Cultura commestibile 185

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

Il ricco vuole tutto e subito. Io so bene come ragiona chi ha molti soldi: non vuole prati nĂŠ musei ma lusso, servizi impeccabili e tanta movida Flavio Briatore

La cultura dell’aperitivo editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Sara Nocentini saranocentini@hotmail.com di

All’indomani dell’attentato di Parigi, nel novembre 2015, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi esordì all’evento “Italia, Europa: una risposta al terrore” affermando con forza che l’Italia non si sarebbe piegata al terrore e che, accanto ad un rafforzamento degli investimenti nel campo della sicurezza, il governo si sarebbe impegnato a realizzare un altrettanto consistente intervento in cultura. Renzi dichiarava a Repubblica “Per ogni euro in più investito sulla sicurezza ci deve essere un euro in più investito sulla cultura. Per ogni intervento sulla cyber security deve crescere una startup. Ci deve essere più pulizia nelle nostre periferie. La risposta non può essere solo securitaria”. Nelle settimane successive, nel corso dell’approvazione della Legge di Stabilità 2016, iniziò a prendere forma il tipo di intervento prospettato nel settore culturale: l’erogazione di un bonus cultura ai giovani che nel 2016 avessero raggiunto la maggiore età. E su questo punto, passata la retorica antiterrorismo e tornati in una dimensione più dome-

Che cosa ne sarà del bonus stica per non dire provinciale, il governo Renzi incorse in un primo grave scivolone, limitando il bonus solo agli italiani e ai cittadini comunitari residenti in Italia ed escludendo tutti gli extracomunitari. Si trattò di una errore marchiano, che avrebbe, se non adeguatamente corretto, probabilmente inasprito il dialogo tra culture conviventi anziché, come nelle intenzioni dichiarate, favorito la costruzione di una comunità più coesa intorno all’amore per l’arte, per i libri, per la cultura in generale. Il provvedimento fu emendato ed oggi è dunque destinato ad un totale di 576.593 ragazzi, di

tanto da meritare un approfondimento sulle finalità ultime e sulle modalità di attuazione. A tal fine, sono certamente illuminanti le parole con cui Tommaso Nannicini, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha illustrato la piattaforma su cui iscriversi per poter usufruire del bonus e proporsi come ente presso il quale spenderlo. Dice Nannicini che il portale “18app” (che si chiama così ma non è una app) manda un messaggio preciso: quello di una comunità che ti accoglie nella maggiore età ricordandoti quanto siano cruciali i consumi culturali per il tuo arricchimento personale e per irrobustire il tessuto civile di tutto il paese”. Il bonus cultura, sia chiaro, promuove dunque il consumo culturale e solo indirettamente, attraverso questo consumo, l’arricchimento del cittadino. Promuovere il consumo culturale non è la stessa cosa che promuovere la crescita, l’emancipazione culturale dei nostri giovani. Nel primo caso, il beneficiario finale, l’obiettivo generale dell’azione è stimo-

?

cui circa 21.000 stranieri comunitari e 24.000 extracomunitari. La cifra stanziata copre totalmente il fabbisogno e si attesta sui 290 milioni di euro: una somma enorme, se si considera che il principale canale di finanziamento statale della cultura, il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS), mette a disposizione di lirica, danza, cinema, spettacoli musicali, teatro ecc. poco più di 400 milioni all’anno. Non sappiamo se la misura ha carattere straordinario o se verrà in qualche modo replicata; certamente per modalità e consistenza si candida ad avere ripercussioni pesanti sul settore,


Da non saltare

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lare il consumo per sostenere la produzione; nel secondo è rimuovere tutti gli ostacoli di classe, genere, razza, religione che possono impedire la libera e completa realizzazione dell’individuo, come condizione per la costruzione di una comunità uomini e donne liberi ed eguali. Alla luce di questa precisazione, assume un altro significato anche la iniziale “dimenticanza” dei giovani extracomunitari, frutto non di una distrazione ma di una prospettiva che non includeva necessariamente la cultura come strumento prioritario per la costruzione della cittadinanza, ma che volta ad individuare una massa critica di consenso (potenziale) e di domanda (di beni e servizi) potesse dare impulso all’industria culturale. Ed è sempre Nannicini che, ancora una volta, ci illumina sulle basi di pensiero su cui poggia il bonus: “Per una volta i fondi per promuovere la cultura non sono ripartiti dalla burocrazia ma dalle decisioni di migliaia di giovani. I soldi andranno laddove si indirizzeranno le scelte dei diciottenni”. E così, prendiamo atto che le sfavillanti leggi del libero mercato (adeguatamente sostenute dallo Stato ovviamente) fanno il loro ingresso nel settore culturale, con la politica che si compiace, come ancora fossimo ai primi anni ’90 e niente avessimo imparato, della sua auto esclusione dai processi decisionali. Quindi da un lato abbiamo meccanismi di ripartizione delle risorse come quelle del FUS, farraginosi e assurdi, in quanto delegati (sempre dalla politica ovviamente) a complessi algoritmi, in nome di una lotta alla discrezionalità che poi trova sempre mille strade per riproporsi; dall’altro abbiamo i diciottenni con i loro 500 euro pronti a riempire il carrello della spesa come al supermercato (virtuale, perché siamo anche moderni) e poco importa se a guidare le scelte saranno le mode, il marketing, o “semplicemente” la classe sociale di provenienza: è il business della cultura, bellezza! A questo si aggiunga che, per le modalità scelte per ottenere il bonus, facilmente consultabili in rete e sulle quali non

Stanziati quasi 300 milioni per la cultura per i 18enni Un’occasione da non sprecare mi dilungo, il bonus cultura rappresenta la prima e più grande operazione di creazione di identità digitale (e relativa profilazione) mai avvenuta in Italia che consentirà a tre provider privati di gestire l’identità virtuale dei giovani che si iscriveranno e di tutte (se

lo vorranno) le loro successive transazioni con la pubblica amministrazione. Si tratta di un aspetto estremamente delicato, di cui non è certo che i giovani (e tanto meno i meno giovani) siano adeguatamente informati e che forse meriterebbe qualche ulteriore approfondimento e

maggiore cautela. Nonostante i molti limiti del bonus cultura, resta il fatto che anche grazie all’azione individuale di molti giovani, il settore della cultura sarà destinatario di quasi 300 milioni di euro e questo è un dato da non sottovalutare e, per quanto possibile, un’occasione da cogliere, possibilmente senza snaturare un intervento nel settore della cultura che nella nostra regione ha avuto, negli anni, la capacità di programmare su un orizzonte temporale medio lungo; di sostenere produzioni, distribuzione e politiche di formazione del pubblico che rimangono la vera chiave di accesso alla cultura nel senso più ampio e complesso del termine e uno strumento di inclusione ed emancipazione sociale. Da questo ricco patrimonio, sedimentato nel tempo, credo si debba far tesoro anche in un’occasione come questa. La Regione Toscana potrebbe, in virtù della sua competenza in materia, del suo storico investimento per la cultura e del rapporto fecondo che ha sempre promosso tra enti culturali, territori e scuole, farsi promotrice di un progetto di informazione e comunicazione del patrimonio artistico e culturale di cui è custode. Ha già a disposizione grandi risorse: i gruppi territoriali Giovani sì, i giovani del servizio civile, presso enti pubblici e culturali, e magari perfino i giovani del progetto di alternanza scuola lavoro che potrebbero cimentarsi nella scoperta culturale del territorio e nella condivisione di questo con i loro coetanei con linguaggi e strumenti nuovi. Con un po’ di coordinamento, un piano di comunicazione e un po’ di risorse economiche si potrebbe così trasformare una politica estemporanea, fondamentalmente individualista e ispirata ai principi del consumo, nella costruzione di relazioni e reti stabili per la promozione della cultura. Forse così i giovani diciottenni potrebbero davvero sentire di entrare in una comunità, partecipandovi attivamente; potrebbero scoprire che “politica” non è un sinonimo brutto di burocrazia e forse ne riscoprirebbero il valore. Anche questa è cultura.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx Povera Forza Italia toscana. Il partito nato con l’idea della rivoluzione liberale che qui da noi si era già segnalato per la difesa delle concessioni a vita per gli stabilimenti balneari, ora replica, con il suo unico rappresentante in consiglio regionale, contro l’installazione di Ai Wei Wei sulle finestre del piano nobile di Palazzo Strozzi. Stella si scaglia quindi contro l’uso politico dei monumenti, dimenticando quindi l’uso che ne fece per anni Silvio suo quando presiedeva il governo, e dicendo che quella bruttezza (pur avendo detto di non voler entrare nel merito dell’opera

Forza Italia contro i gommoni

Lo Zio di Trotzky

d’arte) non può essere considerata arte. Nemmeno il fatto che Ai Wei Wei sia stato perseguitato dai comunisti cinesi riesce a bloccare lo sdegno di Stella, di cui non si ricordano intemerate così forti per il posizionamento un po’ casuale (a differenza di

Mezzanotte a Firenze di una tiepida notte di fine estate. “Pronto Manuele? Dove sei? Sei pronto? Son qui in piazza Signoria che ti aspetto!” “Oh Dario, sono a dormire. Son tornato come sempre alle dieci a casa dall’ufficio. Ma che vuoi?” “Ma come, Manuele, non ricordi? Cosa ho detto oggi sulla questione dei controlli dei venditori abusivi in centro?” “Ma cosa vuoi che mi ricordi: ne spari a centinaia ogni giorno su quel tuo giochino di Facebook! Dai, lasciami riposare”. “Eh, eh, eh, vedo che non sei attento ai voleri del tuo sindaco. Stai perdendo colpi. Ho detto: verificherò di persona e tutte le sere, che tutti mantengano gli impegni presi. Io e tutta la giunta non molleremo di un centimetro!”. “Va beh, e allora?” “Dunque io sono in piazza Signoria per la prima ronda: si fa il giro delle piazze storiche, poi si va nell’Oltrarno e si finisce il giro di nuovo a Palazzo Vecchio. Ho già organizzato le sotto-ronde: la Giachi e la Funaro vanno in piazza S.Croce a far finta di suonare i tamburi con i fattoni. Bettarini e Perra in S.Lorenzo perché pensano che gli ambulanti siano quelli con i banchini che abbiamo sloggiato qualche anno fa: vedrai che ridere quando si trovano davanti una ventina di energumeni africani! Il Vannucci e la Bettini vanno in S.Spirito: uno si mimetizza nella movida e l’altra nelle aiuola. Gianassi fa un giro dei quartieri e il Giorgetti per i cantieri. E la Mantovani, come al solito, è all’estero. Io, ovviamente resto in piazza Signoria a suonare il violino: vieni a sentirmi?” “Ma va là, fulatrun! Bòja Fàuss, it rangio mi la pipa ch’a tira: gavte la nata ciaparat. Lasciami dormire, che el temp e l’ cu l’an sempre fait cuma l’an vuiu. E’mburià!”

un’opera site specific come quella di palazzo Strozzi) di qualche mastodonte luccicante in piazza della Signoria. Sarà mica che c’entri il tema dell’opera? Ma si sa di fronte ai migranti la nostra destra dimentica presto Einaudi per inseguire Salvini.

La Stilista di Lenin

Il sindaco sulla schiena Non che il sindaco Nardella abbia mai spiccato per il proprio abbigliamento (come dimenticare le giacche blu cobalto a quadrettoni) ma presentarsi ad un’inaugurazione con la maglia con scritto sulla schiena sindaco è davvero troppo. Passi che si trattava dell’inaugurazione di un marciapiede allargato fatto passare per il restyling di Piazza Dalmazia e non della settimana della moda, passi che era venerdì ma una camicia con le maniche tirate su a tre quarti sarebbe stata sufficiente per dare un’immagine casual e impegnata. Ma poi, mi chiedo, qual è il senso della scritta? Forse il bisogno di ricordare ai cittadini come è fatto il loro sindaco? Problemi di identità? Rapporto mai risolto con il predecessore Renzi? In ogni caso certi problemi non devono mai interferire con lo stile. Ammesso lo si abbia.

I Cugini Engels

L’autoreferenzialità del livetweet Salvate il povero Semmola. Il giornalista culturale del Corriere Fiorentino si è da qualche settimana incaponito di fare il live tweet delle partite della Fiorentina. Un diluvio di messaggi infatti accompagna i poveri internauti che lo seguono sui social (i tweet vengono infatti duplicati su Facebook)

senza suscitare emozione alcuna. Infatti da una breve analisi delle ultime due gare della Fiorentina non risultano like, cuoricini e gli unici retweet che ottiene sono quelli dell’account del giornale per cui fa quelle dirette. Anche una ricerca con l’hastag #CFviola non porta maggiori consensi, indicizzando

tweet del solo Semmola infatti. Un’ossessione compulsiva che, sempre sui social, preoccupa gli amici del giornalista impegnati in una campagna per farlo smettere e farlo tornare ai suoi più congeniali terreni quali lo spettacoli e la cultura in genere. Una campagna a cui aderiamo, naturalmente, anche noi.

La ronda del piacere

*trad. dal piemontese: Ma va là, scimunito! Porca miseria, ci penso io a farti rigare dritto: togliti la fissa fessacchiotto. Lasciami dormire che al tempo e al culo non si comanda. Imbranato!


24 SETTEMBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

U

no dei grandi temi che la giovane arte della fotografia eredita dalla secolare arte della pittura (oltre a quello del ritratto) è quello del paesaggio. In realtà le arti figurative, almeno in Europa, hanno sempre considerato il paesaggio in maniera secondaria, relegandolo come sfondo di ritratti o di scene bibliche, mitologiche o letterarie, e riconoscendogli una piena autonomia solo in tempi relativamente recenti. Al contrario, la fotografia comincia ad interessarsi al paesaggio abbastanza precocemente, anche se sono soprattutto i grandi fotografi paesaggisti americani, messi a confronto con gli ampi spazi del nuovo mondo, a rivitalizzare un genere che stentava non poco ad imporsi in uno scenario europeo già all’epoca fortemente antropizzato. I fotografi americani di paesaggio hanno tracciato fino dalla seconda metà dell’Ottocento un sentiero che ha privilegiato la natura selvaggia e (almeno virtualmente) incontaminata. Questo sentiero è stato percorso con accanimento ed una fede sconfinata nella potenza creatrice della natura da decine di fotografi paesaggisti, molti dei quali non hanno ancora terminato di percorrerlo fino in fondo. Quasi all’opposto di questo percorso si pongono invece tutti quei fotografi che, dall’inizio del Novecento in poi, e con quasi identico accanimento e fede sconfinata nella potenza della civiltà e del progresso, si sono dedicati a registrare l’incidenza delle attività umane nelle diverse zone del pianeta. Ambedue queste categorie di fotografi hanno dato la loro preferenza alle ampie visioni, alle grandi scale ed ai grandi formati. Edward Burtinsky (1955 - ), fotografo canadese di famiglia ucraina, ha scelto come tema di lavoro la documentazione dell’impatto dell’opera dell’uomo su quello che è stato definito di volta in volta “territorio”, “natura” o “ambiente”. Nel fotografare, sempre con il grande formato e quasi sempre da punti di vista elevati, con l’aiuto di

Burtinsky

Oltre il paesaggio

elicotteri o di piccoli aerei, le profonde modificazioni operate dall’uomo su pianure, montagne, mari e corsi d’acqua, Burtinsky ha coniato il concetto di “paesaggio costruito”. Che l’uomo sia il solo animale che, piuttosto che adattarsi all’ambiente, preferisce trasformare l’ambiente piegandolo alle proprie esigenze, è cosa nota, come è cosa nota il fatto che la crescita esponenziale della popolazione mondiale comporta trasformazioni sempre più profonde dell’ambiente, sia di tipo agricolo che industriale ed insediativo. Conscio di tutto ciò Burtinsky, che è per una buona metà un documentarista, e per l’altra metà un artista, come la maggior parte dei fotografi autentici, è riuscito a mettere da parte le proprie convinzioni di tipo politico e/o ecologista, per raccontare l’impatto dell’opera umana come un grande affresco in cui l’elemento estetico si sposa e spesso sovrasta l’elemento documentario. Le strade, le ferrovie, le miniere, i canali, le cave e tutti gli altri interventi di tipo fortemente “invasivo” del paesaggio vengono lette sia in chiave di alterazione degli equilibri naturali, che in chiave di interventi estetici, quasi fossero delle gigantesche opere di landart. Dalle sue prime opere, come la raccolta “Breaking Ground” della metà degli anni Ottanta, i temi toccati da Burtinsky si moltiplicano nel tempo, le cave del Vermont e di Carrara nei primi anni Novanta, gli scarti delle miniere ed il recupero dei materiali metallici alla fine del decennio, fino alla Cina, al ciclo del petrolio ed al ciclo dell’acqua negli anni Duemila, per tornare poi tra cave portoghesi, miniere australiane e demolitori di navi in Bangladesh. Accanto alla natura violata compaiono gli sterminati insediamenti umani, in cui la dimensione gigantesca annulla le singole persone. Sono immagini forti, che si presentano quasi come l’altra faccia del paesaggio costruito, che rimane dominato comunque da una tragica bellezza, quella più banale del paesaggio omogeneizzato e decostruito.


24 SETTEMBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

L

’opera d’arte contemporanea spesso risulta essere il risultato di una lunga ricerca espressiva non solo sul contenuto comunicativo che l’opera deve e vuole evocare, ma anche e soprattutto sul materiale indagato e utilizzato. I linguaggi espressivi rappresentano di fatto una costante interrogazione per tutti quegli artisti affascinati dal divenire delle possibilità e delle alternative degli elementi concreti e corporei che compongono l’opera d’arte, attraverso cui poter smuovere la stasi rappresentativa e fare del segno un continuum operativo sempre diverso da sé. In tal senso Luciano Bartolini ha utilizzato in modo esclusivo la carta, associandola a semplici forme geometriche per mettere in luce le contrapposizioni esistenti fra i diversi materiali e le loro casuali interrelazioni. Il rigore dei giochi geometrici si unisce all’eleganza dei contrasti, la povertà dei materiali alla raffinatezza della composizione, in un’assolutezza che trascende il tempo creativo e si staglia nello spazio espositivo con una tangibilità nuova che colpisce lo spettatore rapendone la coscienza. Tutta l’opera d’arte di Luciano Bartolini può essere letta all’interno della più ampia tematica del vedere e del contemplare, del visto e della percezione analitica: fra luce e ombre l’occhio umano è portato a vagare fra le pieghe che la carta crea negli attimi successivi all’intervento artistico. L’ignoto e il caso costituiscono una variante infallibile nelle rigide composizioni che l’artista manipola, lasciando al colore e alla carta l’arduo compito della resa finale, come se fra il razionale e l’imprevisto esista una linea sottile facilmente varcabile. Se da una parte la coincidenza, l’evento fortuito mettono in evidenza l’inesistente e l’invisibile accentuandone le possibilità, dall’altra il procedimento analitico ricalca l’esigenza poetica e surreale di tendere a un Assoluto senza confini, che di volta in volta amplia le proprie opportunità, grazia a una sensibilità intuitiva che solo un vero artista può possedere. Luciano Bartolini ha saputo congiungere il mondo

Vedere e

contemplare

Luciano Bartolini

In alto Progetto per “senza / relazioni”, 1977 Carta da pacchi, tempera, kleenex su cartone In basso The Pearl Mosque, 1978 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

espressivo ed emotivo del colore con la ragione organizzativa e specializzata a vedere nel vuoto l’atomismo che compone il mondo. Luciano Bartolini, fisico nucleare, ha fatto dell’Arte un alter ego di solitudine e di ricerca; si è posto l’obiettivo di uscire dal labirinto quotidiano invocando lo spaesamento e concretizzando sulla tela e/o sul libro d’artista la presenza di una realtà irreale, immaginifica e terribilmente fiduciosa nel progresso culturale (oltre che scientifico).


24 SETTEMBRE 2016 pag. 7 Ruggero Stanga stanga@arcetri.astro.it di

I

l puntino luminoso si smarrì nella luce del tramonto della tarda estate. 8 settembre 2016, ore 19.05 Cape Canaveral: lancio perfetto dell’Atlas V, la missione OSIRIS-REx entrava nella sua rotta verso Bennu. Bennu è un asteroide più o meno sferico, con un diametro di circa 500 metri. Percorre un’orbita intorno al Sole in circa 1.2 anni, poco inclinata rispetto all’orbita terrestre: non è troppo difficile raggiungerlo, e tornare alla Terra in tempi abbastanza brevi. Perché il compito della sonda è quello di grattare via un po’ di materiale dalla superficie di Bennu e di portarlo da noi. Ma per quale motivo spendere oltre 800 milioni di dollari per mezz’etto circa di materiale dell’asteroide? e perché proprio lui, fra tutti gli asteroidi noti? Alla base c’è un obiettivo scientifico di grande importanza. Dalle osservazioni fatte, Bennu presenta una superficie molto scura, per questo presumibilmente ricca di carbonio, magari in forma di composti organici. L’analisi chimica del materiale ci dirà se è possibile che corpi come Bennu, asteroidi carbonacei formatisi all’origine del Sistema Solare, abbiano effettivamente potuto portare sulla Terra i mattoni della vita, le molecole complesse che sono alla base della vita che conosciamo. I materiali di cui sono composti hanno origine nei venti stellari prodotti dalle stelle giganti rosse, una tarda fase della vita delle stelle, e dalle superno-

Gianni Biagi g.biagi@libero.it di

Il Cretto di Alberto Burri, opera pensata dall’artista di Città di Castello per ricordare la tragedia del terremoto del Belice del gennaio 1968, è stato completato a distanza di oltre trenta anni dal suo inizio. Burri scelse di rispondere all’invito dell’allora sindaco di Gibellina Corrao non realizzando un’opera nella nuova Gibellina ma intervenendo sui ruderi della città rasa al suolo. Oggi, sugli oltre 8 ettari dell’impianto urbano della città distrutta (riproposto nella sua trama urbanistica dall’opera), si possono vedere le due parti dell’opera. Quella recentemente completata e quella finita nel 1989. Un’opera di land art che inquieta e ammonisce.

Un puntino di nome Bennu

vae, le grandi esplosioni stellari, entrambe fenomeni che spargono nella galassia gli elementi prodotti all’interno delle stelle e che poi andranno a costituire le nubi interstellari di gas e polvere da cui si generano nuove stelle: cerchiamo di tracciare l’origine della vita sulla Terra, e quindi di capire quanto è probabile che gli stessi fenomeni si siano prodotti durante la formazione di altri sistemi planetari. Bennu è adatto a questi studi. La sonda arriverà in un paio di anni alla meta, nell’agosto del 2018, per un altro paio di anni gli orbiterà intorno, in modo da analizzare tutte le caratteristiche dell’asteroide, per assicurarsi comunque un insieme di informazioni dettagliate, poi la sonda si avvicinerà fino

a pochi metri dalla superficie, in modo che un braccio meccanico possa raccogliere il mezzo etto circa di polvere superficiale, e poi, se tutto è andato bene, si avvierà sulla strada del ritorno per tornare alla Terra nel 2023. Le dimensioni di Bennu sono ottimali: asteroidi con un diametro più piccolo di 200 metri ruotano così rapidamente, che la polvere superficiale viene schizzata via da una forza centrifuga che non può essere controbilanciata dalla forza di attrazione gravitazionale del piccolo corpo celeste. C’è un altro obiettivo molto interessante, anche se più tecnico. Un corpo in orbita intorno al Sole raggiunge una temperatura che dipende dall’energia continua-

mente assorbita dal Sole. Siccome la temperatura del corpo celeste è sostanzialmente stabile, anche se il Sole continua ad illuminarlo, il nostro corpo celeste deve a sua volta emettere energia: come un secchio che può contenere una quantità fissa di acqua, sotto un getto continuo trabocca quando è pieno, diventando a sua volta sorgente di acqua. Bene, il dettaglio di come emette questa sua energia “in eccesso” influenza l’orbita del corpo celeste stesso. È un effetto piccolissimo, rispetto alla forza di gravitazione, ma è cumulativo, si somma nei milioni di anni, e quindi può diventare rilevante nel determinare come possono mutare nel tempo le orbite dei corpi più piccoli, asteroidi simili a Bennu, appunto. Non è facile calcolarlo, perché dipende da molti parametri dell’asteroide, che non è facile valutare dalla Terra. OSIRIS-REx, sul posto, li potrà misurare. Ed infine un obiettivo quasi da fantascienza. Non esistono solo gli asteroidi carbonacei. Esistono anche asteroidi più ricchi di silicio e di metalli. In un futuro non troppo lontano potrebbe diventare conveniente andare sugli asteroidi a raccogliere metalli e quegli elementi che si chiamano terre rare, sempre più importanti per la tecnologia. Stiamo imparando come fare!

Il Cretto di Burri completato


24 SETTEMBRE 2016 pag. 8 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

N

egli anni Settanta del secolo scorso il rock giapponese è ancora un pianeta sconosciuto, se si eccettua il percussionista Stomu Yamash’ta. La Yellow Magic Orchestra segna l’inizio di un’invasione pacifica. Oggi, nel 2016, i gruppi e gli artisti nipponici sono un dato imprescindibile del panorama musicale; non soltanto per chi segue il rock, ma anche per chi predilige proposte più articolate e complesse. Fra queste spicca la ricca discografia di Ryuichi Sakamoto, fondatore della Yellow Magic Orchestra e poi dedito a una carriera solistica di ottimo livello. Questa include molti lavori realizzati da solo e con altri musicisti, come Christian Fennesz e Christopher Willits. Innamorato della musica classica quanto dell’elettronica, l’artista si spinge comunque anche nei territori del rock (Iggy Pop) e della samba (Jacques Morelebaum). Questa versatilità si esprime anche nel forte legame che sviluppa con il cinema. Lo attestano le colonne sonore di film come Furyo (1983), dove compare come interprete accanto a David Bowie; L’ultimo imperatore, che gli vale l’Oscar e altri premi prestigiosi; Omicidio in diretta (1988), vari film giapponesi, fra i quali Gohatto (1999) e Tony Takitani (2005). Poi, una brusca battuta d’arresto: nel giugno del 2014 gli viene diagnosticato un tumore alla gola. Il compositore giapponese cancella tutti gli impegni per concentrarsi sulle cure. Fortunatamente la terapia si rivela efficace, tanto è vero che nell’agosto del 2015 il tumore è già stato debellato. Sakamoto torna quindi in attività senza che molti abbiano saputo della sua malattia: la sosta di un anno può capitare a qualsiasi musicista per vari motivi. Tanto più che in questo periodo sono comunque usciti alcuni dischi già programmati. Il musicista comincia quindi a comporre le musiche per il film The Revenant, diretto da Alejandro Inarritu e interepretato da Leonardo Di Caprio. Sakamoto non è comunque l’unico autore della colonna sonora: alcuni

Il ritorno di Sakamoto

brani sono stati composti da Bryce Dessner (The National) e da Alva Noto. Con quest’ultimo Sakamoto vanta una lunga collaborazione che va da Vrioon (2002) a Summvs (2011). Nel 2016 escono due nuovi CD, Plankton: Drifting World at the di

Origin of Life e la colonna sonora del film Nagasaki: Memories of My Son, diretto da Yoji Yamada. Si tratta di due lavori importanti sui quali torneremo presto. A chi volesse conoscere meglio Sakamoto, ovviamente oltre ai dischi, consigliamo due libri.

Uno è Ryuichi Sakamoto. Conversazioni (Arcana, 1998), curato da Massimo Milano, interessante anche se ormai datato. L’altro è la sua autobiografia, uscita in Giappone e tradotta in spagnolo col titolo La música os hará libres (Altair, 2011).

sarebbero finite nel servizio sanitario: tutto falso, cifra e promessa). Idem quella di Donadl Trump. La rubrica di fact-checking (verifica dei fatti) del Washington Post ha dimostrato che più dei due terzi delle sue affermazioni sono false. Eppure i consensi di Trump crescono, tanto da superare Hillary nei sondaggi. Non si sceglie la Brexit o Trump perché dicono la verità ma perché ci raccontano le cose che vogliamo ascoltare, quelle che ci piacciono, che incarnano il rifiuto del sistema. A dar man forte a questa tesi è arrivato lo studio di un italiano, Walter Quattrociocchi della scuola Imt di Lucca, sul comportamento degli utenti americani di Facebook. Risulato: smentire le bugie è solo una perdita di tempo, non serve a

far cambiare opinione alle persone. Quando incontrano post che smontano con dati di fatto e prove solidissime le notizie false che circolano in rete, o non le leggono, oppure anche se scorrono il testo non cambiano opinione e anzi si convincono ancora di più delle loro convinzioni. Insomma: più leggono smentite più ci credono. Sembrerebbe che a monte di tutto ci sia un sentimento diffuso di sfiducia verso tutto ciò che arriva dall’esterno, dal di fuori della tribù di appartenenza. I social hanno cambiato il modo con cui ci informiamo, con cui discutiamo e ci formiamo le opinioni. Siamo entrati così in una nuova era, quella che non crede più ai fatti. Occhio: se diventa contagiosa i vaccini non saranno più in grado di curare la malattia.

Remo Fattorini

Segnali di fumo Ci interessa davvero la verità? È una cosa ancora importante? La ricerchiamo per farci un’opinione su ciò che accade intorno a noi e nel mondo? A quanto pare la verità è sempre meno importante, spesso inutile e persino fastidiosa. È questa la tesi che Ralph Keyes sostiente nel suo libro “The post-truth era” (L’era della postverità), appena uscito negli Stati Uniti e recensito su Internazionale. L’argomento è serio. Keyes descrive la tendenza delle democrazie occidentali a non credere più ai fatti. E fa l’esempio della campagna sulla Brexit, basata su false argomentazioni. Si è sostenuto che ogni settimana si sarebbero risparmiati 350 milioni di sterline che, in caso di uscita dall’UE,


24 SETTEMBRE 2016 pag. 9 Francesco Cusa francescocusa@gmail.com di

Tutte ste donne non si possono toccare sono irraggiungibili. Vorrei prenderle per strada. La vita va via. Ho 40 anni. Spegni il cervello.Telefona a una donna”. Sono frasi di Tommaso, prese in sequenza casuale durante la visione dell’omonimo film di Kim Rossi Stuart, a segnare il tono frammentario, contratto, psicotico di quest’opera mal riuscita, nata “storta”. Certamente non giova alla cifra estetica dell’opera l’imbarazzante scimmiottanento del Moretti di “Bianca” da parte di un Rossi Stuart totalmente fuori contesto (in questi panni). Tuttavia, per fortuna, e a dispetto di tante feroci critiche, “Tommaso” è anche molto altro (foss’anche involontariamente). È un film sull’irraggiungibilità dell’appagamento del desiderio, e sulla naturale devianza che porterà alla “sragione”, ovvero a ciò di cui scrive, o meglio, narra, Foucault: una componente della follia inglobata all’interno della razionalità borghese a partire dall’età classica. In questo senso la figura ridicola e paternale dello pseudo psicologo che invoca ancora il bambino-Tommaso smarrito, da prendere per mano per un improbabile risarcimento, è forse il tentativo riuscito di ridicolizzare la retorica del transfert. Tommaso è ossessionato dalla donna-bolla, dal culo infinito, dalla replica costante nelle peculiarità dell’imperfezione, dal calco di Dio, dalla distanza che separa ogni essere sensibile, dalle molestie del dettaglio, del difetto fisico, dall’ossessione dei vermi, del corpo, della putrescenza. In altre parole, Tommaso, “ha ragione”: è un folle e come tutti i folli, puzza di santità. Non si sottraggono al desiderio-martirio neanche le donne-manichino, in un ideale plastificato dell’amplesso che rimanda a certi personaggi dei racconti di Claudio Morandini. Il film è intriso di una ingenua e didascalica narrazione simbolica. Ad esempio, la processionaria colma di vermi sull’albero sembra simboleggiare la placenta che contiene il feto; la madre oscena, la detentrice del trauma che nutre Tommaso di vermi nel sogno reale e materico indica la dannazione

Tutte le donne di Tommaso

della procreazione; la “verace “, la “ciociara” Camilla Diana, l’idealizzazione, in una delirante onirica rappresentazione che la ritrae come la donna incinta di un quadro rinascimentale. Lei è l’essere che pare dar pace e luce all’amore agognato, bramato, impossibile di Tommaso. Ma anch’essa rivelerà il suo lato spietato, di

The Duke’s grandchildren

Dice gongolando l’appassionato toscano di jazz: “L’estate è finita, c’è Serravalle Jazz”. E parte felice nella notte per raggiungere la sua méta. Serravalle è un rientro senza stress, un ritrovarsi con amici e sodali nella Rocca di Castruccio per riprendere il ritmo, la scusa per tirare fuori dal cassetto il primo golf (fa freschino sotto la torre), per spigolare sulla bancarella dei libri di musica assaporando l’ennesimo bombolone. Serravalle Jazz è il cugino di Barga Jazz. Lega i due festival, che si passano il testimone a pochi giorni e chilometri di distanza, un antico sodalizio di programmazione e di presenze artistiche. Tuttavia le due manifestazioni, per quanto contigue e vocate, oltre che agli eventi, anche all’approfondimento, alla formazione e alla proposta creativa originale, mantengono ciascuna una fisionomia propria. La riservata eleganza di Barga non fa ombra a una Serravalle anch’essa raccolta e discreta, ma capace di numeri più importanti e calamita di un pubblico più eterogeneo. Cominciò, Serravalle, con un “numero zero” nel 2001 in ragione di un anniversario bancario celebrato davvero con il botto: la suite dei

mostrandosi quale semidivinità cannibale e crudele, ennesima punizione inferta dalla Natura allo strampalato soggetto. E così, immerso nell’anacronistico delirio lucido di un’epoca non sua, Tommaso cade dall’albero della Vita e della Morte, scioccamente, come sciocca è la sua vita, nel tentativo maldestro di recidere il bozzolo,

la processionaria piena dei vermi della nuova fecondazione (sembra una vergognosa riduzione di una ipotetica novella del Boccaccio). Ciononostante egli riesce a far fuoco, a purificare il frutto marcio, la devianza, ad estirpare ogni male dalla Terra. Tali vicende paiono funzionali al solito trito gioco simbolico del transfert: il padre nel bozzolo, il sé-bambino che scompare nel tunnel, il ritorno allo stato prenatale, la fuoriuscita dalla dimensione del reale nella la spiaggia-limbo che ri-accoglie il Bambino Tommaso ecc. E qui si spezza l’elemento irrazionale che pur avrebbe concesso a quest’opera imperfetta altre chances: il film ripiega dunque in una chiusura banale, oserei dire sconclusionata. Però occhio a sottovalutare la forza molesta di quest’opera, comunque anomala per la miserabile prospettiva offerta dall’attuale cinema italiano.

Caustico jazz sotto la torre

Concerti sacri di Duke Ellington eseguita sotto le stelle dalla Barga Jazz Big Band, che l’aveva proposta giusto un anno prima per l’inaugurazione, proprio a Barga, del restaurato Teatro dei Differenti. Narra il bel libro che il festival si è dedicato per il decennale (Blu note al Castello. Dieci anni di Serravalle Jazz nella Rocca di Castruccio, a cura di Maurizio Tuci, il direttore artistico della manifestazione) di un pubblico in visibilio e della decisione immediata, presa da un gruppetto di pionieri nel corso della bella notte estiva, di dare all’evento una continuità. E così è stato, con la proposta, ogni anno, di concerti di qualità e presenze non banali. Come spesso accade artisti importanti si sono innamorati di Serravalle e

non hanno mancato, anno dopo anno, di arricchire il suo cursus honorum. Indimenticabile, solo per citarne uno, l’ultimo concerto di Renato Sellani del 2014 in duo con Fabio Morgera alla tromba. Quest’anno il festival pistoiese è diventato adolescente, e come un giovane che si rispetti ha dato prova di energia e creatività esplorando prevalentemente (il titolo era Piano Piano Forte Forte) i territori pianistici cari a uno dei suoi numi tutelari, Renato Sellani. Il concerto ascoltato, quello della seconda serata, ha sorpreso per l’originalità di una “carte blanche” affidata a Romano Pratesi e al Frizione Sextet, un collettivo formato da Pratesi stesso al sax, clarinetto, percussioni, dal batterista francese Christophe Marguet, il chitarrista olandese Hasse Poulsen, il trombonista statunitense Glenn Ferris, il contrabbassista franco-armeno Claude Tchamitchian e il pianista francese Stéphan Oliva. Repertorio originale e di ricerca, non immune da qualche sberleffo e causticità. Ottima musica conclusa da una intensa versione dell’antica Saint James Infirmary. Così si fa.


24 SETTEMBRE 2016 pag. 10

Sensus, 30 settembre dalle 17 alle 20

Ricordi, dimenticanze, Claudio Cosma claudiocosma@hotmail.com di

U

na grande sabbiera come ne ho viste in Alto Adige nei giardini degli alberghi per i giochi dei bambini, ma anche

quella che gli analisti junghiani tengono nei loro studi per la sandplay therapy, è il recinto dove ho ambientato la mostra degli affollati piccoli oggetti d’arte, selezionati dalla collezione di Sensus. La sabbia rappresenta e si associa ad innumerevoli significati, da quello evidente di confine fra terra e mare a l’altro, altrettanto palese, di materiale sconfinato dal quale sono composti i deserti. Stretta fra la macchia e il mare la linea di sabbia accompagna le nostre passeggiate come quella sabbia lontana dove è sepolta la lampada di Aladino si ricollega ai sogni generati dal desiderio delle pagliuzze d’oro che la sabbia a volte contiene. La forma geometrica di confine e contenimento ricorda la divisione artificiale di tanti stati della terra che seguono tracciati politici e non geografici. In tale matematica griglia dove la fluidità del materiale si ricompatta in una miniaturizzazione d’eccezione, è rappresentato un paesaggio dove agli elementi naturali propri dei territori antropizzati, sono sostituiti oggetti che si trasformano in immagini. Il significato di ogni singolo pezzo è rafforzato o comunque influenzato dalla vicinanza con tutti gli altri, cedendo parte del proprio e assorbendo le emanazioni dei prossimi, formando una serie di relazioni reciproche. I lavori scelti in modo da avere una consanguineità logica col materiale che li ospita (spero) danno l’idea di oggetti naufragati e disciplinatamente depositati dall’ordinato rifluire di una risacca immaginaria. Alcune sculture sembrano, invece, affiorare da uno strato inferiore del suolo, altre sono simili a zone di futuri ritrovamenti archeologici. Altre, come scene di un crimine, avranno bisogno di una ricostruzione da parte di una

Beatrice Mancini, Pink Light Vetrina di Sensus, Fiesole

non chiarita, ma necessaria, polizia scientifica dell’arte. Affioramenti, seppellimenti, posizioni inclinate, cadute di gravi o apporti medianici, celano e fanno contemporaneamente affiorare dalla realtà dell’installazione e dall’illusorio mio passato una processione di

Ricordi, Dimenticanze, Incertezze, non disgiunti dall’insopprimibile sentimento del desiderio. Con gli artisti: Virginia Panichi, Elena Mazzi, Mitsunori Kimura, Willi Wainer, Virginia Lopez, Hugo Cardenas, Elene Usdin, Fabrizio Corneli, Antonio Borrani,

Angelo Barone, Lorenzo Pezzatini, Sabrina Muzi, Noon Passama, Christiane Löhr, Peter Bauhuis, Imhathai Suwatthanasilp, Alice Olimpia Attanasio, Alessandra Baldoni, Silvia Noferi, Cataldo Valente, Aldo Frangioni, Gordon Faggetter e Beatrice Mancini.

incertezze


24 SETTEMBRE 2016 pag. 11 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

C

i sono delle affermazioni che tornano a gola, come un pasto avariato, a distanza di tempo. Così mi è accaduto con la frase pronunciata da Sergio Marchionne in un suo intervento alla Luiss, poche settimane fa: “Non possiamo demandare al funzionamento dei mercati la creazione di una società equa perché i mercati non hanno coscienza, non hanno morale, non sanno distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è”. Mercato è, per Sergio Ricossa (“Dizionario di economia”, 1998), “qualunque organizzazione che abbia lo scopo di mettere in contatto tra loro venditori e compratori, onde stabilire prezzi di scambio.” Mercati ve ne sono di ogni tipo (dai rionali agli internazionali) e la loro ampiezza è sovente incerta. Il ‘mercato’ allude, del resto, tanto ad un luogo fisico come ad un ambiente immateriale. Per Luigi Einaudi (“Lezioni di politica sociale”, 1964) “anche la bottega è un mercato”. Alla fine, il mercato siamo di volta in volta (anche) ciascuno di noi, nel momento in cui compriamo o vendiamo qualcosa. Quando, allora, un mercato è giusto? La questione della bontà/ giustizia del o di un mercato evoca direttamente quella delle innumerevoli transazioni che vi si concludono. La domanda conseguente è: “quando è buona, o giusta, una transazione”? Una risposta più che ragionevole si forniva già in epoca medievale: per gli scolastici dovevasi stabilire se la transazione era stata intrapresa e portata a termine volontariamente. Erano dunque “la coercizione, la violenza, la falsa dichiarazione e l’informazione inadeguata” a indebolire “l’equità di una transazione” (Alejandro Chaufen, “Cristiani per la libertà”, 1999). Per Einaudi “l’aggettivo ‘giusto’, appiccicato dietro al sostantivo ‘prezzo’, è un corpo estraneo” (“Lezioni di politica sociale”, cit.). “Che cosa c’entra il giusto o l’ingiusto tra le due schiere che vengono sul mercato: i produttori, o venditori i quali vorrebbero la scarsità perché i prezzi fossero alti ed i consumatori, o compratori i quali sono fautori dell’abbondanza, perché i prezzi siano bassi?” Ebbene, “tra i due decide il

Rigurgito mercato, il quale non afferma che un prezzo sia più giusto dell’altro; ma dice semplicemente: quello è il prezzo.” In presenza di uno scambio volontario, non si pone un problema di ‘giustizia’ della transazione (e del prezzo). Così il nostro codice civile, per esempio, ha dettato le norme sulla annullabilità e sulla rescissione dei contratti.

Moltiplicando il discorso per innumerevoli transazioni, i mercati non sono né buoni né cattivi. Fin qui il manager italo-canadese ha ragione. E’ quando afferma l’inettitudine del mercato a creare una società equa che Marchionne insinua l’equivoco: il mercato non solo non ha ma soprattutto non deve avere un fine, tanto meno quello indicato. Posto che vi sono mercati che funzionano bene e mercati che funzionano male (essendo come ogni realtà sociale - imperfetti), la funzione principale del/i mercato/i – si può dire, con Ricossa - non è portare l’economia in equilibrio, bensì “costituire un’area di libertà (...).” Vorrei confidare che almeno il manager di una società multinazionale abbia fatto propria l’etica della libertà. Invece, la sua ha l’aria di essere una strizzatina d’occhio a quella concezione

Le architetture di Pasquale Comegna

benpensante e volgare (nel senso di diffusa, abituale) che in tutto il mondo guarda con diffidenza e ostilità alla libera iniziativa. Sembra suggerire: sia lo Stato ad intervenire (come se già non lo facesse - e pesantemente), a procurare quella equità che il mercato non assicura e che evidentemente sanno realizzare i volenterosi artefici della giustizia sociale. A questo punto anche un filosofo come John Stuart Mill - che oggi si direbbe un ‘liberal’ - potrebbe affermare (come ebbe a fare) che per quanto il processo di civilizzazione non sia ancora stato capace di organizzare nulla di meglio di quella prima rozza approssimazione a una distribuzione equa che si chiama mercato (nel senso di libero mercato), “in sua difesa si può dire che, (...), allo stato attuale si sbaglia comunque meno lasciando che le cose si aggiustino da sé piuttosto che aggiustarle artificialmente nei modi che sono stati già tentati.” La frase è tratta dal suo “Dizionario delle idee” e mi pare colma di attualità e di buon senso (e parimenti condannata, purtroppo, all’indifferenza) come se fosse stata pronunciata ieri.

Valencia, Calatrava


24 SETTEMBRE 2016 pag. 12 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

S

i ha umorismo involontario quando uno vuol fare o crede di fare una cosa seria e, invece, o per errore, o per sbadataggine, o per ignoranza, o per caso, fa una cosa comica. E in questa definizione di Achille Campanile, che Paolo Albani riporta nel suo ultimo libro “Umorismo involontario”, il trucco che mi ha permesso di sorridere e anche apertamente ridere e godere della vis comica di gaffes ed errori vari, ho sempre avuto poca attitudine al riso per barzellette, scherzi e burle in cui tendo sempre a cogliere l’acida cattiveria e i tratti di interiore ostilità che li sottendono. Attraversare gli inimmaginabili campi in cui si esprime la involontarietà dell’umorismo mi è apparso divertente ed anche, in molte occasioni narrate, fonte di riflessioni amare sull’umanità e sulla sua intelligenza non sempre pronta. Fra la grande mole di argomenti e scritti e discorsi e categorie impensabili, come quella dei testamenti bislacchi, che Albani ci prospetta in una esauriente analisi del far ridere involontariamente, direi che preferisco, pare come molti altri dice lui, la ingenua freschezza e la fantasia sfrenata dei bambini, gli svarioni degli studenti che non studiano e infine le bislaccherie dovute ad una atavica ed inconsapevole ignoranza di base ed una specie di desiderio di dimostrarne l’inesistenza attraverso l’uso di parole chic e paroloni. A questa ultima categoria si assimilano gli errori dei pazienti nel parlare di mali e malanni. Albani cita molte pubblicazioni che raccolgono esempi di ciascuna di queste categorie. Io ho riso come una matta nel leggere, autore un ignoto bambino, “gli uccelli ci cacano in testa per vendicarsi dell’effetto serra”, e anche “gli indiani adorano la vacca perché intralcia il traffico”, uno studente che risponde alla domanda “chi sciacquava i panni in Arno?” forse la mamma di Dante” !!!un genio direi, già più banale leopardare come Infinito di Leopardi. Non male “saluti dalle pernici del Monte Bianco” e “da un occhio ci vedo male sono preside” ed anche “Dottore, mio marito ne

Umorismo involontario

ha sempre una. Perché, vede, lui sodomizza molto” e ancora “di ogni dolorino fa uno psicogramma”. Gli errori e i refusi dovuti al T9 sono nell esperienza di tutti, così come i lapsus nello scrivere e soprattutto nel parlare, però a mio parere meno creativi ed interessanti. Le papere di Mike Bongiorno, per me che non Lido Contemori lidoconte@alice.it

ho guardato mai la tv, nuove e simpatiche “ma chi sarà questo signor Paolo Vi del quale non ho mai sentito parlare?” (Rischiatutto, leggendo una domanda su Paolo VI). Le amare riflessioni mi vengono suscitate dall’apprendere che interi libri sono stati dedicati a raccogliere lo stupidario e le gaffes di W.Bush, per anni

di

Il migliore dei Lidi possibili Il naufrago Johannes Genfleisch Gutemberg disperso nell’Oceano Social Network

Presidente degli Stati Uniti, così come trovare qui e giustamente, come, ora, fonte di involontario umorismo, la mimica, mento protruso, occhiacci, petto in fuori e mani ai fianchi, e il linguaggio retorico ed altisonante di Mussolini. Per venti anni non ha fatto ridere nessuno, i più lo hanno preso sul serio e chi ha saputo vedere l’aspetto assurdo e iniquo, se non comico, della sua loquela ne ha pagato duramente il fio. Cito “Non siamo cortigiani né verso il basso né verso l’alto”, ancora “fra tutte le nazioni del mondo l’Italia è la più nettamente individuata, da tutti i punti di vista. I suoi connotati sono categorici. “Intriga poi scoprire che alcuni scrittori, a me del tutto ignoti in verità, sono maestri di strafalcioni e assurdità tipo “ah! Ah! Fece egli in portoghese” e che anche il ben noto Baricco scrive una cosa tipo “la strada scivolava in salita con la freddezza di un serpente”. Albani, ancora una volta, offre un’esauriente disanima di un bislacco argomento, molto piacevole e divertente.

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni


24 SETTEMBRE 2016 pag. 13

La grande orchestra

Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

I

l musicista Bernie Krause (1938), dopo aver collaborato a numerosi album con i Doors, Van Morrison, Brian Eno, George Harrison e composto colonne sonore di famosi film come Rosemary’s baby e Apocalypse now, nel 1968 lascia il mondo dello spettacolo e comincia a girare il mondo nelle sue parti più selvaggie per catturare i suoni degli animali terrestri e marini nella convinzione che essi siano all’origine della musica. La sua ricerca, che ormai dura da quasi cinquanta anni, lo ha portato a collezionare 5000 ore di registrazione di 15.000 specie terrestri e marine, molte delle quali (oltre il 50%, dato veramente sconvolgente) nel frattempo estinte. Il suo lavoro è alla base della mostra Le grand orchestre des animaux alla Fondation Cartier a Parigi (fino all’8 gennaio 2017). Alla mostra partecipano molti artisti di fama internazionale che hanno creato per l’occasione opere sul tema della varietà e splendore del mondo animale, come il cinese Cai Guo-Qiang con la magnifica tela lunga 18 metri che ne rappresenta diverse specie intente ad abbeverarsi tutte insieme in una pozza d’acqua, luogo simbolo di pace e vulnerabilità. Ci sono poi le immagini del giapponese Manabu Miyazaki di animali sorpresi nell’intimità di un movimento unico, il fascino poetico dei brevi filmati dei ricercatori americani del Cornell Lab of Ornithology di danse e parate di piume e colori di uccelli in amore, i lupi e gli avvoltoi delle raffinate macrofotografie del giapponese Hiroshi Sugimoto, la lunga parete in ceramica dipinta con gli uccelli dell’Amazzonia della brasiliana Adriana Varejao. Ma la parte veramente sorprendente della mostra è nella grande sala al piano interrato in uno spazio completamente buio. È qui che il pubblico si immerge nella realtà del mondo sonoro degli animali quando esso è lontano dai rumori dell’uomo. Attraverso un’installazione creata da UVA (United Visual Artists) vengono riprodotti sette paesaggi sonori realizzati da alcune delle registrazioni fatte da Bernie Krause e “tradotte” tridimensionalmente in patterns luminosi. Proiettati su grandi superfici, questi spettogrammi formano paesaggi che

A drifting world at the origin of life dell’artista Shiro Takatani in collaborazione con il compositore Ryuichi Sakamoto e con il biologo Christian Sardet che ha ripreso le immagini attraversando gli oceani su una goletta con altri scienziati per 4 anni. Il plancton, all’origine della vita e della biodiversità, viene rappresentato in grandi schermi orizzontali in tutto il suo splendore in un caledoscopio di forme e colori unici. Penso che una mostra come Le grand orchestre des animaux porti alla riflessione che, forse, il mondo sarebbe più bello se l’uomo, nell’assurda e dannosa presunzione di superiorità, non se ne sentisse al centro.

alludono alle varie località e ai momenti del giorno in cui Krause ha fatto la registrazione. Sul pavimento, davanti alle grandi superfici di proiezione, l’acqua di una piscina

nera riflette le immagini amplificandone l’effetto. La mostra termina, ma potrebbe da qui iniziare, con un’altra grande, emozionante installazione dal titolo Plankton.

Matteo Rimi lo.stato@libero.it

A Firenze i nuovi Beat

di

Tutti i Movimenti prima o poi finiscono sui libri di testo. I ribelli più irriducibili, gli sperimentatori più estremi, i poeti più maledetti. Tutti restano loro malgrado imbrigliati e a volte anche intrappolati, neutralizzati, tra le righe dei manuali scolastici. Se poi, come per le Avanguardie, si compie il fatidico passo di redigere un proprio manifesto, il gioco è fatto: l’inevitabile destino è quello di andare ad ingrossare l’elenco degli –ismi di cui sono piene le lezioni dei professori! Per la Beat Generation non è andata così. La loro non è stata una sistematica ricerca, ma un moto spontaneo di giovani amanti della letteratura, nati e cresciuti in luoghi diversi degli sconfinati USA anni ’50 del secolo scorso, che si riconoscevano tra loro istintivamente, si cercavano bramosamente affrontando lunghi viaggi in autostop, sugli iconici greyhound che percorrevano senza sosta polverosi rettilinei da costa a costa oppure imbarcandosi (a volte in maniera letteraria) in imprese in cui rischiavano paurosamente di perdere loro stessi. Il lavoro di accomunare opere come “On the road”, “Howl” o “The Naked Lunch” è stato tutto a carico della cronaca, schifata ma allo stesso tempo attratta dalla negazione ai sani principi dell’american way of life che questi giovani dimostravano così sfacciatamente. Loro

si limitavano ad annuire sornioni, a dirsi “beati” o “battuti” o estimatori del beat che il be-bop di quegli anni scandiva in ogni sotterraneo, ad incarnare, troppo spesso fino all’ultimo respiro, la figura del nuovo bohémien. Forse è per questo che ancora, nelle aule, risuonano a fatica i nomi di Kerouac, Ginsberg o Burroughs; forse è per questo che anche il mio relatore storse il naso quando gli proposi una tesi su di loro: perché essere beat non è sinonimo di adesione ad un qualche movimento, all’ennesimo –ismo, bensì una condizione comune a tutti nella vita, quando sentiamo forte dentro di noi l’impulso a contestare il condizionamento paterno. Perché ogni generazione ha avuto i suoi beat, “lo stesso movimento

dissidente”, come mi disse parlando dei No-Global Lawrence Ferlinghetti, guru della Beat Generation, a Genova nel 2002, nell’intervista che mi concesse grazie al compianto Antonio Bertoli e che divenne poi oggetto della mia tesi. Finalmente. La stessa dissidenza che Fulvio Renzi ed altri intellettuali fiorentini e non (Pino Bertelli, Sergio Talenti, Stefano Busolin, Alberto Casiraghy, Stefania Costa, Cristina Tosto, Sylvia Zanotto tra gli altri) hanno fatta propria nel Manifesto internazionale di liberazione dell’arte che ha dato l’avvio al progetto BEat2.0 “contro la desertificazione delle idee e il deliberato e perpetuo assassinio dell’Essere Umano”, con gli eventi per l’Estate fiorentina in collaborazione con La Nottola di Minerva avuti luogo al Teatro Studio di Scandicci il 3 e 4 settembre e quelli che avverranno al Caffè letterario le Murate il 27 con Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori ed il suo Artaud in “Iteriezioni” ed il 30 con un “Invito agli artisti” aperto a tutti. Si dovesse cogliere un altro beat, voi non ci vorreste essere?


24 SETTEMBRE 2016 pag. 14

L

’arte in questo momento storico non può esimersi da prendere una posizione dal punto di vista sociale e politico”. Così ha detto a Firenze Alvaro Catalan De Ocon, designer spagnolo ospite del festival Source - Self Made Design. E la frase riassume bene lo spirito della quarta edizione del festival, che, dal 15 al 22 settembre presso l’ex complesso carcerario de Le Murate, diretto dall’architetto Roberto Rubini e organizzato dall’associazione Altrove, ha proposto molti eventi, tra workshop, incontri, e persino un design talent per far assumere un candidato all’azienda Obi (Officina Bigiotteria Italiana). In otto giorni si è indagato il futuro e gli effetti del design sulla vita quotidiana, dal cibo alla biotecnologia, dall’impatto sociale a quello ambientale. Makers, artigiani 2.0, creativi, architetti, sperimentatori digitali, addetti ai lavori e semplici curiosi si sono così incontrati, per creare qualcosa di nuovo, scandagliando tutte le facce della filiera dell’autoproduzione (dal progetto, alla realizzazione, alla distribuzione). Nella tavola rotonda sul futuro del design, coordinata dal giornalista Aurelio Magistà, a cui hanno preso parte la gallerista Margherita Ratti, il designer Francesco Faccin e l’economista Mauro Lombardi, si è parlato di come “La parola design sia consumata e perda un po’ valore. Anche industria e artigianato sono delle categorie del passato, perché l’industria come ce la immaginiamo è già completamente diversa. E invece il design è sperimentazione, deve seguire strategie conoscitive, intuizioni basate su conoscenze diverse e su un ampio orizzonte conoscitivo. Anche perchè il designer oggi ha accesso a tecnologie che vent’anni fa erano solo ad appannaggio delle industrie”. E così a Source il futuro si è affacciato di continuo, sia nelle creazioni in mostra nella sala ottagono di piazza Madonna della Neve (80 creazioni di 30 designer italiani e internazionali, dalla libreria fatta con legno recuperato dai fiumi ai portapenne 3d da stampare e costruire a casa; dal tavolino che si trasforma in skateboard allo specchio che invecchiando diventa scultura) ma anche negli innovativi “Hacking Source”, 7 blind dates, incontri

La fonte dell’innovazione

condotti con un meccanismo a catena e un metodo innovativo di apprendimento. Tornando a De Ocon, il designer - che ha presentato il suo pluripremiato progetto Pet lamp, che riutilizza le bottiglie di plastica pet per convertirle in colorati paralumi - ha aggiunto: “Fino a qualche anno fa, i designer cercavano di rispondere prevaMassimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

Scavezzacollo

Sara Chiarello twitter @Sara_Chiarello di

lentemente a esigenze estetiche e artistiche, invece adesso credo che sia prioritario, quando si progetta, dare attenzione anche alle questioni ecologiche, economiche e funzionali. Ad esempio, utilizzando i prodotti di scarto come materia creativa. Vorrei dire basta agli eccessi: si producono troppi oggetti, e io non credo che ci sia la necessità di così tanti mobili e di tutti questi cataloghi pieni di cose. Per fortuna, proprio dal rifiuto dell’eccesso, vediamo svilupparsi varie realtà di maker che seguono piccole produzioni. Credo che oggi non sia più un’epoca in cui il designer spedisce il suo progetto a una ditta, che a partire da quello realizza un prodotto in serie. Oggi il suo lavoro si lega più alla sua esperienza quotidiana, diventando più intenso, seguendo l’intera filiera della sua creazione, dall’ideazione alla produzione alla vendita. Lo stesso vale per il consumatore, che non ha più bisogno di servirsi di grandi aziende per comprare tutti insieme i mobili di base per la sua abitazione, preferendo scegliere poche cose ma per lui più significative, oggetti che abbiano una storia da raccontare”. Per rimanere aggiornati sulle iniziative di Associazione Altrove www. sourcefirenze.it.


24 SETTEMBRE 2016 pag. 15

Alla Galleria della Rimessa “Benedetto Varchi” di Bivigliano, via della Fonte, si è aperta la Mostra fotografica di Roberto Mosi “Narrare 3.0” che rimarrà aperta dal 16 settembre – 7 ottobre 2016. La Mostra sperimenta la possibilità di raccontare storie con la fotografia. La narrazione, nel caso della ricerca presentata alla Galleria della Rimessa, non si blocca sulla singola immagine, non insegue la foto eccezionale, mozzafiato, cosa che porterebbe a perdere il filo del racconto. Si sofferma invece sulla sequenza delle immagini legate ad una storia, che porta l’osservatore a compiere come un viaggio all’interno delle visioni proposte dal fotografo. La Mostra è composta da 108 fotografie, divise per dodici storie/quadri, che riportano ognuna un racconto con l’illustrazione di nove immagini. All’inizio del lavoro, l’autore ha fissato un progetto fotografico che è partito da un’idea, dal bisogno di raccontare un luogo, episodi della vita. Il progetto non porta alla ricerca della cosa attraente da esaltare ma alla realizzazione di fotografie che hanno qualcosa

Narrare 3.0 Roberto Mosi a Bivigliano

d’interessante da dire all’osservatore, che hanno da comunicare un messaggio, un significato, una visione. Ogni progetto narrativo fissa il punto di partenza, indica l’obiettivo da perseguire, con un titolo

(es. “Narrare la nonpaura”, “Al Canto dei Bischeri” , “Incontro di redazione alla rivista l’Area di Broca”), determina i punti d’interesse, la campagna di acquisizione degli scatti, la scelta delle immagini da inserire nel

L’arte fuori quadro

Slow travel festival

L’arte fuori quadro, un incontro con Achille Bonito Oliva il 29 settembre alle ore 18,30 al chiostro di S.Verdiana nel dipartìmento di Architettura Unifi, in piazza Ghiberti 27.

Tre giorni di incontri, escursioni, arte, musica e natura: dal 23 all’25 Settembre, il borgo e il complesso monumentale di Abbadia a Isola (nel comune di Monteriggioni, Siena) e l’antico tracciato della Via Francigena che lo attraversa diventeranno lo scenario di Slow Travel Fest, il festival interamente dedicato alla cultura del viaggio lento, a piedi e in bicicletta. L’edizione di quest’anno è resa ancora più significativa perché cade nell’Anno Nazionale dei Cammini indetto dal Ministero dei Beni Culturali. Il festival propone ogni giorno incontri con autori e grandi viaggiatori, escursioni tematiche nella natura, laboratori e spettacoli itineranti, così come i concerti serali nello splendido chiostro di Abbadia a Isola. L’iniziativa sarà completamente gratuita e organizzata da Ciclica.cc e Movimento Lento con la collaborazione di Regione Toscana, Toscana Promozione e del Comune di Monteriggioni. Main partner: Associazione Europea delle Vie Francigene, SloWays e Andare a Zonzo (www.slowtravelfest.it).

“quadro” della storia. La scelta, come appare nei quadri/manifesto della Mostra, presenta le dodici storie con un impianto analogo, come si è detto, nove fotografie poste secondo la stessa griglia: 3 in verticale e 3 in orizzontale ( = “Narrare 3.0”). Al visitatore la libertà di scoprire le emozioni, gli interessi che le sequenze rivelano nei percorsi presentati, dalla singola immagine ai capitoli delle storie, all’insieme delle visioni proposte soffermandosi su temi come una kermesse di poeti (Narrare poeticamente), una visita al Giardino dei Tarocchi di Capalbio (Tarocchi in giardino), uno spettacolo teatrale (Al teatro Oklahoma), una visita alla mostra di Cortona (Cortona narra gli Etruschi), un viaggio a Roma nei luoghi invasi dai turisti (È martedì? Siamo a Roma). Un pubblico attento ha partecipato all’inaugurazione, incuriosito dal taglio originale della Mostra, chiedendo vari approfondimenti dei temi e l’origine, ogni volta, delle “invenzioni” fotografiche.


L immagine ultima

C

24 SETTEMBRE 2016 pag. 16

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

ome recita il cartello siamo proprio nel bel mezzo di Wall Street ma se non ci fosse il cartello a testimoniarlo nessuno ci crederebbe. Siamo a fine giornata e la zona è ormai completamente deserta. Sono tutti fuggiti verso casa e la visione ha davvero un che di lunare. L’unico segno di vita rimasto è uno di quegli immancabili spruzzi di vapore che caratterizzano le visioni del downtown della metropoli. Esplodono improvvisamente e altrettanto rapidamente spariscono per apparire nuovamente dall’altra parte delle strada.

NY City, agosto 1969


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