redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore redazione progetto grafico simone siliani gianni biagi, sara chiarello, emiliano bacci aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, sara nocentini, barbara setti
Con la cultura non si mangia
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N° 1
Il continente è isolato
“Can you tell me where my country lies?” said the unifaun to his true love’s eyes. “It lies with me!” cried the Queen of Maybe - for her merchandise, he traded in his prize.
“Paper late!” cried a voice in the crowd. “Old man dies!” The note he left was signed ‘Old Father Thames’ - it seems he’s drowned; selling england by the pound.
Genesis, “Selling England by the pound” editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non saltare
Gianni Biagi g.biagi@libero.it
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di
B
elli sono belli, tutti allineati in parata per farsi vedere da vicino nell’antico Coretto delle Balie. I 10 tondi di ceramica invetriata rappresentanti Putti in fasce realizzati da Andrea della Robbia sono stati staccati dagli oculi del loggiato dell’Ospedale degli Innocenti in Piazza Santissima Annunziata per essere restaurati (restauro eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze) e poi ricollocati al loro posto. Una soluzione “innovativa” in una città dove è sempre grande il rischio di vivere in un mondo di copie. Sono ora esposti per alcuni mesi (fino a novembre 2016) nel rinnovato Museo degli Innocenti che ha aperto le porte il giorno di San Giovanni dopo tre anni di restauri e un radicale riallestimento. E bello è anche il museo che final-
Gli Innocenti
ritrovati mente racconta (anche se forse ancora in misura non adeguata all’importanza e all’unicità dell’Istituto) non solo delle opere d’arte che vi sono raccolte, frutto per la maggior parte delle donazioni fatte all’Ospedale, ma anche la storia di questa istituzione fiorentina che è uno dei lasciti del Rinascimento. Anzi ne è l’elemento simbolico e più rappresentativo. Agli inizi del XV secolo la fabbrica di Filippo Brunelleschi, iniziata nel 1419 con la realizzazione del loggiato e dei due ambienti
della chiesa e dei locali per i fanciulli, segna la centralità dell’uomo e della dimensione umanistica del rinascimento e rappresenta in modo plastico il nuovo linguaggio degli ordini architettonici “all’antica”, che è il segno distintivo dell’architettura rinascimentale.Un grande architetto, anzi il migliore in circolazione, che pochi mesi dopo nel 1420 sarà chiamato a risolvere la questione di “voltare la cupola” di Santa Maria del Fiore, realizza una grande opera di interesse sociale. I due
elementi centrali del Rinascimento, l’arte e l’uomo, sono in questo luogo emblematicamente rappresentati. E il percorso museale inizia proprio dal piano terra del “pulcherrimum aedificium” quasi a segnare un percorso dalla terra al cielo. Dalle due porte che si affacciano al livello della piazza della Santissima Annuziata (risolvendo in questo modo il complesso problema dell’accessibilità per tutti al museo), e che sono segnalate da due soluzioni formali di grande effetto scenografico, si inizia il percorso che si svolge per la prima parte nel seminterrato, dove è collocata la sezione che ripercorre la storia dell’Istituzione. Per la prima volta in questa sezione sono mostrati (in 140 piccole teche) alcuni delle migliaia di segni di riconoscimento che venivano lasciati nelle fasce dei bambini consegnati nella “pila”
Da non saltare
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sotto il loggiato ( l’Istituto accoglieva solo i neonati e per questo la “pila” fu poi sostituita da una grata) per potere essere poi, in seguito, eventualmente riconosciuti. Oggetti semplici (come mezze monete o piccoli monili) di cui l’importante archivio storico dell’Istituto è pieno. Il percorso si snoda sui diversi piani dell’edificio attraverso la nuova scala e i nuovi ascensori che segnano l’elemento di maggiore caratterizzazione formale del complesso lavoro di restauro eseguito sulla base del progetto del gruppo fiorentino Ipostudio guidato da Carlo Terpolilli, che ha vinto il concorso internazionale di progettazione bandito dall’Istituto nel 2008. I lavori sono costati complessivamente 12,8 milioni di euro (in parte finanziati dai fondi europei attraverso un accordo con la regione Toscana) e hanno permesso di realizzare un museo di circa 4900 mq oltre le parti comuni dei cortili monumentali degli uomini e delle donne (i cui lavori di restauro sono stati curati direttamente dalla Soprintendenza di Firenze così come i lavori di restauro della facciata). Un progetto che ricolloca anche alcune delle opere di maggiore interesse artistico e storico riproponendole secondo l’originario posizionamento sugli altari quattrocenteschi come l’Adorazione dei Magi di Domenico Ghrlandaio e le sette storie della Predella di Bartolomeo di Giovanni. Gran parte di queste opere sono state oggetto di un importante lavoro di restauro e di ripulituta eseguito in parte (per 16 opere) con le risorse dell’Istituto e in parte (per 26 opere e per complessivi 185.000 euro) attraverso il progetto “adotta un’opera d’arte”. Il progetto di restauro ha anche consentito di recuperare alla città il Verone, ovvero lo spazio destinato alla asciugatura dei panni e dei lenzuoli. Uno spazio di grande suggestione, con una splendida e inedita vista sulla città, che ospiterà la caffetteria del museo aperta al pubblico, anche senza la visita del museo, durante l’orario di apertura dello stesso. Uno spazio pubblico nuovo per la città e per i suoi cittadini.
Foto di Pietro Savorelli
Il nuovo Museo di piazza Santissima Annunziata progettato dal gruppo fiorentino Ipostudio
Foto di Pietro Savorelli
riunione
di famiglia
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Le Sorelle Marx Matteo Renzi non sfonda nei consensi delle italiane, ma in compenso infrange cuori oltre Cortina. Durante il recente viaggio a S.Pietroburgo, per partecipare ad un Forum sui rapporti fra Russia e Europa, il premier non accora imbolsito dalla sconfitta elettorale, ha mietuto vittime fra il gentil sesso russo. Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo, ha postato sul suo profilo Facebook, commentando il discorso di Renzi: “È stato fantastico, è uno schiaffo a tutti gli estremisti e a tutti i sostenitori della forza e della violenza, agli isolatori e a tutti quelli che stupidamente prendono in giro i valori veri e le tradizioni. Mi sono innamorata”.
Lo Zio di Trotzky
Scontro tra Titani Come nello scontro fra i Titani e i loro stessi figli, gli Dei dell’Olimpo, nella notte dei tempi, si sta consumando uno scontro devastante fra i Titani regionali: il presidente Eugenio Giani, appena tornato dalla visita istituzionale a Vinci dove con il sindaco Torchia ha discusso su come individuare una data per istituire l’ennesima festa toscana - quella del Genio - nel nome di Leonardo, sua e di Dario (Parrini), ha ingaggiato uno scontro violento con un suo degno epigono, Oreste Giurlani, sindaco di Pescia, già eroico condottiero degli Dei della Montagna riuniti nella sacra lega dell’UNCEM. Oggetto dello scontro mortale, Pinocchio! Martedì scorso il Presidente euGenio, con tanto di fasciona regionale e immancabile buffet, ha inaugurato nei locali del Palazzo Panciatichi (che a breve, complice una proditoria decisione della Giunta Regionale sarà ribattezzato Palazzo del Pegaso) una statua formato gigante raffigurante il burattino di legno, donata dalla Fondazione Collodi. Il palazzo del Consiglio si arricchisce così dell’ennesima opera (d’arte?), completando – dopo la cura Nencini - la sua trasformazione da palazzo delle istituzioni
Dalla Russia con amore Da allora, a Palazzo Chigi è attiva una linea rossa direttamente con il grattacielo delle Sette Sorelle a Mosca, sede del Ministero degli Esteri. Tanto che gli uomini del premier iniziano a temere lo stalkeraggio. Infatti la Zakharova telefona compulsivamente, invia mail, dispacci diplomatici con le più futili scuse con il solo scopo di ascoltare per pochi secondi la soave voce di Renzi. “Pronto, Matvèi, mio Ministro vuole sapere se dobbiamo mandare flotta russa in Mare Mediterraneo per aiutare te con profughi?”. “No, Maria, e ci penso da me;
‘un’ho bisogno delle tu’ barche per raccatta’ que’ poveri cristi”. Poco più tardi: “Mòtia, Ya tebya lyublyu [“ti amo” in russo], potresti mandare tuo intervento registrato dopo elezioni amministrative per mio ministro che te ammira tanto? Così io ascolto tutta notte tua bellissima voce”. “Maria, e c’ho da lavorare, via ‘un mi dare ‘i tormento. Qui poi ho anche perso le elezioni e mi girano un po’ i c...”. “Oh Matvèi, io adoro quando tu arrabbiato. Ti prego, dillo ancora”. “No, via Maria ora ‘un posso: c’ho da fare una riunione con la Maria
Elena sulle riforme costituzionali”. “Chi essere Maria Elena? Io sono tua sola Maria!”. “Ma che scherzi Maria: la Mary Elen l’è tremenda. Lascia perdere”. Più tardi, suona il telefono rosso: “Mòtia, Ya tebya lyublyu, come stai?”. Ma all’altro capo, invece di Mòtia risponde una voce femminile: “Senti, cosa, io son l’Agnese: vedi di andare a fare un bagno ghiacciato nella Moscova, sennò vengo lassù, ti chiudo in una dacia e ti riempio di botte, te, ‘i tu’ ministro Lavrov, Gogol, Tolstoj e Dostojevski. Hai capito, bella matrioska?”. Click
Bobo
I Cugini Engels
a paese dei balocchi. A questo evento epocale c’erano tutti, ma proprio tutti, compreso i due imprescindibili consiglieri del collegio Massimo Baldi e Marco Niccolai, al secolo Bibì e Bibò, che vengono riconosciuti dal Presidente come i defatiganti autori di questa geniale trovata. Ma per l’appunto mancava lui, l’Oreste Giurlani da Pescia che, vero Geppetto della situazione, non era stato invitato. Eppure l’Oreste pesciatino i palazzi regionali li ha sempre praticati, con instancabile solerzia. Così alle altisonanti dichiarazioni di euGenio Giani, secondo cui “Noi sentiamo Pinocchio un po’ come il Pegaso, un po’ come i
Probabilmente troppo occupato a tradurre Tony Blair per l’Unità, il segretario toscano del PD, Dario Parrini da Vinci, non si deve essere accorto che il suo partito negli ultimi anni ha perso le elezioni amministrative a: Arezzo, Livorno, Borgo san Lorenzo, Colle val d’Elsa, Viareggio, Pietrasanta, Fiesole, Orbetello, Cascina, Grosseto, San Sepolcro, Montevarchi, Sesto Fiorentino. Quando all’indomani degli ultimi ballottaggi, ridestato probabilmente dalle urla del suo mecenate Renzi, si è deciso ad analizzare la situazione, in una dotta conferenza stampa ha spiegato che i partiti di governo perdono in tutta Europa (lo vedete che a tradurre Blair uno si fa una cultura internazionale) e che il problema è stato non rottamare abbastanza. Immaginiamo quindi che la seconda fase della rottamazione che ha in mente Parrini, superi il rottamare il singolo dirigente e si applichi anche ai parenti di questo. In effetti questo spiegherebbe la sconfitta di Sesto, da parte dello Zambini, in quanto nipote di Michele Ventura. Suggeriamo però a Parrini di non spingersi oltre, recuperando magari anche la fisiognomica, perché il rischio sarebbe che a quel punto le dimissioni tocchi chiederle a se stesso.
Mi dimetto io che ti dimetti tu
colori bianco e rossi, come un’espressione della nostra capacità di produzione letteraria, per questo lo vogliamo in modo permanente proprio qui, nella sede del Consiglio regionale”, l’Oreste Giurlani ha replicato sprezzante: “Dispiace il fatto che nella cerimonia ufficiale non sia stato coinvolto il Comune di Pescia, anche perché fu proprio il sottoscritto il primo a lanciare l’idea la scorsa estate nel corso di una visita ufficiale a Pescia del neo presidente del Consiglio regionale”. Quali potranno essere gli esiti di questo scontro fra Titani del XXI secolo, tremiamo solo al pensiero immaginarli: la guerra dei Pinocchi, cominciata è!
18 GIUGNO 2016 pag. 5 Michele Morrocchi twitter @michemorr di
L
Hamburger vista Duomo La lotta di classe prosegue
e cronache raccontano di una apertura di McDonald in Piazza Duomo a Firenze, l’assessore Bettarini a Controradio conferma trattative in corso, nonostante il sindaco su facebook si dichiari contrario e dia la colpa di una sua eventuale disfatta alle liberalizzazioni. Quelle liberalizzazioni che i partiti di cui Nardella è stato esponente, dirigente e parlamentare hanno sempre votato e sostenuto e pareva di capire sostengono ancora. Un isterismo che non ha colto non solo il sindaco ma buona parte del suo partito, lo stesso che ha votato tutte le norme nazionali, regionali e comunali che hanno consentito l’attuale liberalizzazione del commercio. Lo stesso partito che osanna la liberalizzazione del mondo del lavoro ma diventa protezionista, almeno a Firenze, per quanto riguarda la ripubblicizzazione di aziende di servizi e le botteghe. Il Pd tuttavia non è solo; il simbolo dell’ “odiosa” multinazionale ameriKana (col k) ha risollevato gli istinti della sinistra dura e pura, che si conferma come sempre attenta al dito e mai alla luna ma anche i conservatori della Firenze che fu, indipendentemente dal loro colore politico. È evidente che la lotta di classe nel centro storico prosegue. In barba al regolamento protezionista, al dazio del lampredotto (di
cui parlammo nel numero 161), la grande catena americana chiede di aprire un negozio nel cuore della città, nonostante nel suo menù non si prevedano piatti della tradizione culinaria fiorentina o l’uso di prodotti a km 0. La deroga richiesta dalla multinazionale infatti si basa sul “servizio al tavolo” e “su uno spazio culturale all’interno del negozio”. Insomma la norma che doveva proteggere il centro storico varata dalla giunta Nardella e che ha fatto strada al provvedimento di Legge varato in questi giorni (su cui torneremo prossimamente) dimostra, se la richiesta della multinazionale sarà accolta, in questo caso la sua natura classista e vessatoria: chi può permettersi di affittare locali ampi, di destinare una parte di questi ad un angolo libreria, di pagare (o sottopagare) personale per servire al tavolo due hamburger e coca cola, può chiedere di derogare al peposo nel menù, il kebabbaro che a malapena riesce a pagare uno stanzino piccolo e stretto è fuori legge e additato al pubblico ludibrio, come
propagatore del nemico dei nostri tempi, il degrado. Sia chiaro chi scrive non ha nulla contro Mc Donald, nessun pregiudizio ideologico; peraltro in Piazza del Duomo già oggi decine di multinazionali e catene di commercio hanno già i loro negozi, il punto è altro. È la teoria del compound turistico che prende sempre più spazio e piede. Il parco giochi del rinascimento, con le sue botteghe tipiche e i punti ristoro riconoscibili e familiari sia che tu venga da Milano come da Detroit. Il compound non ha bisogno dell’autoctono se non come manodopera, personale di servizio. Per questo spariscono le rastrelliere per le biciclette in piazza
Madonna degli Aldobrandini, davanti alle Cappelle Medicee, sostituite (seppur in parte) con gli ennesimi dehors. Si dirà che erano brutte, sporche, turbavano il decoro. E invece che pulirle, liberarle dai detriti di vecchie bici, si preferisce rimuoverle, ripristinare l’ennesima quinta scenica da fotografare o meglio su cui ambientare il proprio selfie da condividere. Con questa logica si spiega anche la rinuncia al passaggio del tram dal Duomo, o dal centro storico in generale. Ai parchi tematici si arriva con i treni, poi si prosegue a piedi o al massimo coi trenini che però sono in tema con il parco. Su questa logica uno dei prossimi provvedimenti potrebbe essere l’aumento delle licenze per i fiaccherai. Dunque anche nel caso del tram il punto non è trasportistico o di impatto ambientale, visivo; no il disegno è l’armonizzazione, l’omologazione al modello ideale che il turista cliente si aspetta, al contesto in cui vendere il prodotto, sia questo il biglietto del museo (unico e indiscusso indicatore del successo dopo la riforma Franceschini) o l’hamburger con patatine. La vista duomo è un valore aggiunto, un costo che la quantità di clienti, garantita dal contesto, rende ammortizzabile in fretta.
Caro direttore. che stana città Firenze! Forse voi potete aiutarci a capire: noi siamo polacche e conosciamo poco il vostro paese e siamo delle imprenditrici molto pratiche, sebbene nostra bisnonna Rosa fosse una grande filosofa. Ecco la questione. Noi volevamo fare un investimento importante nella vostra città, aprendo un importante negozio internazionale in piazza del Duomo, qualcosa di davvero speciale e unico nel suo genere: un grandissimo sexy shop intitolato alla nostra ava, “Sexy Rosa”, che dovrebbe diventare il primo negozio di una catena internazionale. Una cosa fine, di classe. Avevamo anche individuato la sede: abbiamo già un pre-contratto di acquisto della libreria “S.Paolo”. I clienti potranno
così acquistare lingerie sexy e farsi fare un erotic massage sdraiati su un lettino contemplando le meravigliose architetture del Brunelleschi. Siamo andati a chiedere il permesso per l’occupazione di suolo pubblico per installare davanti al sexy shop un dehor con dentro lo spazio per massaggi, vasca idromassaggio e anche lo spazio culturale richiesto dalla normativa cittadina per il centro storico, cioè una bella libreria erotica, dove fare anche nude presentations. Abbiamo parlato con un gentile signore, capo di gabinetto del signor sindaco, che ci ha detto che era tutto in regola. Usciti da Palazzo Vecchio siamo entrati nel nostro profilo facebook e in quello del signor Nardella abbiamo trovato il seguente post:
“Tanto per fare chiarezza. Io sono contrario all’apertura di un Sexy Shop in piazza del Duomo, anche se allude alla grande Rosa Luxemburg. Non è coerente con la nostra battaglia che da anni conduciamo per il decoro e la tutela della tradizione e dell’identità della città. I sindaci hanno da alcuni anni le armi spuntate a causa delle leggi sulle liberalizzazioni volute dal trinariciuto ex-comunista Pierluigi Bersani, che rendono molto facili le aperture di nuovi esercizi commerciali ma faremo di tutto per evitare questa apertura. Tengo a precisare anche che io non sono mai stato dentro un sexy shop, né ho mai incontrato le signore Luxemburg proprietarie della catena commerciale”. Perché lui dice queste sciocchezze?
Noi non abbiamo fatto niente di male e tutto in regola con le sue leggi. Sì, qualche signora polacca lavorerà dentro il nostro sexy shop, ma garantiremo lavoro anche per signorine fiorentine. E poi abbiamo deciso di utilizzare essenze di giaggiolo e al lampredotto per tutelare tradizioni e identità della città. Potete spiegarci questo strano comportamento del vostro sindaco? Con stima Agnieszka, Dorota e Gracja Luxemburg, pronipoti di Rosa
Lettere alla redazione
Care signorine Luxemburg, purtroppo non siamo in grado di spiegare le cose che fa e dice il nostro sindaco. Come diceva un grande cantautore italiano, “non c’è niente da capire”. Il direttore
18 GIUGNO 2016 pag. 6 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di
C
he fra l’Italia e la città di San Pietroburgo sia sempre esistito un rapporto speciale, fino dalla sua fondazione, all’inizio del Settecento, non è certo un mistero. La pianificazione urbana e la realizzazione dei principali edifici viene infatti affidata ad architetti italiani, o italo-svizzeri, a partire dal ticinese Domenico Trezzini (16701734), incaricato dallo zar Pietro il Grande di redigere il “master plan” della città, passando poi ad altri architetti, come Bartolomeo Rastrelli (17001771), attivo in Russia fino dal 1730 sotto le zarine Anna ed Elisabetta, autore fra l’altro del primo “Palazzo d’Inverno”, poi demolito per essere più volte ricostruito fino alla forma attuale. Si arriva poi all’architetto Carlo Rossi (1775-1849), figlio di una danzatrice russa, autore fra l’altro del palazzo Michajlovskij per lo zar Alessandro I e delle piazze delle Arti e del Palazzo, ed a Giacomo Quarenghi (1844-1917), architetto, pittore e musicista, chiamato nel 1779 dalla zarina Caterina II a realizzare opere come il Teatro dell’Ermitage e l’Accademia delle Scienze. La città di San Pietroburgo cresce e si sviluppa fra Settecento ed Ottocento, fra barocco e neoclassico, e diventa la capitale dell’impero essendo permeata, per così dire, dallo spirito e dall’arte italiana. Non desta perciò troppa meraviglia scoprire che i fotografi di corte di San Pietroburgo sono italiani, o comunque di origine italiana. Carlo (Charles) Bergamasco (1830-1896) arriva a San Pietroburgo con la madre pittrice negli anni Quaranta, inizia una breve carriera in teatro e si appassiona alla fotografia, che va ad imparare a Parigi, per tornare poi a San Pietroburgo dove apre il proprio studio sulla Prospettiva Nevski, ottenendo un immediato successo ma rimanendo in contatto con il mondo della cultura fotografica europea, partecipando alle esposizioni internazionali e vincendo numerosi premi, a Berlino nel 1865, a Parigi nel 1867, ad Amburgo nel 1868, a Gruningen nel 1869, a San Pietroburgo nel 1870, a Vienna nel 1873, a
Fotografi italiani alla corte degli zar Londra nel 1874 ed a Filadelfia nel 1876. Bergamasco (con la firma Karl Ivanovitch Bergamasco) viene accettato nel 1865, insieme a Serghei Levitski, per la prima volta come fotografo di corte presso gli zar, prima sotto Alessandro II e poi sotto Alessandro III. Grazie a questo titolo gli viene concesso nel 1877, nel corso del suo soggiorno a Londra, di realizzare i ritratti della regina Vittoria e dei suoi familiari. Bergamasco risulta anche titolare fra il 1874 ed il 1878 di un recapito londinese presso una pensione in King Street - Covent Garden. L’attività di Bergamasco, qualificatosi fino dal 1863 anche come fotografo ufficiale dei Teatri Imperiali, lo porta a realizzare numerosi ritratti di personaggi del mondo dello spettacolo, attori, cantanti e danzatori, essendo San Pietroburgo un centro culturale di importanza internazionale proprio nel campo del teatro, della musica e del ballo. Oltre ai ritratti Bergamasco si dedica alla raffigurazione dei monumenti e dei palazzi della città, genere in cui si cimenta anche il più anziano fotografo di origine ticinese Giovanni (Ivan) Bianchi (1811-1893), che arriva in Russia giovanissimo con uno zio pittore decoratore, per stabilirsi a San Pietroburgo nel 1852 dopo una serie di viaggi di istruzione in Europa, durante i quali, soggiornando a Parigi, scopre la fotografia. Da parte sua Bergamasco chiude ufficialmente la propria attività nel 1891, e alcune immagini con il nome del suo studio continuano ad essere diffuse fino al 1896, anno della sua morte, avvenuta poco prima dell’incoronazione dello zar Nicola II. A Bergamasco succede come fotografo di corte al servizio dello zar Nicola II il più giovane Alessandro Pasetti (1850-1903), anch’egli titolare di un prestigioso studio sulla Prospettiva Nevski ed autore di numerosi ritratti dello zar, della zarina Alexandra e delle figlie, oltre che di numerosi membri della corte. La permanenza a corte di Pasetti è tuttavia piuttosto breve, ed in seguito ad una incomprensione con lo zar, viene allontanato dal suo incarico, ed al suo posto subentrano i suoi ex soci Boissonas ed Eggler.
18 GIUGNO 2016 pag. 7 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di
N
ella splendida cornice delle sale della Sartoria teatrale fiorentina, ricca di storia e di passione, di tessuti, abiti e di esistenze da raccontare, prendono vita le opere di Maria Chiara Cecconi: tre installazioni che dialogano con le collezioni della cultura artigianale della più antica sartoria di Firenze ancora attiva e con il delirio amoroso e vitale del battito cardiaco nel sottofondo musicale creato per l’occasione dal gruppo Werner di Alessia Castellano e Stefano Venturini, con la partecipazione di Andrea Baggio. Nella prima sala predomina il nero e il senso di soffocamento: l’oscurità che annienta la luce della coscienza e della ragione, della speranza e della rinascita. Nella tenebra dolorosa e struggente s’intravede un busto sospeso nel vuoto lacerato nell’addome e dagli stessi materiali del quale è composto. Nello spacco fra la carta riciclata con i reperti di una tragica malattia s’intravede una storica fotografia in bianco/nero, il cui ricordo si perde nel tempo e una lente d’ingrandimento focalizza l’attenzione su un volto misterioso. Nell’opera passato e presente costituiscono una sintesi dialettica incredibilmente espressiva, nel loro essere così vicini e così distanti come il bianco e il nero, come la vita presente e il ricordo di una donna che troppo presto si è resa assente, ma che ha lasciato un vuoto incolmabile, sostituito da una semplice e preziosa immagine. Nella seconda stanza il distacco si annienta in un caldo abbraccio fra il bianco e il nero, l’infanzia e l’età adulta. Attorno a una colonna tessuti monocromatici si avvinghiano dall’alto verso il basso, in un turbinio di affetti e di manifestazioni emotive che
Batticuore
improvvisamente si divide tra il candido avvolto da un freddo e costringente fil di ferro e la tenebra che si perde in se stessa senza fine e senza principio. L’abbraccio salvifico nasce e muore, si genera e si scioglie infinite volte, come una spirale aurea che non ha né inizio né fine, capace di sopravvivere al tempo oltre la vita e la morte, oltre la gioia e il dolore, oltre il nulla e la speranza di una rinascita. Nell’ultima sala il bianco domina incontrastato nelle velature del vedo-non vedo di una
Maria Chiara Cecconi
nebbia sospesa che lascia intravedere cuori sanguinanti, racchiusi in pesanti cornici di piombo, a sottolineare la sofferenza che aleggia nella mente dell’artista. Delirium cordis, visitabile fino al 3 luglio, non è solo una mostra, ma una vera e propria dichiarazione poetica di lotta per la vita, contro la morte e l’oblio, contro il vuoto e l’assenza. Le installazioni nascono come autentico modo di sentire e percepire il palpito vibrante dell’effimero e della vanità delle cose del mondo,
poiché per Maria Chiara Cecconi la vita, l’Arte e la creazione sono un’aritmia dell’anima, perennemente tesa alla rivelazione e alla ricerca epifanica, costantemente in bilico fra l’annientamento e la rinascita. Delirium Cordis è un dialogo intimo fra la storia che gli abiti della Sartoria teatrale fiorentina portano in sé e l’esperienza personale e autobiografica dell’artista in una sintesi emotiva che si lascia cogliere solo nell’attimo fuggente di un battito cardiaco.
18 GIUGNO 2016 pag. 8 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di
di quanto crediamo. Sempre con questo scopo Grossi indulge in paragoni con artisti più noti: Erkin Koray viene definito il “Jimi Hendrix turco”, i Repetitor diventano “i Sonic Youth di Belgrado” e via dicendo. Diviso in 18 capitoli, uno per ogni paese, il volume tratteggia la scena musicale di ciascuno in modo sintetico, talvolta forse un po’ frettoloso. Parlando della Grecia, per esempio, dedica oltre due pagine a Demis Roussos, mentre liquida in poche righe Eleni Karaindrou, omettendo la sua lunga collaborazione col
ripercorrono i legami di due cantautori - Vinicio Capossela e Bob Dylan - con alcuni dei paesi analizzati. Meno utile, al contrario, la veloce ricognizione del prog jugoslavo. Leggibile e ricco di dati senza sconfinare nella pedanteria, il testo è arricchito da alcune interviste e da un vasto corredo fotografico. Nel complesso, quindi, si tratta di un libro utile e stimolante, costruito con passione e competenza, le stesse doti che Grossi aveva già manifestato in Guida alla musica francese (Odoya, 2014).
al rebetiko. Una preoccupazione costante dell’autore è quella di includere musicisti e stili che godono ormai di una certa fama, dimostrando che certe aree geografiche ci sono meno ignote
regista Theo Angelopoulos. Assenti nomi di rilievo come Eleftheria Arvanitaki, Kelly Thoma e Ross Daly. Indovinate le appendici che
L’opera in questione è importante anche perché ricompone la storia di culture musicali occultate per mezzo secolo in ossequio all’anglocentrismo.
non richiedere nulla di ritorno, in realtà si aspettano che l’organizzazione usi efficientemente i fondi, che chi li raccoglie dimostri gratitudine e così via. Persino il donatore anonimo, che non richiede un riconoscimento, potrebbe essere gratificato proprio dal sentirsi importante per il fatto di dare, pur senza sentire il bisogno di essere identificato. Tra le motivazioni che sottendo-
no i comportamenti di elargizione: ricordiamo il bisogno di autostima; la necessità di sentirsi coinvolti nel dolore di chi soffre; il sentirsi parte della gente; il preoccuparsi dell’umanità come obbligo morale; oppure il bisogno di essere riconosciuti dagli altri; o solo il desiderio di evitare l’imbarazzo derivante dal non contribuire o di evitare il disturbo di chi richiede. Oggi molti donano per sottostare a una richiesta forte di comunicazione sia tramite media sia tramite persone conosciute che operano negli enti donatari i quali descrivono ampiamente e con entusiasmo il grande lavoro che l’organizzazione compie ed illustrano quanto potrebbero fare di più se disponessero di maggiori risorse. Di fatto, hanno rovesciato la transazione: cercano di motivare la donazione per soddisfare i bisogni dell’organizzazione,
mentre le persone (i donatori) compiono azioni per soddisfare i propri bisogni. Chi raccoglie fondi deve scoprire quel che vuole ogni segmento obiettivo e quindi dimostrare come l’azione proposta (la donazione) vada incontro ai relativi bisogni. Una campagna di successo utilizza sistematicamente i concetti di segmentazione del mercato ovvero di differenziazione dello sforzo da compiere a seconda del risultato atteso. Sulla tecnica, ovviamente al giorno d’oggi, la maggior parte delle campagne utilizza approcci multipli per la raccolta dei fondi. Ma solo una accurata fase di ricerca su ciascun donatore potenziale costituisce un punto chiave efficace di ogni campagna. Ecco perchè l’obiettivo ultimo di qualsiasi organizzazione o programma di marketing non profit deve essere quello di influenzare il comportamento del donatore stimolandone il compiacimento per i risultati conseguiti.
U
n titolo come Guida alla musica dei Balcani e del Caucaso (Odoya, 2016) è piuttosto vago, dato che l’oggetto dell’indagine (la musica) non viene circoscritto e l’area in questione è sconfinata. Non solo, ma questa viene ulteriormente ampliata con l’inclusione di due paesi, Croazia e Slovenia, non balcanici ma mitteleuropei. A meno che non si voglia considerare balcanico qualsiasi territorio ex jugoslavo. In ogni caso il libro di Gianluca Grossi, che alterna in modo gradevole world music, folk e musica leggera, con alcune incursioni nel jazz, presenta diversi pregi. Prima opera italiana dedicata a queste aree geografiche, il volume tratteggia in modo chiaro e sintetico un caleidoscopio di suoni estremamente vari: dal canto bizantino alla polifonia georgiana, dalla sevdah bosniaca
Roberto Giacinti rogiaci@tin.it di
Oggi la “concorrenza” tra enti benefici è fortissima; basta pensare al martellamento delle campagne per il 5 per mille. Ormai tutti possono partecipare: scuole, università comuni, associazioni sportive ed ... anche onlus ovvero enti deputati a soccorrere il bisogno. Per emergere in questa foresta occorre dunque trasferire le finalità statutarie (benefiche) nei due punti di soddisfazione, tipici della donazione. Non ha senso concorrere con le grandi benefattrici nell’acquisto di materiali per il terzo mondo. Non ha senso raccogliere il denaro per darlo ad altra Onlus che già lo chiede con i suoi strumenti di comunicazione. Occorre fare quello che non fanno gli altri interpretando le finalità dello statuto. Per ben raggiungere il donatore occorre capire che la donazione non è un atto unilaterale, come giuridicamente è corretto sostenere; infatti donare soddisfa il bisogno altruistico, ma anche inconsciamente quello egoistico. Per conoscerlo, prima di informare o meglio di comunicare, occorre studiare che cosa si aspetta il donatore. Anche coloro che dichiarano di
Suoni oltre l’occidente La donazione sinallagmatica
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I giardini di carta
Serena Cenni serenacenni@virgilio.it di
milioni di rotoli di carte da parati su sfondi azzurri, gialli e verde pallido, Morris propone anche i frutti del melograno, le bacche, i grappoli d’uva, le foglie del salice, che riproduce minuziosamente in accordo con la poetica preraffaellita del dettaglio naturalistico e con la visione iconografica della botanica medievale. E mentre le pareti delle case della buona borghesia vittoriana si tappezzano di questi incredibili ‘giardini di carta’, le finestre, i caminetti e qualsiasi altro spazio vuoto si riempiono, quasi compulsivamente, di tende,
piastrelle, arazzi, cuscini ricamati, vetri istoriati che rifrangono, in immagini a specchio o variate, selezioni o abbinamenti di motivi floreali, in una sorta di maniacale eccesso, di stupefacente horror vacui. La rigogliosità della vegetazione si fa, poi, particolarmente intensa negli arazzi figurativi che, alla molteplicità dei fiori del prato, uniscono alberi con frutti maturi o sempreverdi, contro i quali si stagliano personaggi dell’iconografia religiosa, mitologica e romantica, spesso in abiti medievaleggianti. Molto noto è il primo arazzo, conosciuto come ‘Il frutteto’ e oggi conservato al Victoria and Albert Museum di Londra: vi compaiono le quattro stagioni in abiti finemente intessuti di Morris stesso che, disposte a piedi nudi tra i fiori e gli alberi di mele, pere, olive e i viticci d’uva all’interno di un magico giardino, offrono all’osservatore un cartiglio con versi inneggianti all’abbondanza del raccolto, secondo un’abitudine già sperimentata da Dante Gabriel Rossetti di inscrivere sonetti esplicativi in accompagnamento ai suoi quadri. Un ulteriore indizio della profonda interconnessione, per i preraffaelliti, tra arte poetica, pratica pittorica e perizia artigianale.
della Cisa. Una bella e accogliente casa cantoniera, gestita amabilmente da Caterina e Mirko, luogo di accoglienza dei pellegrini. Da lì è iniziata questa avventura, un incontro ravvicinato con il tratto toscano della Francigena. Ho scelto la Lunigiana perché è una delle zone della nostra regione che conoscevo meno. Mentre scrivo sono all’incirca a metà del percorso che ci siamo dati: attraversare l’intera vallata, dal passo della Cisa fino al mare. Viaggio insieme Mara, la mia compagna di vita e di avventura. A Villafranca si è aggregata anche mia figlia Maria. Vi racconto questo primo tratto così come l’abbiamo vissuto. La Francigena è una strada di pellegrinaggio ricca di memorie e di sentimento: paesini e piccoli centri, chiese, pievi e castelli. Il percorso ideale per coloro a cui piace fare un tuffo nella storia e nella contemporaneità, con i suoi
paesaggi, i profumi della primavera, dei prati fioriti e dei piccoli paesi abbarbicati sui cocuzzoli. Piccole case incastrate le une sull’altre con orti e giardini fioriti. Ormai quasi disabitati ma non abbandonati, anzi curati e puliti, ben tenuti dalle poche persone che ancora ci vivono. E poi ci sono loro, i pellegrini. Ancora pochi ha detta dei gestori dell’ospitalità: all’Ostello del passo della Cisa transitano circa 800 pellegrini all’anno e più dell’80% sono stranieri. In queste prime tappe ne abbiamo incontrati 11, tra olandesi, tedeschi e francesi. Tutti d’accordo nel dire che la Francigena è il percorso più bello, preferibile al cammino di Compostela, molto meno suggestivo e troppo frequentato. Forse se oltre ha sistemarla bene, come abbiamo fatto, vogliamo farla anche decollare è arrivato il momento di farla conoscere, a tutti, partendo proprio dagli italiani.
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egli anni Cinquanta dell’Ottocento, a Londra, quattro giovanissimi artisti, di età compresa fra i diciannove e i ventidue anni, danno vita alla Preraphaelite Brotherhood, una confraternita interartistica che, ponendosi come primo obbiettivo estetico un approccio anticonvenzionale alla natura, propone una serie di dipinti (come, ad esempio, la struggente Ophelia di Millais), basata anche su una cura minuziosa dei dettagli botanici. Dante Gabriel Rossetti è sicuramente la figura più carismatica del gruppo, al quale, successivamente, si aggiungeranno altri giovani desiderosi di distaccarsi dai rigidi dettami della Royal Academy e di apportare un rinnovamento stilistico significativo nell’ambito dell’arte britannica, presentando figure femminili ispirate alla tradizione celtica, medievale, rinascimentale e romantica, che offrono all’osservatore volti seducenti avvolti in una profusione di fiori (sempre simbolicamente allusivi), e corpi in abiti di velluto o di broccato finemente drappeggiati. Tra gli artisti più eclettici e dotati emerge subito William Morris che, scelto da Rossetti nel 1857 per decorare la Union Debating Hall di Oxford, mostra ben presto di saper abbinare alle qualità di poeta, prosatore e pittore come gli altri ‘confratelli’, anche l’abilità di decoratore d’interni, di designer di una molteplicità di manufatti (carte da parati, tessuti, arazzi, vetrate, mattonelle), secondo un concetto medievale dell’operare interartistico che sfocerà, per lui, in una fiorente attività imprenditoriale dallo spirito riformista, volta a elevare in positivo il cattivo gusto delle classi industriali materialiste. Proprio ai giardini di William Morris dipinti su carte da parati ha dedicato una particolare attenzione l’anglista Mirella Billi che, il 13 aprile, ha tenuto un’interessante conferenza dal titolo Giardini di carta: rappresentazioni della natura nell’immaginario vittoriano all’Archivio Storico del Frutto e del Fiore, che ha sede presso la Residenza d’epoca Santo Spirito. Ispirato dalla visione di un reticolato di legno che sosteneva un cespuglio
di rose rampicanti su una parete della sua originalissima abitazione nel sud di Londra (la Casa Rossa, vera icona dell’artigianato decorativo, dove abitò con la moglie Jane Burden, modella e poi amante di Rossetti), Morris crea, nel 1862, un disegno che intreccia, e alterna, ad un reticolato di base (il trellis), svariate qualità di fiori accompagnati, talvolta, dalla presenza di piccoli uccelli ad opera dell’amico Philip Webb. Ma oltre alle rose, alle margherite, alle primule, ai girasoli, ai gigli e ai papaveri che, a partire dal 1864, iniziano a diffondersi in di
Remo Fattorini
Segnali di fumo Durante gli anni del mio lavoro in Regione più volte mi sono occupato della Via Francigena. Tante riunioni, diversi incontri, presentazioni, ecc; scritto schede e articoli, senza mai sperimentare il percorso, la segnaletica, l’ospitalità, né conoscere direttamente i luoghi. Adesso, finita la “stagione delle piogge”, disponendo di un po’ di tempo libero e animato da una certa passione sono partito. Con il treno ho risalito tutta la Lunigiana fino alla stazione di Berceto. Da lì si può raggiungere comodamente, prenotando il “pronto bus” (un servizio pubblico a domanda, di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai sperimentato), l’Ostello del Passo
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Buon compleanno Barbagianna
Aldo Frangioni aldofrangioni@live.it a cura di
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bbiamo chiesto alla Presidente dell’Associazione MultiMedia91 e dell’Archivio della Voce dei Poeti, Alessandra Borsetti Venier, di parlarci dell’attività che in 25 anni di vita la sua associazione posta alla La Barbagianna, in un bellissimo declivio delle colline del Comune di Pontassieve che guardano verso l’Arno. Fra le numerose attività culturali il centro e noto per aver fondato, nel gennaio 2010, l’Archivio della voce dei poeti. Come nasce la Barbargianna e perché le hai dato questo nome così singolare? Sono arrivata su queste colline nel 1992 e, durante una passeggiata, ho trovato questa grande casa contadina. Ho subito pensato che l’ideale sarebbe stato destinarla a luogo espositivo per l’arte contemporanea, nonché residenza per l’ospitalità agli artisti. L’ho scelta perché è un luogo di luce (un “Olimpo” imperfetto a 500 metri vicino a Firenze), di acqua (ha una preziosa sorgente di acqua minerale) e di venti che l’avvolgono, a volte impetuosamente. A quei tempi, sul tetto c’era un nido di barbagianni, uccelli magnifici e misteriosi, dai quali mi sono fatta adottare come “barbagianna”, appunto. Così è nata “La Barbagianna: una casa per l’arte contemporanea”. Quali sono stati gli obiettivi? Riconosco in me lo stesso spirito di Beuys e della sua geografia visionaria. Non basta il rispetto per la natura, proclamo anch’io la necessità della comunione con essa per riconoscere la propria identità con l’animale, la foglia, la pietra: un’unica “sacra” energia ci pervade. Per far questo serve scardinare e rifiutare ogni separatezza, serve frantumare i codici tradizionali di comportamento e mettersi a repentaglio, nel tentativo di produrre arricchimento reciproco in un sistema integrale dove arte e scienza, impegno morale e politico coincidano. Negli anni questa casa è diventata il luogo ideale d’incontro tra i diversi linguaggi artistici e l’operosità, il luogo che accoglie e ospita, dove si può perfino immaginare un illimitato spazio-tempo, e può realizzarsi, anche soltanto per attimi folgoranti, il “legame con l’energia della natura” e l’arte sembra in grado di dare forma all’utopia.
Puoi fare un resoconto sintetico di 25 anni di attività? I primi 25 anni della Barbagianna sono una prova di passione e resistenza che merita di essere condivisa con tanti amici, artisti visivi, poeti, scrittori, musicisti e intellettuali che in questi anni hanno partecipato attivamente con i loro progetti e la loro presenza. Abbiamo iniziato con 5 mostre l’anno, ogni primo sabato dei mesi estivi, dedicate ai cosiddetti “Peccati quotidiani” che sono diventati anche una collana di 15 libri-opera ai quali hanno partecipato filosofi, poeti e artisti visivi. Da editore ho sempre privilegiato l’edizione di libri come opere d’arte, quindi sono state ideate varie collane tra le quali Abbecedari per il nuovo millennio, La Biblioteca Alexandrina composta da 100 libri-oggetto e Voyelles, omaggio a Rimbaud di cui stiamo realizzando tuttora dei libri d’artista che saranno presto pubblicati. Negli anni sono nate collaborazioni internazionali di grande valore come quella con il KunstBalcon di Kassel, tanto che per Documenta 2017 prevediamo Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di
S cavez zacollo
un nuovo scambio di artisti; con la New York University per la poesia e la letteratura e con tante altre realtà culturali attente alla qualità delle idee e alla ricerca in ambito multimediale. Ma la caratteristica più interessante delle mostre che qui vengono ospitate è la loro installazione nella casa la quale, non essendo lo spazio neutro di una galleria o di un Museo, le accoglie in modo da farle ambientare, o meglio “abitare”, come se stessero qui in modo permanente. Lo stupore di chi frequenta la Barbagianna – ogni anno accolgo anche insegnanti e studenti, associazioni e gruppi di persone interessate che vengono anche dall’estero grazie al passaparola degli artisti internazionali che vi hanno esposto – oltre che nella scoperta della qualità delle opere esposte, si esprime soprattutto nel constatare che con l’arte si può vivere sempre e ovunque, dato che qui ho eliminato anche la differenza tra pubblico e privato. Naturalmente per me è un arricchimento incredibile ogni volta che ospito una nuova mostra perché, insieme
all’artista, dobbiamo riuscire ad adattarla agli spazi, agli arredi, a volte con radicali spostamenti dei mobili, degli oggetti in modo che possa “abitare” con me e i miei famigliari e con chi collabora alle attività che qui si svolgono: la casa editrice Morgana Edizioni, l’Associazione culturale MultiMedia91 e l’Archivio della Voce dei Poeti. Quali saranno le prossime mostre? La XXV Rassegna internazionale “Incontri d’Arte” si svolgerà in due parti: il 25 giugno e il 3 settembre. Il programma della prima prevede le mostre Frames di memoria di Gianna Scoino, e AbbanDonarsi di Massimo D’Amato. Seguirà una staffetta di letture live dal titolo Guerrieri di pace condotta da Luigi Fontanella della New York University con Sauro Albisani, Roberto Balò, Alessandro Bini, Rosalba De Filippis, Titti Follieri, Piero Forosetti, Kiki Franceschi, Peter Genito, Sandro Gioli, Vincenzo Lauria, Attilio Maltinti, Irene Marchegiani, Giovanna Mochi, Lorenzo Poggi, Anna Maria Pugliese, Luciana Schinco, Liliana Ugolini. Seguirà una performance con le spade del Gruppo “Nuovo Orizzonte Olistico” a cura di Massimo Mori. Chiuderemo con la cena sull’aia. Invece il 3 settembre avremo le mostre La legge della città di Luca Matti e Omnre e luci di Giovanna Sparapani. Seguirà un intervento sonoro di Albert Mayr e la presentazione dell’antologia Italian Performance Art con performance di vari autori nazionali. La Barbagianna: una casa per l’arte contemporanea, Pontassieve (Firenze), via di Grignano 25, tel 055 8398747
Bizzaria degli oggetti
18 GIUGNO 2016 pag. 11
Il gioco dell’oca
Dalla collezione di Rossano
Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it a cura di
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el 1580, Ferdinando I de’ Medici regalò a Filippo II, Re di Spagna, un esemplare del “nuovo e molto dilettevole giuoco dell’oca” e lo rese felice, dicono. Da allora questo semplice, ed io aggiungo noiosissimo, gioco da tavolo, ne ha fatta di strada! La scatola di Rossano, anni ‘20-’30 del secolo scorso, ne contiene due diverse rappresentazioni, una classica ed una in cui le caselle e i disegni si ispirano al gioco del calcio. Il gioco consta di un tabellone ove è disegnata, riccamente, una grande spirale, suddivisa in 63 caselle che conducono all’ultima, grande e centrale, i giocatori devono raggiungerla muovendo le proprie pedine di tanti posti quanti ne indicano i dadi che a turno tirano... se come ho detto è noioso giocarci figuriamoci spiegarne l’elementare dinamica, confido sulle vostre conoscenze infantil-natalizie. In tutte le raffigurazioni troviamo delle caselle fisse, quelle in cui compare l’oca, benaugurante secondo la tradizione classica, spinge in avanti chi vi arriva, altre punitive, come la prigione, il pozzo, l’osteria, i dadi e il labirinto e, peggio di tutti, il mortifero scheletro che costringe il malcapitato a ripartire da zero. Si sprecano studi interpretativi della cabala dei numeri e dei simboli che bloccano il percorso, in sintesi gioco rappresentativo della vita, costellata di difficoltà e fermate coatte. Però vi racconterò che a Mortara (Pavia) esiste “il palio del gioco dell’oca vivente”, l’ultima domenica di Settembre, nel corso di una Sagra in cui si festeggia l’oca in genere e il tradizionale salame d’oca, prodotto tipico e di eccellenza di queste latitudini, ottenuto con un impasto di carne magra di oche, allevate in zona ed alimentate secondo criteri ben precisi e carne magra e grasso di maiale, (dicesi “33, 33, 33”,percentuale di ciascuna), il tutto cotto e poi ben pressato ed avvolto in pelle di oca. Sagra e specialità per animalisti e vegetariani... La piazza di Mortara viene allestita con un grande tabellone
le cui caselle, un metro per un metro, sono artigianalmente preparate in legno, le pedine sono persone che rappresentano ognuna una delle sette contrade della città, invece che tirare i dadi, degli arcieri scoccano frecce verso un grande tirassegno con cerchi numerati, il numero colpito indica i passi di avvicinamento . Si racconta che questo bel balocco sia stato inventato da Ludovico il Moro, signore di Mortara e non solo, per intrattenere la moglie Beatrice durante le sue lunghe assenze per andare a caccia. La tradizione è stata rispolverata con grande successo nel 1970, prima dell’avvio del gioco un pittoresco corteo storico, aperto dal Moro e Gentile Signora e chiuso da sbandieratori, anima le vie della città. Lido Contemori lidoconte@alice.it di
Il migliore dei Lidi possibili Nuovi equilibristi al governo delle città
Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni
18 GIUGNO 2016 pag. 12 Paolo Marini p.marini@inwind.it di
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e un uomo, membro di un partito, è “risolutamente deciso ad essere fedele in ogni suo pensiero unicamente alla luce interiore e a null’altro, non può far conoscere questa risoluzione al suo partito. È allora, di fronte a esso, in stato di menzogna”. Menzogna e simulazione - parola di Simone Weil (dal suo scomodo “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”) - sono abito e scudo dell’associato. E io gli domando, all’associato: chi te lo fa fare? Qualsiasi consorzio politico – anche se consacrato alla libertà - offre al singolo il privilegio di una appartenenza e gli chiede in cambio la consegna della coscienza. La ‘casa comune’ è pronta ad accoglierlo nel suo abbraccio soffocante, là dove il libero pensiero è come una lepre nella riserva di caccia e la gara è tra chi manifesta o incarna più fedelmente le parole d’ordine. Non esiste organizzazione politica che perdoni all’iscritto l’eterodossia, la refrattarietà ad aderire a tutte le mozioni che il gruppo di controllo reputa essenziali, al sistema del pensiero elevato a rango di dogma. In poche parole, l’associazione politica è sempre
Sergio Favilli sergio.favilli@libero.it di
La notizia sarebbe di quelle che fanno indiavolare tutti i fiorentini: finalmente dopo anni di vani tentativi la più grande catena di fast food sbarca in Piazza del Duomo! Abbiamo volutamente usato il condizionale in quanto anche questa volta la polpetta americana sarà ricacciata indietro grazie alla pre-veggenza del nostro grande Primo Violino. Infatti, il Nardellino, detto anche “la faina del bargello” aveva già previsto tutto e alcuni mesi fa aveva predisposto un nuovo regolamento per fermare il propagarsi di ristorantini etnici, kebab di varia natura e punti vendita di cibi che non fossero quantomeno toscani. Decisissimo ad andare sino in fondo, il buon Dario ha nominato Mastro Picchi a sovrintendente all’alimentazione con compiti di controllo ed indirizzo, naturalmente tutto aggratis in nome del comune
ed invariabilmente fondata su un conformismo, perché “il movente del pensiero non è (...) il desiderio incondizionato, indefinito, della verità, ma il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito” e “i partiti sono organismi (...) ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”. Che cosa può fare l’individuo (con tutto il peso che ha questa parola) di fronte a tale conformismo? Schiacciarlo, se ne ha la forza, per imporre dall’alto una propria dottrina e dunque instaurare un nuovo conformismo; oppure chiamarsi fuori, estromettersi dal consorzio per non dover soggiogare né essere soggiogato. La domanda é: si può essere liberi al punto di perseguire la propria come l’altrui libertà? Il partito è esattamente il luogo dove da subito si è indotti a non coltivare simili pretese. Queste cose vado meditando assai spesso, constatando il modo in cui il pensiero difforme è trattato - anzi oltraggiato - già al di fuori
di un gruppo politico organizzato. Questa visuale è addirittura moltiplicata dai/nei social networks: si provi a osservare come viene apostrofato colui che osa entrare nel dibattito di un gruppo virtuale per affermare la propria ‘dissenting opinion’; e dalla realtà digitale a quella materiale il salto è più negli accenti che nella sostanza. Non si può che condividere, pertanto, la critica radicale al partito politico formulata da Simone Weil, rivelandosi puntualmente il partito (non certo il solo partito comunista francese da lei conosciuto e ‘sofferto’) “un’organizzazione costruita in modo da esercitare una passione collettiva sul pensiero di ognuno degli
Elogio dell’inappartenenza Mc Trippas’ fas fudde
amore per Firenze. Saputa la notizia della polpetta in piazza duomo, il Picchi si è subito messo al lavoro per redigere un menù consono al luogo della nuova apertura tenendo anche conto che siamo a pochi passi dal rinato Niccolini, uno dei
posti più amati dai fiorentini. Tutti sanno che per l’apertura di un nuovo locale occorre interpellare le varie entità istituzionali del territorio e quindi Mastro Picchi, con una azione un po’ ruffiana, fra ribollita, fegatelli e lampredotto, ha pensato ad
esseri umani che ne fanno parte”, il “cui fine ultimo (…) è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite”. Da qui deriva per la filosofa, mistica e scrittrice la radice totalitaria di ogni partito, anche se il termine ‘conformismo’ è qui, per me, più adatto perché meglio si presta ad esprimere un fenomeno che non ha necessariamente l’apparente sistematicità che pertiene al ‘totalitarismo’; ma non per questo non è insidioso, subdolo e, soprattutto, inevitabile. Questa fenomenologia si lega del resto alla natura della (quasi) totalità degli uomini. Sono pochi coloro che hanno appreso l’arte di resistere alla tentazione o pretesa di sovrastare e/o alla debolezza o utilità di aggregarsi (spesso, essendo tutto relativo, accade che un ‘capo’ sia a sua volta il gregario di qualcun altro che è più in alto di lui). Infine, il ragionamento sul partito può essere esteso ad altre tipologie di aggregazioni sociali. Diventa quasi il corollario di un principio dell’“organizzazione” di sospette radici antropologiche. Non è agevole liberarsi da certi lacci e coltivare l’inappartenenza: è tempo di tornare a riflettere sulla natura effettiva dei cosiddetti corpi intermedi e della fuffa apologetica che li ha idealizzati. un menù mediato fra cucina e politica: in onore del Presidente Rossi ha inserito la cecina fra gli antipasti, per riguardo alla Sig. ra Saccardi (permessi sanitari) e ex amministratrice di Campi ha inserito fra i secondi la pecora in umido e per finire ha messo la vellutata di fave secche in onore del nostro beneamato Premier. Tutto fatto??? No, c’era ancora qualche cosa che non andava, al Nardellino vedere quel nome in bella mostra all’ombra del campanile di Giotto non andava proprio giù, si doveva pur fare qualche cosa per dare un imprinting fiorentino al nuovo locale. Per risolvere il problema si è pensato bene di interpellare il massimo interprete della fiorentinità, il Presidente Giani il quale, agghindato alla bisogna con la fascia bianca e rossa della Regione Toscana ha immediatamente risolto il problema: il nome del nuovo locare sarà Mc. Trippas’ - Speriamo bene!!
18 GIUGNO 2016 pag. 13
Figlia mia non sognare trionfi
Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di
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i continua a parlare spesso nei giornali e nei dibattiti televisivi delle pari opportunità da dare alle donne, o meglio a tutte le donne, perché, per fortuna, molte di queste, nella nostra società occidentale, sono già riuscite a vivere la vita che volevano e a imporre i propri diritti. Ma per arrivare a questo traguardo, ancora lontano in certe culture o solo in certi ambienti, il cammino e stato lungo e faticoso e per la strada si sono dovute arrendere molte donne di talento. Qualche tempo fa ho scritto di Paula Becker, bravissima pittrice di fine 800 morta sconosciuta e le cui opere sono ora esposte al museo di Arte Moderna a Parigi, oggi vorrei ricordare la storia di Fanny Mendelsson, nata una generazione prima di Paula, nel 1805, e come lei morta giovane nel 1847. Fanny e il fratello Felix vissero in una famiglia benestente che, secondo i costumi sociali dell’epoca, dette loro nei primi anni di vita la stessa educazione musicale. Entrambi i fratelli studiarono pianoforte, teoria musicale e composizione con i migliori maestri del tempo. Fanny apparve subito molto dotata sia nella composizione dei primi Lieder che nelle esecuzioni ed è lei, ancora bambina, che intratteneva con il piano la ristretta cerchia di invitati ai concerti della domenica pomeriggio nella casa berlinese dei suoi genitori. Intanto Felix completava la sua formazione con numerosi viaggi e opportunità di perfezionare il proprio talento. Ancora undicenne andò ospite di Wolfgang Goethe. A Fanny fu proibito di accettare l’invito. In quell’occasione il futuro compositore, su richiesta, eseguì anche dei brani della sorella e lo scrittore ne rimase talmente colpito da scrivere per lei una poesia dal titolo A colei che è lontana. Il destino dei due giovanissimi musicisti si era già diviso. In una lettera a Fanny allora quattordicenne il padre scrisse “...forse per Felix la musica diventerà una professione, per te resterà una maniera di svago. Non la puoi considerare come lo scopo della tua vita e delle tue aspirazioni. A Felix è consentito avere l’ambizione di far conoscere il proprio talento e di pensare di aver successo in futuro. Figlia mia non sognare trionfi che non sono
appropriati al tuo sesso e lasciali a tuo fratello”. Fanny ubbidisce pur non rinunciando alla sua passione e prima di sposarsi a 17 anni aveva già scritto 250 lieder, 125 brani per pianoforte, 4 cantate e diversi pezzi di musica strumentale e per coro. I due fratelli erano legati tra loro da un solidissimo rapporto di affetto e stima e sarà forse per questo o per una mascherata ammirazione il fatto che Felix abbia dato il proprio nome ad alcune composizioni di Fanny come l’Italien eseguito da Mendelssohn per la regina Vittoria o a 6 dei 24 Lieder pubblicati a inizio carriera.
che non sono appropriati al tuo sesso Con il matrimonio Fanny acquista un po’ di libertà. Il marito, il pittore Wilhem Hensel, la incoraggiò a comporre e a continuare la tradizione dei concerti della domenica pomeriggio nella loro casa. Furono la sua sola opportunità di esibirsi in pubblico, ma erano concerti talmente belli da richiamare molte
Le architetture di Pasquale Comegna
Roma scalo San Lorenzo
delle personalità di Berlino e altri musicisti come Franz Liszt. Anche questi piccoli successi dentro le mura del proprio salotto disturbavano il rigido pensiero borghese dell’epoca. Il padre il giorno del suo ventitreesimo compleanno le scrisse “dovresti applicarti con maggiore serietà e con più zelo al vero e unico lavoro che si addice ad una ragazza: fare la donna di casa”. Del resto anche Felix rivelò in una lettera ad un amico “non credo che si debba chiamare Fanny compositrice né lei ne ha l’intenzione e l’ambizione...Pensa ai suoi doveri di moglie e madre prima di occuparsi del pubblico e del successo”, in un’altra, forse più sincera... “non posso incoraggiare Fanny a pubblicare qualcosa perchè è contro il mio punto di vista e le mie convinzioni”. Solo un anno prima di morire Fanny Mendelssohn si ribella: accettando un’ottima offerta da Herr Bock pubblica alcune delle sue opere per piano e per coro delle centinaia composte nel corso della vita. Scrive nell’occasione al fratello “spero di non dispiacerti e che tu non ti senta offeso di questo mio agire in modo del tutto indipendente”.
18 GIUGNO 2016 pag. 14 Roberto Mosi mosi.firenze@gmail.com di
L
a casa editrice www.LaRecherche.it , Roma, a partire dal 2010 pubblica annualmente per la ricorrenza della nascita di Marcel Proust (10 luglio), un’Antologia nella forma di eBook, che raccoglie i contributi di artisti/autori su temi che caratterizzano la vita e l’opera dello scrittore. Siamo stati invitati, la prima volta, a partecipare alla formazione dell’Antologia “Conversazioni con Proust” (2011) con la richiesta di comporre un saggio, una poesia o un racconto sul mondo dei ricordi e delle suggestioni che denotano il percorso umano e artistico dello scrittore. Abbiamo scelto di soffermarci, con un testo poetico, su uno degli spazi particolari della casa, la cucina, visto come stanza delle meraviglie (Wunderkammer), da un lato, per i ricordi legati a figure come la cuoca Françoise o la governante Céleste Albaret, dall’altro, per la nostalgia di memorie ancora vive della nostra infanzia. Michele Rescio mikirolla@gmail.com di
I macarons sono dei deliziosi e raffinati pasticcini, graziosi da vedere e un piacere per il palato, ottenuti da un composto di albume d’uovo, farina di mandorle e zucchero. Esistono macarons di mille colori e con diverse varietà di morbidi ripieni, dai più semplici e classici, come quelli al cioccolato, al caffè e al lampone ai più elaborati e ricercati come quelli alla rosa e litchi, al thè ai frutti rossi, o addirittura al fois gras. I macarons sono considerati i dolcetti simbolo della pasticceria francese, i preferiti dalla Regina Maria Antonietta, anche se si dice che l’origine di questi celebri pasticcini sia da attribuirsi agli chef italiani portati da Caterina de’ Medici a Parigi in occasione delle sue nozze con il Duca di Orléans. Per lungo tempo sono stati considerati un dolce d’élite, consumato nei più altolocati salotti parigini, tornati alla ribalta a Parigi nella prima metà dell’ottocento e portati alla fama da alcuni dei nomi più celebri della pasticceria francese, come La Durée, Le Nôtre e Hermé, sono considerate oggi dolcetti alla moda e raffinatissimi. Ingredienti Per la meringa. 200 gr zucchero a velo, 200 gr zucchero se-
La cucina di Proust
le storie dei suoi personaggi.
Wunderkammer (La cucina) Cucina avamposto della casa dei Proust, dalla tavola di marmo decollano i piatti guarniti serviti al ricevimento in una nuvola di commenti. L’eco delle voci raggiunge la porta. Cucina porto di sbarco, la borsa della spesa arriva da Les Halles alla tavola di marmo, freschezza del rombo primizie della stagione, scelte da Michelangelo tra i marmi di Carrara. Cucina impero di Françoise, ordini alle forze della natura arrivate in aiuto, dirige l’orchestra
dei servitori, accoglie solenne i complimenti dell’Ambasciatore per l’arrosto di bue deposto su cristalli di gelatina. Cucina miraggio per la memoria della gola, il sapore della lettura mischiata al gusto dei sapori, i lamponi del Signor Swann la torta alle mandorle la crema al cioccolato l’impasto per la petite madeleine. Cucina caleidoscopio abitata dalla curiosità di Marcel per l’arte di Françoise per il manzo alla moda, per il sapore inebriante del sugo dopo tre ore di cottura, ricco di bocconcini di carne:
Macarons au lemon
molato, uova albumi a temperatura ambiente 150 gr (5 albumi circa), 50 ml acqua, una punta di cucchiaino di coloranti alimentari, 200 gr farina di mandorle. Per la farcitura. 2 limoni, 4 tuorli, 120 gr zucchero semolato, 120 gr burro Per preparare la meringa base dei macarons, mescolate in una ciotola la farina di mandorle con lo zucchero a velo, passate poi il composto attraverso un passino per eliminare eventuali grumi. In un padellino dal fondo spesso aggiungete lo zucchero semolato e l’acqua, mescolate e iniziate a scaldare a fuoco dolce; controllate con un termometro la temperatura dello sciroppo che dovrà arrivare a 118 °C circa. Nel frat-
tempo montate a neve la metà degli albumi (75 gr) e quando saranno ben fermi abbassate la velocità della frusta e incorporate poco a poco lo sciroppo di zucchero. Incorporate quindi il colorante per alimenti che desiderate (in questo caso giallo) e continuate a montare a neve, fino a quando la meringa si sarà raffreddata completamente e avrà un aspetto denso, liscio e lucido. Aggiungete alla farina di mandorle e allo zucchero a velo i restanti albumi (75 gr) e mescolate con un cucchiaio di legno, fino a quando otterrete una sorta di pasta di mandorle abbastanza solida. Incorporate quindi un cucchiaio di albumi montati e mescolate per rendere il composto più morbido, aggiungete poi i restanti albumi con una spatola di gomma e mescolate dal basso verso l’alto facendo attenzione a non smontarli. Versate il composto così ottenuto in una tasca da pasticciere con una bocchetta liscia di 8/9 mm di diametro e formate delle piccole palline che lascerete riposare almeno per 20 minuti su una teglia foderata con carta da forno (otterrete circa 30 macarons). Le palline si appiattiranno leggermente da sole
Cucina crocevia per i ricordi della mia cucina, centro della vita intorno alla tavola di marmo abitata da storie, novelle da piatti, tinozze per il bagno dalla mano del nonno che mi protegge dagli spigoli. Cucina museo, al centro della fotografia la trama lucida del marmo, ai lati la dispensa l’occhio spento dei fornelli l’acquaio muto per sempre, alle pareti lo scaldaletto scaldavivande di rame ombre della vita passata. Cucina attesa per la veglia di Céleste seduta alla tavola di marmo in compagnia dei personaggi, degli incontri di Marcel. Il campanello dalla camera: “Adesso glielo dico: stanotte ho messo la parola fine”. Grazie, Céleste Albaret. e diventeranno perfettamente lisce in superficie. Infornate in forno ventilato preriscaldato a 160°C per circa 10 minuti oppure in forno statico a 180°C; trascorso quel tempo lasciarli nel forno semiaperto per altri 2 minuti. Sfornate le meringhe per i macarons e lasciatele raffreddare, nel frattempo dedicatevi alla preparazione del ripieno, in questo caso ho preparato una farcitura al limone. Per prima cosa grattugiate la scorza dei limoni e spremetene il succo. Sbattete i tuorli con lo zucchero con una frusta e mettete il composto in una casseruola aggiungendo il succo di limone e la scorza. Mescolate bene riscaldando a fuoco dolce, portate a ebollizione e cuocete 2/3 minuti fino a che il composto non si sarà rappreso. Togliete dal fuoco e incorporate il burro a temperatura ambiente mescolando fino a farlo sciogliere. Versate la farcitura in una ciotola e lasciatela in frigo per un’ora a rapprendersi. Infine disponete la farcitura al limone con un cucchiaio o con una siringa sulla parte piatta delle piccole meringhe e ricoprite con l’altra metà molto delicatamente; ripetere lo stesso procedimento con tutti i macarons. Prima di servire è consigliabile conservarli in frigorifero per una notte.
18 GIUGNO 2016 pag. 15
Narrazione a puntate con finale a sorpresa
Matteo Rimi lo.stato@libero.it di
E
cco, giovane alleato, la terra cantata da T.S. La terra che è alla fine di ogni cosa. La terra dove tutto si conclude, compreso il nostro viaggio. Qui non c’è acqua ma solo roccia e strade sabbiose, non c’è silenzio ma secco sterile tuono senza pioggia. Qui, tra queste montagne, non c’è nemmeno solitudine ma rosse facce arcigne che ghignano e ringhiano da porte di case di fango screpolato. Qui egli, giunto alla consapevolezza dei limiti del linguaggio, desto ormai tra la desolazione di un presente che è anche il nostro presente, riuscì persino a ritrarmi, con altro nome, mentre pescavo dando le spalle a queste aridità, perché, pur non riconoscendomi, seppe intuire che la poesia, di cui io sono emanazione, sarebbe riuscita a guardare oltre. E adesso diventa il luogo del nostro rendez-vous: io che arrivando qui ho segnato la fine del mio percorso, tu, inconsapevole snodo di molte delle correnti originate dal mio flusso e che qui dovranno confluire, ma anche molti altri alleati che hanno a modo loro captato l’energia che fluisce sotto alla parola poetica. Ci saranno anche, auguratamente, altri spettatori, altre menti disposte alla meraviglia, nella speranza che le vostre parole, note, arti, ed il ricordo di un poeta, mio strenuo alleato, che consumò ogni granello della sua vitalità per me, possano risvegliare dentro di loro il proprio verso dormiente. Non sarà facile, tienilo in mente, anche perché questa riunione nel Paese guasto sarà solo il preludio a ciò che verrà dopo. Una battaglia senza quartiere, senza pace, contro il compatto “esercito dei senza poesia”: sfruttatori della comunicazione, manipolatori del linguaggio, in grado perfino di dirsi poeti pur di raggiungere i loro propositi biechi. Li vedi? Sono schierati compatti davanti a te, ma di una compattezza inconsistente, confusa tra la gente, in modo che tu non possa mai sapere dove e quando arriverà il fatale colpo in grado di abbattere l’en-
Ultimo (?) capitolo nesimo verso. E ti accorgerai sin troppo in fretta che la sola cosa che vogliono è che la realtà sia la più prosaica possibile perché la poesia è la bellezza, la poesia è la speranza, ed un uomo senza speranza si fa grigio, malleabile, in grado di bersi tutta la prosa che essi possono vomitare. Ma i detentori del potere, che hanno sfruttato la capacità di manipolare della parola (solo una, ricorda, e la più infima delle sue infinite capacità!) non riuscirebbero da soli a soggiogarci tutti ed hanno bisogno quindi di più uomini vuoti possibile per accerchiare con una stretta indissolubile avamposti come questo e poeti come voi. Il mio percorso termina qui, di fronte a tutto ciò che mi è letale ma che non avrei potuto mostrarti altrimenti, ma ho dato a te abbastanza strumenti per comprendere che cosa sia in realtà la poesia, ancor prima che tu la possa scrivere. Ma qui troverai musica, mio giovane alleato, ed arte, e poesia, e tutto ciò che è speranza! Quindi sorridi e prosegui rinvigorito il viaggio che fino a qui abbiamo fatto insieme. Vivi! (continua?)
18 GIUGNO 2016 pag. 16 Simone Siliani s.siliani@tin.it di
L
o scorso 16 giugno, presso la Biblioteca delle Oblate di Firenze, è stato siglato un protocollo d’intesa fra la Commissione Nazionale Palestinese per l’Istruzione, la Cultura e la Scienza, rappresentata dal segretario Murad Al Sudani, e l’associazione culturale fiorentina Laboratorio Buonarroti, rappresentata dal presidente Vittorio Biagini, per stabilire una collaborazione inaudita, non di tipo economico o commerciale, ma sulla letteratura e la poesia, cose dal significato economico più vicino allo zero che possiamo pensare. Eppure cose molto più necessarie e indispensabili di ogni transazione commerciale e finanziaria. Tanto che era presente l’Ambasciatrice di Palestina in Italia d.ssa Mai Al Kaila e l’addetto culturale d’ambasciata dott. Odeh Amarneh. Naturalmente, nessuna autorità italiana pervenuta. Ne parliamo con Vittorio Biagini. Come nasce questo accordo e cosa comporta? L’input viene dall’addetto culturale dell’ambasciata di Palestina a Roma, Odeh Amarneh, il quale ci ha contattato qualche mese fa dicendo che avevano interesse a trovare dei partner culturali in varie realtà italiane. Hanno scelto noi in base anche alle attività precedenti, in particolare la pubblicazione da noi curata dell’antologia della poesia palestinese (“In un mondo senza cielo. Antologia della poesia palestinese”, Giunti 2007). Così dalla sua iniziativa siamo arrivati ad un incontro pubblico e alla firma del protocollo che prevede di realizzare iniziative culturali relative alla letteratura, e alla poesia in particolare, utili a incentivare la conoscenza della poesia palestinese in Italia e di quella italiana in Palestina. La cosa che loro hanno proposto, anche con molta fretta, è stata quella di far venire tre scrittori e poeti palestinesi a settembre in Italia. Si tratta di Mourad al-Sudani (1973, capo redattore di diverse riviste letterarie come Al-Shu’ara’, Aquas e majallat al Asra; autore di importanti raccolte poetiche come: L’urlo della campagna, La lampada lassù e
Per la cultura palestinese
I segni del narciso e i desideri; quest’ultima tradotta in italiano da Odeh Amarneh e Mattia Giampaolo Camenia ed., Roma 2013), Yousef al-Mahmoud (1965, lavora nella Casa della poesia palestinese, di cui è uno dei fondatori; ha pubblicato tre raccolte di poesie: Canto alle porte del mattino, La pietra della bestia e Sulla cima di un garofano. Poesie palestinesi, pubblicato nel 2012 in Giordania e tradotta in italiano nel 2013) e Ahmad Rafiq Awad, (1960, giornalista e scrittore, con una vasta produzione narrativa, teatrale e saggistica; uno dei fondatori della radio-televisione palestinese e dal 2001 è docente presso il Dipartimento di Media e Televisione dell’Università Al Quds di Gerusalemme. Tra i suoi romanzi: La vergine e il villaggio (1982), Qadrun (1995), La fine del secolo (1999), Acri e i re (2003), Il paese del mare (2006; tradotto in italiano nel 2012, edizioni Q). Noi li abbiamo inseriti nel programma del nostro festival di poesia internazionale giunto ormai alla 14° edizione, “Voci lontane, voci sorelle”, che si terrà alla Biblioteca delle Oblate dal 16 al 28 settembre, inserito fra le iniziative dell’Estate Fiorentina. Loro poi vorrebbero un paio di nostri rappresentanti, in agosto, in Palestina, per evidenziare la ricchezza di rapporti culturali che, nonostante le infinite difficoltà causate dal conflitto e dalle
condizioni di vita, sono riusciti a costruire con varie associazioni a livello internazionale. Come stanno la letteratura e la poesia palestinese, per quanto vi è stato dato modo di percepire, dopo la morte del grande poeta Mahmoud Darwish nel 2008? La domanda è complessa, che implicherebbe di avere anche strumenti di conoscenza linguistica; però loro hanno proposto questi tre autori, che sono stati anche in parte tradotti e anche l’ambasciatrice ha sottolineato la centralità della letteratura e in particolare della poesia nella cultura palestinese. Proprio come carattere identitario, della memoria, che è molto importante per i palestinesi. E loro ci proporranno tre autori attualmente 40enni: una generazione non emersa fino ad ora e appunto “scoperta” da Murad Al Sudani, che aveva collaborato per l’antologia in arabo. Ci sarà quindi lo stesso Sudani, che è anche poeta, e altri due di cui uno è anche drammaturgo. Il 28 settembre così chiuderemo la nostra rassegna con questi tre autori palestinesi. Tutti noi sappiamo quanto la letteratura, soprattutto il romanzo, israeliana sia cresciuta e rappresenti un punto di riferimento a livello mondiale: ci sono rapporti fra scrittori israeliani e palestinesi? I palestinesi leggono gli scrittori israeliani? Si ha la sensazione che non vi siano rapporti, né li leggono,
nonostante che alcuni scrittori palestinesi conoscano l’ebraico. La loro narrativa è più di testimonianza e non di intreccio e di narrazione come invece, accanto all’aspetto testimoniale, esiste in quella israeliana. Nei maggiori israeliani, come Yehoshua, è molto presente una impostazione più liberamente narrativa. Quella palestinese è una narrativa più memorialistica. Mentre di loro trovo molto più interessante la poesia. Dopo la lezione di Darwish e altri come Fadwa Tuqan, i palestinesi sono aperti anche agli influssi della poesia occidentale. Chiaramente, però, è molto forte l’influenza della tradizione classica araba medievale, ed è un elemento prevalente. Questo problema lo avevamo anche affrontato ai tempi dell’antologia: infatti la tradizione della poesia classica araba medievale ha una tonalità che non può essere resa alla lettera. Per cui per la traduzione il problema è stato trovare il tono giusto. Per loro il tono di quella tradizione è normale e perfettamente compreso, ma per il pubblico italiano risultava pesante e troppo enfatico. Quindi la traduzione dall’arabo è stata particolarmente delicata e credo che con l’antologia abbiamo raggiunto un livello molto elevato di equilibrio fra lettera e tonalità della traduzione stessa. Sudani, oltre che presidente della commissione per l’Istruzione, la cultura e la scienza è anche un poeta anglofono e quindi lui sottolineava come la poesia palestinese non fosse semplicemente una poesia civile, di impegno, di protesta, ma sapesse uscire da certi cliché retorici riguardo al contenuto e inglobasse elementi diversi come quelli naturali, dell’eros e soprattutto della gioia, di una felicità possibile. E questo è vero: basta leggere Darwish. Mentre nella letteratura memorialistica sono più concentrati nella testimonianza, nella poesia accanto ad una tonalità epica, c’è sempre questo elemento di una natura, di una passionalità anche erotica e di una domanda di gioia, molto forte.
L immagine ultima
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Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com
N
on ricordo esattamente in quale parte della città sia stata scattata questa immagine, ma quello che ho visto mi ha fatto tornare alla mente alcuni ricordi della mia infanzia a Firenze. La mia famiglia abitava ad un pianterreno in via Bellariva e all’epoca dietro casa c’erano ancora campi incolti e residuati del passaggio della guerra finita da poco. Camion semidistrutti, pericolose presenze di proiettili ancora inesplosi e altri oggetti collegati al conflitto che di tanto in tanto facevano capolino tra le macerie. C’erano spesso anche i relitti di mezzi militari semidistrutti e abbandonati (come queste due autovetture nella foto) che noi ragazzi utilizzavamo per i nostri giochi immaginando di essere a bordo di navi o carri armati o vascelli di pirati a seconda delle fantasie del momento. Vedere questi giovanissimi attorno a queste carcasse mi ha fatto fare subito un salto indietro nella memoria.
NY City, agosto 1969