Cultura commestibile 180

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore redazione progetto grafico simone siliani gianni biagi, sara chiarello, emiliano bacci aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, sara nocentini, barbara setti

Con la cultura non si mangia

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N° 1

“Sono sempre stato controverso perché io propongo nuove idee. Per me essere controverso è una cosa positiva” Avigdor Lieberman, ministro della difesa dello Stato di Israele che ha pensato di richiamare la radio militare di Israele all’ordine per aver osato trasmettere in una trasmissione dei versi del poeta palestinese Mahmoud Darwish, paragonando le sue poesie al Mein Kampf di Hitler

Controverso editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

23 LUGLIO 2016 pag. 2

Barbara Setti twitter @Barbara_Setti di

C

hi non vorrebbe visitare il più importante museo di mosaici romani del Mediterraneo da solo? Io l’ho fatto, il 14 luglio, ma non è stato un privilegio. Non hanno aperto il Museo del Bardo, a Tunisi, solo per me. Quel giorno, come tanti giorni da più di un anno a questa parte, non c’erano altri turisti. E lo stesso nella medina di Tunisi, dove solo nel 2013 era impossibile camminare dalla ressa. Certo è estate e i turisti preferiscono il mare, ma sto parlando di due tra le più importanti attrattive di Tunisi. Non sono un corrispondente che in tre giorni riesce a capire l’essenza di un paese. Ma qualche cosa, di Tunisi del 2016, è impossibile non capirla. Dal punto di vista turistico, la Tunisia è in ginocchio. I numeri danno le vertigini. Dopo l’attentato del Bardo, il 18 marzo 2015, il turismo tunisino è entrato in grande difficoltà, ancora di più dopo l’attentato di Sousse del 26 giugno 2015, che ha definitivamente atterrato l’industria

La solitudine di

Tunisi

turistica. Con tutte le ripercussioni che ne derivano a livello di attività collegate, come l’artigianato (si parla di 350 mila operatori nel settore), i trasporti, il piccolo commercio, ecc. Il Ministero del Turismo Tunisino (ONTT) pubblica periodicamente le statistiche sugli ingressi di non residenti e sui pernottamenti per nazionalità. Se si confrontano i dati dal 2010 al 2015, la Tunisia sembra completamente cancellata dalle rotte dei tour operator internazionali. I numeri dell’ONTT parlano da soli. Tra i 2014 e il 2015 i turisti europei sono crollati del 55% (-65% tra il 2010 e il 2015), i maghrebini del 36% (47% tra il 2010 e il 2015), i nord-americani dell’84%, i francesi del 44%, i

tedeschi del 57%. Tra i maghrebini, che sono una fetta molto importante del turismo tunisino, gli unici “salvatori” sono gli algerini, che mantengono le percentuali, mentre ovviamente crollano i libici (-73%). E così succede anche per i pernottamenti (-50%) – si parla di 100 mila posti letto -, gli incassi (-45%), il tasso di occupazione (-30%). Per il 2016 erano stati previsti più di 5 milioni di turisti stranieri, con una crescita del 2,6% rispetto al 2015. Se si pensa che il 2015, con 5,5 milioni, è stato l’anno con il più basso numero di visitatori da decenni, i conti sono presto fatti. È stato fatto un grande lavoro, dice il governo, a livello di

sicurezza e in materia di lotta al terrorismo. In effetti, per quello che ho visto, all’ingresso del Bardo c’è un metal detector e il controllo delle borse. I controlli all’aeroporto sono molto serrati. Nel viale di accesso la strada è spezzata e rallentata da dissuasori in cemento armato e presidiata, all’esterno, da militari armati. Così per le principali strade di Tunisi, come avenue Bourghiba, il grande corso che da piazza Mohamed V porta all’ingresso della Medina, è impedito il traffico prospiciente il grande albergo internazionale Africa (dove alloggiavo anch’io, anch’esso munito di personale armato, metal detector e controllo dei bagagli) ed è vietato a qualsiasi macchina, anche ai taxi, fermarsi su tutta l’avenue anche solo per fare salire o scendere una persona. L’ambasciata di Francia, a pochi metri di distanza dall’hotel Africa, è circondata da filo spinato, la strada laterale è bloccata al traffico, ci sono mezzi militari e soldati armati di tutto punto. Intorno la vita della città brulica come sempre. Il 13 luglio era il giorno dell’inaugurazione del Fe-


Da non saltare

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stival internazionale di Cartagine, alla sua 52ma edizione, e la strada per arrivarci lungo la Goulette era completamente intasata dal traffico. La Goulette, che è la zona marina di Tunisi, fino a tre anni fa il più importante porto crocieristico della Tunisia, aveva l’aspetto di una città di mare in piena estate: ristoranti e chioschi pieni, tantissime famiglie a passeggiare, lotte estenuanti per un posteggio, ovunque. Il grosso del turismo straniero, per il 2016, è cinese e soprattutto russo. Il resto del turismo straniero che arriva a Tunisi è soprattutto di lavoro. La crisi economica non colpisce solo in questo settore. La Libia era, nel Maghreb, il partner commerciale più forte della Tunisia e la situazione disastrosa del paese libico ha fatto crollare l’export. Così anche le tensioni sociali nelle zone minerarie del centro sud sono altamente esplosive. Da 10 anni la progressiva modernizzazione incontrollata, a scapito della salvaguardia della forza lavoro, della regione mineraria intorno alla città di Redeyef, dove si trova uno dei più importanti bacini di fosfato del mondo, ha provocato tagli del 75% del personale e forti proteste che sotto la dittatura di Ben Ali sono state soppresse con il sangue e ondate di carcerazioni sommarie. Dopo la rivoluzione la miniera è stata nazionalizzata, ma la situazione è fortemente critica. Anche la situazione politica della giovane democrazia tunisina è alquanto burrascosa. A meno di un anno dalle elezioni, il presidente della Repubblica, Essebsi, a fronte di una crisi profonda con tutti gli indicatori economici in rosso e un dinaro in forte svalutazione, sta parlando di costituire un governo di unità nazionale. L’idea è che non solo i partiti, ma anche le centrali patronali e sindacali partecipino a questo esecutivo. L’Unione generale dei lavoratori (UGTT), che ha lanciato il dialogo nazionale nel 2013, ha rilasciato dichiarazioni favorevoli a partecipare al dibattito, ma non a entrare nel governo. Ennahdha, invece, il partito islamico conservatore membro dell’attuale coalizione di governo, applaude l’idea di una unione orientata verso un esecutivo partecipato. La gente con cui ho potuto scambiare rapide e veloci chiacchiere

appare confusa. Gli esponenti delle classi più acculturate – alti funzionari governativi, per esempio, di orientamento molto laico – parlano delle difficoltà della democrazia. I tassisti e la gente di più bassa estrazione sociale, sia uomini che donne, esprimono molto spesso una profonda preoccupazione per la crisi economica e la classica frase “si stava meglio quando si stava peggio”: meno democrazia, ma più sicurezza economica e sociale, ai loro occhi. Senza dimenticare che la Tunisia è la terra di origine della maggior parte dei combat-

tenti stranieri associati a Daesh, secondo l’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence di Londra. Tunisi, che raccoglie più di un terzo dei 12 milioni di abitanti della Tunisia, è una megalopoli che certo non si può conoscere e capire in brevi visite da occidentali privilegiati e chiusi tra le poche strade che ho sempre frequentato. Nel centro si cammina tranquilli, tra tantissimi giovani vestiti nei modi più disparati, molte ma non tutte le donne col velo, braccia nude, pantaloni, poche gonne. Ovunque si può bere una birra o

un bicchiere di vino. Mai nessun neanche sguardo verso “una infedele”. E nel bel, nuovo Café del Teatro Nazionale di Tunisi, su rue de Paris, molto cool e internazionale, tanti ragazzi dal look artistico e un barista hipster. Ma i conti si fanno dove noi non entriamo e i bambini, di 7 e 8 anni, che vanno in giro a vendere a un dinaro (40 centesimi) i coni profumati di fiori di gelsomino o le donne che fanno elemosina ai semafori sono molto, molto aumentati dal 2013. È l’unica vera democrazia del Maghreb. È importante ricordarlo.

La crisi silenziosa della capitale dell’unica vera democrazia del Maghreb


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx Tomaso Montanari ha giustamente stigmatizzato su Repubblica.it l’apparizione di due porte dorate sulla facciata dello Spedale degli Innocenti, in piazza SS.Annunziata a Firenze, quali ingresso del nuovo museo. Tomaso ha ragione da vendere: è davvero uno sfregio alla sobria eleganza dell’architettura brunelleschiana, che peraltro non impreziosisce affatto il museo, che è invece assai pregevole. Montanari gioca sull’iperbole: “Rompere l’equilibrio formale di uno simile monumento ha lo stesso significato che dipingere i baffi alla Gioconda. Come se qualcuno colorasse di blu elettrico la palla dorata sulla lanterna dorata della Cupola, collocasse una vetrata rosa fucsia nell’oculo della facciata di Santa Maria Novella. Sia chiaro, in arte tutto è lecito: e chiunque è libero di intendere il rapporto tra presente e passato in termini di provocazione puerile. Ma se qualcuno, al Louvre, prova a fare i baffi sull’originale della Gioconda viene fermato: perché esiste anche la libertà di tutti coloro che preferiscono continuare a

Obbrobri

guardarla come la lasciò Leonardo”. La città, purtroppo, è piena di queste piccole-grandi ferite: posticce aggiunte alla semplicità delle forme del Rinascimento, che ne snaturano il significato, ne deturpano la sobria linearità,prive di qualsiasi fondamento storico. A noi piace segnalarne una che, per il fatto di essere stata apposta oltre 10 anni fa in occasione di un evento infausto (la scalata del monumento della fontana del Nettuno da parte di due giovani, con rottura della

I Cugini Engels

Sogno nel 1960 Presidente del Consiglio “Scusi ingegnere a che punto siamo con la costruzione dell’Autostrada del Sole?”. Ingegnere capo di Anas “A buon punto Presidente ormai abbiamo anche quasi risolto i problemi per sistemare le terre di scavo e possiamo riprendere lo scavo delle principali gallerie. Ad oggi abbiamo già realizzato le due corsie fra Milano e Bologna e anche in buona parte il tratto fra Roma e Firenze e a sud di Roma stiamo quasi pronti”. Presidente del Consiglio “Bene senta Ingegnere non è che quest’opera è troppo costosa e grande?. Due corsie per senso di marcia in tutta Italia, ed in particolare sull’appennino fra Firenze e Bologna, non le sembrano troppe. In fondo quasi nessuno va in macchina. E non credo che le cose cambino nel futuro. Io le consiglio di pensare le gallerie nuove sull’appennino a una corsia sola. Si risparmia un monte di soldi e faremo una bella figura con gli ambientalisti che non vogliono l’autostrada”. Ingegnere capo dell’Anas “Ma Presidente siamo ormai ad oltre il 30% delle opere fatte sull’appen-

nino. E abbiamo un contratto fatto con l’impresa che ci chiederà milioni di danni! E poi scusi ma come si fa ad avere due corsie che poi diventano una nelle gallerie. Ci saranno problemi e code. Gli utenti dell’Autostrada ne saranno penalizzati”. Presidente del Consiglio “Ma che code vuole che ci siano che nessuno ci passa nei tratti già costruiti. E che vuole che mi importi degli utenti che ci passeranno fra dieci anni. Faccia come dico io che sono il presidente”. Ingegnere Capo dell’Anas “Ma Presidente guardi che facendo come dice Lei si creeranno condizioni negative per il nostro futuro”. Presidente del Consiglio “Io sono il futuro e decido io cosa è meglio per l’Italia. Non discuta i miei consigli!”. Ingegnere Capo dell’Anas. “Martina dove sei? Sei a preparare la colazione? Amore mio ho fatto un sogno orrendo. C’era uno con la lisca che diceva che era il presidentedelconsiglio e voleva che facessi l’Autostrada del Sole a una sola corsia fra Firenze e Bologna. Ma pensa te che sogni si fanno certe volte...”.

mano, in una notte di follia) e ormai entrata nel panorama cittadino celebrato dal turismo di massa, non è meno assurda. Dopo l’incidente, qualche fin troppo solerte funzionario, fece circondare la fontana di piante verdi (allora erano essenze miste, fra le quali pungitopo non proprio delle nostre latitudini; oggi sostituite da bosso comune sempreverde), invasate in finti contenitori di coccio di Impruneta. Si pensava così di proteggere la fontana da possibili vandali, che però sono no-

toriamente in grado di superare d’un balzo una simile inane barriera. Non pago di questa trovata geniale, lo stesso funzionario pensò bene di proteggere l’Arengario di Palazzo Vecchio con la stessa fila di piante e di circondare il monumento equestre a Cosimo I de’ Medici, sempre in piazza della Signoria. Ora, a parte il non marginale fatto che mai nella storia della piazza, questi monumenti capolavori del Rinascimento si sono visti circondati da piante sempreverdi, ma se passate di lì e date un calcetto ai vasi che contengono le incongrue piante, vi renderete facilmente conto che... sono di volgare plastica. Provare per credere! Posto che la funzione protettiva rispetto agli atti vandalici ci sembra risibile, se ci fosse un Soprintendente a Berlino, forse potrebbe liberarci di questo obbrobrio. La frase preferita di Renzi e ora di Nardella alla guida della città era “la bellezza salverà il mondo” (e il povero Dostoevskij ancora si rivolta nella tomba), allora orsù prodi sindaci, provate a dare qualche senso alle vostre parole. Basta poco.

Il Fratello di Malevich

La canzone del David nero

Nella Firenze del Rinascimento era uso segnare le nuove sculture che si affacciavano in Piazza della Signoria con motti arguti, facezie e financo componimenti poetici. Notte tempo si attaccavano questi pizzini, ben attenti a non farsi sorprendere dagli sbirri del Bargello. Nessuno dei grandi capolavori venne risparmiato. Oggi che di capolavori se ne vedono pochi, ci si adatterà con egual modestia pari alla pochezza di quel che ci viene ammanito: portavasi di lucido ottone, tartarugoni e finalmente un bel David sdraiato e straziato a nero fumo. Il nero David che porta una novità: il battesimo di una nuova corrente critica, l’occasionismo. Quale splendida occasione riuscire a rivestire all’impronta il black boy come paladino di libertà, di dolori e tragedie universali così all’istante, una vera occasione da non mancare per cianciare e strologare su vere tragedie con la libertà dei fessi. Allora via alla nostra sciocca imitazione, e non ce ne vogliano i fan degli splendidi anni ‘60, si

restituisce pochezza alla semplicioneria strafottente dei potentati di turno e dei loro consiglieri: “Sei diventato nero nero nero, sei diventato nero come il carbon... Disteso ogni giorno tra la giostra e i dehors dal sole che scotta ti lasci bruciar sul naso e sulle spalle sei pelato che matto hai forse deciso di farci dispetto di giorno ti vedo di sera pero’ purtroppo se non c’è la luna piena non ti distinguo perché sei diventato nero nero nero sei diventato nero come il carbon... il sole di luglio ti ha dato alla testa consumi ogni giorno tre litri di spritz hai l’aria di un tizzon carbonizzato che matto con gli occhi socchiusi tu pensi soltanto a quando gli amici rimasti in museo tornando dalla tua disavventura diranno tutti che tu sei diventato nero nero nero sei diventato nero come il carbon...”


23 LUGLIO 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

S

i è a lungo dibattuto, fino dalla divulgazione delle prime tecniche fotografiche, su quale fosse il giusto rapporto fra la fotografia e le altre arti figurative, prima fra le quali la pittura. Nella prima fase di questi dibattiti viene posto l’accento sulla similitudine fra fotografia e pittura, analizzando come e quanto i pittori (individuati con nome e cognome) abbiano realizzato le loro opere utilizzando come modello delle fotografie (per lo più anonime o di autore non citato), e viceversa come e quanto i fotografi (questa volta identificati) abbiano “scimmiottato” pose e composizioni tipiche della pittura e del disegno, arrivando a dei veri e propri “camouflages” ed inventando tecniche di stampa sofisticate, tali da relegare in secondo piano la natura schiettamente e troppo rudemente “fotografica” dell’immagine. Successivamente le avanguardie del Novecento mischiano le carte, annullano la prospettiva ed affiancano alle composizioni grafiche realizzate “a mano” alcune composizioni fotografiche di identica valenza grafica realizzate invece “a macchina”, ma non cambia il rapporto fra i due diversi modi di creare delle immagini, con fotografi e pittori che si imitano ancora a vicenda. Negli anni che seguono l’immagine fotografica, quasi mai realizzata dal pittore, ma presa in prestito, entra direttamente nel quadro partecipando alla composizione, in quanto “object trouvé”, mentre nei fotomontaggi a sfondo politico o propagandistico, l’immagine ottica, spesso prelevata dalla stampa periodica, viene manipolata manualmente per farle assumere dei significati precisi. Arriva poi l’epoca in cui gli artisti, stanchi di maneggiare i materiali tradizionali, iniziano a maneggiare i materiali fotosensibili, anche e soprattutto in assenza della fotocamera, realizzando rayogrammi, shadografie, chimigrammi ed altre opere dello stesso tenore, in bianco e nero o a colori, ibridi difficilmente classificabili, sia come pitture o disegni che come fotografie. Il massimo degli equivoci nasce quando si cerca di opporre al concetto di “fotografia

Fra arte e fotografia semplice” (cioè diretta, detto in senso dispregiativo, quasi banale) il concetto di “fotografia artistica” (cioè elaborata, trasfigurata, fuori dal comune). In questo ultimo caso l’artisticità viene certificata o dalla ricerca visiva forzatamente originale (punto di vista, inquadratura, illuminazione), oppure dalla manipolazione in fase di stampa (tono alto, tono basso, contrasto eccessivo, eliminazione dei mezzi toni, colori arbitrari). In ambedue i casi sia i professionisti che gli amatori trovano buon gioco nel definirsi “artisti”, dell’obiettivo come della camera oscura, realizzando opere decorative, di buono o cattivo gusto, quasi dei “quadri” fatti a macchina, e spacciati come tali. Infine arrivano gli “artisti” del mirino, dalla tecnica spesso (e talvolta volutamente) trascurata, che trasformano in un’opera d’arte qualsiasi cosa, persona o paesaggio, solo perché inquadrata e registrata, spesso (e talvolta volutamente) perfino malamente, ma frutto di una “scelta” artistica posta a monte. Non conta l’oggetto fotografato, non conta il modo in cui è stato fotografato, conta solo il “perché” tale oggetto, per quanto insignificante possa sembrare agli occhi comuni, viene scelto e fotografato dall’artista. Non conta neppure l’immagine in sé, ma il percorso intellettuale e mentale che ha portato alla individuazione dell’oggetto fotografato, spogliato da ogni significato intrinseco, ma ricco di significati attribuiti, anche se celati al pubblico. Chiudono il cerchio gli artisti che, riscoprendo nell’epoca della fotografia numerica o digitale, le antiche tecniche di stampa, le mettono in atto, realizzando delle immagini in cui non conta più l’oggetto raffigurato, non conta più l’immagine finale, non conta più il percorso intellettuale di “scoperta” o di “significazione” dell’oggetto stesso, ma conta esclusivamente il procedimento di stampa dell’immagine, vera e propria “performance” artistica, del tutto analoga alla “magia” mostrata nelle piazze di paese dai primi dagherrotipisti o calotipisti di metà Ottocento. I quali almeno, una volta terminata l’esibizione, vendevano le proprie opere per pochi sudati centesimi.


23 LUGLIO 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com

di

Il presente

L

a modernità è quell’arduo, impenetrabile e complesso sistema linguistico che contraddistingue l’epoca odierna in tutte le sue espressioni: dalla dimensione popolare a quella più aulica della cultura il contemporaneo si caratterizza per la presenza di una commistione mediatica di segni, immagini, colori e suoni in grado di coinvolgere lo scorrere della vita nella totalità della percezione umana. Nel corso degli ultimi anni del Novecento molti artisti si sono avvicinati alla dimensione urbana, analizzandone gli elementi ed evidenziandone l’energia umana che vi si nasconde. Jacques Mahé de la Villeglé è divenuto famoso per le opere realizzate con i collage di manifesti strappati e sovrapposti, volti a mettere in luce i residui marginali della civiltà contemporanea. Un passaggio del tempo nella vita urbana che l’artista ha difeso e rivendicato, rifiutando tutte le logiche costruttive e realizzando un’archeologia urbana che classifica le immagini creative e le seleziona per tematiche. La risultante è una narrazione, sviluppata per idee e concetti, che esplora il presente a partire da ciò che la società vuol comunicare con il linguaggio mass-mediatico che Villeglé ribalta e sviluppa in senso estetico. Il linguaggio della strada viene archiviato in nome della contraddizione e del paradosso quotidiano, riflettendosi sulla cultura dominante e ponendosi in contrasto con l’anonimato imperante della città metropolitana. Fin dagli anni Sessanta il manifesto rappresenta per Villeglé un frammento del reale, una parte di linguaggio da riscrivere, un ponte comunicativo fra generazioni e discipline, un elemento segnico e fonico di rigenerazione capace di attirare sia l’inconscio collettivo che quello individuale: in senso sociologico il manifesto strappato è un caleidoscopio di colori e immagini, dove la casualità è posta in secondo piano rispetto all’insolito e allo stupore che l’opera genera nello sguardo dello spettatore. Il linguaggio formale che Villeglé crea si pone oltre l’Arte,

Villeglé

di

Eric Satie, 1979 Collage su tela cm 83x45 L’emploi et l’immobilier, 1981 Decollage su tavola cm 80x50 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

testimoniando il dinamismo di una realtà industriale che non si smentisce, ma che si concretizza di volta di volta nell’esplorazione e nelle singole intuizioni di un maestro del Nouveau Réalisme, che ha fatto dell’opera d’arte una ricerca deliberata e razionale. Pubblicità e slogan si tramutano in immagini potenti e dirette a sconvolgere il senso comune; la manipolazione trascende la tecnica, invocando l’armonia e l’equilibrio del contenuto. Nell’intimo percorso di dissimulazione alla parola viene negata ogni funzione interpretativa, sostituita da quell’immagine moderna e determinante che affolla la città e ha distrutto il sistema comunicativo canonico. Il sistema espressivo di Villeglé è una modalità socio-politica che suggerisce una visione poetica del mondo, in tutta la spontaneità che il presente necessita.


23 LUGLIO 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

L

a parabola artistica di Efrén López è un gioiello dai mille colori. Ascoltare la sua musica significa addentrarsi in un labirinto di suoni, culture e periodi storici che attraversano l’intera area mediterranea. Questo incessante viaggio va anche oltre, perché talvolta lambisce l’Europa settentrionale e l’Asia centrale. La città dove López nasce, Valencia (1972), segna il punto di contatto fra cultura spagnola e cultura catalana: questo anticipa la varietà culturale che caratterizzerà la sua vita. Un momento centrale della sua evoluzione artistica è l’incontro con Mara Aranda, una cantante valenciana che si muove nella stessa direzione: musica antica, mediterranea e mediorientale. I due fondano il gruppo L’Ham de Foc, che si scioglie nel 2008 dopo aver registrato tre CD, fra i quali spicca Cor de porc (Galileo, 2005). Polistrumentista attento e raffinato, López suona un’incredibile varietà di strumenti a corda: dalla chitarra all’arpa, dal mandolino al liuto cretese. Partecipa ai dischi di musicisti afghani, catalani, greci, iraniaSergio Favilli sergio.favilli@libero.it di

L’edonismo imperante negli anni 80 ha lasciato radici profonde ed ancora oggi, dopo trent’anni, moltissime persone danno molta importanza all’apparire e non tengono conto dell’importanza dell’essere. Fra apparire ed essere molto spesso prevale il primo con conseguenze che talvolta sfiorano il ridicolo. Esternare l’apparire può essere fatto in forma singola o in forma collettiva; per esempio, l’On. Di Maio, plurifuoricorso tanto da essere nominato “Bidello ad Honorem”, ha scelto la forma singola, ha sgomitato tanto fino ad arrivare alla carica di Vice Presidente della Camera dei Deputati, sempre rileccato ed azzimato da far invidia a Gianni Letta. Esternare l’apparire in forma collettiva in teoria dovrebbe essere più complicato ma,

Labirinto mediterraneo ni, italiani, spagnoli, tedeschi e di molti altri paesi. Attivo anche nel campo della musica antica, collabora con la Capella de Ministrers, prestigioso gruppo catalano guidato da Carles Magraner. Pur essendo molto impegnato dall’attività musicale, l’artista si dedica anche a quella didattica. Ma anche un musicista così versatile ha le sue preferenze: “La mia vera passione, la musi-

ca che mi piace di più, è quella medievale. All’inizio il Medioevo mi interessava soltanto per la musica, poi questa passione si é allargata alla storia, all’arte e a tutto il resto”. Questa passione si materializza con Evo, il gruppo col quale López incide Eva (Songsurfer Records, 2013). Anche qui lo affiancano musicisti di grande rilievo, come il fratello Diego López e Laia Puig.

Fatevi un Comitato

all’uopo, sono stati inventati i famosi “Comitati”. Fondare o far parte di un comitato ti fa sentire importante, un trafiletto

in cronaca non si nega a nessuno (ci può scappare anche un foto di gruppo), un’intervista ad una TV locale può rappresenta-

Nonostante un’attività varia e intensa che lo vede presente in una cinquantina di dischi, il musicista pubblica soltanto recentemente il primo CD come titolare, El fill del llop (Buda Musique, 2015). Lo affiancano quattordici musicisti altrettanto validi, fra i quali Christos Barbas (ney), Sofia Lambropulou (kanun), Raquel García (gaita galiziana), Kelly Thoma e Stelios Petrakis (lira cretese). Il nuovo CD contiene 11 pezzi, che López ha scritto da solo o insieme ad altri. Unica eccezione è il tradizionale occitano “Lo boièr-Iria”. L’ampiezza dell’area geografica che lo interessa trova riscontro nella grande varietà strumentale. In questo disco, accanto a strumenti più comuni come arpa, banjo e chitarra, López suona fra l’altro il davul, un tamburo diffuso in una vasta area che va dall’Albania all’Iran; il komuz, un liuto tipico dell’Asia centrale; lo shofar, un corno di montone che viene utilizzate in alcune funzioni religiose ebraiche. Il fascicolo accluso contiene note dettagliate in quattro lingue (catalano, francese, inglese e spagnolo).

re l’occasione della vita e quindi son nati “Comitati” della natura più varia. Da una breve ricerca fatta nell’area metropolitana di Firenze ho trovato : “Comitato No TAV”, “Comitato No Tunnel TAV”, “Comitato No Tranvia 2”, “Comitato No Tranvia3”, ( son linee diverse!!) “Comitato No Aereoporto”, “Comitato No Inceneritore”, “Comitato NO Terza Corsia”, “Comitato No Stazione Foster”, “Comitato Animalista No Fiacchere”, “Comitato No Mc. Donald” e sicuramente mi son perso qualche cosetta ma si può aggiunge la recente sicura notizia che un gruppo di pargoletti degli asili fiorentini, non soddisfatti di quanto passa il convento, ha fondato il “Comitato No Pappa”, domani mattina faccio l’affare della vita: vado dal notaio a fondare il “Comitato No Comitati”. Ovvìa!!!!


23 LUGLIO 2016 pag. 8 di

Filippo Fossati

A

bbiamo ancora negli occhi le immagini degli ultimi giorni. Dacca, Nizza, su un treno in Germania. Aggressioni, stragi che ci trasportano in una dimensione nuova e paurosa. Non sempre c’è il commando, che “al coperto”, certo, ma dentro un disegno organizzato scrupolosamente, in una filiera di complicità che risale ai vertici di una centrale terroristica, esplode poi nell’azione. C’è il lupo solitario, che un giorno decide di fare spettacolo della rabbia, trova facilmente e rapidamente, nel web, strumenti istruzioni e copertura ideologica, e ammazza a caso sapendo poi di morire. Io non so quale strategia, quali misure di contrasto saranno possibili e auspicabili. Quali incursioni nella rete, quali nuovi algoritmi, quali droni, per leggere nel pensiero e intercettare i concorrenti di questo talent del terrore. So che sono necessarie però alcune trasformazioni nel nostro linguaggio e del nostro comportamento. Siamo umani. Siamo stati sempre più sereni quando abbiamo, grazie alla socialità, garantito un controllo diffuso che ha incluso nella vita comunitaria teste strane e isolato teste cattive. E con forze dell’ordine amiche abbiamo condiviso il resto del lavoro. E non si dica che oggi è diverso, siamo più soli, la gente non si saluta più, facciamo la spesa nei centri commerciali, consumiamo chiusi in casa quel che abbiamo, poco o tanto. È tutto vero, ma non è un destino. È la malattia, non il benessere. È sempre a portata di mano una riconversione sociale della nostra vita, la scelta di spendere tempo nelle relazioni umane, in famiglia, con gli amici, nelle strade delle città. Chi lo fa ce lo racconta come una liberazione (ho più tempo per me, per i miei cari, riscopro la bellezza (che c’è sempre) del mio territorio, faccio volontariato, organizzo un comitato per un problema del quartiere, una raccolta fondi per solidarietà, do un senso alla mia vita, mi muovo, mi sento meglio). Chi lo fa si sente più sicuro, più forte, più influente. Un cittadino, un membro di una comunità. Dove voglio arrivare? Ve lo dico. Una moschea a Firenze. I musulmani fiorentini pregano in un garage.

Una moschea per Firenze

Io non prego, ma so che chi ha fede e si rivolge al suo dio, considera quel momento un momento di intimità e di comunità, dove la persona mostra la sua dignità, la sua anima. Puoi pregare per strada, ma non se sei costretto. Perché non c’è posto dentro, e qualcuno vuole passare e ti urta, e ti manda qualche accidente. O quando fa freddo e piove, o quando fa caldo e se ti ripari con un telo vengono i vigili a controllare, che succede? Noi dobbiamo condividere questo disagio, chiedere che si individui un luogo adatto e aiutare a costruire, o recuperare, una vero luogo di culto. La Moschea a Firenze va fatta, presto. La Comunità mu-

sulmana fiorentina è composita e attenta alla città. Sono stati i primi a stabilire protocolli con il Comune per un dialogo, una reciproca conoscenza, fra devoti di religioni diverse, fra cittadini. Pronti a predicare in italiano, imam disponibili a formarsi, a capire storia, valori costituzionali, usi degli italiani di più antico stabilimento. Non tutto è oro, certo, ma più sono i contatti e più avremo da imparare e più sapremo e più potremo intervenire, sulle rispettive teste matte, o cattive. Non la voglio far facile, le reti criminali, terroriste hanno forza e risorse paurose per incrociare ogni disagio, ogni infatuazione, in ogni comunità.

Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Nostalgia di una colazione cartacea Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

Me se mi fai pregare per strada (e discrimini sul lavoro, sui diritti) non mi aiuti e non ti aiuti, lasci spazio alla rabbia. Faccio un appello, a istituzioni e imprese della città: c’è una urgenza, mettiamo a disposizione, mentre va avanti l’iter della Moschea, un luogo temporaneo ampio e decente per la preghiera. Si tratta di due ore, al venerdì. Mi rifiuto di pensare che non esista in una grande città una disponibilità simile. Vedete, c’è un bellissimo blog su facebook, “Penna facile” , di una giovane preziosa donna musulmana fiorentina. Tanti pensieri, tanti interrogativi, la realtà vista da una angolazione che non conosci, che non ti aspetti. Sara ci spiazza, esprime un certo fastidio per la richiesta che ad ogni attentato si ripete ai “musulmani” che autodefiniamo moderati: “dissociatevi”. Propone una parola diversa: “uniamoci” contro il terrorismo, facciamoci carico insieme della rottura con la violenza, la morte, la sopraffazione. Solo insieme, costretti a condividere le ragioni degli altri. Più ci penso e più apprezzo questa parola, questa proposta. Iniziamo. Ripeto l’appello: che la mia città condivida subito un luogo di preghiera degno per i suoi cittadini musulmani. E ho una proposta: si chiama Mandela il nostro palazzo dello sport e degli eventi, sarebbe il luogo giusto.


23 LUGLIO 2016 pag. 9

I

l termine banlieu in francese significa sobborgo cioè quei quartieri, sia residenziali ricchi come Versailles sia popolari, situati alla periferia delle grandi città. Quindi il termine in sé per lungo tempo non aveva la connotazione negativa di zone urbanisticamente e socialmente emarginate, abitate principalmente da immigrati, che ha oggi. Negli anni 60 a Parigi, ed in seguito in altre grandi città come Lione e Marsilia, sotto la spinta dell’esplosione demografica e dell’aumento dell’immigrazione si impose la necessità urgente di creare nuovi alloggi popolari. Per risolvere il problema si pensò alla costruzione di enormi agglomerati (grands ensembles) nelle fasce periferiche che dovevano includere scuole, negozi, strutture sociali come piscine e ambulatori e trasporti rapidi verso il centro della città. Un ideale di autonomia urbana teorizzata da Le Corbusier negli anni 30 ma già presente in Francia all’inizio del secolo con la denominazione di Cité (insieme di edifici che ospitavano operai vicino al luogo delle fabbriche). Come a suo tempo nelle Cité anche abitare in uno dei quartieri nuovi delle banlieue, a solo qualche chilometro dalla città, venne considerato, all’inizio, da persone che prima stavano in vecchi alloggi malsani e ora vivevano in case con il riscaldamento e l’acqua calda una promozione sociale. Richiamati dalla forza lavoro a disposizione alcune medie e grandi imprese si delocalizzarono spostandosi nei dintorni tanto che nei primi anni il tasso di

L’apartheid delle banlieu disoccupazione nelle banlieue era molto basso. Ma verso il 1975 la crisi petrolifera e conseguentemente quella economica, la chiusura di molte fabbriche, gli investimenti pubblici promessi sensibilmente ridotti, i servizi e i trasporti mal funzionanti... portò rapidamente un simbolo di modernità sociale dove il mischiarsi di etnie, religioni e lingue poteva divenire un interessante fenomeno culturale a deteriorarsi in un luogo di emarginazione, di miseria, disoccupazione e spesso violenza. La politica non ha avuto la lungimiranza di capire che si stava creando quello che il Primo Ministro Manuel Valls ha oggi definito “un’apartheid territoriale,

sociale e etnica” assumendo atteggiamenti contrastanti. Mitterand fece una legge per naturalizzare molti immigranti, spesso di origine maghrebina, in maniera da farli sentire parte integrante di una società ma Sarkozy, che non era mai andato a visitare una banlieue, quando era Ministro degli Interni promise di ripulire da quella racaille (feccia) che l’abitava usando il kascher, la macchina idropulitrice degli spazzini, e, più recentemente, Hollande non ha mantenuto la promessa, fatta in tempi elettorali, di dare il diritto di voto alle elezioni municipali agli immigranti residenti. La situazione, senza una strategia adeguata, negli anni è andata via

Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com

Scavezzacollo

Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

di

via peggiorando. Oggi, dopo gli ultimi feroci attentati, il dibattito pubblico francese su questi “quartieri sensibili” (dicitura eufemisticamente ufficiale), considerati a rischio di diventare territori di estremismo, ha assunto toni di esasperato allarmismo. La Bac, la polizia speciale per le banlieue, con uniformi militari, armi da guerra e linguaggio aggressivo, spesso dichiaratamente razzista, continua a fare le sue improvvise ispezioni e i facili arresti ma il risultato, quasi nullo nell’efficacia di contrasto al crimine, porta a allargare nel popolo delle banlieue, non tutti criminali o futuri terroristi, una sempre più pericolosa frattura sociale.


23 LUGLIO 2016 pag. 10 Gianni Biagi g.biagi@libero.it di

U

na grande retrospettiva degli ultimi 30 anni di opere, ma anche opere “site specific” sia sulla facciata di Palazzo Strozzi sia in altri luoghi della città come il Mercato Centrale e la Galleria degli Uffizi, oltre che una mostra di fotografie di sue opere al Museo fotografico di Torino. La grande mostra dell’artista cinese Ai Weiwei, il più popolare e mediatico artista cinese, promette di essere una delle più significative iniziative culturali del 2016 a Firenze e in Italia. E l’opera sulla facciata di Palazzo Strozzi impone una riflessione collettiva. “L’opera tocca un tema attuale, davvero legato alla contemporaneità e il problema dei rifugiati è un tema fondamentale dell’attualità del mondo e dell’Europa di oggi” sono le parole di Ai Weiwei sull’installazione che colloca gommoni di salvataggio colorati di arancio (il colore degli indumenti che indossano coloro che salvano i naufraghi) a coprire le finestre del piano nobile di Palazzo Strozzi. Perfettamente allineate con le finestre che coprono (e a quelle del piano superiore) costituiscono un elemento visivamente dirompente ma anche perfettamente coerente con la simmetria del palazzo. La mostra ripercorre l’intera attività artistica di Ai Weiwei, dalle sue prime opere influenzate dalla conoscenza con Andy Warhol e Marcel Duchamp (conosciuti a New York dove l’artista sbarca nel 1983 proveniente da Pechino dove era nato nel 1957) fino ad oggi. Al centro della sua opere c’è sempre la persona e l’esperienza dei singoli, anche quando sono immersi in eventi di portata planetaria come le grandi migrazioni di questi anni. Un’attenzione non ideologica al tema dei diritti umani che gli è anche costata un’incarcerazione per alcune settimane da parte del governo cinese nel 2011.Le sue attività spaziano dall’arte, al design e anche all’architettura come segnala la sua collaborazione al progetto di Herzog&De Meuron per lo stadio olimpico di Pechino, il “Bird’s Nest”. “Siamo felici di ospitare Ai Weiwei a Firenze” ha detto

Al Weiwei libero

il Sindaco Nardella. “Le sue opere devono fare riflettere sugli avvenimenti di questi tempi ma anche agire in modo da garantire i diritti e salvare vite umane. Se l’Europa produce dolore riceverà dolore”. La mostra sarà aperta in Palazzo Strozzi (per la prima volta saranno utilizzati tutti gli ambienti dalla facciata, al cortile, ai diversi piani) dal 23 settembre 2016 al 22 gennaio 2017. Emiliano Bacci emilianobacci@gmail.com di

Sarà sempre la città al centro del la trentesima edizione del festival Volterrateatro. E si punta verso il mondo delle idee, della città ideale che chiude (e fa ripartire) un percorso nato da una ferita e lasciato sospeso tra il teatro e la vita. “Quella della Città Ideale è una figura luminosa, un invito all’ideare, al concepire sogni più alti, delle idee per un modello di civiltà che vanno molto oltre il tempo, lo spazio e i dettagli che ci riguardano da vicino”. Scrive così Armando Punzo, direttore artistico del festival e mente dietro la Compagnia della Fortezza che presenterà il suo nuovo spettacolo, ancora Shakesperare ma stavolta i detenuti attori si cimenteranno con “La Tempesta” (Dopo la Tempesta. L’opera segreta di Shakespeare dal 25 al 29 luglio, anteprima nazionale, Fortezza Medicea). All’interno del festival saranno presentati anche due progetti speciali nati da una sinergia permanente con i cittadini. volterrani. Il primo è un dittico

Volterrateatro 2016 verso la città ideale

intitolato Yoknapatawpha (Terra Divisa) della Compagnia Archivio Zeta, che a partire dalla scena della grande foresta del Macbeth di William Shakespeare esploreranno il tema del bosco, della relazione ideale, ma anche distopica, tra uomo e natura (29 luglio). L’altro è invece frutto del lavoro quello dei giovani dell’Associazione Culturale VaiOltre!, che saranno

protagonisti di un altro spettacolo, una creazione collettiva frutto di un percorso laboratoriale condotto da Armando Punzo dal titolo Vai Oltre-Le città ideali (29 luglio). Al festival, che torna finalmente fuori dal carcere, ci saranno anche gli Ariette, Massimiliano Civica, Roberto Latini/Fortebraccio Teatro: tutto il programma su www.volterrateatro.it


23 LUGLIO 2016 pag. 11 Roberto Mosi mosi.firenze@gmail.com di

Salon Proust” è il titolo dell’Antologia pubblicata, in forma di e-Book, nel 2013 dalle edizioni www.laRecherche. it, per il 142° anniversario della nascita (10 luglio 1871) dello scrittore. I Salon erano esposizioni periodiche e sappiamo che Proust, ammiratore dell’arte contemporanea, era un assiduo frequentatore di queste mostre, dalle quali filtrava poi nei suoi libri, descrizioni più o meno evidenti, delle opere che più lo colpivano; in particolare, dai pittori suoi contemporanei creò il personaggio di Eltsir, che compare nel libro All’ombra delle fanciulle in fiore. In occasione della celebre visita del Narratore all’atelier di Eltsir, durante la vacanza a Balbec, assistiamo a una sorta d’inventario di quadri ma anche a una specie di Salon, in cui la voce narrante ci racconta le tele esposte. Nella Recherche è da dire, emerge un rinvio preciso all’arte di Vermeer – detto da alcuni “il pittore del silenzio” – e al suo famoso quadro “La veduta di Delft”. Ci sembra che la passione di Proust per la pittura riveli la vicinanza della sua scrittura a quest’arte, il suo carattere pittorico, spesso le frasi hanno autentici colori, spessori di pennellate, chiaroscuri ed evanescenze, soprattutto impressionistiche insieme a “splendori” fiamminghi. La Recherche, insomma, come un Salon, in cui Proust esponeva i suoi quadri, fatti di parole, ma condivideva lo spazio che andava creando con altri pittori, contemporanei e no. Abbiamo partecipato all’Antologia pubblicata nel 2013, con il componimento poetico che segue; i disegni sono di Enrico Guerrini. Il silenzio dipinto delle pagine Silenzio seducente del quadro nel rumore di folla del Salone. Pittore senza arte, compone dall’arte di più pittori da un frammento del mondo da prospettive inattese. Dipinge con la parola per pennello la parola per colore il suono della voce. Silenzio sonoro del porto. Nessun confine, terra e mare l’acqua penetra le case, oltre i tetti gli alberi dei battelli.

Proust nell’atelier di Eltsir della nave verso il cielo. Silenzio ambiguo del ritratto. Acquerello pieno d’incanto, soggetto singolare, seducente fascino da scoprire di giovane donna non bella, il copricapo orlato dal nastro color ciliegia, la sigaretta accesa nella mano coperta dal guanto. Travestimento per il ballo? Un’attrice d’altri tempi a mezzo vestita da uomo? Tratti mascolini del volto, forse un giovane effeminato. Liberta dalla normalità.

Barche tra i flutti, la sabbia bagnata riflette le chiglie, una nave lontana nascosta ora dagli edifici, sembra

Bobo

avanzare in mezzo alla città. Più lontano tratti neri, bianchi di spume, di nebbia compongono lo slancio

Silenzio d’acqua delle ninfee. Cinque, sei tele per dipingere inseguendo l’attimo, la sorpresa dell’inatteso. Una tela, un pennello diversi al variare dei brandelli di cielo, il passare di una nuvola l’improvvisa folata di vento. La superficie s’increspa s’infrange in piccole onde si sgualcisce il telo di seta i colori si accendono vivi. Silenzio simbolo di seduzione. Danza il corpo segnato da simboli misteriosi, danza una rosa in mano in attesa del carnefice, danza davanti ad Erode gli occhi accesi di brace, danza per la decapitazione, danza per la testa che brilla di un’aureola di gloria. Dipinti, acquerelli, disegni si moltiplicano: la danzatrice torna a sollevare il braccio, a muovere passi fatali. Silenzio della pagina scritta. Regno della lenta cognizione per l’occhio educato alla pittura, si stacca dal ritmo usuale del tempo, dello spazio nel laboratorio aperto per la nuova creazione, conquista immagini convergenti in mille rivoli, allontana di pagina in pagina il soffio silenzioso della morte Roberto Mosi, Il silenzio dipinto delle pagine, in AA. VV. (a cura di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani), Salon Proust, www.laRecherche.it , n. 139, Roma 2013, pagg. 28-33.


23 LUGLIO 2016 pag. 12

Lettera ad un’indirizzo impossibile

Andrea Ponsi ponsi@andreaponsi.it di

C

aro Giovanni, non leggerai mai questa lettera, non perché non te la invierò ma perché non ci sei più. Sei morto tre mesi fa e ancora tanti tuoi amici, conoscenti, collezionisti non lo sanno. Te ne sei andato a modo tuo, con una silenziosa, forse sdegnosa sensazione che non era necessario annunciarlo al mondo. Rimarranno nella memoria di chi ti ha conosciuto i tuoi sorrisi, la tua intelligenza, i gentili accordi di forti amicizie, i problematici rapporti con i galleristi. Problematici perché, anche se intuivano il valore del tuo lavoro, non si intonavano ai sentimenti, e ai ri-sentimenti, che cercavi di comunicare. Ri-sentimenti ironici e poetici, altre volte gridati con pennellate dense e scapigliate, mai liberamente espressioniste, ma sempre connotate da un onirico realismo. Anche quando disegnavi visioni o sogni il tuo era un tratto figurativo proposto, malgrado le mode dei tempi, come l’unico che poteva rivelare con sagacia e passione l’ infinita assurdità del mondo. Grilli parlanti, autoritratti con in mano il pennello e nell’altra la sempre amata sigarettina avvolta a mano, navi che si incrociano con navi nelle oscure profondità di mari neri o azzurrissimi, Topolini e Minnie faceti e sarcastici. Hai sempre ritratto te stesso, in tutte queste forme, in questi animali satirici, nel senso letterale di satiri che vivevano ai limiti delle situazioni umane, banali e corrotte, e che soggiornavano invece in mondi estranei ma a loro modo felici. Ti sei riconosciuto nel grillo parlante perché era un animale enormemente intelligente, cocciuto, ma sempre con un sorriso ironico stampato in faccia. Quel grillo, come era da aspettarsi, è stato schiacciato dalla società stupida e arrogante. Bello e che morto, e sdraiato supino, l’hai immortalato perfino nel bronzo; addirittura hai voluto che fosse posato sulla tua tomba nel campestre cimitero di Alberese a memento della tua inevitabile e saggiamente buddista “morte civile”. Io ti ho conosciuto veramente solo negli ultimi dieci anni, anche se la prima volta che ci siamo incontrati fu in California più di trent’anni fa. Fui affascinato dai

primo fra tutti. Fino agli ultimi giorni siete sempre stati uniti da una forza magnetica indissolubile. Poi i figli e tua sorella, verso i quali sei sempre stato buono più che con chiunque altro. Infine Anka: 15 anni insieme a ridere, discutere, abbracciarsi e litigare, passare sublimi ore, giorni, mesi insieme a Firenze, a Amsterdam, in Egitto. Con me sei stato buono, generoso e corretto; ho sempre sentito che davi valore alla

nostra amicizia. Con te ho passato tante ore serene, spesso in silenzio, disegnando insieme sui tavoli del tuo studio a Alberese, del mio in via della Fonderia, sul tavolo da pranzo nella casa di Anka in via dei Rustici. Perfino sui tavoli di Amsterdam, quando mettemmo insieme, e Anka ne fu la promotrice, una mostra che resterà per sempre nella nostra memoria. Anche Bobo se ne è andato, e quel manifesto della mostra con i nostri corpi che sembrano volare nello spazio della galleria Binnekant ora mi sembra profetico di un destino che da lì a poco si sarebbe avverato. Il manifesto è ora appeso sulla parete del mio studio. Lo guardo spesso e ogni volta che ti vedo ricordo quanto tu sia stato importante per me come amico, come uomo, come maestro.

Martedì 12 luglio. A Empoli una donna di 42 anni è stata assalita e ferita dal suo ex a colpi di macete, dopo che a febbraio l’aveva presa a calci e schiaffi. Mentre a Torino si è consumato un dramma della gelosia: un disoccupato di 51 anni sgozza la convivente di 36 anni e poi si impicca. Mercoledì 13 luglio. A Sansepolcro massacrata una donna di 40 anni sul greto del fiume. Introvabile l’amico che la frequentava. Giovedì 14 luglio. Condannati a otto anni due giovani di Pontedera accusati di aver abusato sessualmente di un’amica durante una festa, dopo averle fattiobere una bibita con Ghb (una droga da stupro). Venerdì 15 luglio. A Montecatini due ladri picchiano la nonna e minacciano di morte la nipotina di 5 anni. Poi, impauriti dalle grida fuggono. A Legnano viene arrestato un primario pediatra di 60 anni per aver abusato di alcune bambine. Una settimana prima era stato arrestato a Pavia un altro pedia-

tra sempre per molestie sessuali su una minorenne. Il sabato ci si riposa, ma per scatenarsi domenica 17 luglio. Da una banale lite nasce la tragedia: la moglie sgrida il marito, e lui prima la colpisce con il martello e poi la strozza. Stavano partendo per le vacanze. A Riccione due giovani ventenni prima pestano una donna di 46 anni e poi la violentano. E poi si dice che siamo un paese di santi, poeti e naviganti. Tutti pacifisti e non violenti. Vaia, vaia…

Tre mesi fa scompariva Giovanni Ragusa

quadri che esponevi al Museo Italo Americano di San Francisco, ma anche dal tuo sguardo caldo, aperto dal viso di una persona che esprimeva una positiva attitudine alla vita. Il viso è rimasto quello, anche se questa tua disponibile affabilità talvolta la vedevo diluirsi in un beffardo senso di disadattamento verso le regole imposte dall’ipocrisia dell’ufficiale mondo dell’arte. Hai avuto grandi amici. Raffaele di

Remo Fattorini

Segnali di fumo Accade intorno a noi, in Italia, in una settimana come tante. Ecco un campionario di fatti di cronaca raccolti casualmente dalle pagine di un quotidiano. Fatti che non dovrebbero passare inosservati. Lunedi 18 luglio. Due giovani hanno costretto un clochard di 56 anni con una spalla bloccata a salire su un patino di salvataggio che poi hanno spinto al largo. Si è salvato grazie ad una diportista che ha chiamato la capitaneria di porto. A Lucca un giovane di 29 anni ha preso a morsi un agente che cercava di calmarlo dopo una lite tra giovani. A Pontedera sempre un giovane di 22 anni ha aggredito con una pietra un signore di 57 anni (provocandogli la rottura del naso e 20 punti di sutura in testa) che stava facendo il barbecue nel suo giardino di casa.


23 LUGLIO 2016 pag. 13

Dal Campo di Dar Auis a Leptis Magna

Annamaria Manetti Piccinini piccinini.manetti@gmail.com di

M

a l’emozione più intensa di tutta l’escursione nel deserto è per me legata al soggiorno nel campo Dar Auis, dove abbiamo dormito tre notti. Di questo campo - quasi un mini-villaggio - mi resta l’inquietudine di non saperne la sorte. Era gestito da una signora italiana, bolognese, riservata ma gentile, che non sono riuscita a rintracciare, avendo, come suo riferimento, solo l’indirizzo del campo. La mia impressione era che i suoi rapporti col regime fossero evidentemente buoni, come quelli con i Tuareg, ormai semi stanziali nelle vicinanze. Forse, poiché Gheddafi stava tentando di controllare quelle tribù, cercando di renderle, appunto, stanziali, dopo averne deportate un numero notevole, il campo della signora italiana poteva essere un aiuto per il controllo di quella residua popolazione, una famiglia dei quali, in una grande tenda, era accampata ormai stabilmente, si direbbe per attrazione turistica, non lontano dal campo stesso. In mancanza di notizie specifiche, alla caduta di Gheddafi e all’inizio della guerra civile, sembrerebbe ovvio che tutto il campo fosse stato abbandonato. Il soggiorno in questa zona era motivato dalla possibilità di vedere, a distanza di una mezza giornata di fuori strada e con guide Tuareg, in piste solo da loro conosciute, fra sabbie e formazioni rocciose, anche di grande statura, le incisioni e le pitture risalenti a 10.000-3000 anni fa. La straordinaria “galleria” di dipinti e incisioni rupestri (ormai ben conosciute) del deserto dell’Acacus e del Messak fa comprendere che si tratta di epoche lontanissime in cui il deserto era ancora una savana fertile, perché le incisioni ed alcune pitture eseguite in anfratti più riparati rappresentano buoi dalle lunghe corna, ma anche giraffe, struzzi ed ippopotami, ed in alcune, le più tarde, anche mandrie di bovini e figure umane o di divinità. Insomma un museo a cielo aperto sull’evoluzione umana, quando l’uomo arriva ad avere il bisogno di esprimersi artisticamente, pur fra tutte le sfide di una natura difficile. Per quanto protetti dall’Unesco, queste testimonianze sono oggi affidate soltanto al caso, perché niente può

garantire -come abbiamo dettoda distruzioni impreviste, casuali o volontarie. Al di là di tutto ciò, i picnic nel deserto con le guide Tuareg che, a loro volta, all’ora del pranzo, si riunivano in gruppi coloratissimi e silenziosi, restano un bellissimo episodio di pace e di umana convivenza. Lasciando questo irripetibile soggiorno nel deserto, col suo silenzio diverso da ogni altro silenzio della terra abitata, ci si avvia verso una

città che dire morta sembra improprio. Leptis Magna con la sua immensità, le sue superbe rovine (e l’annesso museo) dà l’idea della vita dell’epoca almeno quanto il Foro di Roma, se non di più: il grande porto con i due moli, uno a est, uno a ovest, danno ancora l’idea di un grande traffico marittimo, con quel che resta del leggendario faro. Altrettanto le tracce e i grandiosi monumenti del susseguirsi dei vari imperatori: gli archi, la strada porticata di 500

Le architetture di Pasquale Comegna

Roma Ara Pacis

metri, il mercato con al centro le due strutture circolari che fanno immaginare l’affollarsi di mercanti e di popolo intorno. Leptis Magna è troppo nota e celebrata per indugiarsi a qualsiasi descrizione .Quello che preme dire è che anch’essa, uno dei siti archeologici più importanti della romanità, è sottoposta ai rischi di ogni altro monumento preislamico e a ruberie di ogni genere da parte di ricettatori di reperti archeologici, oggi così ben retribuiti.


23 LUGLIO 2016 pag. 14 di

Mariangela Arnavas

E

rano anni che sognavo un soggiorno a Palermo ma il mio conformismo verticale ovvero la fedeltà acritica a regole non scritte che mi sono data in tempi andati del tipo che la vacanza va condivisa e deve comprendere indiscusse bellezze naturali mi aveva sempre frenato; le abitudini scavano a volte solchi che diventano difficili da sormontare. Quest’anno però trovo un compromesso: vacanza condivisa nel bel mare di Sicilia ma con un anticipo di due giorni a Palermo da sola e per impedirmi di rinunciare prenoto con due mesi di anticipo una stanza a buon prezzo in un hotel di lusso, di quelle camere che i grandi alberghi affidano alle agenzie per non tenerle vuote; Internet ha una sua democrazia. Naturalmente la trasgressione mi crea ansia almeno un paio di volte al mese e sempre più frequente mentre si avvicina la data della partenza. Oltretutto mi immagino un caldo terribile e magari quello scirocco che ti rende inquieta e appiccicosa dentro e fuori, luogo comune frutto delle molte letture di autori siciliani. Invece arrivo e Palermo è attraversata da un forte maestrale che lustra le facciate dei palazzi e fa venire la voglia di camminare in giro con il naso per aria.

Maestrale a Palermo

Mi colpisce la bellezza delle piazze e dei giardini, delle ragazze di un’eleganza fiera anche con magliette da pochi soldi, la gentilezza degli uomini verso le donne, che ricorda l’antica scuola siciliana di poesia, una galanteria vicina al significato etimologico della parola, dal verbo francese galler che significa “rallegrare”. Mi prende perfino un’emozione patriottica (caratteristica per me quasi sconosciuta): mi sembra di capire chiaramente perché Garibaldi sia partito da qui per fare l’Italia. Mi infilo nei vicoli del centro storico e una signora elegante e

cortese mi invita allo spettacolo dei pupi sulla storia di Santa Rosalia, così, dopo un breve riposo in albergo, mi presento; non ci sono più posti ma una signora tedesca si offre di vendermi il biglietto del marito che non ha potuto partecipare e mi siedo per ultima in un teatrino con un piccolo palcoscenico e scenografie dai colori vivaci, come le illustrazioni delle fiabe per bambini, mi sembra di essere allo spettacolo di Mangiafuoco. Quando si comincia, mi accorgo che i pupi sono bellissimi, le facce finemente scolpite, le armature lucenti e i costumi sfarzosi; il testo è molto semplice, per i bambini, ma

non privo di riferimenti culturali interessanti; gli arabi sono sconfitti dai Normanni ma si riconosce loro di aver saputo ingegnosamente far arrivare l’acqua a Palermo, rendendo possibili gli splendidi giardini. Continuo la mia passeggiata tra splendide facciate barocche e arrivo alla Fontana della vergogna, una piazza dove il movimento dato dalle statue sulla pavimentazione in discesa e la cupola dorata della cattedrale secentesca, corona in bellezza la mia passeggiata. Capisco perché qualcosa mi ricorda Firenze; in effetti la fontana è stata commissionata nel ‘500 ad un architetto fiorentino e venduta poi alla città di Palermo, con alcune statue che non arrivano o restano danneggiate; per questo pare sia diventata il simbolo della mala amministrazione, però mi viene da pensare che se recenti amministratori corrotti e incapaci ci avessero lasciato piazze così, almeno avrebbero limitato il danno. Di fronte alla fontana a sinistra c’è un edificio, anch’esso secentesco, di una bellezza fatiscente, le imposte scrostate, le finestre malamente rattoppate, e mi vengono in mente le tante sciagure che storicamente hanno devastato la Sicilia in un passato anche recente, che il mio entusiasmo mi aveva fatto rimuovere per un giorno; anche in questo Palermo è una città autentica, che porta le sue ferite con dignità .


23 LUGLIO 2016 pag. 15 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

D

aniele Zinni è un giovane che ha collaborato con la nostra rivista, la cui conoscenza, esclusivamente web, mi ha permesso di visionare il mini documentario, commissionato da “L’Indiscreto”, blog di cultura e altro, su un luogo davvero particolare e magico, che non conoscevo, il Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci, il labirinto più grande del mondo, a pochi chilometri da Fontanellato. Per apprezzarne la grandiosa spettacolarità e tentare di penetrarne l’essenza di sogno avverato, penso sia necessario visitarlo, però ascoltare i protagonisti della sua realizzazione che parlano del lungo cammino, circa 12 anni, fatto dai loro pensieri, dei tanti disegni, delle scelte e analisi necessarie, ha grande fascino. Innanzitutto ascoltare Ricci, inventore e proprietario della più bella rivista d’arte del mondo, FMR appunto, che immagina di poter dare vita con esso ad un’opera altrettanto straordinaria, e che, generosamente, vende la sua casa editrice in piena floridità per procurarsi il danaro per iniziare... Ricci, con aria quasi casuale, un po’ in tralice, ci racconta che è stato Borges ad ispirargli questa idea e che non si è per nulla scoraggiato quando, messo a parte del progetto, gli aveva dato del matto asserendo quanto fosse e impossibile e forse inutile costruire il più grande labirinto del mondo in quanto esso esiMichele Rescio mikirolla@gmail.com di

Tritare le rape e amalgamarle con la farina integrale e il sale fin quando il composto non è omogeneo. Non deve attaccarsi alle mani né essere troppo morbido o troppo duro. Dividere l’impasto andando a formare dei lunghi filoncini e poi tagliarli a distanza di 1-2 cm. Più piccoli sono gli gnocchi più saranno saporiti e gustosi. Una volta pronti, cuocerli in acqua salata per 5-10 minuti. Per il pesto: mettere tutti gli ingredienti nel frullatore fin quando il composto non

Il labirinto di Franco Maria Ricci

steva già in natura, era il deserto del Sahara. Ricci, caparbio, si limitò a ridefinire il suo: sarà il più grande labirinto verde del mondo... Sgarbi dice che il tema del labirinto è il tema di una biblioteca senza fine, la rappresentazione grafica, architettonica e spaziale di un percorso in

cui perdersi, come nella lettura.. quindi resta il libro il tema di Ricci. L’architetto Davide Dutto ricorda quando Ricci gli mise davanti un foglio in A4 in cui c’era lo schizzo della sua idea, solo dopo aver osservato che le case del territorio intorno vi apparivano come puntini gli era

Gnocchi rossi diventa cremoso. Scolare gli gnocchi e condirli con il pesto, lo zenzero fresco grattugiato e i semi di papavero. Ingredienti per gli gnocchi: 2 rape rosse lessate farina integrale q.b. sale Ingredienti per il pesto: 100 g di rucola 50 g di pinoli 5 cucchiai di olio extra vergine di oliva 1/2 spicchio di aglio 1 pizzico di sale

apparso quanto esso fosse concepito come enorme, quattro o cinque campi da calcio almeno. Pier Carlo Bontempi, l’architetto che ne ha realizzato struttura ed edifici, ricorda come la prima delle varie difficoltà abbia riguardato la scelta del come fare le siepi e di come sia stato Ricci stesso ad aver lanciato l’idea di usare i bambù, grandi consumatori di CO2 e grandi e veloci riproduttori di se stessi, ogni anno infatti ognuno di loro ne riproduce un altro vicino a sé, più alto, alla fine il loro insieme è assimilabile a un prato di erba gigantesca. Lì, ora, sono circa 300.000 bambù che definiscono i viali del misterioso Parco. Piano piano è stato davvero costruito il tanto fantasticato quanto improponibile Labirinto dalla forma a stella, tipica delle mura delle antiche città, il suo percorso si conclude con una piramide in cui è incastrata un’abside, altri edifici ospitano un Museo che accoglie una collezione di opere d’arte di Franco Maria Ricci, una biblioteca e spazi per eventi culturali. A tutt’oggi Bontempi continua a disegnare integrazioni e modifiche perché il labirinto è per il suo ideatore come la tela di Penelope, non desidera sia mai finito e non vorrebbe mai rivelarne il mistero, spiegandone la soluzione gli sembra di umiliarlo un labirinto, dice, ha bisogno di vittime non di visitatori...


L immagine ultima

23 LUGLIO 2016 pag. 16

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

S

iamo sempre nel centro della città e la presenza delle persone è decisamente tranquilla e rilassata. Niente a che vedere con le “rush hours”, i momenti della giornata in cui tutti si recano al loro posto di lavoro ad un ritmo quasi frenetico intasando le strade con fiumane di persone che si muovono in massa a velocità decisamente sostenuta. La stessa cosa accade anche quando la giornata lavorativa volge al termine. Gli uffici si svuotano più o meno nelle stesse fasce orarie riversando per le strade del centro delle vere fiumane viventi che cercano di raggiungere il più rapidamente possibile le stazioni della metropolitana o le fermate degli autobus per uscire dal Downtown e tornare a casa.

NY City, agosto 1969


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