Cultura commestibile 186

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

Tacete

il nemico vi ascolta editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

di

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Roberto Barzanti

N

on si fa che esaltare la Bellezza come principale risorsa di riscatto e rilancio del Bel Paese. Ma se la smettessimo di straparlarne come di un rimedio a portata di mano buono per tutti gli usi? C’è da essere ogni giorno di più infastiditi da un assedio semantico che non dà tregua. Alcune immagini del patrimonio artistico senese – il solito Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti in testa – son montate e proiettate in uno spettacolo serale di grande effetto nello spazio incompiuto del Duomo nuovo sotto il titolo di “Divina Bellezza”. Lo stesso o quasi – “Bellezza Divina” – che ha etichettato a Firenze una visitatissima mostra di Palazzo Strozzi mesi fa. Ora è la volta di Ai WeiWei, sempre a Palazzo Strozzi, del grande e furente artista cinese, criticato dai benpensanti perché sta rovinando la bellezza dell’edificio appendendo alla bifore gommoni rossi che rammentano le tragedie quotidiane dei nostri giorni. Insomma, per superare la crisi depressiva che ci attanaglia in molti continuano ad affannarsi nel predicare un rimedio all’apparenza semplice: far leva

Il televoto della bellezza sulla Bellezza (da scrivere, mi raccomando, con la maiuscola), sguinzagliare le torme dei visitatori per musei grandi e piccoli, indirizzarli verso tesori sconosciuti, verso stupefacenti angoli dimenticati. Se poi domandate a qualcuno di dare una definizione comprensibile e condivisibile dell’invasivo concetto, ascolterete divagazioni imbarazzate o assisterete al più impacciato dei silenzi. Il cinema ci ha messo del suo e da quando impazza “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino (filmone ora diffuso anche in versione allungata) è tutto un inneggiare alle meraviglie occulte,

o occultate, del Bel Paese. La televisione non ha voluto essere da meno e i TGR trasmettono una rubrica che ha l’originale titolo di “Bellitalia”. Il governo ha inventato una mail (bellezza@ governo.it) cui inviare immagini del patrimonio pubblico a rischio, da recuperare o restaurare. Cìè da distribuire una torta di 150 milioni da parte di una commissione composta non si sa da chi. E l’iniziativa sembra aver riscosso un certo successo. Gli italiani si son dati da fare: sono arrivate all’indirizzo di cui sopra ben 139.759 mail, per un totale di 2.782 luoghi segnalati. Il metodo di selezio-

ne è il televoto, come si fa per una Miss: non è anche lei una bellezza da esaltare? Perfino la Carta costituzionale ha subito l’affronto di essere esaltata per la sua bellezza: categoria quantomai impervia da applicare ad un testo giuridico. Vittorio Sgarbi e Michele Ainis si sono strenuamente impegnati in un commento della Carta del ’48 tra il dannunziano e l’antiquariale, usando quadri e sculture per spiegare il singolare connubio. È poi frequente invocare un detto ricavato da Dostoevskij e scarnificato a orecchiabile slogan: “La Bellezza salverà il mondo”. Dovrebbe essere noto che la Bellezza che il grande russo mette in bocca al principe Mynski non ha niente in comune con le qualità di solito assegnate ad un eccellente “bene culturale”. Ha piuttosto a che fare con


Da non saltare

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una dimensione spirituale, con uno slancio religioso di mistico vigore. I filosofi da tenere oggi a guida hanno da tempo abbandonato la pretesa di stabilire canoni estetici universali o almeno di ampia condivisione. Non c’e nulla di più soggettivo, contingente e arbitrario che connotare come dotato di bellezza un fenomen qualsiasi della nostra esperienza. Ogni epoca ha avuto le sue sensibilità, i suoi codici. Le Crete senesi, diventate così fascinose e reclamizzabili, erano terreno insopportabile e arido per chi le traversava a fine Settecento. Carlo Goldoni ne fuggì atterrito. Stendhal non subì alcuna attrattiva. I capolavori del gotico erano degnati di uno sguardo distratto fino a quando i “primitivi” non furono recuperati e tesaurizzati quali manufatti di culto tra la fine dell’Ottocento e il nuovo secolo. L’umana bellezza è stata ed è una sensazione mutevole. Né un paradigma, né una norma. Allora è vano o equivoco sbandierarla come un parolone che consola e risolve problemi che, invece, devono essere affrontati ognuno con strumenti propri e specifici. Si faccia ricorso al lessico dell’economia o alle dottrine del diritto, ai manuali di architettura o ai trattati di urbanistica. Certo i vecchi repertori non servono più. Ma per rinnovarli e costruire un condiviso linguaggio civile e culturale non si faccia ricorso a quanto di piú indefinibile e individuale esista. Per le nostre città assediate e per i paesaggi feriti da disinvolti abusi è opportuno e confacente giovarsi di un obiettivo più modesto e più circoscrivibile. Per esempio del criterio della “decenza”. Parola umile e severa, poco adatta al clamore della grancassa pubblicitaria o al superlativo di irripetibili esperienze. Ma – si sa – quanto più un concetto è astratto o naviga nelle nebbie di un popolaresco sublime tanto più è spendibile nel mercato delle idee vuote. “Non ci rendiamo conto – ha spiegato l’attore Alessandro Bergonzoni – che la bellezza è un fatto di salute, fa parte di noi, è viva. Cosa da Mi(ni)stero della Salute”. Un Ministero più disgraziato non glielo potevano trovare.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

La cena aziendale a Palazzo Pitti

I Cugini Engels

Un po’ maresciallo, un po’ demolitore

Colpito dalle polemiche sull’addio al celibato che si sarebbe tenuto a Palazzo Pitti la scorsa fine settimana, il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, è corso ai ripari con un comunicato stampa recapitato l’indomani sabato 24 settembre a tranquillizzare tutti che tutto si era svolto nella norma, che i suoi pochi ma solerti funzionari avevano controllato che tutto si svolgesse nella cura e nel decoro e che i beni museali fossero salvaguardati. A parte il fatto che molta parte delle critiche, prima fra tutte quella di Tomaso Montanari, non vertevano sulla “pericolosità” materiale di tali eventi ma della loro “correttezza” rispetto all’uso “privato e privatistico” dei beni culturali; il comunicato di Shmidt reca una evidente e colossale balla. Nel comunicato infatti si legge che non di addio al celibato si sia trattato ma di “cena aziendale, come dichiarato sin dall’inizio da co-

loro che hanno chiesto lo spazio”. Cena all’interno del quale, quasi casualmente, si sarebbe brindato (“con battimani”) al presidente della compagnia che l’indomani (uno a volte dice le coincidenze) si sarebbe sposato proprio a Firenze all’interno di Santa Maria Novella. Ora bastava che il direttore (o il suo ufficio stampa) facesse un giro sui social per capire che almeno questa panzana se le potevano evitare. Basta prendere il profilo instagram di Elena Santarelli, invitata alla cena e al matrimonio, per capire che non di cena aziendale si trattava, ma di vera e proprio festa di nozze anticipata. Bastava leggere l’hastag che recita #wedding; e persino Shmidt, più a suo agio di noi con le lingue, difficilmente lo avrebbe potuto tradurre con “cena aziendale”.

Lo Zio di Trotzky

La cena delle beffe

La Manifattura Tabacchi di Firenze è stata teatro di una cena elegante (la citazione berlusconiana è del tutto casuale) organizzata dal primo cittadino Dario Nardella per dare il la al si che fa partire il re-ferendum. Nardella è tornato ai tempi della parrocchia in cui, nella sua veste di capo-chierichetto, era un grande organizzatore di eventi di raccolta fondi. Ne ha inventate di tutti i colori per allietare la serata. Ma la più originale è stato il gioco a quiz con 15 domande alle quali i commensali sono stati chiamati a rispondere, mentre il professor Carlo Fusaro leader dei giuristi per il Sì con la matita sorra e blu si preparava a correggere le schede. Ma per evitare scivoloni e facili polemiche, è intervenuto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri, Luca Lotti. Da vero problem-solving-man il Lotti è giunto da Roma con le schede per il quiz e le ha personalmente distribuite ai tavoli. Aperte le schede i commensali si sono messi subito alacremente al lavoro, sotto lo sguardo compiaciuto di

Nardella e quello un po’ più sornione di Lotti. “Grande Luca! Ma come hai fatto a preparare in così poco tempo le schede?” “Oh Dario, non son mica ripescato dall’ultima piena dell’Arno: sono andato alla tipografia che dovrà predisporre le schede per il referendum e mi sono fatto fare 1.600 schede per il tuo quizzone costituzionale” Intanto il prof. Fusaro si aggira fra i tavoli: “Su, ragazzi, lavorate e non copiate, mi raccomando. A chi sbaglia più di tre domande tre colpi di righello sulle nocche delle mani! Coraggio, fate vedere a quei buzzurri del No come siamo preparati noi del Sì!” “Scusi prof – alza timidamente la mano la vice sindaca Giachi – ma non capisco questo termine tecnico: cosa si intende con bicameralismo? Ma che si può vivere in un appartamente di sole due camere, dai!” Al tavolo accanto gli assessori Gianassi e Bettarini si scambiano i bigliettini con le risposte copiate dal

Si sa che il nostro amato leader, in arte Renzi Matteo da Rignano, è un carattere volitivo. Tanto da evocare un classico della letteratura quale è il romanzo di Robert Louis Stevenson, “Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde”. Come nel romanzo dello scrittore scozzese nella stessa persona convivono non solo due diverse, finanche opposte, personalità, ma anche due individui diversi, così nella figura del presidente del Consiglio Matteo Renzi coesistono due entità contrapposte. Ne abbiamo avuta riprova alla inaugurazione, in gran spolvero, della nuova Scuola dei Marescialli dei Carabinieri a Firenze lo scorso 24 settembre, quando mister Renzi Hyde ha aperto il suo molto istituzionale intervento con un ispirato: “Questo è un giorno che pensavo non potesse venire mai. Nella mia precedente esperienza amministrativa ho sempre sognato di vedere realizzata

Bignami della riforma, magistralmente computato dal sindaco Nardella, versione giurista. Invece la Titta Meucci, che ne sa di diritto, impartisce lezioncine a destra (e ce n’era molti) e a manca (fila invece più scarne da quella parte). L’assessore Vannucci si rivolge stranito al vicino Eugenio Giani: “Ma Eugenio, o guarda che strana la mi’ scheda: c’ha un sacco di X. O come mai?” E il presidente di sottecchi: “Via Andrea, fai finta di nulla: son le schede di’ Lotti. Tu lo sai, è un uomo pratico, che non va tanto per il sottile” Giuliva, dopo 10 secondi, si alza festante l’assessore Funaro: “Io l’ho già compilata!!! Sono la prima!!! Cosa ho vinto?”. Nardella la stoppa: “Stai bonina Sara. Almeno fai finta di aver letto le domande!” L’unica che appare indispettita è l’assessore regionale Saccardi che alla fine sbotta: “Oh Dario, ma che ci pigli per il sedere?! Queste schede le son farlocche! Come te!”. Interviene prontamente il maestro Fusaro che,

questa Scuola. Sembrava difficile che avvenisse, nonostante tutte le peripezie ci siamo riusciti e oggi è un giorno di gioia per tutti”. Ma esiste anche un altro Renzi, il dottor Jekyll Matteo, più ruspante, allucinato rivoluzionario, rutilante rottamatore, Questo personaggio, certamente più inquietante ma molto più epico del compassato mister Hyde Renzi, ebbe a dichiarare, sulla medesima Scuola Marescialli nel luglio 2012, mentre demoliva il prospiciente campo rom dell’Olmatello: Se potessi manderei le ruspe anche a demolire la Scuola dei carabinieri qui davanti”. Ma allora questa Scuola nel 2012 era un sogno come Renzi (Hyde) dichiara nel 2016, oppure era un incubo come diceva Renzi (Jekyll)?

raccolte le schede, si appresta a correggerle: “Allora, qui non c’è nessuno che ha preso la sufficienza!!! Le avete sbagliate tutte! Ciuchi! Ma possibile? Non ho mai letto tante castronerie come questa in vita mia! Il Consultellum maggioritario e l’Italicum proporzionale??? Ma avete bevuto? Gli USA una Repubblica parlamentare e la Spagna una Repubblica presidenziale? Roba da pazzi! E poi vorrei sapere chi ha scritto a mano Zagrebelsky boia! Allora, ora tutti a ripetizione da Nardella e poi il gioco lo rifacciamo fra un mese per vedere se siete migliorati!” Fra i commensali si è diffuso il panico, mentre Lotti è stato notato imboccare l’uscita alla chetichella. Ma tutto è tornato alla tranquillità con la lotteria (che in palio metteva due biglietti in tribuna per la partita Fiorentina – Juventus. Ottimo e abbondante il catering, la rapidità del servizio e anche il servizio d’ordine. Conclusioni affidate all’immancabile Eugenio Giani (senza fascia regionale, ma con una tricolore per l’occasione). Pregevole iniziativa


Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it

Un fotografo italiano a Londra

racciare i confini geografici della storia dei fotografi italiani potrebbe risultare ben più difficile di quanto sembri, e questo non solo perché l’Italia ha cambiato più volte i propri confini nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, ma anche perché, se molti sono i fotografi stranieri operanti per periodi brevi o lunghi in Italia, anche i fotografi italiani, per nascita, lingua e cultura, che hanno operato, volenti o nolenti, e per periodi più o meno lunghi all’estero, sono per lo meno altrettanti. Come tutte le storie, anche quella dei fotografi italiani, ha molte facce, ed analizzarle tutte, in un disegno complessivo, sembra molto più complicato del previsto. Se è vero che l’Italia si è formata lentamente, aggiungendo, ma a volte anche perdendo, dei pezzi, dobbiamo considerare almeno un poco italiani i primi fotografi operanti a Nizza prima della cessione alla Francia, molti dei quali vi rimangono anche dopo il 1860. Dobbiamo considerare un poco italiani tutti quei fotografi dal cognome italiano, slavo o tedesco, che hanno operato nelle zone di confine, come i fotografi di Trieste e di Gorizia, che hanno operato nel periodo precedente all’annessione di quelle terre all’Italia, quando gli stessi partecipavano alle Esposizioni italiane o internazionali in qualità di sudditi dell’impero austro asburgico, e perfino quelli operanti fra Fiume, Zara e Pola, nell’Istria che è stata anche ufficialmente italiana, ma solo per un certo periodo. La stessa situazione si trova in Alto Adige (o Sud Tirolo), fra Bolzano, Merano, Bressanone e Brunico, dove fino ad una certa data hanno operato fotografi di lingua tedesca, molti dei quali sono rimasti anche in seguito, mentre alcuni dei fotografi operanti nel Veneto prima dell’annessione hanno preferito tornare ad operare fra Vienna e Graz. Forse sono un poco italiani anche i fotografi ticinesi fra Lugano e Bellinzona, e sicuramente sono ancora un poco italiani i fotografi costretti essi stessi, oppure i loro genitori, ad abbandonare l’Italia per poco o per sempre. Fino dall’Ottocento abbia-

mo trovato, in posizioni non secondarie, dei fotografi italiani disseminati fra Persia, Giappone, Russia, Cina ed India, per non parlare della numerosa colonia

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di fotografi italiani presenti oltre oceano, sia negli Stati Uniti che in America Latina. Soprattutto a Buenos Aires molti dei più importanti fotografi attivi fra la

fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sono italiani o figli di italiani, come Luigi Bartoli, Angelo Paganelli, Cesare Bizioli o Saverio Stoppani. Senza bisogno di allontanarsi troppo dall’Europa, abbiamo il caso di Alexander Bassano (1829-1913), secondo figlio maschio, ma sesto di otto figli, di Clemente Bassano, un pescivendolo di Cranbourne Street, poi commerciante di olio, ed infine titolare di un magazzino in Jermyn Street. Alexander compie studi artistici, ed apre il suo primo studio fotografico nel 1850 in Regent Street, si frasferisce a Piccadilly fra il 1859 ed il 1863, poi sul Pall Mall ed infine al 25 di Old Bond Street nel 1877. In realtà sotto il nome “Bassano”, “Bassano and Davis”, “Bassano Limited” e “Bassano Studio’s Limited” vengono aperte diverse filiali in diverse zone di Londra, fra Regent Street, Oxford Street, Piccadilly ed Alpha Street, e perfino a Brighton in King’s Road fra il 1893 ed il 1899. In realtà l’attività dello studio prosegue con il nome “Bassano” fino al 1926, ventitré anni dopo il ritiro di Alexander dagli affari, e tredici anni dopo la morte del fondatore, per sopravvivere come archivio editoriale fino ai giorni nostri. L’ampio studio di Old Bond Street, decorato con raffinate stampe al carbone e busti in gesso, viene all’epoca attrezzato con un fondale panoramico largo ventiquattro metri, decorato con diverse scene di interni ed esterni, adatto ad ogni tipo di ripresa fotografica, dal ritratto ai gruppi alle scene di genere. La popolarità ed il prestigio dello studio Bassano è tale da fargli conquistare il favore della corte d’Inghilterra, permettendogli di ritrarre in più riprese la regina Vittoria, i suoi famigliari, personalità della corte e dell’aristocrazia, oltre ai regnanti e dignitari stranieri di passaggio nella capitale. Il trasferimento dell’archivio, avvenuto nel 1921, comporta lo spostamento di circa un milione di negativi su lastra di vetro, tutti scrupolosamente registrati e numerati. Di questo patrimonio una piccola parte, costituita da oltre duemila lastre, è conservata presso la prestigiosa National Portrait Gallery.


1 OTTOBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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l nuovo volume di Lamberto Pignotti Diario corale 1962 – 2015, primo libro della collana “Asserzioni” (edizioni Milella) curata da Salvatore Luperto, è stato presentato al Museo Macro di Roma, riscuotendo un enorme successo di pubblico e di critica. La monografia raccoglie una ponderata scelta di immagini massmediatiche, sulle quali l’artista è intervenuto annotandone le date. La narrazione visiva procede dalla prima all’ultima pagina come una carrellata di frammenti storici: un viaggio nella quotidianità che prende la forma di un diario di ampio respiro umanitario, poiché come genere letterario esce dalla dimensione privata per farsi “corale” e accomunare qualsiasi tipologia di lettore. L’autore è riuscito a integrare la pratica artistica del taccuino con l’ambito poetico e isolato della cronaca e della memoria, reinventando il fare letterario e introducendo nel panorama editoriale l’estetica visuale. In definitiva la prassi artistica di Lamberto Pignotti può essere definita come il tentativo di riabilitare il gesto poetico nei vasti orizzonti dell’estetica contemporanea, unendo il testo al contesto, la poeticità all’artisticità, la parola all’immagine, facendole dialogare insieme e convivere, ma al tempo stesso si tratta del tentativo di orga-

Diario

nizzare, analizzare e rendere fruibile al pubblico il presente storico. Non a caso la poetica visuale dell’artista è il campo di sperimentazione di un’Arte sinestetica in cui la fruizione artistica è coinvolgente sia nella ricezione che nell’elaborazione intellettuale e concettuale dell’opera d’arte, da parte di un pubblico attento e diretto a cogliere la simultaneità e la plurisensorialità di tali sperimentazioni. È il tentativo d’altronde di proporre e riproporre all’attenzione del pubblico i messaggi più elementari, naturali, ricorrenti della Storia umana e perciò più dimenticati dall’individuo assoggettato dalla società repressiva tipica di questa caotica attualità. Un progetto mirato alla fusione di tutte le arti e all’apertura di nuove frontiere di espressione creativa, in cui calco, trascrizione, ripetizione, paradosso, contaminazione e concentrazione si qualificano come nuove figure retoriche, i nuovi stilemi grazie ai quali il poeta moderno può esprimersi e comunicare. Si tratta, certamente, di un lavoro filologico che procede nella direzione opposta all’ordine e alla linearità dei canoni letterari classici e consacrati: un’azione poetica che oltre a essere un vero e proprio gesto critico e intellettuale sul supporto, rovescia gli equilibri e porta il lettore alla lettura e alla riflessione.

corale Lamberto Pignotti


1 OTTOBRE 2016 pag. 7 di

Mariangela Arnavas

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l Cantiere a Livorno è antico simbolo della città che ancora resta nella memoria, quella di una fabbrica aperta sul mare. Fino a quarant’anni anni fa il varo delle navi era la catarsi di mesi di lavoro di centinaia di lavoratori, ingegneri, operai, maestranze, imprenditori, che insieme ai cittadini assistevano, con il fiato sospeso, allo scivolamento in acqua, tutti con la consapevolezza che eventuali errori avrebbero potuto far saltare mesi e mesi di fatica, impegno, investimenti, insomma una rovina, ma quando la nave scendeva con pesante eleganza in mare per tutti il sollievo dava un po’ di fiducia nel futuro. Da anni il Cantiere con la C maiuscola a Livorno non c’è più; con dignità, negli stessi luoghi, si fabbricano yacht che sembrano giocattoli rispetto al passato. Apprezzo molto, quindi, la definizione di “cantiere” data da Virgilio Sieni al suo lavoro artistico a Livorno, la apprezzo proprio per il coraggio di sfidare, in qualche modo, la nostalgia dei Livornesi per quel Cantiere, nostalgia che si lega, purtroppo all’evidente decadenza economica del tessuto industriale e in generale attivo di questi luoghi. Ci vuole coraggio per inserirsi nel corpo di questa città, ferito dalle troppo sconfitte ma l’energia vitale, piena di grazia, negli spettacoli finali del progetto che si è

I cantieri del gesto

concluso a Livorno dal 16 al 18 settembre riesce a dare leggerezza e respiro al tessuto in cui è stata ricamata. Nei Granai di Villa Mimbelli, gli spettatori navigano intorno ai corpi, alla musica dei loro strumenti, al loro canto, confinati ai margini solo da una sottile linea bianca di nastro adesivo; il corpo al centro recupera la bellezza,

aldilà dei canoni estetici, attraverso la carezza e il contatto o il movimento libero nella cadenza rituale. Ci sono adulti e bambini, musicisti del Conservatorio Mascagni, della Scuola media e di Scuole di musica del territorio che hanno partecipato al progetto, al lavoro artistico anche se non sono professionisti della danza, ma

l’imperfezione nel loro muoversi è così sapientemente guidata e insieme lasciata libera dal regista che aggiunge solo bellezza al movimento. E infine, la marcia danzante alla Terrazza Mascagni restituisce al mare, tragicamente segnato dalle morti dei migranti e miraggio ormai del passato benessere della città, il suo valore di speranza.

Torna il Florence Short Film Festival

Il Florence Short Film Festival è una manifestazione volta a dare respiro e diffusione alla cinematografia giovane e libera e vuole essere una ribalta per giovani registi in cerca di un’opportunità per mettere in mostra il loro valore davanti ad esperti e giornalisti del settore e, cosa ancora più importante, davanti ad un pubblico che conta centinaia di persone. Giunto alla sua terza edizione, il festival vede centinaia e centinaia di sottoscrizioni da tutto il mondo, assurgendo a vero e proprio festival internazionale del corto cinematografico! Inoltre il festival raddoppia le giornate dedicandole rispettivamente all’animazione e alla fiction, la location rimane l’Odeon, tempio del cinema fiorentin


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Un’altra Bretagna

Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

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eravigliosi paesaggi marini immersi nella nebbia atlantica, baie e ampie vallate, casette bianche con le finestre colorate: siamo in Bretagna, la regione che segna l’estremità nordorientale della Francia. Qui è ancora molto viva la cultura celtica, la stessa che si trova in Galles, Irlanda, Scozia. Ancora una volta questa diversità culturale trova espressione nella musica. Strumenti come la cornamusa, l’arpa celtica e il biniou (simile all’oboe) risuonano ovunque, dalle feste serali (fest-noz) all’imponente Festival interceltique che ogni anno raduna musicisti di tutta l’area celtofona. Ma la musica bretone non è soltanto quella tradizionale a base di arpe e cornamuse, che grazie ad Alan Stivell ha superato i confini locali per diffondersi in tutto il mondo. Da questa terra, infatti, viene anche Yann Tiersen, noto al grande pubblico per le sue colonne sonore (Il favoloso mondo di Amélie, Goodbye Lenin!, etc.). Meno nota, ma ancora più stimolante, è la musica di Didier Squiban. Nato nel 1959, il pianista bretone ha sviluppato un percorso originale nel quale convergono le influenze più varie: da Keith Jarrett a Erik Satie, da Claude Debussy alla musica tradizionale bretone. Nella sua ampia discografia si alternano brani pianistici complessi e struggenti (Trilogie pour piano, 2001), ampie composizioni orchestrali (Symphonie Bretagne, 2000) e collaborazioni con artisti legati alla tradizione celtica, come il chitarrista Dan Ar Braz e il poeta Manu Lann Huel. Recentemente questo musicista atipico ha pubblicato il CD Sonate en trio (Coop Breizh, 2016), dove è affiancato da altri due bretoni, Bernard Le Dreau (sassofoni e clarinetto) e Jérôme Kiruhel (tablas e percussioni). I tre avevano già collaborato più volte sia in studio che dal vivo. Nel nuovo disco vengono ripresi e riarrangiati dei temi scritti da Squiban per i suoi dischi precedenti, ai quali si aggiungono due inediti: “Keramoal”, composto da Kiruhel, e “Co-nais-

sance”, dove spicca la voce del bardo Manu Lann Huel. Il CD, ricco di melodie ammalianti e mai banali, conferma ancora una volta il valore e l’originalità del pianista. Entro il 2016 Squiban pubblicherà Symphonie du Ponant, la sua terza sinfonia dopo la di

suddetta Symphonie Bretagne e Symphonie Iroise (2004). Chi vuole conoscerlo meglio può leggere Conversations avec Didier Squiban. Les tribulations d’un musicien breton (Coop Breizh, 2015), curato dal Frédéric Jambon, redattore musicale del quotidiano Le Télégramme. In

questo libro il giovane musicologo, che segue il compositore fin dall’inizio della sua carriera, ha raccolto una serie di interviste che abbracciano l’intera carriera del musicista. Un libro agile ma ricco di sostanza, dove Squiban e Jambon discutono in piena libertà come due vecchi amici.

in Francia 801mila, 777mila nel Regno Unito e 738mila in Germania. In Europa la popolazione cresce solo grazie agli immigrati. Possiamo consoliamoci - si fa per dire - con i decessi: qui siamo più bravi sia della Francia che del Regno Unito. Siamo maglia nera in Europa per la povertà. 7 milioni di italiani sono costretti a vivere con “gravi privazioni materiali”. L’11,5% della popolazione non è in grado di affrontare una spesa imprevista, di concedersi un pasto decente ogni 2 giorni e di mantenere una casa. In Germania sono solo il 5%, in Francia il 4,5. Fatto sta che la metà degli italiani (il 48%) non può permettersi una settimana di vacanza fuori casa. Altro record. Le persone senza lavoro. Mentre la disoccupazione cala – anche se di poco - in tutta l’Europa (dal 10,4 al 10,3%) da noi cresce e sale all’11,7%. Per non parlare di quella giovanile. In Ue ferma al 21% mentre qui sale al 39. Differenze consistenti, non bruscolini.

E poi ancora. L’Italia che non cresce. Se l’Europa deve accontentarsi di più 0,3% noi siamo messi ancora peggio. Per non parlare dei giovani Neet, quelli che non fanno nulla (non studiano e non lavorano). Sono il 31% dei nostri ragazzi tra i 20 e i 24 anni. Mentre in Olanda, Danimarca, Germania e Svezia stanno tutti sotto il 10%. Viene spontaneo pensare: ma perché non ci facciamo un giretto in Europa per capire come fanno e poi provare a copiare?! E per favore non diteci che “Basta un Sì”.

Remo Fattorini

Segnali di fumo Finalmente primi. Siamo il Paese europeo con la quota più alta di ultraottantenni: il 6,5% pari a 4 milioni di persone. Ce lo dice Eurostat che ci dà in crescita: nel 2005 eravamo al 2° posto, dietro la Svezia. Ma si passa dal primo al 4° posto per le aspettative di vita degli ottantenni. Peggio di noi: Grecia, Spagna, Francia e Portogallo. Da Bruxelles ci fanno anche sapere che da noi le aspettative di vita sono, per la prima volta, in calo. Conseguenza – dicono – della riduzione della prevenzione delle malattie. Andamento che tocca, anche se in misura diversa, tutte le regioni del belpaese. Scorrendo le pagine di Eurostat di record ne incontriamo tanti. Ahimè, tutti negativi. Siamo il paese europeo con il tasso di natalità più basso, con 486mila nati nel 2015,


1 OTTOBRE 2016 pag. 9 Angela Rosi angela18rosi@gmail.com di

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l viaggio è distanza, abbandono, fuga, fantasia, fiducia, possibilità di cambiamento, apertura, libertà - U.S.A. Western Dream - attraversando il deserto dell’ovest è spontaneo pensare all’arte e a Dio, alla vita ed alla possibilità di sopravvivenza sempre e comunque in ogni contesto. Di un viaggio così rimangono le distanze incredibili per noi europei, tutto è molto grande, esteso, la strada, sempre dritta, percorre chilometri di spazi infiniti e deserti. Negli occhi rimane impresso il colore rosso nelle sue tante tonalità, arancio, sangue, porpora e poi i gialli, i bianchi e i neri delle terre vulcaniche. Rimangono i tramonti, con le rocce rosso fuoco, e il calore intenso del sole sulla pelle che brucia e scalda l’animo. Qui sembra tutto potente, il sole, il caldo, la pioggia, ogni evento è più grande di quello che conosciamo. I temporali arrivano all’improvviso, il cielo si fa nero, l’acqua scroscia e poi un arcobaleno grande con i colori che si distinguono perfettamente. Il sole riscalda, l’aria è secca e lascia respirare senza fatica. Per chilometri non s’incontra nessuno né paesi o case sparse. In questo territorio la natura è padrona, bella e terribile, è la Grande Madre dispensatrice di vita e di morte, essa costringe l’Ego a limitarsi per convivere con lei. La natura ha creato opere d’arte all’aperto, a noi non rimane che ammirare e rimanere sconcertati dalla tanta bellezza e ordine. Il deserto è popolato di esseri che si ergono, le rocce sono stratificate e spesso camminiamo nella sabbia dal colore arancio o rosso ferro. La natura è imponente e si impone, esige di essere rispettata ed ascoltata. Questi luoghi parlano ma per ascoltarli veramente dobbiamo camminarci dentro con religioso silenzio e rispetto o sedersi nel mezzo per sentire la pace e allora diveniamo un granello di quella stessa sabbia che tutto il giorno calpestiamo, parte di tutto ciò che vediamo, sentiamo e percepiamo. Cediamo al fascino dei luoghi che si raccontano mentre i grandi paesaggi ci conducono all’ascolto, innanzitutto di noi

Pollock e i grandi deserti del dio americano stessi, perché davanti a questi spazi incredibili non si può far altro che ascoltare ed aspettare. Ascoltare la voce del vento, i movimenti degli uccelli e altri animali sconosciuti, immaginare la vita notturna. Questi luoghi esigono il silenzio e ci invitano a trovare un nostro spazio interiore dove poter sostare per riposare, meditare e rigenerarsi perché solo nel nostro grande spazio possiamo trovare serenità, gioia e creatività. Le relazioni nascono in questo spazio interiore, è qui che ci incontriamo. La libertà che percepiamo ci apre a una parte di noi sconosciuta, uno spazio interiore localizzato al centro del petto, vicino al cuore dimora della luce interiore. Le grandi distanze dell’esterno conducono a ri-trovarci nel nostro

Sergio Favilli sergio.favilli@libero.it di

Che quelli del Movimento 5 Stelle avessero le idee confuse ed un po’ curiosamente antidemocratiche era il dubbio di molti, dubbio che si sta tramutando in certezza. La base grillina, con il nuovo sistema informatico Rousseau, è stata interrogata sulle priorità del paese per preparare due disegni di legge da confezionare, sempre in rete, con l’ampia partecipazione degli iscritti. Quali sono le due priorità prescelte? Soluzione del debito pubblico?? Messa in sicurezza delle scuole italiane?? Piano di investimenti nella ricerca?? Lotta all’evasione fiscale?? Niente di tutto questo!! Le prime due proposte di legge scaturite dalla base del M5S riguardano l’abolizione del “vincolo di mandato” e la riapertura delle case di tolleranza. La prima proposta si commenta da sola , modifica l’Art. 67 della Costituzione per togliere ai rappresentanti del popolo la completa libertà di espressione e modifica pure i regolamenti parlamentari in vigore, ma non solo!!! I seguaci di Di Battista & C., non sanno che il vincolo

spazio interiore per dialogare col divino, in questo caso il divino è la natura che rimane negli occhi e nel cuore. L’arte che ne scaturisce è un’arte di riflessione, introspezione, di grandi fogli, e grandi tele bianche dove versare il pigmento a strati in una sorta di estasi religiosa. L’artista Jackson Pollock (1912 – 1956) ha trovato in se i grandi spazi dell’ovest e in questi spazi ha creato, ha dipinto con strati pittorici, dripping, sovrapponendo i colori sulla tela come ha fatto la natura evento dopo evento, erosione dopo erosione, strato dopo strato. Il suo primo impatto è stato con il suo grande spazio interno diventato la grande tela bianca stesa a terra proprio come l’impatto sperimentato con l’immensità di Western Dream.

Case chiuse a 5 stelle

di mandato è stato sperimentato nella Comune di Parigi e nelle Repubbliche Socialiste del secolo scorso, due pessimi esempi di democrazia: ma i vari Toninelli, Buonafede ed altri, plurilaureati in legge, hanno forse frequentato l’Università di Pyongyang ?? Riguardo alla seconda proposta ne avevamo avuto sentore in quanto il Cavaliere, memore del famoso Bunga Bunga e desideroso di rientrare in partita con nuovi alleati, ha acquistato la sua nuova dimora romana, appunto, in via delle

Zoccolette!!! Che fiuto!!! Sicuramente vede nei pentastellati i suoi nuovi potenziali elettori. La base grillina, forse composta in buona parte di maschietti, ha ritenuto questa una italica priorità e presto sarà presentata in Parlamento una proposta di legge atta alla bisogna. L’On. Di Maio che, come sappiamo, la mattina fa colazione con pane e volpe, ha già indetto una conferenza stampa per presentare al paese il nuovo piano pluriennale italiano di edilizia sociale : le case chiuse!!!!!


1 OTTOBRE 2016 pag. 10

E se il proporzionale non fosse una

Michele Morrocchi twitter @michemorr di

Q

ui da noi il dibattito sul proporzionale non è neanche iniziato che già finisce nella solita caciara elettorale o al massimo nella nostalgia della prima repubblica; e se invece tale dibattito fosse il possibile preludio a una nuova repubblica? La sesta in particolare. Sì perché è di Francia che andremo a parlare: Paese che per anni è stato modello dei maggioritari di casa nostra, troppo spaventati del maggioritario secco anglosassone, così attratti da quel doppio turno capace, sulla carta, di conciliare partiti strutturati e individualità. Dalla Francia viene infatti un volume di Daniel Cohn-Bendit e Hervé Algalarrondo dal titolo significativo Et si on arrêtait les conneries? (E se la smettessimo con le cazzate? Fayard 2016) in cui i due autori (uno leader del maggio ’68 poi europeista e ambientalista, l’altro intellettuale di sinistra) argomentano la tesi che il maggioritario ha ormai condannato la Francia a governi di minoranza e dunque all’impotenza politica. La necessità di riunire le forze al secondo turno di ballottaggio infatti ha fatto sì che da un lato l’astensionismo, dall’altro il bisogno di fare fronte comune contro il nemico, hanno portato all’Eliseo (ma anche alla guida delle città e nei seggi parlamentari) politici che non godono, una volta al potere, che di scarso consenso elettorale e che quindi la Piazza, nel caso di governi gollisti, o i gruppi di pressione, nel caso dei governi socialisti, impediscono il dispiegarsi pieno dell’azione di governo e delle riforme necessarie. Certo non è stato sempre così, il momento di rottura, individuato nel libro, è la riforma del 2002 che ha fatto coincidere la durata del Presidente della Repubblica con quella del Parlamento, portando la presidenza da 7 a 5 anni. Tale riforma pensata per impedire la coabitazione tra un Presidente di un colore e una maggioranza di segno opposto, dunque per garantire la fatidica governabilità, si è invece rivelata come la vera azzoppartice della capacità di governo francese. D’altra parte l’eterogenesi dei fini è un male piuttosto conosciuto quando si vanno a modificare i meccanismi di garanzia, quelli che gli americani chiamano check and balance. In più, aggiungono gli autori, la prossima sfida presidenziale del 2017 vedrà peggiorare la situazione a causa dell’ascesa della Le Pen. La possibilità ormai concreta che la leader populista acceda al ballottaggio a causa di un

voto massiccio (a differenza del padre che ci si ritrovò più per le divisioni della sinistra che per meriti propri) porterà l’avversario che la sfiderà (sia esso di centro destra o di centro sinistra) a chiamare un nuovo rassemblement pour la Répubblique che però avrà la durata del ballottaggio ma non avrà la forma di un susseguente governo di unità nazionale (dunque realmente maggioritario nel Paese). E’ quello che è accaduto alle elezioni regionali dove, nonostante il FN sia il primo partito del Paese, non ha eletto nessun presidente di Regione, bloccato da alleanze elettorali che non si sono mai trasformate in alleanze di governo, non impedendo così all’elettorato del fronte popolare di ridursi ma anzi facendone aumentare i consensi proprio a causa dell’inazione governativa. Casi diversi si sono avuti invece in alcuni comuni, tra i quali Bordeaux, governata da uno dei possibili competitor del 2017, il centrista Alain Juppé garantendo invece una governabilità e un consenso ampio. Ma quale modello alternativo propongono i due autori per smetterla con le conneries di governi minoritari? Per prima cosa i due oltrepassano il Reno e ci raccontano che nella florida Germania, motore dell’economia europea e modello di stabilità politica, il non aver mai ceduto alle lusinghe della governabilità ha garantito crescita, consenso e lo sviluppo di una leadership, interna ed esterna, all’ascesa di una premier forte e riconosciuta come la Merkel (incommensurabilmente più potente di qualunque Sarkozy o Hollande). Dunque il proporzionale come primo vero strumento per ridare rappresentanza al consenso del Paese. Questa la prima gamba del progetto, la seconda invece, sempre sul modello tedesco, è la fine dell’ostracismo verso i governi di coabitazione tra destra e sinistra, gli unici, secondo gli autori,

in grado di garantire il rispetto della vera maggioranza politica del Paese, bloccare su basi politiche e non tecniche i populismi e costruire una vera e nuova classe dirigente, improntata sul rispetto reciproco. Dunque questo significherà la fine di destra e sinistra? Tutt’altro. In Germania nessuno ritiene il programma elettorale della CDU-CSU sovrapponibile a quello della SPD, ma proprio a partire da quelle differenze hanno saputo mettersi insieme, conclusa la campagna elettorale, per il bene del Paese. Per i due autori il governo di coalizione non deve essere il modello unico possibile, ma nemmeno essere una possibilità da escludere a priori e anzi, nella situazione attuale della Francia, uno dei pochi in grado di garantire la governabilità e persino la nascita di un leader forte e autorevole, capace di drenare consenso ai populismi montanti. Insomma anche il mito dell’uomo forte, del capo, che è tale in base alla tecnicalità elettorale e non grazie al consenso è ormai giunto al termine e proprio nella patria di De Gaulle e Mitterrand. Premessa non piccola a tutto questo, pensando soprattutto ai nostri governi di larga coalizione, è che la campagna elettorale prima o poi termini e che l’obiettivo di tali governi non sia la maggioranza tecnica minima per sopravvivere in Parlamento ma una raccolta di forze largamente maggioritarie nel Paese. Il libro certo, è scritto prima della stagione degli attacchi terroristici che hanno colpito la Francia e non tiene pienamente conto delle difficoltà della grosse koalition tedesca ad arginare il populismo in Germania; elementi questi, probabilmente, che concorreranno a rendere ancora più inverosimile la proposta dei due autori che, se avessero ragione e non fosse accolta la loro idea, porterebbe la Le Pen all’Eliseo non nel 2017 ma inevitabilmente nel 2022.

Aldilà della condivisione delle tesi contenute, il libro non è una provocazione politica se non nel titolo ma una riflessione improntata al lungo periodo (cosa talmente rara ormai da rendercelo caro solo per questo) e assolutamente non di parte. Più in generale quello che mettono in discussione i due autori, trovando quindi un senso anche per noi italiani, è la fine del mito della governabilità a tutti i costi. Il mantra degli ultimi 25 anni, al cui altare abbiamo sacrificato quasi tutte le istituzioni, elevato al potere uomini forti che si sono rivelati (e si rivelano) terribilmente deboli al momento di trasformare le lusinghe elettorali in azioni di governo. Forse questo libro, il dibattito sul proporzionale nato in questi anni Inghilterra, e altri movimenti che da sotterranei diventano via via più evidenti fanno preannunciare una nuova stagione politica continentale che riporti in auge i parlamenti, le assemblee, piuttosto che i governi forti, che forti non sono stati affatto. In tale contesto, il nostro Paese, potrebbe scontare l’ennesimo ritardo decennale visto l’attuale dibattito sulla riforma costituzionale (comprensivo delle non proposte del fronte del No) tutta incentrata sulla governabilità e sulla frase ad effetto di “conoscere la sera stessa delle elezioni chi ci governerà”. I cugini francesi ci suggeriscono invece la virtù della pazienza, di attendere pure qualche ora, se questa ora in più dovesse significare la garanzia di un governo davvero efficace e realmente rappresentativo della maggioranza del Paese. Ecco quindi che la discussione sul proporzionale potrebbe avere qui da noi un altro senso, non nostalgico ma anzi di prospettiva e non stupisce che questa apertura venga da Berlusconi. Il libro oggetto di questo articolo fu infatti recensito con largo plauso, da Giuliano Ferrara sulla prima pagina de il Foglio. Un Ferrara che a differenza del suo successore alla guida di quel giornale (il quale aspirerebbe ad esser per Renzi ciò che Ferrara è per Berlusconi, non capendo la differenza abissale tra i due in quanto a capacità di farsi consigliare da altri) continua ad essere consigliere scomodo ma ascoltato. Con la speranza che tutti quanti la smettano con le conneries, naturalmente.

connerie?


1 OTTOBRE 2016 pag. 11 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno» (Vangelo di Matteo, 5, 36-37). Ormai quasi nessuno risponde ad una domanda o comunque afferma, semplicemente, “si” o “no”. Oggi si vira invariabilmente sull’“assolutamente si” e sull’“assolutamente no”. Un po’ come quando, con tanta leggerezza, si giura qualcosa: la lingua (quella di chi parla) è spesso biforcuta. Il diavolo pare essersi insinuato nelle vesti di un avverbio apparentemente uguale a tutti gli altri, che in realtà è ingombrante, davvero ingombrante – anche per lui. Nel dizionario dei sinonimi e dei contrari (De Agostini) ‘assolutamente’ è abbinato a ‘necessariamente’, ‘ad ogni costo’, ‘completamente’, ‘del tutto’, ‘interamente’, ‘appieno’... Nessuno di questi ne coglie - mi pare - il significato autentico, più importante e profondo. E’ quasi certo che ‘assolutamente’ possa vivere una vita vera solo se ricondotto alla sua parentela stretta, all’attributo e quindi al sostantivo ‘assoluto’. L’assoluto, per quello che ne so, è certamente al di fuori o al di sopra della realtà che si sperimenta nell’esistenza. Una realtà che si dice razionalmente ignota, inimmaginabile. Per chi può, per chi vuole, opera una risorsa speciale, che si chiama ‘fede’. Penso che ‘assoluto’ e ‘assolutamente’ siano intraducibili, se si pretende di convertirli in un’unica parola: bisogna costruire una intera frase. Per una sorta di contrappasso, l’avverbio ‘assolutamente’ si comprende in via immediata solo tramite il suo opposto, che il già detto dizionario individua (anche) in ‘relativamente’. Semplice, dunque: ‘assolutamente’ è opposto di ‘relativamente’. Noi viviamo immersi nel ‘relativo’ e tutte le volte che si sta per pronunciare ‘assoluto’ o ‘assolutamente’, bisogna fermarsi a riflettere; ‘think (or look) before you leap’, dicono gli inglesi.

Al diavolo, l’assolutamente

Non si può formulare a cuor leggero quell’’assolutamente si’, che pure dilaga. Non è necessario affermarsi ‘assolutamente convinto’ da parte di colui che voglia mostrarsi - e soprattutto essere - credibile, genuino. Immaginate di domandare al vostro agente immobiliare, avendo

notato una chiazza sospetta sulla parete, se la casa che vi ha appena aperto per offrirvela in vendita sia umida, e che quegli vi risponda: “ma assolutamente no!”. Provo a scommettere che vi sentirete pervasi da diffidenza e che non comprerete quella casa - neppure per tutto l’oro del mondo. Chi pronuncia con facilità, chi fa uso industriale della parola ‘assolutamente’, probabilmente ha poca stima di sé, della propria autorevolezza, dei propri ‘sì’ e dei propri ‘no’. Ha perso dimestichezza con la verità e presume che essa sia un sofisma. Sente la necessità di rafforzare le proprie affermazioni e non si rende conto che sta obbedendo ad un nuovo, pericoloso conformismo di cui l’impoverimento della lingua è segnale, per lo più inavvertito, ma certo e incombente. Oppure sta tentando di

Le architetture di Pasquale Comegna

circuire, di ingannare qualcuno e sa che, per portare in fondo il proposito, deve estrarre dal proprio (talora misero) vocabolario l’intera batteria di parole preconfezionate per conferire al discorso un’aura – pur provvisoria – di veridicità. Se non ci credete, fate una prova: ascoltate il linguaggio di un politico, tendete l’orecchio alle sue parole e così potrete capire - più che da ogni altro indizio - perché quegli non dovrebbe mai essersi occupato di affari che sono anche vostri. Nell’uso di ‘assolutamente’ si possono dunque nascondere ignoranza, superficialità, banalità e, nei casi peggiori, volontà di raggiro. L’uso e l’abuso dell’avverbio debbono comunque metterci sul chi vive. Che siamo noi o il nostro interlocutore di turno ad esercitarlo, non è possibile restare indifferenti, non cercare salvezza: nel novantanove per cento dei casi, con il suo pur maldestro travestimento, un dèmone sta conferendo una patina di certezza, di verità, di eternità a ciò che all’inverso è dubbio, illusorio, transeunte.

Roma, EUR


1 OTTOBRE 2016 pag. 12 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

C

’è stato un tempo in cui la Rai si avvaleva della collaborazione di persone della levatura di Attilio Bertolucci, poeta e grande intellettuale, un tempo in cui è stato possibile permettere a lui, che dirigeva la trasmissione tv L’Approdo, di girare un documentario che ebbe come titolo “ Alla Ricerca di Marcel Proust” e mandarlo in onda in prima serata! Esisteva un solo canale, pare, siamo nel 1966. Attilio Bertolucci poco più che ragazzo, 14 anni, a Venezia con la famiglia, fu folgorato dalla vista della Recherche in una vetrina e vi si immerse per la prima volta. Per questo lavoro visitò e riprese alcuni dei luoghi della vita di Proust e acquistò le interviste, fatte da una TV francese, a personaggi che lo avevano conosciuto. L’occhio della macchina da presa, come fosse il nostro, entra nella casa della zia Leonie, in camera di Marcel e, mentre la si guarda, la suadente voce di Romolo Valli spiega e commenta, emoziona ascoltare Giorgio De Lullo che legge “...ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili, ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare..a sorreggere senza tremare- loro, goccioline quasi impalpabili- l’immenso edificio del ricordo...” per un attimo ci si può illudere che sia la sua voce a parlare del miracolo della memoria involontaria e della madeleine. Dalla porta di ingresso si accede direttamente alla scala... “mi toccò salire uno dopo l’altro i gradini della scala, salendo contro il mio cuore che voleva tornare dalla mamma...” La cucina “...Più che l’antro di Françoise, pareva un tempietto di Venere...”. Georges de Lauris ci parla dello straordinario pallore del suo volto, sottolineato dal colore nerissimo dei suoi capelli. Paul Morand ricorda la sua visita del 3 agosto 1915, a mezzanotte, dall’immancabile cappottone foderato di pelliccia con il collo spelacchiato emergeva un viso pallido dai grandi occhi molto segnati, i capelli erano folti e nerissimi, i denti bianchissimi e magnifici, una barba lanugi-

Bertolucci e Proust

nosa spuntava intorno al mento “come una muffa sul formaggio.. aveva una voce molto dolce, molto insinuante, ma al tempo stesso autoritaria.” Tutto il suo abbigliamento, cappello, camicia sgargiante dal collo troppo largo, cravatta e scarpini con fibbia, bastone da teatro, era alla moda del 1905, l’anno in cui si era messo a letto a scrivere e la sua vita si era fermata. Ritratti vivi questi,oltre le foto che conosciamo. Jean Cocteau racconta Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Il sogno, o l’incubo, americano può permettere anche a un clown di diventare presidente

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

quanto fosse complicato avere accesso alla sua camera, ce lo inquadra poi a letto, pallido e con la barba lunga, tutto vestito, con i guanti bianchi, in uno spazio chiuso rivestito di sughero, una specie di Capitano Nemo dentro il Nautilus. Quando leggeva qualcosa della sua opera non se ne poteva capire nulla perché ne ridacchiava, dicendo “è stupido” e si scherniva e nascondeva. Una anziana signora dall’aspetto raffinato, M.me Maurois spiega di

essere stata il modello per M.lle de Saint Loup, la figlia di Gilberte e Robert, unico emblema della terza generazione, che appare brevemente nel Tempo Ritrovato. Quando aveva 13 anni, fu svegliata e fatta alzare per essere mostrata a Monsieur Proust, il cui fascino vanificò il suo broncio. Celeste, anziana e con le perle al collo, racconta la gioia immensa di Marcel dopo che,finalmente, aveva messo la parola fine al suo manoscritto che viene inquadrato e come srotolato e rivelato nelle sue complicate correzioni. Ascoltiamo come lo descrive ..” A furia di incollare l’uno all’altro quei fogli che Françoise chiamava le mie toppe,qua e là si laceravano… Mi diceva, guardando i miei quaderni rosicchiati come il legno dove è entrato il tarlo “E’ tutto rovinato guardi, l’orlo della pagina è diventato una trina” ed esaminandolo con gli occhi di una sarta “non credo lo potrò aggiustare..Peccato, forse erano le sue idee più belle” ...” E poi ..una enorme donna era nella camera, Celeste non la poteva toccare...”è orribile, è immonda...” e gli faceva un po’ paura. “...si spense come un lampada quando l’olio è finito.” Al suo funerale tantissimi giovani, una rivelazione per molti vecchi maestri perplessi.


1 OTTOBRE 2016 pag. 13

Il museo mascherato da negozio

Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

A

chi va a Parigi e si trova a passeggiare per le stradine di Saint Germain, dopo aver guardato estasiato le vetrine delle tante gallerie d’arte e aver gustato i famosi macarons di Ladurée nella saletta da the affrescata in stile coloniale in rue Bonaparte 21, consiglio di fermarsi davanti al bel palazzo settecentesco in rue du Bac 46 ed entrare nel mondo molto particolare de La Maison Deyrolle, negozio storico considerato dal 2010 parte integrante del patrimonio culturale francese (Enterprise du Patrimonie Vivant). Specializzato nella tassidermia (la tecnica d’imbalsamazione degli animali), è considerato uno dei negozi del genere più belli al mondo. Fu fondato nel 1831 da Jean-Baptiste Deyrolle, entomologo al museo di Scienze Naturali di Lille, per scopi didattici. Gli esemplari di animali esotici e spesso poco conosciuti da lui imbalsamati venivano richiesti da università e musei per studiarli e per mostrarli ad un pubblico curioso che non aveva altre possibilità di vederli se non in quella maniera o in qualche zoo. Quando nel 1880 l’attività passò al figlio Achille il mondo era già cambiato. Cominciavano i grandi viaggi , le battute di caccia in luoghi selvaggi, i trofei d’appendere alle pareti a testimonianza delle avventure. La Maison Deyrolle si adeguò lavorando per privati e trasformando il negozio in un incredibile cabinet de curiosités. Nelle stanze dei suoi due piani, in un’atmosfera polverosa e artisticamente caotica, erano in mostra una collezione impressionante di mammiferi e uccelli imbalsamati, casse piene di insetti, una raccolta sterminata di minerali, conchiglie, fossili...Tra i suoi clienti c’erano anche molti artisti come Dali e Magritte affascinati da quel mondo surreale. Nel 2008 La Maison Deyrolle prese fuoco. Furono distrutti o danneggiati 300 animali, 50.000 farfalle e migliaia di insetti. Dopo l’incendio molti artisti si mobilitarono per raccogliere fondi per la ricostruzione. Le loro opere

ispirate ai corpi degli animali carbonizzati furono esposte, in una mostra organizzata da Francois Pinault, al musée De la Chasse e de la Nature a Parigi (altro luogo affascinante da visitare) e poi messe all’asta da Christie’s. Hérmes partecipò alla raccolta di fondi con la riedizione di un suo foulard in seta, Piume, in colori inediti. I mobili furono rifatti come quelli originali dai maestri falegnami del famoso Ateliers de Chapelle. E così la Maison Deyrolle ha potuto ritrovare tutta la sua magia di uno spazio senza tempo che ha affascitato anche Woody Allen che lì ha girato alcune scene di Midnight in Paris. Naturalmente oggi gli esemplari imbalsamati che popolano questo “museo mascherato da negozio”, come è stato definito da Le monde, sono animali deceduti di morte naturale nei circhi e negli zoo. Michele Rescio mikirolla@gmail.com di

Pulite i finocchietti selvatici e lessateli in una pentola con dell’acqua bollente salata per 15 minuti. Scolateli tenendo l’acqua da parte, strizzateli e tagliateli a cubetti di 1-2 cm per lato. Pulite e spinate le acciughe e le sarde fresche, tenendo da parte 4 di queste ultime aperte a libro, cioè con i due filetti ancora attaccati dalla parte del dorso. Fate ammollare l’uva passa lasciandola completamente immersa in una ciotola piena d’acqua tiepida per 20 minuti, quindi scolatela. In una padellina fate tostare il pangrattato a fuoco vivace fino a quando prenderà un bel colore dorato. Ponete una padella su un fuoco di media intensità con l’olio e, appena questo sarà caldo, unitevi la cipolla tritata finemente. Quando questa avrà preso un bel colore dorato, aggiungete le acciughe, facendole sfaldare con la punta di una forchetta, e subito dopo le sarde fresche, l’uva passa, i pinoli e la granella di mandorle tostate. Fate cuocere per circa 10 minuti, quindi regolate di sale e pepe, aggiungete i finocchietti ed un pizzico di zafferano, mescolate delicatamente, abbassate la fiamma e fate cuocere per altri 10 minuti.

Pasta con le sarde

A parte, in una padella piuttosto piccola, mettete abbastanza olio da potervi immergere totalmente le sarde, quindi mettete la padella sul fuoco e, appena l’olio sarà bollente, fatevi friggere le 4 sarde fresche aperte a libro facendole cuocere fino a quando non risulteranno dorate. Con l’aiuto di un mestolo forato scolate quindi le sarde e adagiatele su un piatto ricoperto di carta assorbente. Fate infine cuocere la pasta nell’acqua di cottura

dei finocchietti che avrete portato a ebollizione in una pentola. Una volta trascorso il tempo di cottura indicato sulla confezione, scolate la pasta, conditela con la salsa di sarde e finocchietti, sistematela in una teglia unta con il burro, ricoprite la pasta con il pangrattato e copritela con le 4 sarde fritte. Fatela cuocere in forno già caldo a 220°C per 10 minuti, sfornate e servite. Ingredienti per 4 persone


1 OTTOBRE 2016 pag. 14

Esiste la Firenze di Michelangelo, del Brunelleschi, del Botticelli, di Giotto e di Masaccio. Ma anche la Firenze del Pontormo, del Beato Angelico, di Benozzo Gozzoli, di Andrea del Sarto, e... del Tacca con la sua bizzarra e potente fontana in S.S. Annunziata. Tutti contribuiscono alla grandezza e alla bellezza di questa città. Anche il teatro può vantare a Firenze i suoi Michelangelo e i suoi Botticelli, i suoi luoghi blasonati capaci di smuovere numeri importanti, larghe coperture mediatiche e ingenti finanziamenti. Ciò non può che essere un vanto per questa città, purchè non sia mortificata

L’altra faccia del teatro

l’altra faccia del teatro, quella di un teatro che ha le sofferte

e ispide nudità dei tritoni del Tacca, e che regala emozioni

La bellezza delle cose imperfette

Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

Scavezzacollo

Il Wabi-Sabi è “la bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute” (Leonard Koren), un concetto che è parte integrante della cultura giapponese e che Martina della Valle celebra in una serie composta da dittici in bianco e nero e fotografie a colori di grande formato. La ricerca dell’artista nasce nel corso di un viaggio in Giappone, dal ritrovamento di alcuni negativi non datati che ritraggono, quasi esclusivamente, composizioni di ikebana. Appartenuti probabilmente a un artista o a uno studio fotografico, i materiali trovati – scatti di vari formati, lastre di vetro e contenitori di carta pergamena scritti a mano – sono stampati a contatto in scala 1:1 con la loro polvere e i graffi inalterati. Da questo primo nucleo di immagini scaturisce un’ulteriore riflessione sul paesaggio, che indaga le tracce e le possibilità dell’intervento umano sulla natura, i tentativi di piegare le forme naturali, di ridurle da complesse a schematiche, cercando di regolare l’imprevedibile. Riflessione che l’artista ha approfondito con il workshop “One Flower, One Leaf. Ikebana applicata al territorio” condotto insieme all’artista e docente di ikebana Rie Ono. Nel corso del laboratorio i partecipanti, seguendo i principi basilari dell’arte dell’ikebana e utilizzando i ma-

con un tocco di originalità e di coraggio in più. La stagione in cifre: 23 spettacoli, 111 rappresentazioni, 7 produzioni, 5 ospitalità straniere di cui 3 in esclusiva e per la prima volta in Italia, 5 prime nazionali, riprese di spettacoli di successo, ospiti prestigiosi, giovani artisti e alcuni dei protagonisti della scena italiana di innovazione. Più 7 spettacoli pomeridiani per le famiglie e 40 repliche mattutine per i bambini e gli studenti. L’altra faccia del teatro è qui che vi aspetta al Teatro di Rifredi dal 14 ottobre-

teriali vegetali spontanei (rami, fiori, legni, ecc.) raccolti ai margini della zona urbana di Prato, hanno sperimentato un nuovo approccio alla rappresentazione del paesaggio. Hanno osservato, selezionato e realizzato composizioni vegetali che, attraverso pochi elementi, costituiscono una sorta di inedita mappatura del paesaggio urbano di Prato. Fino al 15 novembre da mercoledì a venerdì dalle ore 17:00 alle ore 20:00 Dryphoto arte contemporanea, via delle Segherie 33a, Prato


L immagine ultima

1 OTTOBRE 2016 pag. 15

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

S

embra proprio di essere di fronte ad un set del famoso film “West Side Story”. Siamo nella zona dei “Projects”, l’edilizia abitativa per i cittadini meno abbienti, principalmente neri e portoricani, L’immagine è decisamente suggestiva e tutto sommato abbastanza frequente. La giornata come al solito in questo periodo dell’anno è calda ed umida, con una caligine diffusa che blocca il respiro. Tutto sommato queste zone protette dalle reti garantiscono un minimo di tranquillità vigile alle famiglie che sono al lavoro o, nel peggiore dei casi, il lavoro non ce l’hanno proprio.

NY City, agosto 1969


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