Cultura commestibile 175

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

Salerno sarà sempre più la città delle opportunità, specialmente per i giovani

Roberto De Luca, neo-assessore al Bilancio di Salerno, figlio diVincenzo De Luca presidente regione Campania e quattro volte sindaco di Salerno

Tiene famiglia editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Simone Siliani s.siliani@tin.it di

L

’indubbia qualità tecnologica e il fascino di una Firenze notturna (vuota e depurata, come mai a nessuno è dato vivere, delle superfetazioni per l’industria turistica) del documentario di Alberto Angela, “Stanotte a Firenze”, non è riuscito a nascondere la retorica complessiva dell’operazione tesa a riproporre una immagine vieta e superficiale della Firenze “perla del Rinascimento”. Gianni Biagi ne ha scritto sul Corriere Fiorentino all’indomani della trasmissione del documentario su Rai 1, suscitando un dibattito sulle pagine del quotidiano che ha coinvolto il segretario fiorentino della Fiom, Daniele Calosi, e il Presidente di Nuovo Pignone, Massimo Messeri. Riproponiamo nella pagina successiva l’articolo di Biagi, non solo perché nasce dalla riflessione di questa nostra rivista, ma perché sta nel solco di un dibattito che abbiamo tentato di suscitare sulla rivista e nella società fiorentina che non è affatto una provocazione (“mettiamo in piazza Signoria una turbina”), ma il nodo stesso del rapporto fra arte del passato e quella del presente, cioè fra arte e produzione contemporanea. Che poi era il centro stesso del tanto celebrato e ben poco conosciuto Rinascimento, appunto oggetto di una stucchevole retorica nel discorso pubblico su Firenze. C’è ben più di un serio rischio idealizzazione del Rinascimento. Infatti, cosa sia stato l’Umanesimo e il Rinascimento è questione controversa. Kristeller e Garin avevano risposte diverse, e lo stesso Garin diede risposte diverse nel corso dei decenni. Negli anni cinquanta gli umanisti fiorentini, per esempio Leonardo Bruni, erano per Garin i precursori di Togliatti, degli intellettuali gramsciani in lotta per proteggere la loro civitas/ polis dai nemici e allo stesso tempo intenti a educarne i cittadini. Ci sono stati umanisti che hanno anche fatto i filosofi, la loro filosofia essendo in qualche modo connessa alla vita civile, oppure a un progetto cristiano-platonizzante come quello di Marsilio Ficino, nel quale

Arte, turbine e contemporaneità

però la centralità dell’uomo che per Pico era fondamentale - viene rimessa in discussione. Da Savonarola in poi, ma già il pessimismo ironico e amaro di Leon Battista Alberti aveva dato qualche scossone, sarà difficile riproporre forme di Umanesimo che non tengano conto della realtà: Savonarola da un lato, ma anche Machiavelli dall’altro. E l’antropologia che sta dietro tante esperienze fondamentali della modernità, per esempio le riforme di Lutero e di Calvino, non partono certo da una visione dell’uomo candidamente, ingenuamente umanistica. Insomma, Rinascimento non è una categoria neutra o tutta positiva, lineare e senza contraddizioni; una sorta di età dell’oro in cui tutto si muoveva nella direzione della centralità dell’uomo. Nel Rinascimento troviamo il tribunale dell’Inquisizione, accanto a Botticelli, Filippino Lippi e Leon Battista Alberti, mentre

Donatello realizzava il duo David in bronzo che fu messo a Palazzo Medici Riccardi. Lo stesso Savonarola può considerarsi uomo del Rinascimento che con i suoi “bruciamenti delle vanità” mandava al rogo beni mondani ma anche opere d’arte e d’ingegno? Cosa possiamo dire della politica d’età rinascimentale? Possiamo forse ricondurla tutta acriticamente ad una sorta di mecenatismo delle arti e del pensiero, dimenticando non dico i veri e propri crimini contro la dignità dell’uomo (che nell’epoca erano percepiti come normale amministrazione), ma almeno la incapacità dei popoli italici di governarsi tanto che i Medici ad esempio, per tornare a Firenze devono chiamare in soccorso le forze militari e politiche francesi? Un difetto che marca la storia della penisola fino al Risorgimento e che permette di fondare l’identità del paese essenzialmente soltanto

sulla lingua e sulla produzione letteraria. Il Rinascimento che ebbe indubbia forza propulsiva sul piano culturale, era un gigante che poggiava su spalle di nani politici ed economici (tali erano i tanti principati, in continua lotta fra loro, che s-governavano l’Italia). Ma anche questo è Rinascimento, tanto che molti studiosi concentrano le loro ricerche sul fallimento del progetto rinascimentale, sulla repressione cattolica come oggetto di studio e stigma di un periodo. Come ogni periodo storico, Il Rinascimento è complesso, non univoco e se vogliamo davvero dichiararcene eredi, dobbiamo considerarlo nella sua complessità. È questo il tema cui richiama Biagi nell’articolo sul Corriere Fiorentino. L’arte, quella di ieri e quella di oggi, non può che essere parte della realtà contemporanea, esprimerne le aporie, gli aspetti drammatici, lo spirito


Da non saltare

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del tempo; essere intimamente connessa alla società contemporanea. Allo stesso tempo Biagi propone una questione fondamentale per la cultura d’oggi: il superamento della devastante separazione fra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, la cui unità era appunto il vero genio del Rinascimento. Ecco perché la proposta della turbina della Pignone non è una provocazione. Non è possibile comprendere né l’arte di oggi né tanto meno quella del Rinascimento se si prescinde dal rapporto fra la produzione industriale e la produzione artista, entrambe, appunto, produzione di senso e di valori della società che li esprime. Ingegno e lavoro non possono essere disgiunti: non lo era per i tirocinanti delle botteghe rinascimentali, non può esserlo per i metalmeccanici di oggi, come ha scritto Daniele Calosi nell’articolo del Corriere Fiorentino. Ma la vicenda del lavoro è storia di liberazione (dal bisogno materiale, da quello spirituale e dalle costrizioni esterne di una dittatura) e di libertà (come ricorda Calosi parlando degli operai che sminano le macGianni Biagi g.biagi@libero.it di

Caro direttore, scrivo mentre Alberto Angela sta raccontando Firenze su Rai 1. Stanotte a Firenze è un documentario-racconto della Firenze più conosciuta e stereotipata, con alcune incursioni nelle aree meno conosciute. Riprese bellissime e realizzate con altissima tecnologia. Si inizia dagli Uffizi e naturalmente con Botticelli. E si continua con la Cupola del Brunelleschi. E con il campanile della Cattedrale di Giotto da Bondone.Una incursione al Museo Stibbert (almeno si va in periferia) e poi subito ritorno alla battaglia di Paolo Uccello. L’inizio con una piazza della Signoria vuota e bellissima nella solitudine della notte racconta che la storia ci guarda, e che camminiamo in un luogo dove la Storia (con la S maiuscola) è dentro di noi. Ma buona parte delle opere che ci guardano dall’arengario del Palazzo Vecchio sono delle copie. E magari fra poco anche il Ratto delle Sabine del Giambologna sarà una copia mentre l’originale sarà

chine della fabbrica al passaggio della guerra o come, aggiungo io, fecero i minatori di Niccioleta che a costo della vita difendono la miniera del padrone e il “loro” lavoro).

Ecco qui, il tema di fondo: il Rinascimento ci riguarda ancora oggi non solo e non tanto perché ha reso Firenze l’unica città in cui il Rinascimento può ancora essere concretamente “visto”,

calcato, toccato con mano attraverso le architetture, le opere d’arte, i depositi archivistici che esso vi ha lasciato; tanto meno ci riguarda perché siamo più o meno bravi a venderlo ai turisti; ma perché ha mostrato come il mondo della cultura e quello della produzione non sono due mondi separati e incomunicanti. L’homo faber di cui parla Messeri nell’articolo pubblicato sul Corriere, è il concentrato di questa unità imprescindibile fra cultura e produzione contemporanei. E neppure è giusto ricordarselo solo una volta l’anno quando c’è Pitti perché esso è la quotidianità della produzione industriale, dalle turbina alla fotonica. Questo è il nucleo caldo del dibattito sulla cultura oggi nel mondo, solo che a Firenze non lo vediamo perché il riverbero della retorica del Rinascimento da cartolina ci abbaglia e ci illude di vivere nell’epicentro della cultura mondiale, mentre da tempo ormai non lo siamo più. E non sarà certamente un pur “bel” documentario in alta definizione a riportarci a quel centro, o almeno tanto quanto una “brutta” turbina a gas.

raccontano le attività finanziarie che resero ricchi i Medici e che costituirono le basi del mecenatismo della famiglia. Insomma sembra che la città sia nata dal nulla, senza una storia, senza un’economia, senza una condizione sociale e economica. L’arte è collocata fuori dalla realtà. Ma non è cosi. Non lo è mai stata. L’arte è parte integrante del mondo economico e sociale della società in cui si crea. Anche l’arte contemporanea lo è. E da qualche tempo la stessa Piazza della Signoria è teatro di posa per opere d’arte contemporanea. Ci sono opinioni diverse e contrastanti su questo uso della Piazza. Ma è una realtà. E nasce dalla società. Dall’esigenza di affermare la legittimità dell’arte contemporanea nella città d’arte. Ma anche in questo caso non si percepisce completamente il rapporto fra la città e l’opera d’arte. Che c’entra Jan Fabre con

Firenze dicono gli scettici. Una discussione aperta. Ma credo che sia utile andare oltre. E ritornare alla struttura economica della città. E allora forse si potrebbe tentare una «evidente provocazione». Esporre nella piazza un’opera “d’arte tecnologica” prodotta dalla maggiore attività economica della città. Per rimarcare che Firenze è certamente una città d’arte ma è, anche e soprattutto, una città che produce; e che i suoi cittadini vivono anche e soprattutto grazie alle produzioni industriali e ai servizi amministrativi (Firenze è il più importante centro di servizi pubblici dell’Italia centrale). E allora perché non “esporre” in piazza della Signoria una turbina prodotta dalla Nuova Pignone. Un’opera di altissima tecnologia nata dalle mani dei lavoratori della città. Un modo per ritornare alla realtà. Per consentire di leggere la città al di fuori dai soliti luoghi comuni. Un’opera concretamente capace di dare identità e ricchezza. (Lettera pubblicata sul “Corriere Fiorentino” dell’11 giugno)

L’idea ricoverato nel museo degli Uffizi. Insomma una bellissima Firenze come la vogliono vedere i turisti, anche se con un’attenzione e una capacità di cogliere sfumature e storie non banali (come i cognomi che venivano inventati per i bambini abbandonati all’Istituto degli Innocenti). Storie che i turisti amano sentirsi raccontare. Come Brunelleschi che si dà malato per mettere in difficoltà il suo rivale Ghiberti; come Michelangelo che progetta la facciata di San Lorenzo, che non sarà mai realizzata. O come i Prigioni dell’Accademia, nati per un’altra opera ma posizionati a guardia del David. Ma io mi chiedo. Perché non si racconta come è nata questa città? Perché non si va nel contado a capire come dalle gualchiere e dalle attività della produzione della lana nascono le ricchezze che poi si solidificano nelle opere del medioevo che noi vediamo? Oppure non si


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx Riunione drammatica di Giunta in Palazzo Vecchio. All’ordine del giorno delibera su “La Giunta presidia il territorio”. Introduce il sindaco Nardella: “Ragazzi, qui ci vogliono fregare. Come sarebbe che nessuno vuole andare al Gay Pride? Ma stiamo scherzando: qui ci mettono in croce!”. Temeraria la vicesindaca Giachi azzarda: “Ma, Dario, veramente sei stato tu che hai detto che non dovevamo mandare il Gonfalone a quella carnevalata”. Pronta la reazione del sindaco: “Oh, Cristina, ma che stai dicendo? Ma ti sembra che uno laico e aperto come me possa dire una cosa simile? Ma ti sei bevuta il cervello? Siccome osi dubitare del tuo sindaco, al Gay Pride ci vai tu!”. “Ma veramente Dario, non potrei: c’è la chiusura di Pitti e come sai loro invitano sempre la più elegante

Il presidio della Giunta a fare le conclusioni. Ho comprato proprio ieri un completino blu acqua marcia che è una meraviglia...” “Va bene, Cristina, taglia corto. Allora chi ci va?” Dal fondo Andrea Vannucci, assessore allo sport, timidamente alza il dito: “Scusa Dario, ma ‘icche gl’è ‘i Ghei Praid?” “Eccolo qua, il volontario. Vai Andrea, tanto te non hai niente da fare: vacci tu, ma senza Gonfalone perché quello lo ha richiesto il Bettarini per un’altra importantissima manifestazione. A proposito Giovan-

ni quale sarebbe la manifestazione?” “Ma Dario, sarebbe la Sagra della Ficattola a Borgo S.Lorenzo, la mia città. Sai è un evento riconosciuto in tutto il Mugello” “Madonnina santa, Giovanni: o non ci sarebbe qualcosa di più rilevante. Se dobbiamo trovare una scusa per non mandare il Gonfalone ci vuole un evento davvero importante!” “Dario, a parte il fatto che non ci sono altri eventi in città quel giorno, ma la Sagra della Ficattola vengono a vederla anche dal Wyoming!” Nardella, sconsolato, si rivolge al suo fido capo di gabinetto, Braghero: “Manuele, siamo sicuri che non ci sia altra manifestazione meglio della

Bobo

La Stilista di Lenin

Sagra della Ficattola?” “Dario, purtroppo è così: sabato 18 giugno a Firenze non c’è nulla. Poi, permettimi, ma ci sarebbe da approvare qualche delibera urgente...” “Oh, Manuele, anche te! Ma posso perdere tempo con le delibere io? Qui è in gioco la credibilità della Giunta di Firenze davanti a quelli del Gay Pride. Oh capito: allora, te Andrea prendi sotto braccio la Funaro e andate al Gay Pride; te Cristina vai a Pitti con il tuo vestitino blu acqua marcia; la Mantovani è all’estero, tanto per cambiare; il Giorgetti a spalare sui cantieri; il Gianassi a giocare a boccette con il Falchi a Sesto, non s’avesse a vincere le elezioni; la Bettini a fare giardinaggio e il Perra a ripassare le tabelline; e io c’ho la comunione della mia nipote. Così siamo tutti impegnati e abbiamo presidiato il territorio”.

I Cugini Engels

La città decorata

La rivoluzione secondo Rossi

Una città coi risvoltini e i calzini corti è quella che ha in mente il prode sindaco Nardella per il prossimo Pitti: “L’anno prossimo per Pitti voglio vestire di tessuti mezza città: statue, facciate, colonne in almeno cinque o sei piazze di Firenze”. La frase non è stata declamata al termine di un qualche party di stilista, a tarda notte e dopo qualche drink. No anzi, in pieno sole, in piazza Santa Maria Novella davanti alla “vestizione parlante” delle colonne Leopoldine da parte di Nanni Balestrini. L’artista ha ispirato il sindaco che dopo violinista si vede anche decoratore di città, dal David in infradito al ratto delle sabine con i bermuda. Inutile dire che la Medusa sarà griffata Versace. Magari con l’occasione il creativo Nardella potrebbe pure ricoprire di tessuto le buche, leopardare i cantieri aperti proprio in contemporanea con Pitti o decorare una ad una le migliaia di auto bloccate nel traffico e nell’attesa di un autobus o un taxi che non arriveranno mai, godremo comunque del drappeggio di Nardella.

“Giachetti a Roma ci prova con Livia Turco”. Si chiude così uno degli ultimi post di Enrico Rossi su facebook e no, il governatore non si è appena sostituito a Dagospia riportando un gossip. L’infelice (nella formulazione) frase, sta in un ragionamento più ampio che il governatore fa sui ballottaggi in cui magnifica le scelte “a sinistra” dei candidati del Pd, per cui Giachetti ha la Turco nella possibile squadra di governo (che però non è proprio Rosa Luxemburg, sia concesso), Merola a Bologna firma il referendum della Cgil (sull’articolo 18, tema diciamo non di primissima pertinenza comunale), Fassino a Torino invece si impegna in periferia. Ma la migliore manifestazione che l’asse si sta spostando a sinistra ce la dà, secondo Rossi, Sala a Milano che viene dopo Pisapia. Ci sia concesso dubitare con il governatore che la prospettiva rivoluzionaria sia così imminente.

Lo Zio di Trotzky

Paragoni Nel teatro degli orrori del nuovo corso politico si affaccia e giganteggia una nuova figura che dovrà essere ascritta alla voce “misoginia”: tale Antonio Funiciello, portavoce del sottosegretario Luca Lotti, che almeno in questo caso che andiamo a narrare si spera non abbia portato la voce del Lotti. Funiciello ha aperto Tweet e ha cinguettato ma ne è uscito un suono di cornacchia: #Appendino è bocconiana. Come @SaraTommasi. Chissà quale elevato concetto avrà voluto esprimere il Funiciello. Magari, spinto dalla foga propagandistica per rosicchiare ogni singolo voto ed evitare la débâcle elettorale del PD, avrà voluto dare il suo contributo nello sforzo collettivo della grande “Azione Parallela” del governo per far trionfare il partito, ma il risultato è stato misero. Tanto che lui stesso ha dovuto ammettere che era “un

tweet stupido”. Però le parole tradiscono il pensiero. E Funiciello è uomo di pensiero, potendo vantare una Laurea con lode in Filosofia all’Università Federico II di Napoli. Si sa che la misoginia ha una lunga tradizione filosofica che certo non sfuggirà a Funiciello. Il capostipite della quale può essere individuato nel riformatore scozzese protestante John Knox che nel XVI secolo scrisse un libro intitolato “Il primo squillo di tromba contro la mostruosa moltitudine delle donne” in cui sottolineava la scarsa abilità delle donne nelle arti di governo, riferendosi a Maria Tudor d’Inghilterra, alla reggente di Scozia Maria di Guisa, a Caterina de’ Medici e a Maria Stuarda. Fino ad arrivare a Friedrich Nietzsche che in “Così parlò Zarathustra” fa dire ad una vecchia, “Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta”. Funiciello voleva frustare l’Appendino che, come Knox per la Tudor, egli ritiene inadatta a governare, ma chi andò per frustare, tornò frustrato.


18 GIUGNO 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

C

he Firenze sia e sia stata una delle tappe preferite dei numerosi stranieri di passaggio, amanti delle arti o artisti essi stessi, non è una novità, così come non è una novità il fatto che alcuni di essi abbiano scelto Firenze come dimora stabile, fissandovi il luogo di residenza e di lavoro. Forse è meno noto il fatto che durante il loro periodo fiorentino, alcuni di essi si sono dedicati nella seconda metà dell’Ottocento, professionalmente o meno, alla pratica della fotografia. A questo proposito si possono citare molti nomi di rilievo, come quello dell’inglese John (Giovanni) Philpot Brampton (1812-1878), attivo a Firenze fino dagli anni Cinquanta dell’Ottocento come calotipista con studio in Borgo Ognissanti, poi passato alle nuove tecniche del negativo su vetro, ed autore nel 1865 di un “Catalogo fotografico delle sculture in avorio”, o come quello di un altro inglese, lord William Warner Vernon (1834-1919), illustre dantologo, di cui è attestata la partecipazione come “fotografo dilettante” alla “Prima Esposizione Italiana” di Firenze del 1861 ed alla successiva del 1862. Fra gli altri si può citare lo scultore americano Longworth Powers (1835-1904), figlio dello scultore Hiram Powers, che dopo un primo soggiorno fiorentino al seguito della famiglia, torna a Firenze nel 1860 per lavorarvi, sia come scultore, nella vecchia bottega paterna di Via Farinata Degli Uberti, che come fotografo, aprendo il proprio studio con l’insegna “Photographie Americaine” in Via dei Serragli, poi in Via Dante da Castiglione, e dedicandosi sia al ritratto che alla fotografia delle sculture. Fra tutti questi nomi, risalta quello dello scultore tedesco Antonio (Anton) Hautmann (1821-1862), figlio anch’egli come Powers di uno scultore, il bavarese Josef Anton Hautmann. Antonio arriva in Italia nel 1847 come vincitore di un concorso, ma nel 1849 deve lasciare Roma in seguito all’occupazione francese, e si stabilisce a Firenze, ospite del connazionale pittore e poi fotografo Raffaello Metzger, di cui sposa la

Anton Hautmann

Fra scultura e fotografia sorella Elena nel 1851. A Firenze Antonio inizia a lavorare come scultore ed architetto, aprendo uno studio in Via della Scala. Il suo interesse per la fotografia nasce più tardi, e nel 1858 lo studio viene trasformato in uno “stabilimento fotografico”. In una Firenze in cui gli Alinari sono già una realtà forte ed affermata, ed in cui cominciano ad operare anche personaggi come Giacomo Brogi, Antonio Hautmann non si limita a realizzare ritratti in studio, scene di genere, studi di paesaggi e riproduzioni di opere d’arte, ma osa fare concorrenza agli stessi Alinari fotografando strade, piazze, palazzi, chiese e monumenti della città, realizzando un proprio catalogo. Anton Hautmann utilizza formati diversi ed impiega spesso la tecnica della stereoscopia, spingendosi fino ad altre città e cittadine toscane, fra cui Fiesole, Pisa, Arezzo, Pistoia, Lucca, Siena, Viareggio ed Empoli. A differenza delle immagini degli Alinari, realizzate dai diversi operatori dello studio secondo una serie di regole precise, dettate dalla necessità di rendere omogeneo il lavoro delle diverse squadre, rendendolo quasi impersonale, Hautmann procede con maggiore libertà, cercando angoli diversi, scorci particolari, punti di vista meno accademici, e soprattutto forme di illuminazione forti e contrastate, lasciando della Firenze dell’epoca una testimonianza senza precedenti. La fervida attività di Antonio viene fermata alla fine del 1862 dalla morte prematura ed improvvisa del fotografo, poco più che quarantenne. Il lavoro dello studio viene portato avanti ancora per qualche anno, prima dalla moglie e poi dal figlio, che abbandona ben presto la pratica della fotografia per quella del mercante d’arte. In un’epoca in cui la maggior parte dei fotografi amava definirsi “pittore” o nel migliore dei casi “pittore-fotografo”, si fa notare la presenza di uno “scultore-fotografo” che ha operato in ambedue i settori artistici senza sovrapporre o contaminare i due generi, firmandosi semplicemente “A. Hautmann - Florence” ed operando come “scultore-scultore” e parallelamente come “fotografo-fotografo”.


18 GIUGNO 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

L’abito è da sempre un elemento della vita quotidiana importante e caratteristico della storia, della società e della cultura dell’uomo. Oggetto di studio e di ricerche l’abito è entrato a far parte della moda e della dimensione estetica in tempi vecchissimi, divenendo un punto di riferimento per i concetti di gusto e bellezza che nel corso del tempo si sono susseguiti, fino a costituire un vero e proprio supporto artistico. Il numero 13 della rivista BAU contenitore di cultura contemporanea quest’anno ci offre uno spaccato sulle diverse modalità di concepire l’abito d’artista: un luogo fantastico che non si sublima alle regole del costume e della tradizione culturale, ma che procede oltre l’immaginario verso soluzioni insolite e utopiche, meravigliose e visionarie. Un punto di vista nuovo e originale, un universo variegato di disegni, progetti e tessuti, un modo inedito di concepire l’abito d’artista nella sua duplice valenza di essere esso stesso parte integrante dell’arte e dell’artista nel medesimo istante, poiché nell’atto creativo abito e artista si fanno una cosa sola. Sabato 18 giugno presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lorenzo Viani” di Viareggio, assieme alla nuova edizione della rivista, verrà inaugurata l’esposizione multimediale DRESS CODEX urgenze contemporanee in veste di rivista (visitabile fino al 17 luglio), prodotta dall’associazione no profit BAU di Viareggio, realizzata in sinergia con la storica azienda tessile Bonotto Spa, in edizione di 150 copie, opere originali nel grande formato A2 di oltre sessanta autori internazionali attivi nelle più diverse discipline. La mostra comprende le opere di BAU Tredici, una selezione dal progetto Rosso di Donna/1522 curato da Alessandra Borsetti Venier e altri lavori visuali e installazioni inedite che esplorano l’ambito dell’abbigliamento creativo. Ospiti d’eccezione saranno: il poeta sperimentale Sarenco, la compositrice elettronica Amelie Duchow, il gruppo post-punk Klam e la cantautrice Verdiana Raw. Gli autori di BAU Tredici: Andrea Abati, Aboutiful, Paolo Albani, Silvia Ancillotti, Fernando Andolcetti, Stella Bach, Nora Bachel, Nanni Balestrini, Vittore Baroni, Golnaz Bashiri, Anna Valeria Borsari,

Antonino Bove, Luca Brocchini, Myriam Cappelletti, Andrea Chiarantini, Weixin Chong, Cosimo Cimino, Massimo Cittadini, Carla Crosio, GianLuca Cupisti, Anne & Mario Daniele, Jakob De Chirico, Luca De Silva, Gabriele Dini, Graziano Dovichi, Amelie Duchow, Laura V.d.B. Facchini, FBarbara Fluvi, ForA, Monica Fossi Giannozzi, Ingrid Gaier, Annaklara Galli, Carlo Galli, Delio Gennai, Chiara Giorgetti, Gumdesign, Valentina Lapolla, LeRusco, Margherita Levo Rosenberg, Lolamur, Claudia-Marie Luenig, Marcantonio Lunardi, Ruggero Maggi, Manuela Mancioppi, Ubaldo Molesti, Rachel Morellet, Gertrude Moser-Wagner, Mario Mulas, Murat Önol, Virginia Panichi, Guido Peruz, Lamberto Pignotti, Giorgio Poli, ProgettoUtopia, Quek & Cambrai, Claudio Romeo, Massimo Salvoni, Sergio Sansevrino, Sarenco, Eva Sauer, Gue Schmidt, Simoncini. Tangi, Lorena Sireno, Serena Tani, Nicola Felice Torcoli, Päivi Vähälä, Tommaso Vassalle, Giacomo Verde, Elisa Zadi, Lucrezia Zaffarano. Altri artisti in mostra: Said Atabekow, Emanuela Baldi, Alessandra Borsetti Venier, Gloria Campriani, Carlo Cantini, Cinzio Cavallarin, Guglielmo Achille Cavellini (Archivio Carlo Palli), Antonio Ciarallo, Adolna De Stefani, Gianni Dorigo, Mirella Ferrari, Kiki Franceschi, Caroline Gallois, Cristina Gozzini, Kappa, Bruno Larini, Elena Marini, Luca Matti, Lisa Nocentini, Rita Pedullà, Rosali Schweizer, Gianna Scoino, Giuseppe Secchi, Kinichi Tanaka, Elena Trissino, Stefano Turrini, Tatiana Villani. Testi: Vittore Baroni, Massimo Bianchini/Aboutiful, Antonino Bove, Luca Brocchini, Francesca Cattoi, Andrea B. Del Guercio, Alessio Guano,Patrizio Peterlini, Maurizio Marco Tozzi, Helena Velena.

BAU

Urgenze contemporanee in veste di rivista


18 GIUGNO 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

M

ezzo secolo fa, negli anni Sessanta del Novecento, il jazz dell’area scandinava godeva di scarso seguito all’estero. Era ancora monopolio di pochi cultori e nessuno pensava che poi avrebbe raggiunto il rilievo mondiale di oggi. Uno dei musicisti svedesi più interessanti era il pianista Jon Johansson (1931-1968). La sua carriera fu luminosa, ma purtroppo anche molto breve, perché morì in un incidente d’auto a soli 37 anni. Uno dei suoi lavori più belli è Jazz på svenska (1964), composto interamente di brani tratti dal folklore svedese. Questo lavoro, ristampato nel 2005, rimane anche il massimo successo discografico del jazz locale. Jan Lundgren, figura centrale del panorama odierno, gli ha dedicato un omaggio registrato dal vivo a Ystad, città costiera che ospita un importante festival diretto dallo stesso Lundgren. Il disco, intitolato The Ystad Concert: A Tribute to Jan Johansson (ACT, 2016), segue il recente Mare Nostrum II (ACT, 2016), registrato insieme a Paolo Fresu e Richard

Francesco Cusa info@francescocusa.it di

Si mettano il cuore in pace in molti: l’ultimo film di Nicolas Winding Refn è un glaciale omaggio a Dario Argento. “The Neon Demon” è il frutto del lungo tirocinio del regista come autore delle réclame per i maggiori stilisti del mondo della moda, esperienza che deve evidentemente aver lasciato dei solchi profondi nella sua psiche. A sentire quel che afferma il creatore della trilogia di “Pusher” e di “Drive”, staremmo di fronte a un lavoro che punta a rompere il tabù del narcisismo e dunque rivolto alle nuove generazioni, spesso vittime del molesto contrasto tra modelli educativi familiari basati sull’accettazione del sé e mercificazione del corpo come unica prospettiva di affermazione sociale. Ovviamente tale chiave di lettura ci lascia alquanto interdetti. Se è pur vero che siamo di fronte ad una critica di modelli e microcosmi della contemporaneità, di contro, appare altrettanto evidente che gli inferi evocati da Refn non sono una mera parodia del post-moderno. I segni del demonio si evidenziano più che nei sabba e nella Wicca

Fratello jazz Diavolo al neon griffata delle streghe-modelle, nelle siderali danze del vuoto, dello spazio elettrico in cui si muovono i personaggi. Elettricità che sappiamo ben essere elemento evocativo o di annunzio di entità della “Loggia Nera” per un altro grande maestro del cinema del sovraumano come David Lynch. Solo che qui tale elettricità da neon, tale vibrazione aliena, pare piuttosto nutrirsi e pascersi di corpi e fascinazione in maniera vampiresca. Il demone si nutre di bellezza, è innamorato della purezza delle fattezze della ninfa acquorea, ne brama le delizie, ne concupisce le grazie, egli, che per converso è femmina incarnata che deve all’artificio, alla chirurgia plastica ogni antidoto alla cadu-

cità. In questo senso Refn si pone agli antipodi rispetto al “mondo spirituale” lynchiano, viceversa popolato di esseri umani alla ricerca di un percorso salvifico, dantesco, da intraprendere in compagnia di guide e angeli, o comunque alla ricerca di una loro intercessione o mediazione (“Twin Peaks” è il paradigma). “The Neon Demon” è il regno incontrastato di Satana nella sua materializzazione terrena, oseremmo dire quasi mefistofelica, e le potenze del femminino sono in disperata ricerca di amore, di naturalezza, di energia vitale, ovvero di merce assai rara e preziosa per il mondo edulcorato delle passerelle. Il demone è vampiresco nella seduzione lesbica, e sfoga con la necrofilia la frustrazione della negazione di un amore disperatamente terreno e romantico, wherteriano. Cosi, non può darsi disperazione d’amore e il conseguente suicidio, semmai, è delegato alla simulazione della Bella, ritta e oscillante sul trampolino di una piscina vuota, per un

Galliano (vedi n. 167). Fedele all’amore di Johanssonn per il patrimonio popolare, Lundgren propone numerosi brani tratti dal suddetto Jazz på svenska (“Emigrantvisa”, “Visa från Utanmyra”, “Gånglek från Älvdalen”), insieme ad altri di origine russa (“Bandura”) e ungherese (“Det snöar”). L’unico brano composto da Johansson è “Här kommer Pippi Långstrump”, noto come sigla della serie televisiva Pippi Calzelunghe. Il bassista Mattias Svensson e gli archi del Bonfiglioli Weber String accompagnano egregiamente il piano del leader in questo omaggio intenso e raffinato. Come abbiamo detto all’inizio, mezzo secolo separa l’epoca di Johansson da quella di Lundgren. Ma in pratica questa distanza scompare, perché troppe cose legano i due musicisti. Entrambi svedesi, dediti allo stesso strumento e allo stesso linguaggio, accomunati perfino dal nome, Johansson e Lundgren suonano idealmente insieme, anche se il primo è morto quando il secondo aveva soltanto due anni. tempo preda dalla fascinazione del maligno. Al demone non resta che lo scempio, la deframmentazione del corpo, deframmentazione che, da un punto di vista estetico, diviene emblema di certa dislessia del cinema, dell’afasia rappresentativa che il regista danese consegna alla gogna della sala. Ecco perché il film appare senza un divenire, cronologicamente sballato, mozzato in tranci come il corpo della giovane modella. Perché a differenza che nel cinema di Lynch, ove le increspature della spazio temporalità sono irruzione del sovraumano nella prima sephirot, del “Kairos” sulla linea del percepito, in “The Neon Demon” il tempo viene fagocitato da Crono, cannibalizzato asetticamente dalle fiere e ricucito in fretta, per evitare l’osceno dello sbraco. E cos’è, alla fin fine, e per tornare all’incipit, tutto questo se non un omaggio al cinema di Dario Argento, forse anche proprio a ciò che di demenziale rimane dell’opera del maestro romano e delle sue ultime scalcagnate produzioni? Non è forse l’ebetismo a liberare il male nella sua più pura essenza?


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Pianosequenza

Barbara Setti twitter @Barbara_Setti di

voli produzioni indipendenti (che presenteremo al festival). Perché il piano sequenza è così importante, come tecnica cinematografica? Ha una valenza solo estetica o anche narrativa A volte può apparire puro esercizio di stile, a volte invece sono immagini memorabili, che si stampano nella mente. Attraverso il piano sequenza lo spettatore viene completamente assorbito dalla scena, perché consente di seguire il flusso spazio-temporale della vita anche nella sua carica emotiva. Non è infatti decisivo mettere lo spettatore nel punto di vista del protagonista,

quanto piuttosto fargli condividere la vicenda nella sua dimensione reale: atmosfere, ambienti, interazione tra i personaggi. Domenico Cannalire, come è stata la risposta al bando? Sorprendente! Ci sono giunte centinaia di opere da tutto il mondo in soli tre mesi, come se aspettassero da tempo un festival dedicato a loro e a questa tecnica. Come si articolerà la serata? La serata vedrà sul palco lo scrittore Filippo Belacchi, che presenterà il Festival, introdurrà il concetto di piano sequenza e i lavori in concorso. A seguire la proiezione delle opere e la premiazione della migliore dal presidente della giuria, il critico Enrico Ghezzi, insieme agli altri membri giurati: Chiara Feriani (artista visuale), Tommaso Sacchi (Assessorato alla Cultura, Comune di Firenze), Martina Rojas (produzione cinematografica) e il cantautore Antonio Diodato, che interpreterà anche alcuni brani ispirati al cinema in chiusura di serata. La domanda è d’obbligo. Quali prospettive future? Cominceremo a pensarci dopo mercoledì 22. Per il momento siamo concentrati sul lancio della prima edizione. Per informazioni florencelongtake. com

dallo spazio: sembra un albero di Natale. Provare per credere: aprite l’app “Loss of the night” e ve ne renderete conto. Il fatto è che questi bagliori luminosi sono diversi dalle altre forme visibili e percepibili di inquinamento: sono silenziosi, innocui, privi di conseguenze e senza apparenti controindicazioni. E pazienza se poi dalla Pianura Padana non si riesce più a vedere la Via Lattea, cancellata dalle troppe, tante e diffuse luci artificiali. In fondo si può vivere anche senza ammirare il Gran Carro, l’Orsa Maggiore e le tante altre costellazioni. Fatto sta che siamo una generazione costretta a fare a meno di uno degli spettacoli più belli, desiderati e romantici, quello delle stelle cadenti nella notte del 10 agosto, quella – tanto per capirsi

- delle “lacrime” di San Lorenzo. Una notte, di solito, senza luna, la più adatta all’osservazione del cielo stellato, solo se si riuscisse a vederlo. Per provarci occorre ricercare posti lontani dai bagliori delle fonti luminose, dalle città, dalle autostrade, dalle zone industriali, dai campi sportivi, dalle vie dello shopping. Facile a dirsi, più difficile riuscire a trovarlo un posto così. Wikipedia ci dice che San Lorenzo venne arso vivo proprio nella notte del 10 agosto nel 258 dopo Cristo. Da qui il detto secondo cui coloro che ricordano il dolore del Santo osservando le sue “lacrime” cadenti potranno esprimere un desiderio con la speranza di vederlo realizzato. Se le cose stanno così, per favore, spegnete subito le luci e ridateci la speranza.

I

l 22 giugno si terrà a Villa La Pietra Long Take Florence, primo festival di lavori audiovisivi dedicato alla tecnica del piano-sequenza. Il festival, organizzato dalla New York University Florence è parte di The Season 2016 e si avvale della collaborazione dei direttori artistici Graziano Staino e Domenico Cannalire. Graziano e Domenico mi spiegavano come negli ultimi tempi si avverta nella cinematografia un crescente interesse per forme di linguaggio fluido e immediato, in cui l’azione in tempo reale valorizzi la componente umana, l’ambientazione e la recitazione. Anche nella fiction ad alta componente tecnologica la tecnica del piano-sequenza (in inglese, appunto, “long take”) introduce un elemento realistico, che coinvolge con naturalezza lo spettatore. Il film Birdman, vincitore del premio Oscar 2015, è la testimonianza di una profonda motivazione per l’aspetto umano della storia, per il personaggio, per i tempi della vita reale: il piano-sequenza raggiunge l’obiettivo di immergere lo spettatore nella vicenda mantenendo il distacco e la finezza dello stile cinematografico. Non è infatti decisivo, dice Graziano, mettere lo spettatore nel punto di vista del protagonista, quanto fargli condividere la vicenda nella sua dimensione reale: atmosfere, ambienti, interazione tra i personaggi. Il piano-sequenza è pertanto un’opportunità e una sfida per il regista e il suo staff, nonché per gli attori. La massima naturalezza richiede infatti il massimo dominio del mezzo e del linguaggio. Non a caso questa forma cinematografica immersiva e sofisticata ha intrigato i maestri della pellicola, caratterizzando alcuni capolavori della storia del cinema, a cominciare da Welles, Ophuls, Hitchcock. Capisco anche che il piano-sequenza, oltre a interessare oggi gli sperimentatori tecnologici (pensiamo per esempio a Gravity di Cuarón), è un promettente terreno di ricerca visiva per i giovani, grazie ai supporti tecnici alla portata di tutti, perché quello che conta è l’idea, l’intuizione di un evento filmico, di una narrazione nei tempi della realtà. È una tecnica, insomma, che valorizza l’autonomia artistica del linguaggio cinematografico, perché

ha il fascino della vita. Graziano Staino, come è nata l’idea? Crediamo fermamente che oggi il piano-sequenza sia la tecnica più interessante nel cinema. Basti notare quante scene in “long take” o in “one shot sequence” appaiano nelle produzioni in uscita, non solo cinematografiche, ma anche nelle produzioni per il web, documentaristiche, musicali eccetera. Il taglio e il montaggio caotico oggi è sostituito da lunghi piani-sequenza. Il pubblico segue questa tendenza, apprezzata molto anche dalla critica, come si vede dai premiati film di Hollywood fino alle innumeredi

Remo Fattorini

Segnali di fumo Spegnete la luce, please, voglio vedere le stelle. Viviamo in un Paese dove, ad eccezione della Sardegna, del Sud Tirolo e della Maremma (lo scrive il Corriere della Sera) non c’è più il buio. Secondo l’atlante mondiale dell’inquinamento luminoso (pubblicato da Science Advances) siamo tra i Paesi del G20 quello che detiene, insieme alla Corea del Sud, il primato dell’inquinamento luminoso. Di più: l’80% della popolazione mondiale e il 99% degli americani e degli europei vive sotto un cielo inquinato dalla luce. Le nostre città sono sempre accese. Da noi si consuma molta elettricità in più rispetto a quelle della Germania. Dicono che nottetempo fa impressione osservare la Terra


18 GIUGNO 2016 pag. 9 Dino Castrovilli f.castrovilli@virgilio.it di

Bellezza: il voodoo che guarisce o avvelena il corpo” (Anversa 7 febbraio 1978): Ogni vera bellezza è scomoda” (Anversa, 31 dicembre 1991). Si apre e si chiude così il “Giornale notturno” in cui Jan Fabre ha annotato con candida sincerità, puntigliosa precisione e indiscutibile capacità di scrittura (eccelle anche in quest’arte!) il suo farsi uomo e farsi artista, provocatorio e determinato sin da subito. Pubblicato in due volumi dall’editore napoletano Cronopio nella traduzione di Franco Paris, il “viaggio nel cuore della notte” di Fabre è una “bibbia” preziosa per cercare di comprendere appieno il senso della vita e dell’opera di questo artista così magneticamente controverso. “Aiutato” da un’insonnia pazzesca (“La notte mi appartiene. Disegno tutti i miei fantasmi. La mia notte è uno spazio senza tabù”, è la seconda annotazione in assoluto, seguita da “Niente panico. L’insonnia è una forma di lucidità”) il Fabre del “Giornale notturno” è un uomo che quasi ogni notte distilla in poche righe folgoranti intuizioni (“Un contatto tra due culture distrugge e crea. Non

Sergio Favilli sergio.favilli@libero.it di

Alcuni giorni fa è andato in onda su Rai 1 un favoloso documentario intitolato “Stanotte a Firenze”, una carrellata di immagini sulla nostra già conosciutissima città. Anche troppo! Perché come scrive Gianni Biagi sul Corriere Fiorentino [articolo riproposto su Cuco di oggi] Firenze è anche altro, e soprattutto è altro ai giorni d’oggi, è lavoro, tecnologia, scienza, è altro agli occhi dei fiorentini. È vero, abbiamo un sindaco menestrello che porta cornetti e brioches agli operai sul lungarno Torrigiani e noi fiorentini apprezziamo questa democrazia vissuta, è vero, abbiamo accolto, cresciuto e formato un premier garrulo che ciaba e chiacchera più di una comare di Borgo Allegri e noi fiorentini conosciamo benissimo l’arte del pentimento, è vero, abbiamo anche un presidente di regione che è quasi un pisano che per noi fiorentini non è il massimo e comunque lo accettiamo proprio in virtù di quel “quasi” ed è anche

Le frenetiche notti di un guerriero della bellezza

esiste la purezza. Una cultura autonoma è impossibile”), trancia giudizi spietati, si emoziona per grandi incontri e innamo-

ramenti artistici (Picasso, Van Gogh, Beuys, Laurie Anderson, Mark Tobey, Michel Cardena, Robert Mapplethorpe, Tadeusz

Kantor…), teorizza, pratica e fa praticare una inimmaginabile, almeno in lui, (auto)disciplina (“Disciplina: uno strumento per sfidare lo spirito”, dichiara senza false modestie e con chiarissima consapevolezza le sue potenzialità e le modalità per esprimerle “Tutto quello che tocco voglio caricarlo di una nuova energia, In tal modo i miei disegni, sculture e installazioni eserciterebbero una forza imperiosa e galvanizzante. La sola presenza delle mie opere animerebbe lo spazio espositivo”. Il “giornale notturno” diventa così un viaggio non solo nell’universo di Fabre ma nel mondo del contemporaneo, in molte delle sue espressioni culturali e artistiche: un’immersione da farsi con le dovute avvertenze (“Un artista non fa che inventare di nuovo l’acqua calda e pensa di essere originale perché fabbrica una ruota quadrata. Ma se non hai il fegato di farlo, allora non impari niente dall’arte, e non sei degno di essere un artista”).

governati da questi politici non sempre all’altezza della situazione? Risposta molto semplice : a suo tempo, con Dante, forse abbiamo esagerato, ma noi fiorentini non siamo mai contenti, ci piace criticare, contrastare, spaccare il capello, ci piace trovare il pelo nell’uovo, ci piace ironizzare sui presunti pregi e condannare senza appello i grandi difetti, ci piace il ridicolo involontario di certi

personaggi, ci piace offenderci la mamma, ci piace sfottere il migliore amico, noi fiorentini siamo persone serie ma non prendiamo mai nulla sul serio e fino in fondo e spesso, quasi sempre, non siamo capiti e questa è la cosa che ci fa arrabbiare di più. Con queste nostre caratteristiche e con questi nostri amministratori si può ben capire come noi ci si possa “andare a nozze”, si può ben comprendere che con amministratori e politici irreprensibili non ci si divertirebbe neanche un pochino, la perfezione non ci esalta e la famosa martellata di Michelangelo sul suo Mosè appena terminato non era altro che una forma violenta di disappunto in quanto una statua così perfetta aveva il “difetto” di non parlare. Per la legge del contrappasso cerchiamo di stare in guardia, se per caso vediamo passare Matteo Renzi da queste parti qualcuno gli dia una lieve martellata sul piede per fargli capire che deve imparare a stare più zitto!

Stanotte a Firenze

vero che abbiamo per presidente del consiglio regionale un fiorentino doc sul quale non mi soffermo in quanto, spesso, Cultura Commestibile si dilunga in sperticate lodi di questo mitico cittadino, lodi che spesso rasentano una ilare venerazione. A questo punto la domanda sorge spontanea: come mai i fiorentini che a suo tempo hanno preso a calci in culo il Sommo Poeta, oggi accettano di essere


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Dialogo fra due cittadini indecisi

Claudio Cosma claudiocosma@hotmail.com di

L

a scena si svolge al Forte Belvedere a Firenze nel mese di giugno 2016, davanti alla scultura di Jan Fabre, L’uomo che scrive sull’acqua, 2006. Personaggi: Primo Cittadino e Secondo cittadino, poi semplicemente 1° e 2°. Riferimenti non scritti: Maurizio Nannucci, Scrivere sull’acqua, 1973 – Gino De Dominicis, Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua, 1969 – Jacques-Louis David, La morte di Marat, 1793 – Ubaldo Lay e l’impermeabile del tenente Sheridan, 1960 circa – Cesare Polacco alias ispettore Rock e la pubblicità della Brillantina Linetti, 1962 Primo cittadino: Raramente Secondo cittadino: Raramente cosa? 1°: Raramente ho visto 2°: Visto cosa? 1°: Quello che abbiamo davanti 2°: Ah, questo! 1°: Proprio 2°: Che ne pensi 1°: Penso alla hybris, al superamento del limite 2°: Io al modo di dire “un coraggio da leoni” 1°: Lui certo lo possiede, ma solo a livello mentale 2°: Io effettivamente mi riferivo a lui 1°: Io gli davo un significato più ampio 2°: Spiegati meglio 1°: Si possiede un coraggio da leoni a pensare una cosa simile e poi a metterla nel giardino di casa 2°: Capisco, vuoi intendere che ci sono dei complici? 1°: Ti leggo il significato di hybris, lo prendo da Google: presso gli antichi Greci, l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l’ordine costituito, sia divino che umano, immancabilmente seguita dalla vendetta o punizione divina (tísis): concetto di fondamentale importanza in alcuni scrittori greci, specialmente in Eschilo. 2°: Dovutamente ridotto direi

Dall’alto Jacques-Louis David La morte di Jean-Paul Marat 1793 Maurizio Nannucci Scrivere sull’acqua 1973 Jan Fabre L’uomo che scrive sull’acqua 2006

che calza a pennello 1°: Va tolto l’aspetto epico 2°: Certo va tolto 1°: Chi commette questo eccesso non è mai solo 2°: Spiegati 1°: Partirei dalla fonderia che ha accettato di farlo 2°: La carne è debole 1°: In questo caso la debolezza è provocata da chi produce l’opera 2°: Cosa vuole dire produrre 1°: Vuol dire pagare i costi senza essere poi padroni dell’opera

2°: Non si può sbagliare due volte 1°: Si è sbagliato moltissime volte, ma l’ultima, la peggiore è stata risparmiata 2°: Mi sto confondendo 1°: Lascia perdere 2°: Dove stanno gli errori 1°: Non si dà impunemente una cornice di tale livello 2°: La vendetta degli dei si allargherà a comprendere chi ha permesso questo? 1°: Sicuramente. La divinità che protegge Firenze interverrà 2°: Ragionando come te, direi che è già intervenuta 1°: Ti riferisci al crollo del Lungarno Torrigiani? 2°: È proprio sotto il Forte 1°: È solo l’inizio 2°: Beh andiamo 1°: Sì, andiamo


18 GIUGNO 2016 pag. 11

Fuga dal cervello

Paolo Marini p.marini@inwind.it di

S

i parla molto di ‘fuga dei cervelli’, assai più che di ‘fuga dal cervello’: provvedo a qualche accenno in questa pagina. “Noi siamo buoni a dire: Cicerone dice così; ecco i costumi di Platone; sono proprio le parole di Aristotele. Ma noi per conto nostro che cosa diciamo? Che giudizi diamo? Che facciamo? La stessa cosa la direbbe bene un pappagallo”. Lo ha scritto Michel de Montaigne, la frase è tratta dal capitolo “Dell’educazione” del Libro primo dei suoi “Saggi” e prosegue così: “Questo modo di fare mi fa ricordare di quel ricco Romano, il quale si era dato cura, con grandissima spesa, di riunire uomini istruiti in ogni genere di scienze, che egli teneva continuamente attorno a sé, affinché, quando gli fosse accaduto di parlare tra i suoi amici di una cosa o di un’altra, quelli prendessero il suo posto e fossero sempre pronti a fornirgli chi un discorso, chi un verso di Omero, ciascuno secondo il suo fardello”. Egli dunque “pensava che quel sapere fosse suo perché era nella testa dei suoi uomini”. Se il filosofo francese - uomo del XVI secolo - tornasse improvvisamente in vita nel nostro tempo, si feliciterebbe con sé stesso per il ragionamento quasi profetico. Se uno oggi vuol fare come il ricco Romano, può anzitutto procurarsi uno smartphone, pagandolo peraltro assai meno di quanto gli costerebbe uno stuolo di uomini istruiti. Il discendente del pensionato telefono cellulare è già acquistato non tanto per fare e ricevere telefonate (funzione sempre più ancillare) quanto per tenersi in contatto con il globo terracqueo e confidare di avere la realtà sotto controllo, in ogni momento. Senonché il filosofo vi riconoscerebbe l’ulteriore connessa funzionalità: fornire l’accesso ad un mare sterminato di informazioni, un giacimento pronto-uso cui ricorrere a fronte delle più svariate esigenze. Certo, a tale elaboratore difetta perlomeno la capacità di mettere in fila le parole e formulare un discorso, gli manca la favella. Ma questo è un gap a cui in futuro si potrà

procurare rimedio. Chiunque può pensare di possedere il sapere che è custodito nelle ‘app’ del proprio smartphone e può soprattutto pretendere che questo sia il sapere. Arruolare uomini istruiti e disporli ordinatamente a corte non è (più) necessario, anche se qualcuno continuerà a farlo, per vezzo, per esibire onnipotenza. Epperò, se non si hanno di Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

L’A biranta

queste esigenze e si intende, ad esempio, intrattenere una conversazione minimamente impegnativa su qualsiasi cosa, basta tenere a portata di mano lo smartphone e si può sperare di non affogare in un imbarazzante mutismo. Chi se ne importa se il Montaigne chiamerebbe tutto questo “scienza relativa e mendicata”? Quando osservo gruppi o file

di giovani (e meno giovani) seduti alle panchine dei giardini, alle fermate degli autobus o nei luoghi di aggregazione, tutti soli e chini su questi aggeggi, la loro mente così assorbita e impermeabile a qualunque sollecitazione esterna, mi pare di intravedere la punta avanzata della schiatta, già nutrita, di eredi del ricco Romano che sta ‘studiando’. Chissà se Montaigne si lascerebbe contagiare dall’entusiasmo (per non dire ‘droga’) per l’uso massivo (ove non tendenzialmente totalizzante) di prodotti tecnologicamente avanzati. Se però lo conosco un poco, è realistico che la penserebbe così: è giunto il tempo in cui l’uomo non ha più alcun bisogno di studiare, di imparare, di pensare. Si sta emancipando da quelle fatiche, si sta definitivamente ‘liberando’. Può così trasformarsi nell’’uomo nuovo’ una entità organica per la quale trascorrono senza peso miliardi di informazioni - e avere finalmente l’agio di lasciarsi andare alle proprie pulsioni, di vivere il proprio tempo letteralmente spensierato, reso libero e vacuo come un grande hangar vuoto dove non c’è neppure un chiodo per appendere un quadro.


18 GIUGNO 2016 pag. 12 Elisa Zuri elisa.zuri@gmail.com di

L

a miniera la chiamava. Montagne di libri da prendere in mano, annusare, riconoscere al tatto con l’intuito di chi tra i libri ci aveva passato una vita. Piero Chiari a Firenze è conosciuto come la mente e il braccio delle sue librerie gioiello. La Libreria Chiari antiquaria di Borgo Allegri è stata il punto di riferimento di tutti gli studiosi di materie umanistiche. Se cercavi un testo introvabile, quello era l’unico posto dove correre a scovarlo: una scommessa quasi sempre, miracolosamente, vinta. La sua Libreria Salvemini è stata luogo d’incontro di bambini e appassionati di esoterismo. Qualche anno fa con la Libreria de’ Servi ha sognato una vetrina di classici e rarità editoriali in pieno centro. Piero senza sosta sognava, progettava, realizzava, facendo trascorrere pochissimo tempo tra una cosa e l’altra, con dedizione costante, mirabile forza fisica e il coraggio di un equilibrista. Gli spazi erano sempre insufficienti, le opportunità di acquisto librario treni da prendere, ogni Giovanna Leoni giovanna.leoni@gmail.com di

Lucia Berlin ha la rara capacità di scrivere della realtà, anche banale, rendendola magnetica. Nei 43 brani che compongono La donna che scriveva racconti (Bollati Boringhieri, 2016), maldestra traduzione dell’inglese A Manual for Cleaning Women, incontriamo più o meno gli stessi personaggi ma visti da tante angolature diverse e con impercettibili variazioni. Quasi sempre una madre alcolizzata, e poi a rotazione un nonno violento e pedofilo, un padre ingegnere minerario, una sorella ritrovata emotivamente solo quando sta per morire di cancro. Storie puntellate di uomini spesso violenti, tossicomani e tormentati, e di mille mestieri: donna delle pulizie, segretaria, centralinista, infermiera, insegnante. Con la lievità propria dei grandi scrittori, Berlin tocca gli aspetti più crudi e oscuri delle nostre vite e ce li restituisce sotto forma di racconti lineari, depurati dalle

Piero Chiari, i libri e il gioco d’azzardo

libro una scoperta di percorsi da approfondire. La FirenzeLibri Srl, fondata a Figline Valdarno con il figlio Massimiliano Chiari, è un deposito incredibile della migliore produzione editoriale degli ultimi decenni. L’ultimo progetto concepito è la Libreria Chiari in via Frà Bartolommeo: scaffali di legno, libri esauriti e una

selezione di ottime novità, una grande cultura libraria. Eppure Piero non era un imprenditore. Era un artigiano visionario che nelle sue “botteghe” ha costruito da solo gli scaffali, scelto i titoli e le case editrici: Adelphi, Einaudi, Olschki, Storia e Letteratura, Salerno, Antenore, così come i Classici Utet, Laterza, fino al Poligrafico dello Stato, opere dello Stato Maggiore dell’Esercito, preziosi esauriti della Sansoni o della Nuova Italia, oltre a importanti marchi stranieri, come Georg Olms, Gallimard, Belles Lettres. Con l’eleganza di un gentiluomo dell’Ottocento e la luce negli occhi di un giocatore d’azzardo, Piero ha abitato le sue opere, con una professionalità che era una vocazione, oltre che un mestiere. Come una missione spirituale, una passione, un sogno. “La vita è un gioco”, diceva. Quando qualcuno provava a dissuaderlo da un’idea che sembrava rischiosa, rispondeva “voi giovani vi prendete troppo sul serio, il

sogno è tutto, per il resto non è mica vero nulla”. Ci teneva alla totale libertà di movimento e pensiero, era un anarchico dell’anima. Tollerava ritardi, l’infrazione delle regole, ma non la mancanza di passione. Prima di tutto si divertiva, totalmente estraneo all’ansia della distribuzione delle librerie di bestseller. E quando non si divertiva, diventava una furia in cui tutti i suoi collaboratori prima o poi si sono imbattuti. La furia vera di chi gioca sul serio. Ha introdotto i suoi dipendenti, come un Virgilio, nel mondo straordinario delle legature di libri, delle caratteristiche delle carte. Ci ha insegnato a schedare libri nuovi e antichi, a valutare i titoli fuori commercio, a riconoscere un libro vero, che lo sarà domani, come lo è oggi e lo è stato ieri. Ci ha insegnato che bisogna innovare, rischiare, cavalcare le nuove opportunità, senza dimenticare mai che ciò che ha fascino e valore non invecchia mai. Il resto scorre. Piero ci ha lasciato lo scorso 5 giugno. Ma per noi che l’abbiamo conosciuto e a cui ha insegnato a lavorare non è mica vero nulla.

siamo la somma di quello che ci è accaduto e alla fine il nostro margine di libera azione è limitato. Non ci sono voglia di rivalsa, rabbia, rancore, rimpianti: Berlin riesce a farci credere che possiamo solo farci trasportare dalle onde dell’esistenza senza opporre molta resistenza. Eppure le vicende dei personaggi raccontati sono intrise di passione e di dolore, di autodistruzione profonda: ferite aperte che non si rimargineranno mai, occasioni perse, scelte sbagliate. La sensazione che possiamo davvero poco di fronte ai fatti della vita ci accompagna durante la lettura di tutto il libro. Eppure, forse il senso è racchiuso tutto qui, nelle pagine dell’ultimo racconto, intitolato “Ritorno a casa”: “…Cos’altro mi sono persa? Quante volte nella vita sono

stata, per così dire, sul portico dietro casa invece che su quello davanti? Cosa mi è stato detto che non ho sentito? Quale amore potrei non aver percepito? Queste domande sono senza senso. L’unico motivo per cui ho vissuto tanto a lungo è che ho lasciato andare il passato. Ho chiuso la porta in faccia al dolore, al pentimento, al rimorso. Se li lascio entrare, se apro anche solo una piccolissima fessura in un attimo di auto indulgenza, bum, ecco la porta spalancarsi, ed entrare bufere di sofferenza che mi devastano il cuore e mi oscurano gli occhi di vergogna e rompono tazze e bottiglie buttano a terra barattoli frantumano i vetri delle finestre e io inciampo grondante sangue sullo zucchero versato e i vetri rotti e rimango terrorizzata senza fiato finché tremando e con un ultimo singhiozzo non richiudo la pesante porta. Raccolgo i cocci per l’ennesima volta.” Citando una splendida canzone di Niccolò Fabi, “vince chi molla”.

Manuale amorale per farsi meno male

passioni, asciutti eppure acutamente penetranti. Una storia di vittime e di vinti, in cui l’obiettivo è farsi meno male di quanto già ci si è fatti, dove non c’è redenzione o lieto fine, ma solo lo scorrere della vita e dei suoi eventi. Nessuna morale, nessuna lezione:


18 GIUGNO 2016 pag. 13

Les femmes sont coquettes

Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

I

n un articolo de Le Figaro del 1869 il giornalista presente all’inaugurazione, entusiasta, scrisse è la più bella sala di questo genere a Parigi anche se, per dovere di cronaca, sottolineava che l’acustica non fosse perfetta e le lampade a gas forse non sufficienti per soddisfare l’esigenze del pubblico femminile intervenuto che, adorno di splendidi vestiti e costosi gioielli, amava essere ammirato perché, come si sa, les femmes sont coquettes. Questo fu l’inizio della folle storia delle Folies-Bergére. Questo teatro, ormai diventato mitico, fu costruito sul terreno di un istituto per ciechi, il Quinze-Vingts, che, agli occhi del proprietario, aveva l’enorme vantaggio di essere molto vicino ai Grands Boulevards che Haussman stava costruendo e che avrebbero cambiato non solo l’aspetto del centro di Parigi ma anche le abitudini dei suoi abitanti. Ma i nuovi spaziosi viali sui quali passeggiare per incontrare la sempre più ricca borghesia, tessere contatti, corteggiare le demoiselles in cerca di fortuna, entrare negli incredibili, luminosissimi passages con le vetrine, vere novità da restare a bocca aperta, e i tanti affollati bistrot, all’inizio misero in ombra il nuovo teatro tanto che con la guerra del 1870 la sua sala accolse solo coincitate riunioni politiche. Ma poi i suntuosi decori art nouveau, il colore viola dei suoi 1800 posti nella sala, il fantastico giardino d’inverno e le stravaganti opere presentate (operette, pantomime, numeri da circo) cominciarono a richiamare sempre più gente decretandone, nella città dai mille teatri, un successo senza precedenti. Manet ritrasse il bar all’interno in un suo famoso quadro, Zola, Maupassant altri scrittori ne descrissero nei loro romanzi alcuni dei frequentatori. Il music hall non esisteva ancora. Occorre attendere agli inizi del 900 quando Paul Derval, attore al tempo di grande successo, divenne il direttore artistico, carica che mantenne per 50 anni. Fu lui a far apparire le grandi piume che ricoprivano i corpi seminudi delle ballerine in brillanti spettacoli musicali che spesso, secondo una stravagante idea dello stesso Derval, avevano un titolo composto da 13 lettere che includeva la parola Folies. Richiamate dalla fama del locale cominciarono ad apparire

sul palco le grandi dive del tempo come la Bella Otero e Mistinguett che proprio alle Folies-Bergére durante lo spettacolo La valse renversante si innamorò perdutamente di uno degli attori, Maurice Chevalier, con il quale ebbe un idillio durato 10 anni. Le raffinate

pietanze del famoso e non lontano ristorante Flo (court des Petites Ecuries 7) arrivavano direttamente nei camerini di queste star d’inizio ‘900 insieme agli imponenti mazzi di fiori degli ammiratori. Fu Paul Derval che coprì il corpo statuario di Josephine Baker con solo una

Le architetture di Pasquale Comegna

cintura di banane nello spettacolo La folies du jour (13 lettere). Una scelta audace che, anche se metteva in luce l’idea che i francesi avevano delle persone di colore in un’epoca coloniale, portò la Baker ad avere un trionfo mondiale. A continuare la tradizione di originalità e successi di Derval dopo la sua morte fu un personaggio da romanzo, Hélène Martini, prima ballerina a comparire completamente nuda proprio alle Folies Bergére nel 1937, regina delle notti parigine e vedova di un ricchissimo impresario di cabaret. Oggi questo teatro è ancora uno dei grandi simboli di Parigi, ma è un simbolo che con il tempo è diventato fragile. Nel 2012 è stato restaurato il tetto, i pavimenti e le lamine di rame, che ricoprivano il bellissimo rilievo art déco sulla facciata del 1930 di Maurice Picot classificato monumento storico, sono state sostituite da foglie d’oro. L’originale programmazione è stata sostituita da una non sempre entusiasmante (soprattutto in questi ultimi anni), ma basta spingere la porta di fianco alla biglietteria per rimanere attoniti e immergersi improvvisamente in quella esaltante atmosfera degli anni ‘20.

Roma Macro


18 GIUGNO 2016 pag. 14 Barbara Setti twitter @Barbara_Setti di

T

ravel Appeal ha presentato il report sui 5 mesi di attività nel monitoraggio della reputazione online dei 20 Grandi Musei Nazionali italiani. Di Travel Appeal avevo già parlato nel numero 149 del dicembre 2015, quando era iniziata l’attività col MIBACT. Tutti gli indici sono in crescita: soprattutto la percezione dell’accoglienza (+44%), la percezione delle attività e degli eventi (+25%) e dei servizi (+32%). Stabile quella sugli spazi (+2%), in forte calo quella sulla ristorazione (-20%), accessibilità (-10%) e costi (-6%). Qui subito una riflessione balza all’occhio. Da questi dati sembra che i musei abbiano attivato delle strategie positive rispetto all’utenza soprattutto nei temi di rapporto visitatore/museo e probabilmente della comunicazione. Laddove invece è necessario incidere su cambiamenti strutturali sia fisici (accessibilità) che immateriali (costi), così come sui concessionari/ gestori (caffetteria), cambiamenti non ci sono stati. Anzi, si potrebbe anche pensare che proprio il miglioramento all’accoglienza faccia percepire ancora più stridenti le aree in cui questi cambiamenti non si sono attuati. Il canale più utilizzato dagli

Auguri Proust

disegni di

Enrico Guerrini

La casa editrice di Roma www. LaRecherche.it a partire dal 2010 pubblica annualmente, per la ricorrenza della nascita di Marcel Proust, un’antologia che raccoglie i contributi di vari artisti/autori su uno dei temi che caratterizza la vita e l’opera dello scrittore.

La reputazione online dei musei 1° GEN - 31 MAG 2016

I musei più in crescita negli ultimi 5 mesi 1° GEN - 31 MAG 2016 NOME

VARIAZIONE TAI SCORE

NOME

Palazzo Chiablese

Galleria Nazionale dell’Umbria

Museo di Antichità di Torino

Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

Galleria Nazionale delle Marche

Museo Nazionale Archeologico di Taranto

Reggia di Caserta

Biblioteca Reale di Torino

Galleria Sabauda

Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini

VARIAZIONE TAI SCORE

N.B. Non è una classifica di merito. Queste sono le strutture per le quali i punteggi sono cresciuti di più nel periodo indicato.

www.travelappeal.com

utenti per comunicare è sempre, decisamente, TripAdvisor. E, grande notizia, si passa dallo 0 al 2% di recensioni con risposta da parte delle strutture. Lo studio sottolinea un uso dei social più consapevole e attivo, con l’adesione e l’apertura di nuovi canali da parte dei Musei. E anche questa è senz’altro una buona notizia. Non mi soffermo molto sulle classifiche dei più amati, soprattutto perché la forbice tra i primi 15 è davvero molto stretta (neanche 5 punti percentuali) e comunque su 28 musei (sono stati “esplosi” gli accorpamenti per le Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma e del Polo Reale di Torino), 21 sono sopra l’80% di gradimento. L’adozione di questo strumento da parte del MIBACT è stato

salutato in parte positivamente, in parte con perplessità sia perché si tratta di uno strumento considerato, impropriamente, mutuato dal mondo turistico, sia perché si teme, e mi riferisco in particolare a un articolo di Massimiliano Zane su Wired del 15 giugno, che le classifiche possano appiattire il valore delle strutture e al rischio di effetti distorsivi se i musei cominciassero a inseguire troppo i gusti, i “mi piace/non mi piace” del pubblico. A me preme sottolineare come TravelAppeal non sia semplicemente uno strumento di monitoraggio, per altro comunque in tempo reale, dell’immagine digitale di una struttura museale, ma sia in grado anche, o forse soprattutto, di evidenziare punti di

forza, criticità, bisogni e tendenze in tempo reale. Uno strumento, dunque, che, se bene impiegato, aiuta chi gestisce le strutture museali a riconoscere le criticità in tempo reale e, ove possibile, apportare immediati correttivi. O avere un ulteriore strumento che consenta di valutare e programmare interventi strutturali per il miglioramento della struttura. O, ancora, questa apertura della finestra sul mondo dei visitatori ha una grande potenzialità di “lotta all’autoreferenzialità” di cui spesso i musei soffrono, in fatto di comunicazione, e uno strumento di controllo e monitoraggio in corso d’opera dell’attività dei concessionari rispetto al pubblico, pensando soprattutto ai servizi aggiuntivi (ristorazione e caffetterie). 5 mesi sono pochi per valutare approfonditamente i risultati, e non so quanto duri l’incarico con il MIBACT. Ma mi sembra un’ottima opportunità di monitoraggio, crescita, valutazione e, perché no, confronto tra musei, sulle strategie messe in campo o che si intendono adottare. Spero infatti che questo strumento venga utilizzato non solo, singolarmente, dalle varie strutture, ma anche in senso globale, unitario, per evidenziare potenzialità e criticità trasversali che potrebbe essere affrontate con pool congiunti tra musei.


18 GIUGNO 2016 pag. 15 Gianni Biagi g.biagi@libero.it di

C

laudio Nardi architetto, ha progettato un nuovo passaggio sul fiume. Nell’ambito delle manifestazioni di Pitti Uomo 2016 e della manifestazione Firenze4ever ha realizzato questo progetto. Perché sull’Arno? Da sempre ho in mente che l’Arno dovrebbe tornare ad essere centrale nella vita della città e non il suo limite, oggi di fatto è un territorio quasi inesplorabile, solo la scusa per bellissimi ponti e belle foto. Andrea Panconesi e Luisa Via Roma, nelle precedenti edizioni di Firenze4ever, hanno esplorato e fatto conoscere al mondo luoghi storici, bellissimi e poco conosciuti e poi hanno riaperto le porte di luoghi ex industriali e dismessi; ho pensato che fosse giunto il momento dei Non Luoghi e ho pensato a questa installazione, non affacciata sul fiume ma proprio adagiata nel fiume, una nuova terra emersa. Come succede nell’alchimia delle coincidenze, solo dopo mi sono reso conto che stavamo trovando spazio ad una antica idea di riappropriazione del fiume proprio nel cinquantesimo anniversario dell’alluvione, e mi è sembrato il segnale Sandra Petrignani essepetrignani@gmail.com di

Si direbbe che per Pasquale Comegna il tempo non possa esistere al di fuori di una struttura architettonica. A volte sono le città a sovrastarlo, che siano antiche come Roma, o moderne come New York, e allora si ha l’impressione di un ritratto, quasi lui si fosse limitato a guardarle. A volte si perde nella vastità del paesaggio, fra alberi e colline, fra montagne a picco e illimitate praterie, quasi le stesse sognando. Ma, a fare attenzione, scopriamo che non si perde veramente mai. In qualche modo lui, quelle città, quelle valli, le ricostruisce, crea sempre una sua personale architettura della forma data dalla realtà. Taglia, sposta, inclina, piega le linee nella vertigine di uno sguardo che non ne ha mai abbastanza della vita vera,

Il ponte nuovo

sull’Arno vista e rivista: deve scomporla e ricomporla, capirla forse, plasmarla, colorarla. E noi, che guardiamo le sue foto, ci chiediamo cosa avevamo colto prima di un prato, di un cielo, di una strada. Solo un prato, un cielo, una strada. E invece, ora, ne sappiamo il rapporto con il tempo (infinito), col colore (inaudito), con la forma (inattesa). Grazie, Pasquale. Pasquale Comegna alla Galleria Sinopia a Roma in via dei Banchi Nuovi 21b fino al 15 luglio

L’occhio per spazi inediti

definitivo. Quale è l’idea base del progetto? Fin dall’inizio il layout dell’intervento che ho pensato era quello del palazzo e del ponte, da qui è scaturita l’idea. Un “Palazzo” di 9 stanze collegate tra loro come nel classico palazzo aristocratico e da un lungo corridoio/ponte che unisce le due sponde, il tutto costituito da piattaforme galleggianti coperte da una leggera struttura metallica bianca attorno alla quale si dispone una bianchissima superficie di tulle. È una idea di volume, architettura, nido, approdo, di stanza infine, accogliente, conviviale. Le piattaforme sono ancorate ad una catenaria fissata a corpi morti e/o viti elicoidali nel fondo sabbioso del fiume, un progetto complesso ma che si è dimostrato fattibile, grazie alla competenza, alla disponibilità e alla efficienza dei nuovi uffici del Genio Civile della Regione e all’opera delle imprese realizzatrici Marec e 6Eco. Sulla installazione si è svolta il giorno dell’inaugurazione di Pitti Uomo 2016 un evento cena, organizzato da Andrea Panconesi e Luisa via Roma, il cui incasso è stato devoluto interamente ad interventi di sostegno per i migranti.


18 GIUGNO 2016 pag. 16

Il 21 giugno alla Biblioteca Pietro Thouar la Fondazione il Fiore assegna post mortem alla poetessa siracusana ma a lungo residente in Toscana il riconoscimento Alberto Caramella. Nell’occasione sarà presentato il libro Studi per Elena Salibra con Nove poesie inedite e proiezione del documentario “Un Fiore per Elena”. “Spero che questa pubblicazione possa dare la possibilità ai lettori che non l’hanno conosciuta di scoprire una delle personalità più interessanti della scena poetica contemporanea del nostro Paese”. È l’auspicio con cui si chiude la premessa del IX Quaderno della Fondazione il Fiore di Firenze, da poco pubblicato presso Edizioni Polistampa con il titolo Nella punta là in alto dei Clìmiti - studi per Elena Salibra con Nove poesie inedite. Una prefazione al Quaderno, scritta da Maria Giuseppina Caramella, presidente del Fiore, in cui si sottolinea che al volume “hanno aderito con entusiasmo e generosità» tanti amici e colleghi che hanno inviato nei mesi scorsi studi, saggi e testimonianze per «mantenere vivo il ricordo della sua vita di studiosa, poeta e donna” dalla “personalità complessa e coinvolgente”, deceduta prematuramente nel 2014 per un male incurabile.

Il premio “Alberto Caramella” a Elena Salibra

Questo libro sarà presentato martedì 21 giugno, alle 16, nella sala dell’altana della Biblioteca Pietro Thouar di Firenze (piazza Tasso 3), in occasione dell’assegnazione post mortem del Riconoscimento Alberto Caramella 2016 ad Elena Salibra, poetessa e letterata nata a Siracusa ma poi vissuta a lungo a Pisa, presso la cui università, al Dipartimento di filologia, letteratura e linguistica, ha insegnato fra l’altro Letteratura italiana contemporanea. Sono previsti gli interventi di Valentina Fiume, Vincenzo Manca, Ernestina Pellegrini, Diego Salvadori, tutti autori di contributi inclusi nel volume. Durante la cerimonia del riconoscimento annuale della Fondazione il Fiore intitolato al fondatore Alberto Caramella, giunto all’ottava edizione, sarà anche proiettato il video “Un Fiore per Elena”: un documentario sulle partecipazioni di Elena Salibra agli eventi a lei dedicati negli anni scorsi dalla Fondazione. Fra cui, come ricorda Maria Giuseppina Caramella, la presentazione nel maggio del 2010 della raccolta di poesie

“il martirio di ortigia”, finalista al Premio Camaiore, e poi, “lo straordinario reading poetico del maggio del 2013 e la presentazione di Nordiche

del novembre 2014” (libro vincitore del Premio della Giuria Viareggio-Rèpaci, nella sezione “Poesia”). Ingresso libero.

Roberto Maestro: Osservare, Disegnare, Progettare

Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

Scavezzacollo

Mostra itinerante Sala dell’Abbondanza Comune di Massa Marittima (GR) dal 18 al 30 giugno 2016

Giornata di studi - sabato 18 giugno 2016 Programma: ore 15.30 - registrazione dei partecipanti e apertura della Mostra ore 16.00 - apertura dei lavori, moderatore Alessandra Pelosi (curatrice della Mostra e OAPPCGR)

COMUNE DI MASSA MARITTIMA

UNIVERSITAS STUDIORUM EDITRICE

Sono riconosciuti per la partecipazione alla Giornata di studi: 4 CFU + 1 CFU L’ingresso è gratuito

Interventi: Marcello Giuntini (sindaco di Massa Marittima) Marco Paperini (assessore alla cultura di Massa Marittima) Cristina Acidini (presidente in carica Accademia di Disegno) Francesco Gurrieri (Università degli Studi di Firenze) Domenico Viggiano (segretario generale Accademia delle Arti e del Disegno) Adolfo Natalini (Università degli Studi di Firenze) Alessandro Gioli (Università degli Studi di Firenze) Marco Bini (Università degli Studi di Firenze) Dibattito e conclusione dei lavori Visita guidata della Mostra “Roberto Maestro: Osservare, Disegnare, Progettare”


L immagine ultima

18 GIUGNO 2016 pag. 17

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

Q

uartiere latino. Uno dei tantissimi Bookstores specializzati nei “Peep shows”. Ce n’erano veramente tanti e decisamente piuttosto frequentati. Ovviamente non esistevano ancora le tecnologie digitali e gli aficionados del genere potevano scegliere tra i vari filmini 16 mm disponibili. A seconda del tipo di investimento i clienti potevano acquistare o noleggiare pellicole di media o lunga durata. Per coloro che non disponevano di un budget adeguato c’era comunque sempre la possibilità, con un solo “quarter” (25 centesimi), di sedersi all’interno di apposite cabine e visionare dei filmati, bianco e nero o colore, della durata di pochissimi minuti.

NY City, agosto 1969


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