una doppia lettura: quella di un divenire e quella di un momento presente, di scelte che in molti intraprendono, in nome di ciò che il capitalismo avanzato cerca di rubarci: il tempo.

non sanno chi è). Ma le opere del “cattelaniano” Rossi, che si avvale per comporre i suoi lavori, come il grande maestro padovano, del famosissimo tassidermista Pier Giorgio Bani, non sono piaciute, pare, al vice-presidente del Consiglio regionale Marco Stella di Forza Italia (molto noto, per le sue cravatte, agli studiosi del cattivo gusto) che insieme ai componenti della Lega (che riconoscono come vera arte solo quella celtica) hanno manifestato il loro disappunto allo staff del Presidente Giani per l’esposizione di questa “robaccia”. Lo staff, ubbidiente, ha fatto prontamente rimuovere 3 delle 6 opere presentate. Non sappiamo se questi difensori della purezza della tradizione artistica occidentale hanno chiesto che i lavori di Tommaso Rossi fossero anche bruciati nel cortile del palazzo a imitazione di Joseph Goebbels e delle sue campagne per distruggere le opere di entartete Kunst, la famigerata Arte degenerata.


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Un’estate al museo

Sara Nocentini saranocentini123@tiscali.it di

Con questo articolo, Sara Nocentini, gia assessore alla cultura della Regione Toscana, entra a far parte della redazione di Cultura Commestibile egli ultimi anni, anche grazie all’impegno e all’attivismo di alcuni storici dell’arte, non sono mancati momenti di discussione e approfondimento circa il significato e l’attuazione dell’articolo 9 della Costituzione italiana che, con due frasi molto asciutte consegna a tutti noi il diritto-dovere di costruire una cittadinanza piena intorno al nostro patrimonio culturale e paesaggistico. Non si tratta di un compito di chiara definizione: in quale rapporto si pongono la promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca, con la tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione? In quali forme, con quali modalità, con quali priorità si può costruire senso ed azione intorno all’articolo 9? Abbiamo chiesto al direttore del Museo di Storia Naturale di Firenze, Giovanni Pratesi, quale sia oggi la filosofia che ispira l’azione quotidiana e le prospettive di investimento di uno dei primi musei aperti al pubblico in Europa, oggi gestito direttamente dall’Università degli Studi di Firenze, e suddiviso in otto sezioni, tra cui le più note sono certamente zoologia (La Specola), l’Orto Botanico e Paleontologia. “Accanto ad un’attenta opera di conservazione e tutela del patrimonio – spiega Pratesi - il museo si impegna su due direttrici che ritiene centrali per la propria attività: un forte legame con il territorio e una ricca offerta formativa/educativa”. Il Museo di Storia Naturale è stato individuato nel 2014 dalla Regione Toscana come capofila per la costituzione di una rete museale tematica legata ai musei della scienza della Toscana, insieme al Museo Galileo di Firenze e al Museo Leonardiano di Vinci, con l’obiettivo di sviluppare investimenti e progetti in modo coordinato. Il Museo di Storia Naturale contribuisce inoltre alla gestione o alle attività di altri musei e luoghi della conservazione, tra cui il Parco

N

Minerario dell’Elba. “Il lavoro di ricerca e il coinvolgimento della popolazione al Parco minerario dell’Elba – osserva Pratesi – ci ha consentito di rivisitare il territorio in molteplici dimensioni: l’emergenza naturalistica, la storia economica e sociale. Particolarmente preziosa è stata la collaborazione dei residenti per riscoprire antiche tecniche di lavorazione, percorsi sotterranei e una sorta di “galleria scuola” dove i minatori venivano addestrati prima di scendere a maggiori profondità. Nei musei spesso le opere, ciò Sergio Favilli sergio.favilli@libero.it di

Spesso la mancanza di cultura e la troppa approssimazione fanno si che alcune persone ed eventuali organizzazioni che a loro si rifanno commettano dei gravi errori che rivelano all’attento lettore la loro assoluta incoerenza. In particolare il Movimento 5 Stelle si è insistentemente distinto nell’esternare la propria essenza con i fatti accaduti nelle ultime settimane.Il primo fatto riguarda la messa in funzione di “Rousseau” il nuovo sistema informatico che gestisce tutte le iniziative del M5S e coordina tutte le attività del movimento; la piattaforma Rousseau, pur intitolata ad uno dei principi della tolleranza, risulta un sistema chiuso e controllato da pochissime persone. Il secondo fatto prende in esame quanto sostenuto dall’on. Di Battista in una recente intervista a La

che viene conservato appare decontestualizzato. Compito del museo è ristabilire un rapporto con il territorio in modo che il museo possa arricchire la popolazione riproponendole il suo passato con diverse chiavi di lettura e questa possa contribuire a elaborare, diffondere e condividere i valori, le storie e le collezioni che vengono racchiuse nel museo”. A questo fine la collaborazione dei piccoli cittadini è secondo il direttore estremamente preziosa. “I bambini sono curiosi e spesso ancora liberi da molti condizionamenti della società. Per

questo sono capaci di interrogare persone e luoghi in modo profondo. Non solo, i piccoli hanno una grande forza di contaminazione. Quando tornano a casa raccontano la loro esperienza, stimolano domande, discussioni, riflessioni e diventano a loro volta “formatori” di cultura e sensibilità per l’ambiente. In molti casi, i bambini tornano al museo portando la famiglia, con il desiderio di condividere ciò che hanno appreso. In un certo senso, magari inconsciamente, avvertono di aver acquisito una sensibilità che non trovano fuori da quel contesto e vogliono condividerla, disseminarla”. Bambini e bambine visitano spesso i musei in gita scolastica, che resta un momento importante di apprendimento, in molti casi l’unico accessibile. Per il periodo estivo il Museo di Storia Naturale, in collaborazione con il Museo Galileo e il Museo Leonardiano di Vinci offre un’ampia scelta di settimane educative (generalmente noti come centri estivi) per bambini in età scolare, utile per avvicinarsi giocando al patrimonio conservato nelle varie sezioni del Museo e sviluppare nuove curiosità. Per maggiori informazioni www.msn.unifi.it/event/save-the-weeks/

Piattaforma Rousseau

Repubblica rilasciata in occasione della querelle con Pizzarotti: - Per il Movimento 5 Stelle l’intransigenza è un valore - salvo poi affermare tre giorni dopo in TV che: - la flessibilità è importante -. Poiché tutti i dizionari accostano, giustamente, l’intransigenza con l’intolleranza non si comprende con quale faccia un intransigente dichiarato come l’on. Di Battista possa usufruire di una piattaforma gestionale che si richiama ad un filosofo che ha fatto della tolleranza la sua prima bandiera. I casi possono essere solo due: o la piattaforma Rousseau è una bella bufala atta ad attirare frotte di ingenui cittadini che sono convinti di influenzare decisioni prese da due o tre persone oppure la faccia dell’on. Di Battista è stata fortemente

manipolata da un tardo allievo di Benvenuto Cellini. Autorevoli commentatori politici sono dell’avviso che entrambe le ipotesi corrispondano al vero e che l’on. Di Battista e Matteo Salvini si siano messi d’accordo per distruggere definitivamente le antiche radici culturali della civiltà occidentale. Adesso che le Unioni Civili sono diventate legge della Repubblica i due potrebbero anche fare coppia fissa, sposarsi e chissà se un giorno (la scienza non ha confini) potrebbero anche fare un figlio insieme: ve lo immaginate Di Battista col pancione a braccetto di Matteo Salvini che grida - Passeggini di ghisa!!! - Con due genitori così per noi sarebbe scontato apostrofare il bambino con una antica esclamazione: - Povera Stella!!!!!


4 GIUGNO 2016 pag. 11

Un archivio per Dylan

Simone Siliani s.siliani@tin.it di

È

appena trascorso il 75° compleanno di Bob Dylan e lui lo ha festeggiato con l’uscita del suo 37° album in studio, “Fallen Angels”, che come il precedente “Shadows in the Night”, comprende solo cover delle canzoni che nella prima metà del Novecento avevano animato Tin Pan Alley la zona di Manhattan che dominava la scena della musica popolare americana (da cui provenivano le canzoni di Frank Sinatra, Bing Crosby, ecc.). Dylan guidava, negli anni ‘60, una generazione di musicisti che si poneva come l’antitesi a Tin Pan Alley: in una introduzione a Bob Dylan’s Blues, il menestrello di Duluth ebbe a dire che questa canzone non nasceva come tutte le canzoni che vanno per la maggiore a Tin Pan Alley, bensì in qualche posto in giro negli Stati Uniti. Va bene, Dylan ci ha stupiti, come ama fare, tornando a quella scena che aveva avversato; ci dice che può cantare quelle canzoni con un ambiente completamente diverso e che anche lì c’erano alcune delle radici della musica popolare americana che ha portato fino a lui. Perfetto, Bob; però ora abbiamo capito, anche basta. Voglio dire che Melancholy Mood è una bellissima canzone anche se a cantarla è la tua voce graffiante e non quella armoniosa di Frank Sinatra; l’album contiene anche qualche preziosità come On a Little Street in Singapore o Skylark; però ora, se possibile, torniamo a fare un po’ di musica! Allora, per non farsi intristire troppo, sempre in materia dylaniana andiamo all’annuncio della destinazione dell’immenso archivio di Bob, acquistato per una cifra fra i 15 e i 20 milioni di dollari dalla Fondazione della George Kaiser Family e dall’Università di Tulsa, Oklahoma e che, nel giro di due anni, sarà catalogato, digitalizzato e reso fruibile per studiosi e cultori della materia. Le anticipazioni ci dicono che esso contiene importantissimo materiale che potrà cambiare molte delle conoscenze su questo autore su cui si scrivono tesi di laurea, volumi di letteratura e finanche citazioni nelle sentenze della Corte Suprema. Ma qui vorrei limitarmi a segnalare il

senso dell’operazione che George B.Kaiser ha voluto compiere con questa acquisizione. L’archivio di Dylan sarà posto accanto ad una rara copia della Dichiarazione d’Indipendenza, una collezione di arte di nativi americani e, soprattutto, all’archivio di Woody Guthrie. Kaiser non è solo un appassionato di Dylan (suo coetaneo, ha frequentato Harvard quando Joan Baez suonava lì), ma dice di aver fatto questo investimento su un archivio (sic!) per rivitalizzare Tulsa: Portland non Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Mediumsaracinesca

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

è sempre stata cool; Seattle non è sempre stata cool. Uno dei modi attraverso i quali può essere resa cool una città è quello di attrarvi giovani di talento e sperare che un certo numero di essi vi rimanga”. Non ci si può credere: in America qualcuno pensa che un archivio possa rendere attraente e moderna una città?! Ma questo sarebbe un fenomeno anche in Italia, figuriamoci negli States! Peraltro quello del rapporto fra archivi “storici” e rock ‘n’ roll è un tema importante e lo sarebbe

anche in Italia se non concepissimo gli archivi degni di tale nome solo quelli che al massimo arrivano ai primi del Novecento e comunque non certo quelli della musica popolare. Rischiamo, in Italia, di veder andare perduti pezzi di storia della nostra cultura e anche della nostra letteratura e quei pochi che ad oggi degniamo di attenzione (ad esempio quello di De André che, almeno, è custodito in parte all’Università di Siena) sono considerati cultura minore. Ecco, in America questo tema inizia invece a trovare la giusta attenzione e molti dei musicisti più “storici” (da Springsteen a Neil Young) e i loro agenti sono interrogati dalla disconnessione esistente fra la necessità di archivisti professionisti e la cultura del rock degli anni ‘60. Ebbene questo sarebbe un grande tema per gli archivisti e per i musicisti, produttori discografici e gli organizzatori di festival e concerti italiani, senza attendere che gli artisti passino a miglior vita e il patrimonio di carte, video e registrazioni si disperda.


4 GIUGNO 2016 pag. 12 Matteo Rimi lo.stato@libero.it

Narrazione a puntate con finale a sorpresa

i aspettava l’illuminarsi di un nuovo scenario ma il buio continuava ad annichilire tutto il resto. Solo una piccola luce, in lontananza, attirò la sua attenzione. Mentre ancora si domandava se sarebbe riuscito a muoversi o se era meglio non fidarsi, fu la luce stessa a dargli la netta sensazione che si stesse dirigendo verso di lui: non si ingrandiva né intensificava, semplicemente avanzava, viandante munito di lucerna in mezzo alla nebbia. Ma certo non fu una lanterna ciò che si trovo davanti, bensì una lampada a gas poggiata su una scrivania illuminando la sua superficie, le colonne di libri erette un po’ dappertutto ed un uomo chino, intento a scrivere su fogli sparsi con una penna a china, che gli mostrava le spalle rannicchiate. Sfoggiava vestiti d’altri tempi e sembrava per niente disposto ad alzare la testa dal suo estenuante lavoro. La mano correva libera

Capitolo 10 La distanza

di

S

Andrea Caneschi can_an@libero.it di

Conoscete Venezia? Siete mai stati presi dalla magia della luce e dell’acqua, che si appoggia alle antiche pietre di mare e ti cattura lo sguardo, mentre ti perdi in un tempo che vorresti si fermasse per fissare in te tutta quella bellezza? Bisogna però alzarsi presto al mattino, attraversare le calli che si snodano dietro i percorsi turistici, scavalcare piccoli canali serpiginosi che rimangono chiusi tra le case incombenti, come il tuo sguardo che cerca invano di allungarsi a scoprire altre meraviglie. In quei momenti, prima che i negozi riaprano e le vie si animino del flusso incessante e soffocante dei turisti, il silenzio ti avvolge e puoi quasi pensare che la notte si sia portato via tutto quello che animava la città poche ore prima. E se il sole splende, sollevatosi da poco dall’orizzonte dopo una notte di temporali e d’acqua, allora la luce è speciale, quasi liquida; si insinua in ogni varco e riempie pian piano i campielli e le calli, rubando spazio all’ombra dei palazzi. I rari passanti che incontri, se non vanno frettolosamente al lavoro, forse abituati a quello straniamento, sono turisti con la stessa aria un po’ persa e affascinata dall’incredibile

sulla pagina, tracciando le tonde linee di chi ha lavorato molto sulla forma oltre che sulla sostanza, gli occhi ne seguivano agitati i movimenti, in affanno per star dietro a quell’irrefrenabile flusso. Il ragazzo decise che era arrivato il momento di provare a compiere il primo passo in quella nuova situazione e lo fece coprendo la distanza che lo separava dalle spalle dell’uomo per riuscire a sbirciare al di là. Sapeva che si sarebbe trovato a leggere versi ma doveva per forza sincerarsi del fatto che non stesse riempiendo cartelle su cartelle senza dedicare al bianco l’importanza che la poesia concede. Non sempre i miei alleati si ritrovano succubi della propria vena poetica; a volte riescono ad domarla, con studio e riflessione, in modo

da cercare di fissare nero su bianco il complicato e sfuggente pensiero che domina la loro mente. La nuova intrusione della sua guida lo sorprese proprio mentre stava spiando lo scrivano facendolo sobbalzare neanche fosse stato beccato con le mani nella marmellata! R. M. Rilke ha toccato molte delle correnti letterarie e filosofiche a lui contemporanee frequentando i migliori salotti d’Europa, riuscendo a sfoggiare, allo stesso tempo, una notevole personalità ed una sapienza ragguardevole, ma ciò che egli caparbiamente cercava, scavando in ogni pagina, era di colmare l’abisso tra il reale inconoscibile e le nominazioni che ci inventiamo per non perdervisi del tutto. Ciò che ha fatto è unico ed è stato per la bellezza un grande salto in avanti. Discretamente, come’era venuta,

la voce nella sua testa se ne andò, dandogli la possibilità di afferrare le parole di quella manciata di versi. Qui è il tempo del dicibile, qui è la sua casa. Parla e riconosci. Più che mai precipitano le cose, quelle esperite, perché è un fare senza immagine che le sostituisce una volta svanite. Un agire sotto le croste, che presto s’infrangono, quando dentro si dispiega l’agire e si pone nuovi limiti. Tra martelli esiste il nostro cuore Come la lingua tra i denti, che pure rimane predisposta all’elogio. Se ne distaccò appena in tempo per vedere che la luce si stava sciogliendo in un tramonto. (continua)

alla regata, e arrivare al Tronchetto, dove con gli altri dell’equipaggio ci imbarchiamo per la Vogalonga. Il nostro è un equipaggio un po’ speciale, composto di venti validi vogatori d’annata, donne e uomini, età media 60 anni con qualche punta all’insù: partecipiamo a questa 42° Vogalonga per confermare la nostra preparazione in vista delle scadenze agonistiche della stagione, ma soprattutto per vivere e rivivere, come è per tanti che da più anni non perdono quest’evento, questa esperienza speciale, di vedere Venezia, la laguna, le isole, dalla parte dell’acqua, mentre ci districhiamo

tra le migliaia di imbarcazioni di tutti i generi che come ogni anno animano questo attesissimo evento. Quando giungiamo con il nostro dragone nel bacino di fronte a San Marco, appena in tempo prima dello scoppio del cannone che annuncia la partenza, gran parte delle imbarcazioni sono già ben oltre, avviate per loro conto a conquistare le posizioni più comode, lontane dalla suggestiva ma scomoda calca tra San Marco e la punta della Giudecca. Appena il tempo di ammirare gli equipaggi intorno a noi: molti “dragoni” come il nostro, a dieci o venti vogatori, molte “voghe venete”, con gli equipaggi in piedi appoggiati ai lunghi remi, come quelli delle gondole; numerose anche le grandi barche con dieci o più rematori, che ricordano le baleniere di Moby Dick, e naturalmente equipaggi di canottieri variamente composti per numero di vogatori e assetto dei remi. Canoe e kajak si insinuano agilmente e pericolosamente tra le imbarcazioni più grandi; stendardi di club e bandiere di tante nazioni si abbandonano al vento; addobbi floreali, copricapi alla vichinga, perfino una pianola con tanto di suonatore: una festa infinita, per noi e per la folla assiepata sulle rive.

I Vecchi e il Mare

Venezia

bellezza del quadro cui partecipano. Quando arrivi sulla laguna, sbucando da un vicolo che si fa sempre più stretto, fino ad aprirsi alla luce del mare sotto il colonnato di una chiesa seicentesca, quasi non riesci a contenere lo splendore che ti coglie improvviso. L’orizzonte di case, di chiese, di barche e di acqua si compone in un equilibrio surreale, che fai fatica ad accogliere, e allora ti abbandoni a quel pieno, sperando di non perdere nulla. Ma hai fretta, devi attraversare la laguna da San Marco con l’ultimo vaporetto, prima del blocco previsto per lasciare spazio


4 GIUGNO 2016 pag. 13

La grande alluvione

Barbara Setti twitter @Barbara_Setti di

G

iovedì 19 maggio è stato presentato il volume monografico speciale di Testimonianze dal titolo “La grande alluvione”, a cura di Giorgio Federici, Miriana Meli, Lucio Niccolai, Severino Saccardi, Simone Siliani e Vincenzo Striano. È introdotto da un editoriale del n.89 del novembre 1966, a firma Testimonianze ma attribuito a Ernesto Balducci, un articolo che, nello slancio emotivo e nello sdegno politico di quei momenti, pone 2 grandi temi: la responsabilità dello Stato, la frattura tra la Firenze reale e la città legale e chiude con Una città in mano ai giovani. Questi rappresentano alcuni dei fils rouges del volume, articolato in 8 grandi sezioni, più una preziosa rassegna bibliografica finale. Tantissimi sono i temi, gli articoli, gli argomenti. Naturalmente ampio spazio è dato ai ricordi, alle memorie dell’evento, a Firenze, nella sezione “Quei giorni a Firenze”, ma molto ricca è anche la parte sull’alluvione del 1966 in Toscana, in particolare in Maremma e, naturalmente, nel Casentino. Bella la parte di rapporto con le scuole “Ripensare l’alluvione a scuola” e quella sul tema dell’acqua come bene da rispettare, in chiave antropologica ed ecologica. Mi vorrei concentrare, soprattutto, su due grandi temi che emergono: la gestione del rischio idrogeologico, cosa è fatto e cosa rimane da fare, da una parte, e la nascita del restauro contemporaneo a Firenze a seguito dell’alluvione del 1966. Nell’articolo introduttivo Giorgio Federici spiega come l’Autorità di Bacino dell’Arno, nel Piano di Difesa delle alluvioni del 2015, indichi che l’area metropolitana a Sud del centro storico di Firenze è ad alta pericolosità idraulica, il centro storico a media pericolosità. Però, se si guarda cosa sia stato fatto in questi 50 anni, “l’elenco è piuttosto smilzo”, scrive Federici: il serbatoio del Bilancino (riduzione del 3-4% della pericolosità a Firenze), delle 4 casse di espansione previste dal 1999 in Valdarno solo una dovrebbe essere completata nel 2016; le altre 3 sono state finanziate nel 2015; l’intervento sulla diga di Levane ha “finalmente” avuto il progetto esecutivo nel

2015. Oltretutto, sembra che non siano interventi adeguati per proteggere Firenze da un evento come quello del 1966, che, ricordiamo, ha messo in gioco 500 milioni di metri cubi di acqua, nella piena. L’ITSC (International Technical Scientific Committee), ricorda sempre Federici, costituito nel 2014, ha suggerito di “realizzare un modello fisico per studiare delle soluzioni nuove di riduzione della pericolosità analoghe alle uniche efficaci realizzate negli anni 70”, cioè l’abbassamento delle platee di Ponte Vecchio e ponte Santa Trinita e l’innalzamento delle spallette. Anche nella bella intervista di Severino Saccardi e Simone Siliani a Mario Primicerio emergono gli stessi temi. L’eredità dell’alluvione in chiave politica che ne fa Primicerio è molto interessante: da una parte, il riconoscimento che la gestione del rischio idrogeologico, il tema della regimentazione dei suoli, più in generale dell’ecologia era, nella letteratura politica degli anni 1960, completamente assente, se non in La Pira, ma visto in termini “essenzialmente spirituali”. Primicerio si rimprovera di non avere nominato un comitato internazionale di studio sul rischio idraulico, preoccupandosi di più, e rivendicandolo con – credo – giusto orgoglio, del “controllo sociale” dei corsi d’acqua, della cura degli argini e degli alvei, di quella manutenzione fondamentale per evitare qualsiasi tipo di inondazione, grande e piccola. E qui mi ricollego a un altro articolo, di Piero Piussi e Giampietro Wirz, su un contributo apparentemente minore rispetto alle grandi gesta degli angeli del fango, ma

a mio avviso importante e non meno simbolico: la storia del Bosco degli Svizzeri, l’intervento di un gruppo di giovani studenti in Ingegneria Forestale del Politecnico Federale Svizzero che, a pochi giorni dall’alluvione, andarono in Mugello a rimboschire cinque ettari di terreno, in accordo con la Facoltà di scienze Agrarie e Forestali dell’Università di Firenze. Ritornando a Primicerio, l’articolo ricorda anche le eredità positive dell’evento: la nascita della Protezione Civile, che prima non esisteva; la mitigazione del rischio idraulico; la protezione dei siti sensibili dal punto di vista del patrimonio storico-artistico. Ecco, appunto, il patrimonio storico-artistico e il suo restauro. Marco Ciatti, soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure e dei Laboratori di Restauro di Firenze, inizia il suo articolo con una frase molto chiara, che descrive benissimo quanto successe nel novembre del 1966 e cosa questo provocò nel campo del restauro: “L’alluvione […] portò ad un livello quasi parossistico tutta una serie di problematiche che esistono normalmente nella conservazione delle opere, ma mai con una intensità così grave, sia qualitativamente, come tipologia di danno, sia quantitativamente, con un numero così alto di opere danneggiate simultaneamente”. Qualche numero, ricordato da Cristina Acidini: 2.300 metri quadri di pitture murali staccati, 320 dipinti su tavola danneggiati, 692 su tela, 495 sculture, 12.000 vasi e reperti etruschi….. Ma questa tragedia fu soprattutto l’occasione di sprovincializzare il restauro fiorentino, attraverso

il confronto tra la tradizionale abilità manuale, sensibilità dei restauratori locali con l’impostazione scientifica e tecnologica dei restauratori di altre tradizioni che subito accorsero a Firenze. Uno dei numerosi, grandi meriti di Ugo Procacci, allora direttore della Soprintendenza, fu il “cortese rifiuto” dell’offerta di trasferire le opere all’estero, scegliendo di farle rimanere a Firenze, per garantire una omogeneità di intervento e il controllo su tutti i restauri. Procacci chiese che tecnici, materiali e attrezzature venissero, a Firenze. E così avvenne: l’UNESCO creò un apposito fondo CRIS (Committee to Rescue Italian Art) per aiutare Firenze e Venezia. Nel 1972 si svolse la mostra Firenze restaura, nei padiglioni della Fortezza da Basso. La mostra e il catalogo sono definiti, da Cristina Acidini, un “pietra miliare” nel restauro italiano e internazionale, consentendo di individuare, nel mondo del restauro fiorentino, luoghi e competenze tra cui, naturalmente, la Scuola di Alta Formazione presso l’Opificio delle Pietre Dure. Marco Ciatti descrive molto chiaramente le altre due scelte storiche, oltre al mantenimento di tutte le opere alluvionate a Firenze, per il restauro: la velinatura sulla superficie pittorica dei dipinti mobili (per evitare future perdite di colore); la decisione di lasciare inizialmente le opere nei luoghi dove si erano bagnate, ponendole in orizzontale, per evitare bruschi, pericolosissimi sbalzi di umidità del legno e conseguente trasferimento alla Limonaia di Palazzo Pitti, in ambiente a umidità controllata. Per concludere, Salvatore Siano racconta molto bene la creazione di quello staff multidisciplinare che ha reso “Firenze e l’Italia […] leader nella conservazione dei BBCC e sono riuscite a trasmettere all’Europa e a larga parte del mondo i principi fondamentali della tutela del patrimonio culturale”. Solo per fare alcuni esempi: l’applicazione delle fotogrammetria per il controllo delle deformazioni; l’utilizzo del Paraloid B72; l’impiego del tributilfosfato per staccare il Cenacolo di Matteo Gaddi; il controllo sul biodegrado e sul degrado lapideo. Questo volume di Testimonianze è in vendita, come si dice, nelle migliori librerie.


4 GIUGNO 2016 pag. 14 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

I

l vero riposo è quello dello spirito. È grata la fatica fisica del cammino o, meglio, della marcia perché, come per un particolare contrappasso, prepara lo spazio in cui l’anima può trovare (un po’ di) pace, riprendersi l’armonia che gli accidenti dei giorni spesso hanno turbato. Scrive David Le Breton (Il mondo a piedi) che “camminare consente di percepire la realtà con tutti i sensi”. Io preferisco l’espressione ‘riprendersi la realtà’; ma quale realtà? Si può dire: anzitutto, quella in e di sé stessi. È straordinario il fatto che molto di ciò che è ripetitivo, apparentemente monotono, in realtà dischiude scenari interiori impagabili, unici: come la preghiera condotta sui grani del rosario, così è la marcia nel susseguirsi di passi ritmati, per lo più tutti uguali; mani e gambe come in una catena di montaggio, infaticabili, mentre lo sguardo, il pensiero, lo spirito possono innestarvi viaggi, scrutare orizzonti, percepire l’infinito. Si sviluppano energie e potenzialità immaginative, creative, da cui trarre conferme al valore dell’esistenza e avviare segrete riconciliazioni. Cosicché la vita pare un continuo susseguirsi di distruzione e (ri) creazione, di inferno e paradiso, di guerra e di pace. Ecco dunque assieme l’incedere nei giorni e il cammino interiore, la marcia in mezzo alla natura e la preghiera. Quest’ultima che non è altro che confidenza con Dio, perché - come scrive il Santo Josemaria Escrivà (Cammino) - “pregare è parlare con Dio”; e, di grazia, quali sono gli argomenti di questa conversazione? Semplicemente “gioie, tristezze, successi e insuccessi, nobili ambizioni, preoccupazioni quotidiane...” La scoperta di profonde affinità tra marcia e preghiera è nulla di nuovo se non per il singolo. Per il quale potrà trattarsi come del rinvenimento di un tesoro archeologico; una cosa che stava da tempo immemorabile nascosta, non vista, in un qualche recesso e che voleva in un certo senso essere portata alla luce per consegnarsi nella sua preziosità.

Della marcia e del riposo nella terra di mezzo

In uno dei più bei luoghi della terra di mezzo tra Firenze e Siena, domandandoti se per caso non sia già la (tua) vita

una ‘terra di mezzo’, al termine di una salita lunga e moderatamente defatigante, già immerso in panorami ariosi e soleggiati

e con l’anima pronta a ricevere tutto il bello che c’è nell’universo mondo e nel suo Creatore, puoi sempre contare di salutare nuovamente nella chiesa del paese, in un angolo semibuio, silenzioso e immoto, quella che hai chiamato la Vergine del (tuo) cammino; dinanzi alla quale è non di rado l’imbarazzo se chiedere intercessione per qualcosa o semplicemente ringraziare per tutto. Cammino (o marcia) e preghiera procederanno sempre più uniti anche in questo: non si intraprendono o non s’hanno da esercitare se non per se stessi, più che in vista di qualcos’altro. Perché è in ciò che essi inaspettatamente rilasciano la ricchezza straordinaria che custodiscono. Lo si capisce con il tempo. Non c’è niente di più puro, essenziale ed appagante che la libertà, l’assoluta gratuità della preghiera e della marcia.

Le architetture di Pasquale Camegna

Roma


Bizzaria degli oggetti

4 GIUGNO 2016 pag. 15

Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it a cura di

Grande latta pubblicitaria con caratteri, candele e chierichetto in rilievo, anni ‘20/’30 del Novecento. Quale migliore immagine per pubblicizzare una importante Ditta che produceva candele, di quella di un ragazzotto che, fiero dell’abito talare, anche se corto, non gli arriva ai talloni, come dovrebbe, almeno in base all’etimologia, e della cotta immacolata e trinata che indossa, svelto svelto ed affaccendato si accinge a rifornire di candele la chiesa in cui presta la sua opera di ministrante o chierichetto che dir si voglia? Niente vi dico del Premiato Stabilimento che, verosimilmente, dopo avvento e diffusione della luce elettrica è andato incontro a chiusura certa, qualcosa sulla composizione delle candele, di cera d’api o steariche, ottenute cioè dall’acido stearico, prodotto dalla saponificazione di grassi animali o vegetali...e qui mi inoltro nel famoso caso giudiziario della serial killer detta saponificatrice di Correggio e cito una frase terribile tratta dalle sue presunte memorie “...finì nel pentolone, come le altre due ( ); ma la sua carne era grassa e bianca: quando fu disciolta vi aggiunsi un flacone di colonia e, dopo una lunga bollitura, ne vennero fuori Caterina Perrone per.cate16@gmail.com

dalla collezione di Rossano

Ceri e candele

delle saponette cremose”.(Leonarda Cianciulli, Confessioni di un’anima amareggiata). Via, non ci soffermiamo oltre su questi macabri procedimenti chimici. In basso, a destra della latta di Rossanino, compare la firma dell’autore del disegno, trattasi di Romolo Tessari, nato a Castelfranco Veneto nel 1868 e morto nel 1925, fratello minore di Vittorio, ambedue pittori di cui poco si sa e di cui non molte opere restano. I genitori cercarono di avviare il figlio Romolo ad una carriera diversa da quella del fratello inviandolo nei Bersaglieri, ma ottennero solo di influenzare le prime ambientazioni delle sue opere ‘o Romolo pittor dei bersaglieri .. fu detto infatti per un po’. Pare sia stato sostanzialmente autodidatta, una sua opera Note gaie, presente ad una Esposizione di

Torino, fu acquistata dalla famiglia Reale, cosi come, molti anni dopo, una serie di cartoline realizzate da acquerelli suoi. La sua arte è fortemente legata alla cultura figurativa verista di fine Ottocento. All’inizio del Novecento, con il cambiar di gusti e rappresentazioni, si dedicò all’acquerello, raffigurando paesaggi e scorci cittadini, partecipò alla prima guerra mondiale come bersagliere e dopo il congedo si impegnò in lavori di vario genere e nella pubblicità. Oltre alla ditta di candele Vitali-Foligno, latte firmate realizzate da sue opere pubblicizzavano Macaroni-Vermicelle, BozonVerduraz, Biscotti e Cacao del

fiorentinissimo Luigi Viola di cui abbiamo già parlato grazie ad una deliziosa scatolina. Una sua latta promuove addirittura delle sigarette francesi Le Nil, altri tempi!!!! Le raffigurazioni, di chiara impronta tardo ottocentesca, risultano molto efficaci nella loro suadente intenzione pubblicitaria e costituiscono i primi esempi dell’arte della réclame che da poco, in Italia, aveva iniziato il suo cammino di grande mezzo di comunicazione di massa.

in quei mercati, in quei ristoranti che possiamo ritrovare se vogliamo all’indirizzo che ci rivela l’autore. Qualcuno penserà che siano i prototipi di gente un po’ particolare, tanti se ne ritrovano ovunque, stranieri, straniere procaci, chiacchierone, insinuanti, che vediamo per la città, sull’autobus, impegnati nei più disparati lavori, personaggi verosimili, tanto sono perfetti. No no sono proprio veri, hanno un nome, una faccia che potremo incontrare davvero. Lo posso testimoniare io che ne conosco due nella folta schiera, li conosco proprio bene. Sono miei, nostri amici. Mentre leggo di loro li vedo muoversi come si muovono loro, parlare come parlano loro, fare quelle facce buffe, li vedo proprio schizzar fuori dalle pagine del libro, delineati, direi scolpiti, non manca

nessuna profondità. Così sono sicuramente anche gli altri. Carlo è un affabulatore, con la faccia, il sorriso etruschi, il piglio ridanciano, graffiante del toscanaccio. Ci fa spesso, a noi amici riuniti intorno a un tavolo, il regalo di raccontare delle storie, che sono sempre storie vere, improbabili, inverosimili, troppo divertenti, perché la realtà è molto più sorprendente delle invenzioni. Anzi si sa che non si inventa proprio niente. Carlo ha però il dono di trasformare con il racconto anche una vicenda, che appena emerge dalla normalità, in una scena di teatro popolare, in una commedia dell’arte, tanto che se la racconta più volte sembra ancora diversa, ti riserva sempre qualche sorpresa. Quelle metafore che farebbero impallidire il postino di Troisi, ci riportano continuamente alle nostre radici, reduci del nostro passato comune, storicamente determinato:

ci riconosciamo dalle esperienze che abbiamo fatto insieme anche senza conoscerci, per i film che abbiamo visto anche senza incontrarci, per quegli eventi di cronaca che ci rendono compagni di cammino anche senza sapere i nomi uno dell’altro. Scrivendo questo libro, il suo primo libro, è come se si fosse allargato il tavolo, come se fosse aumentato il numero degli amici, raccolti ad ascoltare, numero che sta già allargandosi, che sicuramente si allargherà ancora, col passaparola, con la diffusione del libro nelle librerie di Firenze, di altre città dove già lo stanno aspettandolo. Sappiamo anzi che ne sta già pensando un altro, sta raccogliendo gli episodi da narrare, ne ha tanti in serbo, tanti ne troverà ancora in futuro, tutti in attesa di essere trasformati dal suo parlare in eventi che vale la pena di ascoltare. Non si può non diventare amici di qualcuno che ti racconta una storia, che ti fa sempre sicuramente sorridere, qualche volta ridere a crepapelle. (Carlo Ciatti, La mano del Santo, ed. Nardini)

di

Storie vere e improbabili Una mano naufraga in un mare di immondizia, emerge, chiede aiuto, con un gesto che è quasi un urlo. La mano percorrerà tutta la storia, comparendo, scomparendo con il suo enigmatico quesito, a chi appartiene? Chi ce l’ha messa o meglio come è finita proprio lì dove è sta rinvenuta casualmente da un attonito operatore ecologico? La mano vaga tra gli episodi di questo noir divertente, colmo di malinconici disincanti, fino alla fine rocambolesca, spiazzante. Si dirà allora che la mano sia la protagonista del libro, anche il titolo lo sosterrebbe, invece no i veri protagonisti sono i personaggi, le decine di figure che affollano i capitoli, le pagine, le righe, tutto. Li vediamo muoversi per la Firenze che conosciamo, nelle vie, nelle piazze, li abbiamo sicuramente incontrati in quei bar,


4 GIUGNO 2016 pag. 16 Roberto Mosi mosi.firenze@gmail.com di

D

omenica 29 maggio, a Cortona, si è svolta l’iniziativa “Futuro Etrusco” promossa dal Comune di Cortona, dall’Accademia Etrusca, dal Maec (Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona) e dall’Associazione Aion Cultura. È stata l’occasione per valorizzare le opere d’arte contemporanea esposte nel museo in concomitanza con la mostra “Etruschi, maestri di scrittura. Cultura e società nell’Italia antica”, che è stata inaugurata al Maec lo scorso 17 marzo, nell’ambito di uno stretto rapporto con i Musei del Louvre, di Zagabria e di Monteplellier. È stato un pomeriggio all’insegna del rapporto tra arti contemporanee e archeologia. Si è iniziato nella splendida cornice di Palazzo Casali, in piazza Signorelli a Cortona, sede del Museo Archeologico - con la visita guidata alle opere in mostra realizzate dagli artisti: Sara Lovari, Cristina Melacci, Valerio Giovannini e Milena Kalte. Cristina Melacci, designer orafa e artista, ha realizzato il progetto “Cesure”, un omaggio alla scrittura etrusca e alla Tabula Cortonensis. Le “Cesure” sono tagli, sono pause nella scrittura, che diventano interventi artistici nei lavori in mostra. Sara Lovari, pittrice, ha realizzato opere ad hoc e un allestimento site-specific dove protagonisti sono gli “Oggetti” di vita quotidiana “simboli di memoria collettiva tanto cari all’artista” che richiamano particolari della scrittura etrusca. Valerio Giovannini, pittore, con i lavori in mostra ripercorrendo la sua produzione estetica e ermeneutica degli ultimi anni, propone una selezione di opere in lino, rame, oro, legno e terracotta, fra i quali “ Tular Dardanium”( “Il confine dei Dardani”). Milena Kalte artistaartigiana, specializzata nella creazione di monili dalle forme antiche. Dopo la visita guidata alle opere degli artisti, nel Salone Mediceo del Palazzo, edificato nel XIII secolo, ha avuto luogo la performance di danza contemporanea di Lise Gibet. È stato proiettato poi il cortometraggio “Janela”. Ispirato

Gli Etruschi e l’arte contemporanea

al reperto archeologico delle Lamine d’oro di Pyrgi (presente in mostra al museo) e alla leggenda dei Libri Sibillini, il video è stato realizzato a Lisbona con la regia di Valerio Giovannini in occasione della grande mostra cortonese “Etruschi, maestri di scrittura” e presenta un originale approfondimento estetico sui temi della scrittura etrusca, della profezia e del concetto di “confine”, con l’ibridazione di generi diversi: fiction, videoarte,

videoclip. L’opera è un omaggio contemporaneo all’incontro degli “immigrati Etruschi” con le popolazioni neolitiche dell’antica Toscana quando furono introdotte tecnologie d’avanguardia come scrittura, architettura e metallurgia e venne creata una cultura e una società che rese possibile un’emancipazione femminile ante litteram. La manifestazione è terminata con l’approfondimento sul tema “Gli etruschi e l’arte contempo-

ranea”, sviluppato dagli interventi dell’Assessore alla Cultura del Comune di Cortona, Albano Ricci, la Presidente dell’associazione “Aion Cultura”, Eleonora Sandrelli e il Direttore del Mann (Museo Archeologico Nazionale di Napoli), Paolo Giulierini. Paolo Giulierini si è soffermato sul valore degli artisti presenti e sul significato attuale del dialogo che hanno saputo stabilire con le opere e i segni della scrittura etrusca, grazie al ricorso a vari strumenti dell’arte: pittura, design, danza, cinema. A livello nazionale e internazionale – ha ricordato Giulierini - gli artisti contemporanei sono sempre più presenti nei musei e sanno dare interpretazioni dei luoghi e degli oggetti antichi, cogliendo significati attuali e profondi della vita di ieri e di oggi, possibili collegamenti e contaminazioni. Particolarmente interessante il riferimento del direttore del Museo Archeologico di Napoli, alla Mostra appena inaugurata a “Giorni di un futuro passato” di Adriano Tranquilli, a cura di Eugenio Viola. L’esposizione mira (e riesce) a contaminare opere contemporanee con i capolavori dell’arte antica, custoditi nell’ex Palazzo degli Studi partenopeo. In particolare, gli eroi classici sono affiancati ai supereroi moderni ritratti da Tranquilli, che incarnano, in ogni tempo, la sete d’innalzamento dell’animo umano, come un riscatto dalla sua condizione di fragilità. Dai due Batman più Spider-man accanto all’Ercole Farnese, fino al Superman ferito al costato come Gesù e al maestro jedi Yoda, posto vicino a un busto dell’imperatore Claudio. Cortona con l’iniziativa di arte contemporanea “Futuro Etrusco”, ha confermato anche in questa occasione, dinamicità e intraprendenza culturale, come dimostra il successo nazionale della Mostra sulla Scrittura Etrusca – aperta fino al prossimo 31 luglio – che conta a oggi oltre diecimila visitatori.


4 GIUGNO 2016 pag. 17 Simone Siliani s.siliani@tin.it di

U

n libro doloroso, questo ultimo di Wlodek Goldkorn, “Il bambino nella neve” (Feltrinelli, 2016). Non un libro di memorie soltanto, seppure queste sono il filtro attraverso cui Goldkorn legge un parte importante della storia europea dell’immediato dopoguerra; bensì un libro sulla memoria. Non scontato e totalmente antiretorico: anzi, direi che l’antiretorica della memoria della Shoah è il filo conduttore più forte e originale. Un sorta di antidoto, acido e amaro, contro una retorica del “mai più”, del “ricordare affinché la storia non si ripeta” talvolta dolce fino ad essere stucchevole e soprattutto autoassolutoria. Perché, come spiega Goldkorn, la storia, quella storia di discriminazione, indifferenza, segregazione, antisemitismo si ripete eccome, incessantemente, nella storia d’Europa del secondo dopoguerra, fino alla tragedia colpevolmente ignorata della Bosnia. “Auschwitz c’è stata, dire “mai più” o “non permettete che si ripeta” significa costruire una specie di pedagogia della Shoah, cercare di trarre una lezione dalla catastrofe. Ma non ci può essere una qualche pedagogia, là dove la parola ha perso ogni significato. … La Shoah è solo un vuoto. Io di quel vuoto ho paura, e questo libro è un tentativo di far fronte all’angoscia, cercare di riempirlo con presunti significati positivi e con un messaggio di speranza è peggio dell’angoscia: è il rifiuto di capire quanto il Male sia radicato dentro ognuno di noi”. È un viaggio nel tempo, questo di Goldkorn; un viaggio nell’ebraismo (“che è tempo e non luogo”) sradicato nella Polonia del dopoguerra. Goldkorn si muove in un mondo svuotato dagli ebrei, là dove esso era popolato e caratterizzato culturalmente dalla presenza di quasi 4 milioni di ebrei di cui poco più di 300 mila sono rimasti. È spazzata via un’intera cultura (che aveva le sue articolazioni interne, dai retrogradi e asfittici shtetel della Galizia, fino ai laici eroi del Bund protagonisti della rivolta del ghetto di Varsavia),

Oltre la memoria

con la sua lingua (lo yiddish), le sue feste, le sue tradizioni, i suoi artisti e scrittori. E Goldkorn ripercorre, con senso di spaesamento, questo vuoto. Consapevole di appartenere ad una generazione separata da quelle che l’hanno preceduta da uno iato tragico: “bambini nati sette o otto anni dopo la guerra.... Eravamo una specie di viatico per una nuova vita. Non una vita di speranza, ma una vita nel senso più elementare, biologico, primitivo. Bambini fatti nascere per non sentirsi tutti morti”. Consapevole della propria naturale identità ebraica e di vivere la condizione perenne dell’Esodo (che però è comune a tutti gli uomini), ma capace proprio per questo di una visione laica, libera, europea sulla vita. Anche di guardare criticamente alla politica di vari governi dello Stato di Israele, così come a quella dei regimi comunisti dell’Est (per lui cosa dolorosa in quanto figlio di polacchi comunisti, dediti alla causa del socialismo che poi scoprono così radicalmente tradito dal regime), perché l’unica religione cui Goldkorn aderisce in modo totalizzante è quella della libertà. Fra i tanti, vi è un doppio merito di questo libro: ci spiega quale continuità di politiche antisemite possa nascondersi

dietro la retorica antifascista del comunismo polacco tanto da spingere i pochi ebrei polacchi superstiti ad emigrare in Israele e colloca questa storia polacca nel cuore dell’Europa e delle sue contraddizioni mentre la divisione del mondo lungo la linea di Yalta ha reso e fatto percepire la vicenda polacca esterna ed estranea all’Europa. Così il suo viaggio fisico nella Polonia dei campi di sterminio nazisti e nei luoghi della sua infanzia è un viaggio alla ricerca di un riscatto rispetto ai silenzi colpevoli, alle connivenze ideologiche con l’antisemitismo prima nazista e poi comunista, la retorica della memoria che cancella il ricordo, che Goldkorn ritrova in Marek Edelman il capo delle rivolta del Ghetto di Varsavia, nell’epica laica di quei giovani che per la prima volta in Europa nel 1942 resistono in armi (poche e rudimentali) per 45 giorni all’esercito tedesco. È lì, in quella lezione di libertà, una libertà che non viene da sola ma per cui occorre combattere sempre e che non si mantiene automaticamente dopo averla conquistata, che Goldkorn individua il seme del riscatto, della dignità e del senso ultimo di un’altra storia che avrebbe potuto essere, che fu schiacciata, ma che rispunta fuori caparbia continuamente. “Loro, i combattenti, sono parte di me, anche se io non sono parte di loro... il mio sentirmi polacco... non sarebbe possibile senza quegli eroi, senza quei duecentoventi ragazzi e ragazze che hanno combattuto a Varsavia. A Varsavia, in Polonia, non altrove... Come non pensare che solo ed esclusivamente loro abbiano riscattato l’onore di un popolo, di gente che altrimenti sarebbe andata alle camere a gas come le ‘pecore al macello’?”. Così ecco qui la radice della sua convinzione, maturata negli anni accanto a Marek Edelman (di cui Goldkorn ha curato la pubblicazione di memorie importanti come “Il guardiano. Marek Edelman racconta”, Sellerio, 1998), che la memoria

dei campi di concentramento serve solo se promuove e difende, ovunque e concretamente, le istanze di emancipazione. La seconda parte del libro segue appunto Goldkorn nei campi di Aushwitz, Birkenau, Treblinka, Sobibór, Bełżec, fino al nuovo museo dell’ebraismo a Varsavia. Un viaggio doloroso, certo, ma che serve a Goldkorn (e a ciascuno di noi) a giungere alla conclusione che “la memoria della Shoah significa saper parlare e trasmettere agli altri il linguaggio della ribellione, della radicale contestazione delle verità del potere.”. Di ogni potere, fino a quello dell’Altissimo, forse. Mi torna in mente, qui, un libro di Zvi Kolitz, ebreo lituano nato nel 1919 ed emigrato in Israele e poi a New York, dal titolo “Yossl Rakover si rivolge a Dio” (Adelphi, 1997). Yossl vive in un periodo di occultamento del volto divino. Dio ha nascosto il suo volto al mondo e lo ha consegnato agli istinti selvaggi dell’uomo. Ma pure in questa devastazione che lo sta perdendo, Yossl si rivolge, con orgoglio, al suo Dio da uomo libero. Come il suo popolo che quando il Sinedrio pronunciava anche una sola condanna a morte in 70 anni, gridava ai suoi giudici: “Assassini!”. Questo Dio consente che nel suo nome gli ebrei vengano assassinati da duemila anni. “Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui”, dice Yossl; ma poi si alza in piedi e si rivolge a Dio: “Ti chiedo, Ti avverto, nel Tuo stesso nome: Cessa di esaltare la Tua grandezza lasciando colpire gli innocenti!... Tu pronuncia una sentenza doppiamente severa su quanti tacciono dell’assassinio!”. Trovo qui la stessa forza, lo stesso amore per la giustizia e passione per la libertà, la stessa ribellione di Goldkorn. E non a caso Yossl dice chi siano gli ebrei: “gli ebrei non gridano, accolgono la morte come una liberazione. Il ghetto di Varsavia muore combattendo, muore sparando, lottando, bruciando, ma no, non gridano!”


4 GIUGNO 2016 pag. 18 Claudio Gherardini claudiogherardini@gmail.com di

A

lla fine sono andati via e non sono successi incidenti. Non è poco ma erano talmente sfiniti e svuotati che non avrebbero forse potuto ribellarsi ancora. Il loro destino era segnato e comunque per i bambini un capannone fatiscente e puzzolente potrebbe essere meglio del fango e della polvere. E i bambini a Idomeni erano la maggioranza. Piccolissimi e tantissimi. Sopravvissuti alla guerra e al viaggio e ora anche a Idomeni. Un miracolo che siano tutti vivi. Anzi, ne sono nati anche alcuni e di loro non si sa nemmeno la nazionalità. “Avevano lo sguardo vuoto e sono rimasto impressionato” ha detto un membro di Medici senza frontiere. Gli adulti avevano lo sguardo vuoto di chi ha perso le speranze di un sogno grandissimo. Il sogno di una grande Europa, bella, sana, ricca, umana e solidale. Come pensavano fosse, l’Europa. Come noi non siamo stati capaci di costruire e forse ora è troppo tardi. Il loro sacrificio è stato pubblico e enorme. Un osceno reality show a disposizione di stormi di fotografi, giornalisti, volontari e di chiunque volesse vedere dal vero il criminale esperimento di riportare alle caverne un popolo di 15.000 persone civili e già vittime di dittature mostruose e in fuga dalle devastazioni e dal sangue a fiumi. Ho visto anche passare un bus di “turisti” che ha attraversato tutto il campo. Non potevo crederci nemmeno io e nessuno lo ha fotografato. Nel momento di massimo affollamento erano circa 15.000, rimasti incastrati nell’ingranaggio del ponte levatoio che l’Europa ha alzato e chiuso, improvvisamente. Era marzo. L’Austria, noto paese povero e arretrato che, abbiamo capito proprio ora, è popolato per metà di neo nazisti, chiuse le paratìe e rimasero incastrati in 15.000 a Idomeni, ma ve ne sono alcune centinaia anche di fronte, a Gevgelja e a Tabanovce in Fyrom Macedonia, a Presevo e a Sid in Serbia, e a Slavonski Brod in Croazia. Ne arriva anche qualche decina a Belgrado dalla Ungheria. La quale probabilmente non è così sbarrata come si dice.

Idomeni

Fine del sogno europeo, del nostro, prima del loro... Vogliamo dire 17.000 in tutto? Poi dalla Turchia non ne arrivano quasi più in Grecia, arriveranno in Italia, come al solito. Quanti sono i paesi EU? 28. 17.000 diviso 28 fa 607, di cui la

Le foto sono di Muhammad e Ali

metà circa sarebbero stati bambini piccoli. Seicentosette per paese europeo e Idomeni finiva bene come meritava di finire. Solo 607. Meritava per questa gente che si è sacrificata per smascherare, inve-

ce, la nostra faccia di cera, sciolta dalla vergogna o dal furore. Siamo divisi a metà come gli austriaci. Metà vergogna e metà furore, se va bene. Sono milioni gli europei che gioiscono a ogni naufragio e che avrebbero voluto sterminare Idomeni. Vivono accanto a noi. Li trovate facilmente e fanno ribrezzo. Il reality Idomeni ha realizzato la più perfetta sceneggiatura e scenografia per rappresentare la nuova Europa dei muri e dei fili spinati. Migliaia di persone accalcate a un cancello chiuso per mesi. In una spianata balcanica. Sotto nubifragi, tempeste di vento, allagamenti e vortici di polvere. Nessun regista avrebbe saputo fare di meglio. Ieri sera Adriano Sofri, presentando il libro di Wlodek Goldkorn “Il bambino nella Neve”, ci parlava del filo spinato di Auschwitz che viene cambiato periodicamente con uno analogo, cioè fatto alla vecchia maniera. Sofri si chiede dove lo facciano ancora, visto che oggi il filo spinato “moderno” è tecnologico e totalmente diverso da quello qualche decennio fa. Lo spiegava a degli studenti dicendogli che si tratta di un business destinato a crescere, quello dei filo spinato.... I miei amici conosciuti nelle settimane che ho passato a Idomeni continuano a mandarmi foto di cosa è rimasto nel campo e di dove sono finiti. Ora, dato che da febbraio ho speso oltre 5.000 euro, i miei fondi sono finiti e non so se potrò andare a trovarli nelle loro nuove dimore, ma vi invio le foto che parlano da sole. Col caldo negli hangar non so cosa succederà. Il punto è che non si ha idea di quanto dovranno restare in questi posti. Ci sono molte associazioni di volontari che stanno cercando di affittare appartamenti per queste persone e chi ha ancora soldi se li affitta per conto proprio. Ma la massa è piazzata nei capannoni a tempo indeterminato e destino ignoto.


L immagine ultima

4 GIUGNO 2016 pag. 19

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

P

rimo pomeriggio nel quartiere italiano. Siamo di fronte a un bar e il proprietario, naturalmente di origine italiana, sta conversando tranquillamente con due poliziotti anch’essi italo americani. In questa parte della città è molto frequente imbattersi in scene di questi tipo. Volevo fermarmi per scambiare due chiacchiere con loro ma avevo un appuntamento con la famiglia che mi ospitava e ho deciso di lasciar perdere. Come mi è successo spesso in quel periodo non sono più tornato sul luogo del delitto e mi sono sicuramente perso qualcosa di interessante.

NY City, agosto 1969


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