Cultura commestibile 187

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

Ma come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi lasciare metĂ del patrimonio dal proprio capo? Vedi Antonello Venditti, pensando a Bernardo Caprotti

Esselunga come segretaria editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare di

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Laura Desideri

D

iari, lettere, memorie, autobiografie: queste alcune delle fonti da cui possiamo ricavare informazioni sul vissuto di scrittori ed artisti che hanno viaggiato nei paesi dell’Europa dell’Ottocento, e in particolare in Italia. Tracce di luoghi e di musei, frequentazioni di biblioteche e gabinetti di lettura, ma anche di alberghi, caffè e teatri, oltre agli incontri, a volte occasionali, con persone note o conosciute durante il viaggio, ricorrono frequentemente nelle lettere spedite dai vari paesi, oppure disseminati nei diari o nelle autobiografie. Anche per Dostoesvkij, che ha viaggiato più volte in Europa, tra il 1862 e 1871, disponiamo di queste fonti, utilizzate anche nel recente libro di Valentina Supino, Viaggi di Dostoevskij in Europa e la loro influenza sulla sua opera (LoGisma, 2016): a cominciare da Note invernali su impressioni estive, composte nell’inverno 1862-63, di ritorno dal primo viaggio, a ridosso della stesura delle grandi opere della svolta, Memorie del sottosuolo (1864) e Delitto e castigo (1866). A queste Note, che ora si leggono nell’Universale economica Feltrinelli, si aggiunge il Diario di uno scrittore, relativo gli anni 1873, 1876-77, 188081 (ora nei Classici Bompiani), e soprattutto la corrispondenza dello scrittore russo, dal 1832 al 1881 (anno della morte), pubblicata in edizione integrale, in tre volumi, dall’editore parigino Bartillat. A questi si aggiungono il diario dell’amante di Dostoevskij, Apollinarija Suslova, ma soprattutto quello di Anna Grigór’evna Dostoévskaja, Dostoevskij mio marito, ripubblicato recentemente da Castelvecchi. Per i soggiorni a Firenze, oltre ai titoli citati, esistono anche altre tracce, relative alla frequentazione del Gabinetto Vieusseux, a quel tempo collocato a Palazzo Buondelmonti, dove si conserva la memoria dei viaggiatori che vi sono passati fino dagli inizi (1820): il Libro dei soci, dove chi si abbonava alle sale di lettura di giornali e riviste e/o alla biblioteca circolante apponeva la propria firma, indicando anche la residenza fiorentina, e il Libro

per evitare la prigione per debiti, Dostoevskij intraprende insieme alla moglie un nuovo viaggio in Europa, che durerà quattro anni, fino al luglio 1871. Il diario di Anna ne ripercorre dettagliatamente le tappe, svelando anche particolari della vita quotidiana: a Baden-Baden: “Com’ero felice quando mi riusciva di distrarlo; l’accompagnavo alla biblioteca a leggere i giornali, oppure organizzavo una lunga gita a piedi; il che gli faceva sempre bene”; e ancora: “A Ginevra come a Baden-Baden il nostro tempo fu diviso con un certo ordine: F. M. lavorava tutta la notte e si alzava alle undici; facevamo colazione insieme; poi io andavo a fare una passeggiata, secondo la prescrizione del medico. Alle tre andavamo a pranzare al ristorante, quindi rientravamo a casa per riposare. F. M. mi accompagnava, poi andava a sedersi al caffè Monte Bianco, dove

Dostoevskij lettore al Vieusseux dei prestiti, dove sotto ogni titolo della biblioteca circolante veniva riportato il nome del lettore, cancellato al momento della restituzione del volume. Nel Libro dei soci, in uso fino al 1926, troviamo la firma di Dostoesvkij, al tempo del suo primo soggiorno a Firenze: il 16 agosto 1862 firma il registro usando la forma francese del proprio nome - Théodore Dostoievsky - per un abbonamento di “une semaine” e dichiara di alloggiare all’Hotel Suisse, all’angolo tra via dei Legnaioli (poi Via Tornabuoni) e Via della Vigna. Dal Libro dei prestiti, invece, si ricava che prende in lettura due annate – il 1858 e

il ’59 - della rivista “Poljarnaja zvezda” (“L’Etoile Polaire”), il vessillo del libero pensiero russo, stampata da Herzen a Londra e proibita in Russia. Nelle sale di lettura di Palazzo Buondelmonti, rifornite fino dall’apertura di giornali politici, scientifici o letterari, francesi, inglesi, tedeschi, oltre che italiani, alla fine degli anni cinquanta erano comparsi anche alcuni giornali russi, a cominciare dal “Journal de Pétersbourg”, voluto dal direttore Giovan Pietro Vieusseux proprio per soddisfare i viaggiatori russi, già molto numerosi. Dopo il matrimonio con Anna Grigór’evna, nel maggio 1867,

trovava i giornali russi; passava così due ore a leggere La voce, Le notizie di Mosca, Le notizie di Pietroburgo e anche i giornali esteri”. “A Ginevra almeno avevo i giornali russi” scrive Dostoesvskij a Maikov il 22 giugno/4 luglio 1868, dopo essersi trasferito a Vevey. Nonostante la bellezza dei luoghi (“montagne, acqua, tutto brilla: un incanto”) lo scrittore, già impegnato nella stesura dell’Idiota, è profondamente infelice, anche perché gli mancano le notizie del suo paese: “e questo è molto penoso per me”. Non sopportando più di vivere in Svizzera, la coppia, a inizio settembre, decide di partire per l’Italia e si stabilizza a Milano, dove tuttavia le condizioni non migliorano, come si evince dalla lettera alla nipote Sonja del 26 ottobre / 7 novembre 1868: “Il mio morale è molto basso; nostalgia della Russia, pensieri per il futuro e cioè come si risolverà la mia situazione, i miei debiti e tutto il resto. Qui, lontano


Da non saltare

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dalla Russia, senza impressioni russe dirette e continue, non riesco a scrivere: pensate che da sei mesi non leggo un giornale russo, sono sfasato e non so quello che succede in Russia. E soprattutto c’è la quarta parte del mio romanzo sulla quale ripongo tutte le mie speranze e che mi ci vorranno ancora quattro mesi per scrivere”. Queste le parole di Dostoevskij, confermate anche nel diario della moglie: “L’autunno del 1868 fu piovigginoso e freddo; era impossibile passeggiare per le vie di Milano. Nelle sale di lettura della città non si trovavano né giornali né riviste russe, ed F. M. soffriva di non aver notizie del suo Paese”. Dopo un soggiorno di due mesi a Milano, nel novembre 1868, partono alla volta di Firenze (allora capitale d’Italia), dove decidono di passare l’inverno. “Per fortuna” scrive Anna “a Firenze trovammo un’ottima biblioteca e una sala di lettura abbonata a due giornali russi, che Fedia leggeva dopo pranzo. Inoltre prese a prestito le opere di Voltaire e di Diderot, che lesse durante l’inverno”. Anche questa volta la frequentazione del Vieusseux trova testimonianza nelle pagine del Libro dei soci: Dostoevskij firma il registro, sempre usando l’alfabeto latino, il 16 dicembre 1868, specificando l’indirizzo “Via Guicciardini 8”, al secondo piano, per l’abbonamento di un mese alla “Bibliothèque circulante”. Ma ci sono altre tracce anche nel Libro dei prestiti, da cui è stato possibile ricostruire una piccola cronologia delle letture di Dostoevskij, tra dicembre ’68 e febbraio ’69. Grazie alle indicazioni della moglie, abbiamo rintracciato il suo nome tra i lettori (pochi) delle Questions sur l’Encyclopédie di Voltaire, in un’edizione del 1792 in 7 volumi: il prestito del 18 dicembre riguarda i primi tre volumi, mentre gli altri quattro sono stati presi il 2 febbraio, quando ormai lo scrittore ha concluso la stesura dell’Idiota, ultimato alla fine di gennaio. Ma tra i due prestiti di Voltaire, a distanza di oltre 40 giorni, si

colloca un’altra lettura, scoperta grazie all’intuizione di Valentina Supino, già da tempo sulle tracce di Dostoevskij a Firenze. Sempre nel Libro dei prestiti, in mezzo ad una giungla di nomi di lettori, affiora quello dello scrittore russo, che il 4 gennaio 1869 prende in prestito Madame Bovary nell’edizione del 1858. Sempre dal diario di Anna, si ricava che a Baden-Baden, nel luglio 1867, Dostoevskij si era precipitato ad acquistare il romanzo di Flaubert, dopo averne parlato con Turgenev; probabilmente una copia perduta o comunque non conservata, se ricorre al prestito nella biblioteca fiorentina. Congetture a parte, resta un dato di fatto: il prestito del capolavoro di Flaubert viene trasposto nella finzione narrativa, nell’ultimo capitolo dell’Idiota: ce lo rivela lo stesso Dostoevskij, attraverso una ‘citazione’ destinata ad immortalare Madame Bovary ma anche – sia pure indirettamente - la biblioteca circolante del Vieusseux: “il principe considerò ogni singolo oggetto e, scorto sopra un tavolino un libro aperto, proveniente da una biblioteca circolante, il romanzo francese Madame Bovary, l’osservò, piegò un angolo della pagina dove il libro era aperto, chiese il permesso di prenderlo con sé, e subito dopo, senza badare all’obiezione mossagli, che esso apparteneva alla biblioteca, se lo mise in tasca”. Un episodio reale viene trasfigurato nel racconto; il racconto attinge alla realtà: un caso esemplare dell’intreccio tra scrittura e vissuto, una delle tante storie da raccontare qui al Vieusseux, ambientate nella città che ha ispirato a Dostoevskij alcune immagini indimenticabili: “Firenze è bella, ma veramente troppo umida. Le rose, tuttavia, fioriscono ancora nel giardino di Boboli, all’aria aperta”; e ancora “piove troppo spesso a Firenze: ma quando c’è il sole, è quasi un paradiso. Non si può immaginare niente di meglio dell’impressione lasciata da questo cielo, quest’aria, questa luce”.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

Giani est à nous

La “Gianimania” ormai dilaga. I più arguti e popolari giornalisti fiorentini si dedicano sempre più frequentemente a “coprire” le più eccentriche ed esilaranti comparsate di Eugenio Giani. È difficile, infatti, non notare come ormai non vi sia evento celebrativo (rigorosamente con buffet), inaugurazione (sempre con fascia presidenziale), premiazione (con immancabile selfie) nel quale il Nostro non compaia. Novello Zelig, Eugenio Giani è diventato un must: se vuoi che il tuo evento abbia successo e se ne parli in giro non è tanto importante che vi siano giornalisti e stampa accreditata, basta che ci sia Eugenio e il resto viene da sé. Così, durante la cronaca della attribuzione della cittadinanza onoraria di Firenze a Gabriel Batistuta (pregevole iniziativa, of course), il giornalista Rai Alberto Severi ha notato come il premiato fosse quel signore in posa accanto a Eugenio Giani. D’altra parte Benedetto Ferrara, giornalista sportivo e penna sagace della Repubblica, pubblica articoli e post sul suo profilo Facebook sottolineando l’onnipresenzialista Giani con commenti davvero gustosi e arguti. Ultimo in ordine di tempo la foto di Giani con le mucche chianine: “L’ultimo desiderio delle povere chianine era quello di farsi un selfie con Eugenio vitellozzo Giani. Lui non si è tirato indietro.” Ma noi vorremmo tuttavia riven-

dicare con orgoglio la primogenitura di questa epopea gianesca. Infatti, iniziammo a prenderci amorevolmente cura di Eugenio Giani nel numero 26 (30 luglio 2011) della serie cartacea di Cultura Commestibile, allegata al defunto Nuovo Corriere di Firenze, parlando dell’idea eugeniale di Giani di completare la facciata della basilica di S.Lorenzo; un’idea che non poteva non trovare in Matteo Renzi orecchie attente e complici. Da allora non abbiamo mai abbandonato Eugenio: non vi è numero della nostra rivista in cui non si narrino le gesta del nostro eroe, tanto da costruire letteralmente il personaggio: il politico di provincia, tanto presenzialista quanto di superficie, nozionistico e grande maneggiatore di preferenze che centellina ogni giorno con certosina e professionale capacità. Ormai questa epopea consta di centinaia di elzeviri che attende solo di essere raccolta di una grandiosa “Gianeide”, che immancabilmente conterrà una introduzione di Eugenio Giani, verrà presentata in pompa magna in Consiglio Regionale con buffet e banda paesana (pregevole iniziativa). Quindi ai colleghi “gianologhi” riconosciamo arguzia e capacità che li fanno a noi fratelli, ma a noi Sorelle Marx (unitamente ai Cugini Engels, allo Zio di Trotzky e altri parenti) non può essere sottratta la primogenitura del gianesco poema.

I Cugini Engels

L’ottavo nano Nardeolo

Finalmente una vera novità a Firenze nell’ambito degli spazi abbandonati già cinema: laddove un dì v’era il cinema Eolo in Borgo S. Frediano nascerà niente di meno che un supermercato oppure un parcheggio, cose di cui s’avvertiva un gran bisogno nella nostra cittadina. Ma vuoi mettere un bello store dove comprare ancora un bel po’ di food o un parking in piena ztl per metterci qualche decina di macchine? Una grande operazione di riqualificazione della città. All’incirca come quella che promise l’11 dicembre 2009 l’allora vicesindaco Nardellolo (prima di trasformarsi in Dario I il grande) all’iniziativa di Confesercenti sul futuro dei cinema fiorentini: “Faremo di tutto per riaprire Gambrinus, Ciak e Nazionale, sempre che

i proprietari non pensino solo a lucrare”. Infatti, al posto del Gambrinus oggi c’è l’Hard Rock Caffè (sempre magna e bevi!), il Nazionale è chiuso e al posto del Ciak c’è… niente. Ma Nardellolo era allora lanciatissimo tanto da dichiarare che la salvezza delle sale in città “deve passare anche da un nuovo modo di proporsi, sempre più lontano dal modello “in franchising” concepito dallo strapotere dei distributori”. E così partì la crociata di Nardellolo contro il modello franchising che ora, appunto, impera incontrastato a Firenze. Oggi, invece, che Nardellolo è diventato re Dario I detto Gongolo e non si occupa più di queste quisquilie, è il suo assessore Perrolo a gestire la eliminazione di ogni traccia cinematografica dal centro.

Lo Zio di Trotzky

Amedeo Nazzari La mozione Amedeo Nazzari continua a farsi forza in questa Italia pronta a fare ponti sullo Stretto a colpi di job acts e referendum costituzionali. L’opposizione più consistente al renzismo rampante è rappresentata dal fascinoso attore dei telefono bianchi che ne incarna la caratteristica principale: la morte. Ed è buona per ogni occasione che sia un dibattito televisivo referenderario con l’emerito costituzionalista Gustavo Zagrebelsky subendo i tempi da 140 caratteri del premier a colpi di medicine per l’Alzheimer, buone scuole, poltrone tagliate. Oppure funziona anche per i gommoni di Al Weiwei che sbagliano nei tempi (troppo tardi, dopo Duchamp tutto è finito, un po’ come i programmi di storia contemporanea del liceo che va bene se arrivano al ‘45); che sbagliano nella prossemica (oh, ma lo sapete che a Palazzo Strozzi ci sono il GabinettoViesseaux e l’istituto nazionale degli studi sul Rinascimento?); che sbagliano simbolo (in questo mondo indifferente il gommone si lega di più alle vacanze in Versilia che al profugo).

Per aderire alla mozione fondamentale citare a ogni dibattito almeno un morto illustre, luminare dimenticato da questa gentaglia rottamatrice. E se possibile aggiungendo qualche lemma da cruciverba di Bartezzaghi (babbo, non il giovane frivolo) per stupire la platea che la mattina al bar tra un caffè e un titolo sulla Fiorentina può così anche commentare “anche ieri s’ è fatto ca’are, secondo me quest’anno manca un po’ di prossemica, ci vorrebbero un terzino e una punta”.


8 OTTOBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

M

oltissimi anni fa, quando avevo cominciato da poco a fotografare, un maestro mi dette un consiglio. “Fotografa solo quello che conosci bene”, mi disse, ed intendeva con questo muovere una velata critica a tutti quei fotografi, o aspiranti tali, che, seguendo la moda del momento, partivano per andare a fotografare paesi e genti lontane, carichi di corpi macchina, obiettivi, filtri ed accessori diversi, ma spesso sprovvisti di quel minimo di bagaglio culturale indispensabile per vedere e per capire la realtà, e non solo quella dei luoghi remoti. Forse in omaggio a questo principio la fotografa danese Charlotte Oestervang ha deciso di fotografare la gente della propria città, anzi, del proprio quartiere. Di più, di quel particolarissimo quartiere di Copenaghen (Kobenhavn) che è Christiania, dove è nata. Tutti conoscono la breve storia di Christiania, una ex base navale dismessa, costituita da numerosi edifici abbandonati, situata proprio alle porte della capitale, ed occupata all’inizio degli anni Settanta da un gruppo di hippies. Christiania viene dichiarata una “fristaden”, ovvero una “città libera”, posta anche al di fuori della Unione Europea, dotata di un proprio statuto, di proprie leggi e perfino di una propria valuta monetaria, ma in cui si accettano in pagamento anche le corone danesi. Dopo un lungo tira e molla con il governo danese, l’autonomia di Christiania viene di fatto riconosciuta, fino alla recente proposta di cessione alla comunità della intera proprietà del terreno. Fino dall’inizio all’interno della “fristaden” viene consentita la più ampia libertà sessuale, oltre alla libertà di circolazione, vendita e consumo delle così dette droghe leggere. A Christiania vengono messi in funzione un asilo, una panetteria, una sauna, una fabbrica di biciclette, una tipografia, una radio libera, oltre a cinema, bar, ristoranti e numerosi laboratori artigiani. Vi è permessa la produzione e la vendita di marijuana ed hashi-

Charlotte Oestervang e i volti di Christiania sh, mentre è vietato l’ingresso alle auto, alle armi, alle droghe pesanti ed alla polizia. Vi è una limitazione delle riprese foto e video in certe zone, ed un più recente divieto di utilizzo dei telefoni cellulari. Tolleranti in quasi tutto, ma sempre un poco sospettosi degli estranei, i liberi cittadini di Christiania, oggi un migliaio in tutto, rappresentano un fenomeno antropologico interessante, e fino a qui la scelta di Charlotte di fotografare i curiosi e pittoreschi abitanti del suo quartiere natale, non comporta niente di eccezionale. L’eccezionalità della storia consiste nel fatto che Charlotte decide di tornare a vivere a Christiania, in una roulotte parcheggiata, e lavora a questo progetto dedicandovi non qualche settimana o qualche mese, ma tutto il tempo necessario. Alla fine vi passa quattro anni, dal 2004 al 2008, sfruttando ed approfondendo il rapporto e la complicità con gli stravaganti personaggi, essendo di fatto una di loro. Dalla sua esperienza fotografica nasce nel 2008 un fotolibro, realizzato in uno splendido bianco e nero, con un centinaio scarso di immagini, scelte fra le trecento immagini raccolte, tutte scattate con una fotocamera a sviluppo immediato di grandi dimensioni 10x13cm, già fuori produzione nel 2004. Dietro ad ogni personaggio, o ad ogni coppia di personaggi, vi è una storia, che Charlotte conosce e condivide, e che traspare nella scelta dell’immagine. I ritratti di Christiania non sono solo un susseguirsi di personaggi “strambi” che conducono una vita inconsueta, al di sopra delle righe e delle consuetudini, ma rappresentano in un certo senso un modo di vita realmente “alternativo”, libero dai condizionamenti di una forma di civilizzazione che vorrebbe omologare tutto, perfino il dissenso. Se cento immagini in quattro anni sembrano poche, mediamente una ogni due settimane, forse vale la pena di ricordare il consiglio del vecchio maestro di fotografia. “Prima di scattare una qualsiasi immagine, impara a conoscere bene ciò che vuoi fotografare”.


8 OTTOBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

I

l bosco ha da sempre rappresentato per l’uomo un luogo magico e d’incontro fra il mistero universale e l’armonia creatrice della Natura. Spesso, nella letteratura come l’arte, il bosco raffigura il culto dell’immaginario, in cui l’individuo può perdersi, volontariamente o involontariamente, fino ad avere una percezione diversa della realtà circostante, perché esso incarna il simbolo del ritiro spirituale, quell’archetipo del rapporto armonico fra l’Uomo e la Natura, che sembra ormai essersi perso nell’oblio della tecnica e del progresso scientifico. Ciononostante ravvicinarsi alla Terra è un istinto a cui l’artista tende inconsapevolmente, come se l’attualità spingesse alla scoperta e alla rivalutazione del più ancestrale santuario meditativo: nel bosco i pensieri si perdono nei ritmi solitari dell’ambiente e si annientano le distanze fra la terra e il cielo, poiché si ha la parvenza di trovarsi in una dimensione intermedia, ove tempo e spazio si confondono e si sublimano in un’energia universale più grande del pensiero umano. Fra vita e materia, Ubaldo Molesti ha indagato le radici ontologiche del bosco, creando un collegamento fra il Noi e l’atmosfera senza tempo della foresta; ha analizzato il potenziale energetico e vitale della vita boschiva e ha percepito il punto di convergenza fra la forza fisica e quella spirituale, assimi-

lando l’importanza della catarsi e dell’osmosi naturale fra l’Io e il mondo. Perdersi e ritrovarsi, esterno e interno, cielo e terra non hanno alcuna distinzione là dove la mente umana e la creatività osano godere degli aspetti più inesplorati e selvaggi dell’entità naturale. Il progetto _ Il Bosco Infinito_ “PENTA LUCE” non è altro che un’invocazione a compiere un percorso introspettivo, nel bisogno

e nel tentativo della coscienza di illuminare un cammino ignoto e nascosto fra i giochi d’ombra del bosco, confrontandosi con la Natura e gli aspetti più misteriosi di essa. In tal senso la Luce personifica una verità sfuggente e consolatrice, salvifica primigenia: tutta l’installazione gioca nello sviluppo dinamico di una struttura essenziale corredata da moduli cromatici. Le linee verticali si sviluppano

Il bosco di Gianni

Ubaldo Molesti

dal basso verso l’alto, dalle radici della terra verso l’infinità del cielo in più direzioni e i colori primari dei cinque elementi si stagliano nella visione notturna come segni di luce, in nome di una presenza umana immersa nelle contraddizioni dell’oggi. L’installazione di Ubaldo Molesti germoglia dal terreno e dall’humus boschivo, innalzandosi verso l’alto, sprigionando dalle profondità delle radici della terra la forza e il nutrimento della Natura, in virtù delle proprie caratteristiche metamorfiche e del senso ciclico della vita. La creatività dell’artista si è posta oltre la meditazione e la contemplazione dell’infinità del bosco, vertendo nella direzione di uno svelamento degli archetipi che l’ambiente naturale nasconde. Smarrimento, ricerca, incontro e ritrovamento convogliano nella realizzazione del progetto, quasi onirico e metafisico, che da uno spazio atemporale è affiorato ai livelli consci del pensiero creativo e si concretizzato in un poetico assemblaggio di linee e forme, dalle variabili e personali interpretazioni. Quello di Ubaldo Molesti per la Natura sembra essere un amore platonico che lo ho spinto a intraprendere un viaggio di conoscenza e realizzazione, di ricerca e di espressione, fino a giungere al recupero delle forze primigenie che regolano lo scorrere naturale del tempo nello spazio universale del mondo, in un panismo osmotico dal forte sapore comunicativo.


8 OTTOBRE 2016 pag. 7 Simone Siliani s.siliani@tin.it di

L

a presenza di Cango, Centro di produzione sui linguaggi del corpo e della danza, diretto da Virgilio Sieni, nella nostra città è una presenza discreta, leggera eppure persistente, radicata nel tessuto sociale e culturale profondo che non a caso si localizza nell’Oltrarno dove il turismo di massa non l’ha ancora violentata. Una presenza che si muove dall’interno profondo del corpo individuale - non quello statuario e perfetto di ballerini che vanno per la maggiore (il riferimento a Bolle è voluto), ma anche quello delle persone comuni (artigiani, famiglie, anziani) e imperfetto – fino al corpo planetario di Gaia. Così diversa dalla roboante, talvolta ingombrante, provocatoria ma anche effimera presenza dell’arte contemporanea a Firenze, fatta di eventi eclatanti ma che alla fine non sedimentano assolutamente niente, a parte qualche polemica giornalistica. Questa cifra di Virgilio Sieni, a ripensarci bene, è quello che ho sempre apprezzato del suo progetto su CANGO fin da quando lo pensammo e realizzammo recuperando la Goldonetta. E il “festival” (le virgolette sono d’obbligo perché non so quanto Virgilio davvero apprezzi questo termine ormai abusato) “La democrazia del corpo” che si svolge tra ottobre e dicembre nell’Oltrarno ne è la riprova. “Una mappa di percorsi in luoghi simbolici e popolari della città attraverso un programma di produzioni, spettacoli, pratiche”, lo definiscono così in via Santa Maria. E, infatti, il “festival” s’inaugura con un Cammino Popolare, una camminata di trenta minuti intorno a Piazza del Carmine, verso la chiesa e il fiume, guidata dal passo leggero e lo sguardo profondo di Virgilio Sieni. I luoghi attraversati prenderanno vita nuova attraverso azioni coreografiche agite da danzatori e da interpreti non professionisti, ma in realtà saranno i cittadini, i passanti, gli abitanti del quartiere e turisti di ogni età a partecipare a questo movimento corale camminando e seguendo, passo dopo passo, l’incedere di una comunità. Un’esperienza che Sieni ha proposto altre volte, che ti fa vedere l’insospettabile, il mai visto, la città che vivi ogni giorno ma di cui

La democrazia del corpo

ignoravi la conoscenza. Il modo migliore, più vero e contemporaneo di iniziare un percorso in cui i molti artisti invitati propongono un proprio modo di abitare il luogo e di mettersi in relazione con il territorio e il tessuto sociale. Ogni presenza sarà articolata in due produzioni (molte le prime assolute, rappresentate a Cango: una con la propria compagnia, l’altra prodotta a Firenze e interpretata da danzatori e cittadini che avranno partecipato ai vari percorsi di creazione e trasmissione in condivisione con il programma di pratiche dell’Accademia sull’arte del gesto. Così questo “festival” è forse più appropriato definirlo “Officina”, di ricerche e verifiche Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

Scavez zacollo

sull’atto della creazione artistica in relazione alla trasmissione e la natura degli spazi coinvolti. E come in ogni officina anche qui c’è una manifattura, qualcosa che prende forma trasferendosi da un corpo ad un altro attraverso una manipolazione: qualcosa di materico, in cui l’opera d’arte non è un flatus vocis, ma si materializza in corpi, relazioni di corpi con gli spazi, scontri e incontri di cose attraverso i quali le essenze, le idee, lo spirito certamente presenti nell’opera artistica si liberano e significano. Così sarà per i “Tre quadri” di Marina Giovannini (sabato 8 e domenica 9 ottobre), danza in cui l’uso del corpo è il linguaggio significante della vita, dove il movimento,

libero da ogni descrizione, è l’unico oggetto rappresentato, lo spaesamento è un tentativo di rinnovare l’essenzialità dello sguardo. Ma non sarà diverso per l’Azione coreografica di Caludia Caldarano che si svolgerà nella falegnameria Fresecchi di via Santa Maria, 17. Tutto questo incontrarsi di corpi e spazi, mastice, trucioli, vicoli e bugne, storie e visioni, Virgilio Sieni le raccoglierà e le porterà al Teatro della Pergola da martedì 11 a venerdì 14 ottobre con il suo Cantico dei Cantici, otto momenti fatti di idilli pastorali, frammenti sull’amore in forma di adiacenza, vicinanza e tattilità, nel silenzio tagliente, vero vacuum lucreziano. La vera arte contemporanea a Firenze.


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Intifada senza armi

Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

I

danni collaterali delle guerre, in genere, si traducono nel sacrificio di vite umane. Un altro effetto, seppure meno evidente, è l’occultamento della vitalità culturale dei paesi coinvolti nei conflitti. Pensiamo alla Siria, all’Irak o alla Palestina: cosa sappiamo della cultura che si sviluppa in questi paesi? Della letteratura, della pittura, della musica? In pratica molto poco, in certi casi niente. I mezzi di comunicazione dovrebbero dare maggiore spazio alle espressioni musicali dei popoli in questione: dagli Assiri agli Hazara, dai Kurdi ai Palestinesi. Non ci riferiamo soltanto a quelle che realizzano in patria, ma anche a quelle degli esuli sparsi per l’Europa. Fra questi merita particolare attenzione la cantante palestinese Reem Kelani. Nata a Manchester nel 1964, figlia di esuli, l’artista ha manifestato fin da piccola un forte interesse per la musica e ha imparato a suonare il pianoforte. Inizialmente molto influenzata dal jazz, dopo si è orientata verso la musica palestinese (e araba in generale). Il jazz è rimasto comunque un’influenza rilevante. Collaboratrice di molti artisti, Reem è comparsa fra l’altro nell’EP The Last Chance (Fuse, 2002) insieme a Janet Russell e Leon Rosselson. Nel disco spiccano “The Third Intifada”, un titolo che si spiega da solo, e “The Song of Martin Fontasch”, il falegname appassionato di musica che Primo Levi ha inserito nel celebre romanzo Se non ora, quando? Nel 2006 è uscito il suo primo CD, Sprinting Gazelle: Palestinian Songs from the Motherland and the Diaspora (Fuse), frutto di lunghe ricerche. Quindi ha lavorato con altri musicisti, fra i quali Gilad Atzmon, sassofonista jazz israeliano, la cantante portoghese Liana, il gruppo turco Kardes Türküler e la Bergen Philharmonic Orchestra. Recentemente la musicista palestinese ha pubblicato da poco il suo secondo lavoro, il doppio CD Live at the Tabernacle (Fuse, 2016). Il CD contiene la registrazione del concerto che l’artista ha tenuto al Tabernacle di Londra il 22 novembre 2012. Uno dei dischi contiene un documentario

del regista venezuelano Ignacio Crespo Valdez, dove Reem Kelan parla della propria musica e della lavorazione del disco. L’altro comprende un estratto del film di

Les Chebabs de Yarmouk, diretto da Axel Salvatori-Sinz, per il quale l’artista palestinese ha scritto la colonna sonora. Fra le canzoni del nuovo CD ce

ne sono alcune tratte da Sprinting Gazelle: Palestinian Songs from the Motherland and the Diaspora, ma anche nuovi brani palestinesi e uno tunisino che la cantante aveva già inciso per il CD Anti-Capitalist Roadshow (Fuse, 2010), realizzato insieme a Roy Bailey, Sandra Kerr, Peggy Seeger e altri. Fra i musicisti che la accompagnano, oltre a quelli del suo gruppo, spicca Tamer Abu Ghazaleh, noto suonatore di ‘oud, anche lui palestinese. Interprete dolce e vigorosa al tempo stesso, Reem Kelani ci ricorda che i popoli minacciati sanno trovare nella musica la forza di resistere e di immaginare un futuro.

incontrato), un giovane medico di Torino, uscito di casa con lo zaino per arrivare fino a Roma. Tutti hanno già percorso il cammino di Compostela. Qualcuno persino più di una volta. Tutti d’accordo nel dire che la Francigena, meno frequentata e più suggestiva, piace di più del cammino di Santiago. Questa la varia umanità che ho incontrato durante le tre tappe tra San Miniato e Monteriggioni. E che ho ritrovato all’arrivo, sotto la doccia, oppure a fare il bucato o sdraiati a riposare in attesa del momento magico: la sera, prima e durante la cena. Affamati ma anche molto curiosi di conoscerti, di sapere da dove vieni, dove vuoi arrivare e perché lo fai. Già appunto, perché in tanti, di paesi diversi, con varie esperienze di vita e di tutte le età, decidono, zaino in spalla, di mettersi in cammino? C’è chi come Carlos lo fa per trovare l’ispirazione per il suo romanzo. Oppure come i francesi alla ricerca della spiritualità. C’è chi lo fa per stare fuori, all’aria aperta, per una lenta e ravvicinata conoscenza dei luoghi che si attraversano. C’è chi lo fa per stare da solo, per ritrovare sé stesso, fuori dalla routine quotidiana. E c’è chi ha scelto di

camminare perché fa bene, chi per incontrare persone con cui avere qualcosa in comune, chi ancora per rigenerarsi, contando sulle proprie forze. Fatto sta che sulla Francigena non esistono differenze, non c’è più l’ingegnere, l’impiegato, l’avvocato, il medico o l’operaio. Qui, lungo sentieri, strade bianche e tratturi siamo tutti uguali, siamo tutti pellegrini. In sintesi il percorso è molto bello, ben segnalato e fuori dal traffico (unica eccezione l’arrivo a san Gimignano lungo la provinciale e senza protezione). L’ospitalità è di qualità e in luoghi suggestivi, dal convento di San Francesco a S. Miniato, all’ostello Sigerico di Gambassi, al monastero di S. Girolamo di S. Gimignano fino all’ospitale di Abbadia a Isola (Monteriggioni). Lungo il percorso, sempre più frequentato (ormai ben oltre le 150mila presenze) crescono segnali di attenzione ai pellegrini, luoghi di accoglienza e ristoro. L’ostello Sigerico quest’anno ne ha ospitati 4.500, oltre un migliaio quello di Abbadia (aperto solo d’estate). Ancora pochi gli italiani: il 60% sono stranieri. Una gran bella cosa che crescerà ancora e che fa bene alla Toscana. Buon cammino a tutti!

Remo Fattorini

Segnali di fumo

Carlos arriva da Bruxelles. Cammina lungo la Francigena e scrive una storia d’amore. È un giovane energico e brillante, parla 4 lingue. Prima e durante la cena è lui a dirigere il traffico della conversazione tra irlandesi, spagnoli, francesi, lussemburghesi e australiani. L’unico italiano sono io. I francesi arrivano da Genova con destinazione il Vaticano. I lussemburghesi vengono da Firenze in cammino verso Roma. L’irlandese e lo spagnolo si sono conosciuti sul cammino di Compostela e da allora viaggiano insieme: partiti dal San Gottardo per Roma si fermeranno a Siena, il loro tempo è finito e devono rientrare. Torneranno. Le più veloci sono le due donne australiane, non si fermano mai e girano il mondo a piedi, arriveranno fino a Bari. Un giovane belga fa il cammino al contrario: partito da Roma e in tre mesi arriverà a Santiago di Compostela. Poi c’è Roberto (unico italiano


8 OTTOBRE 2016 pag. 9 di

Mariangela Arnavas

Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, tanto prima o poi c’azzecchi”, questa battuta dell’ultimo film di Allen fornisce il tono della narrazione, splendidamente fotografata in technicolor e pacatamente soffusa di romanticismo. Il cinismo di Allen non è una novità, quello che in questo film colpisce ne è la misura; il fratello del protagonista è un gangster assassino seriale, senza la minima pietà o ritegno, ma per la madre yiddish il problema non sono i crimini, né che il figlio possa finire in prigione o condannato a morte, ma che, per qualche motivo possa diventare cristiano; allo stesso modo, il protagonista, fratello del gangster,apparentemente bravo ragazzo, senza alcuno scrupolo, dopo un fallito tentativo di far fortuna a Los Angeles, si installa come direttore nel Night Club, appunto Cafè Society, fondato e finanziato con i soldi del crimine e così trova il suo posto nella vita, senza fare neanche una piega . Anche in questo film, come nel bellissimo Match Point, i due protagonisti sono due giovani non benestanti, “in cerca di fortuna”; il loro amore è reso impossibile solo dall’aspirazione alla ricchezza; ma, mentre in Match Point, l’accendersi della passione, deviando i protagonisti dall’obbiettivo, fa virare la storia verso l’assassinio e la tragedia per quanto a senso unico, qui, forse per carenza di passione, da entrambe le parti ci sono scelte di convenienza e la rassegnata accettazione all’ineluttabile destino, venata di nostalgia idilliaca molto ben rappresentata, ma senza aneliti di ribellione. Insomma, è il denaro che muove le vite degli attori di questa commedia che è la vita, scritta, secondo Allen “da un commediografo sadico” e non c’è riscatto possibile; la stessa postura del protagonista, attor giovane, con il collo sempre incassato nelle spalle come una tartaruga (anche se bisogna ricordare che Allen è davvero un po’ sadico e non a caso con i giovani attori protagonisti), sembra rappresentare simbolicamente questa

Woody Allen

Francesco Cusa francescocusa@gmail.com di

Woody Allen ormai non fa più cinema. Essendo (stato) cinema, Allen vive l’esperienza cinematografica con la necessità delle impellenze domestiche: un giorno vale un anno. Caso piuttosto unico che raro nella storia della settima arte, il vecchio regista americano pare mosso dalle necessità della ricorrenza più che da una reale urgenza espressiva, e comincia a stare al calendario come la festa d’un vecchio santo trombone. A far le spese di questo diktat è la scrittura, il canovaccio: diciamolo senza mezzi termini, molte delle ultime produzioni di Allen mascherano le enormi lacune di sceneggiatura (fatte salve alcune pregevolissime eccezioni, quali ad es.,“Match Point” o il delizioso “Magic in the Moonlight”) a furia di maldestri salti, “detournement”, e velocizzazioni della storia, che alla lunga evidenziano le smagliature di trame male intessute, figlie di una compulsiva ed ansiogena poetica, di una foga autoriale solo apparentemente algida e distaccata. Ecco, diciamo che il vecchio Woody “può permetterselo”, può permettersi di canzonare lo spettatore, ancora e ancora, dopo pellicole indecenti quali “To Rome with Love”, che avrebbero stroncato la carriera di chiunque. Qui non si tratta di discettare del valore delle opere minori di un artista rispetto ai capolavori consegnati alla storia

sottomissione al potere della ricchezza, che sottrae energia e bellezza alla vita , ricambiando in status e comodità. Ciascuno ben collocato nella propria nicchia sociale, i due protagonisti, con la nostalgia dell’amore perduto, si ritrovano alla fine del film, ancora giovani, scambiandosi un bacio

romantico nella cornice del Central Park newyorkese, ma la vita è già passata. In questo film il cinismo di Allen sembra essere andato oltre, al di là di ogni possibile sussulto di pathos, in un’atmosfera dolce e rarefatta, dove non c’è aspettativa di vita futura. Comunque da vedere.

del cinema, quanto piuttosto di evidenziare la natura scadente di alcuni prodotti. Non è il caso certamente di “Café Society”, che è in grado quantomeno di riservare qualche delizia al dolente spettatore medio innamorato della poetica di Woody Allen. E noi finiamo col cascarci sempre, perché stiamo parlando pur sempre di un di un gigante, di un maestro, dell’autore di pagine di cinema memorabii che hanno segnato anche parte della nostra vita. Ma francamente, non ne possiamo più di questa “nostalgia” borghese ammantata d’una falsa aurea scanzonata e ridanciana, del mascara sulle rughe e del rossetto color carne sulle labbra di Madama Depressione. E dunque poco importa che in “Café Society” vi siano delle autentiche pennellate di bellezza, come gioielli rari a incastonare lo sfumare degli istanti: i colori accesi del tramonto californiano, i volti diafani della bella protagonista, lo skyline di una New York decorata dalle cartoline della memoria. Il meccanismo di affabulazione

di Allen è ormai meccanico, inceppato, procede a furia di strappi, rimescolamenti, rattoppi, non appassiona perché è tutto incentrato su una verve soggettiva e maniacalmente autobiografica, agiografica, claustrofobica. L’eterno rimando alla cultura ebraica, alla vita del quotidiano della propria adolescenza, finisce con l’addensarsi nell’iterazione smorta di una “recerche” che non ha nulla di proustiano. Nè giova al film (ai film di questi ultimi lustri alleniani) la polverizzazione rappresentativa di questo “trauma”, che vive e si incista nelle microstorie dei vari personaggi che si annunciano per poi sparire nell’oblio di una nevrosi del frammento. Il cinema di Woody Allen si è “ridotto” ad una sorta di cinema decorativo molestato da derive ossessive e maniacali, le quali, non essendo “preparate e risolte” in nome di una sacrosanta legge del contrappunto, finiscono col pesare sullo sfondo di questo suo ennesimo “biopic”. La narrazione perenne di una nevrosi illimitata può essere una costante vincente, a patto però che la si riesca ad esorcizzare con una buona dose di surrealismo. Non provarci ancora, Woody!

No


8 OTTOBRE 2016 pag. 10 Andrea Caneschi can_an@libero.it di

Dall’immagine scintillante della più avanzata tecnologia offerta al pubblico consumo da Soru, creatore di Tiscali, all’indietro nei millenni alla fonte della sua ispirazione, con un cammino inverso che ci fa salire sul monte omonimo fino alla dolina al cui interno, oltre tre millenni fa, aveva trovato riparo protetto una piccola comunità prenuragica. Siamo in Sardegna ovviamente, alle pendici del monte sulla cui sommità la grande caverna preistorica era rovinata su stessa dando origine ad una vasta cavità aperta – la dolina appunto – al cui interno sono stati trovati resti di abitazioni risalenti al prenuragico, testimonianza dell’insediamento di una piccola comunità di circa duecento persone, un po’ più, un po’ meno, secondo le valutazioni degli studiosi. Si parte con comodo, alle otto del mattino, raccolti sotto casa da un fuoristrada dedicato: otto gitanti curiosi ed una guida locale, responsabile della nostra sopravvivenza nelle forre del supramonte barbaricino. Lasciamo Dorgali lungo la provinciale per Oliena, fino alla deviazione per la fonte di Su Gologone, meta classica e conosciutissima della Sardegna orientale, alimentata dall’imponente sistema carsico scavato dalle acque nelle viscere del Supramonte. La superiamo senza fermarci e ci avventuriamo su uno sterrato che si inoltra nella valle di Lanaittu. La strada comincia a salire, in un susseguirsi di curve che seguono il profilo del monte, con pendenze crescenti che ci sollecitano sguardi allarmati al fiume che sotto di noi, a malapena visibile tra gli arbusti del sottobosco, rimpicciolisce a vista d’occhio. La nostra guida conosce bene la strada e nonostante il fondo dissestato non si perita di affrontare in buona velocità la salita e le curve, forse per rimescolare emozioni e digestioni in preparazione dell’ultimo tratto, un tratturo pietroso che fatichiamo a riconoscere per una strada, che a costo di sobbalzi ed allarmanti ondeggiamenti del fuoristrada ci porta alla prima sosta, in mezzo al bosco, dove abbandoniamo l’auto. Nonostante la calura dei

Salita al monte Tiscali

giorni precedenti, a quest’ora del mattino e grazie alla nuvolaglia che ogni tanto lascia cadere poche gocce d’acqua sul pietrame che ci circonda, l’aria è ancora fresca. Ci permettiamo un golfino leggero per affrontare la salita, sospinti da una brezza che ci raffresca il sudore addosso. Prendiamo gli zaini – poche cose, da turisti di mare – e cominciamo la salita. Il sentiero qui è ampio, con un fondo irregolare coperto dal pietrisco che l’azione del La Fondazione Museo Pino Pascali di Polignano a Mare (Bari) ha concesso il XIX Premio Pino Pascale alla celebre artista tedesca Christiane Löhr, protagonista del panorama internazionale, crea raffinate opere e installazioni con elementi della natura, utilizzando semi, gambi, foglie di diverse piante, o elementi organici come i crini di cavallo. Le impalpabili installazioni legate ai cicli stagionali della terra sono esili e fluttuanti architetture ambientali piene di energia vitale, partecipano allo spazio che le ospita infondendo senso di bellezza e armonia. Nata a Wiesbaden, Christiane Löhr vive e lavora tra Colonia e Prato. Ha studiato con Jannis Kounellis alla Kunstakademie di Düsseldorf. Il suo lavoro è stato recentemente esposto alla Kunsthaus Baselland di Basel, che le ha dedicato un’importante mostra personale. Ha partecipato a numerose mostre

tempo e l’uomo stesso hanno ricavato dalla pietra calcarea del monte. Stiamo infatti seguendo una delle antiche vie tracciate nei primi decenni dell’800 per il trasporto del legname: lungo questi tratturi, arrampicati sulla montagna a tagliare il bosco lungo le pendenze più convenienti, passavano con grande fatica i carri da buoi, carichi di legna e di carbone. Di quando in quando il sentiero si allarga e nelle piazzole indoviniamo

tracce scure, immaginiamo predisposte dall’organizzazione turistica a sollecitare memorie di antiche pratiche, che ci ricordano la loro funzione di spazi appositi per le pire di legna fatta bruciare per produrre carbone. La boscaglia che ci circonda porta i segni di quella smisurata aggressione capitalistica che nel corso del 1800 ha privato la Sardegna del suo ricchissimo patrimonio arboreo a favore del nascente capitalismo industriale del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia: pochi i grandi alberi, a quel tempo inaccessibili o troppo torti per farne traversine per le ferrovie d’Europa; ginepri centenari che si arrotolano sui loro tronchi per agevolare la salita della linfa in un panorama povero di acqua, battuto dal vento, fatto di pietre e roccia; cespugli di mirto e lentisco che non riusciranno mai a diventare alberi; crocus violetti cresciuti tra le radici superficiali di un grande terebinto, un tempo prezioso e diffuso fornitore di legname per l’edilizia rustica della campagna sarda, oggi ridotto a sparsi esemplari dispersi nella boscaglia.

istituzioni tra cui il Vangi SculptuIl Pino Pascali re Garden Museum a Shizuoka in la collezione Panza di a Christiane Löhr Giappone, Biumo a Varese, il Kunstmuseum e Biennali, tra cui l’edizione 49. della Biennale di Venezia, curata da Harald Szeemann. Le sue opere sono collocate in prestigiose collezioni private e pubbliche e ha partecipato a mostre in importanti

Bonn, il Museum of Arts and Design di New York, il National Centre for Contemporary Arts NCCA di Mosca, la Fundació Pilar i Joan Miró a Palma de Mallorca, la Fattoria di Celle, la Collezione Gori a Pistoia.


8 OTTOBRE 2016 pag. 11 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

A

lla pagina 273 de “Il mondo di ieri” (edizione Mondadori 2014) di Stefan Zweig ho segnato il commento: “tracce di estetica”. Riflettendo sul decennio 1923-33, l’Autore ha appena informato il lettore che proprio in quegli anni era entrato in casa sua un ospite inatteso: il successo. Ospite che sarebbe stato allontanato, con l’avvento del regime nazionalsocialista, a causa del bando imposto sulle sue opere per ordine di Hitler. Zweig rievoca la caduta da tale ‘vetta’, inserendola a pieno titolo in quell’annientamento di una intera generazione letteraria che egli ha stimato eccezionale e completo. Oggetto della mia attenzione è, tuttavia, proprio il suo successo, o meglio, la spiegazione con cui l’Autore risponde alla domanda: da quale caratteristica derivava questo successo? Tutto parte dal suo essere “impaziente e passionale”, cosicché “ogni prolissità, ogni esagerazione e ogni nebuloso sentimentalismo, (…) quanto superfluamente ritarda, sia in un romanzo sia in una biografia o in una discussione di idee”, finisce per irritarlo. Nove decimi dei libri che gli capitano tra le mani gli paiono gravati da superfluità, pettegolezzi, affollamento di figure inutili, “così da riuscire troppo poco interessanti e dinamici.” Invito a soppesare la modernità di questa riflessione. Mentre l’Autore legge è già (anche) scrittore e la lettura gli procura le informazioni necessarie a concepire un testo “che serbi il suo livello ininterrottamente, pagina per pagina e che sino all’ultima trascini in un solo slancio.” Non è che si mette nei panni del lettore: egli è lettore, prima di scrivere. Fatalmente, la seconda considerazione è che per poter scrivere, bisogna anzitutto leggere. Leggere molto consente di imparare - più che ciò che ‘si può fare’, quanto meno - ciò che ‘non deve essere’. È già molto, non solo nella letteratura. La cura dell’essenziale, d’altronde, aiuterà ciascuno ad amare, a meglio apprezzare - e di più -, ad innestare un rigore in tutto ciò che non ha una utllità diretta o anche, per così dire, materiale.

Il trionfo dell’arte sulla difficoltà

La letteratura e l’arte sono parte del glorioso universo in cui prosperano le cose belle e superflue:

Le architetture

Pasquale Comegna di

Roma,

depurarle dei “molti passi aridi e lenti”, come scrive l’Autore, è necessario al significato, al valore che hanno, alla loro vitalità e alla attitudine a superare le barriere del tempo. Il lettore-Zweig trasferisce la propria antipatia “per ogni prolissità e lentezza” nella scrittura. La lettura lo ha educato alla vigilanza e gli ha suggerito un metodo: lasciar correre la penna nella prima stesura, riportando tutto ciò che gli sta a cuore; per poi dare inizio al “vero lavoro” che è un “continuo gettar fuori zavorra, un continuo stringere e rafforzare l’architettura interna.” Bello, no? Più che un lavoro è un lavorìo, una “tecnica del cancellare”, un’arte del sottrarre e,

come egli dice, “della rinuncia”. Mi riporta a quel capolavoro di Italo Calvino, le “Lezioni americane”, che ha scolpito nella memoria il pentalogo di tutto ciò che può reputarsi buono nella letteratura, nella filosofia e un po’ anche nella vita. Tre dei cinque valori per la letteratura del terzo millennio sono immediatamente implicati in questa arte della rinuncia: la leggerezza, la rapidità, l’esattezza. La “severa disciplina” di Zweig – sto per usare un concetto non mio (bensì di Nicola Gardini, “Lacuna”, 2014) - darà ben più soddisfazione al lettore, perché da essa “lo stile uscirà tanto più esatto e lui proverà la gioia di assistere al trionfo dell’arte sulla difficoltà.”


8 OTTOBRE 2016 pag. 12 Roberto Giacinti rogiaci@tin.it di

L

’Europa appare del tutto assente dal grande gioco globale.Nell’alternanza delle sole fasi negative, depressione e recessione, non vede l’uscita dalle crisi che si ripetono per cui gli imprenditori sono sempre più sfiduciati e poco propensi all’innovazione: manca l’ottimismo che è alla base della crescita. Imperativa è la domanda: quanto durerà questo ciclo? Schumpeter, uno dei più famosi economisti del XX secolo, asserì la presenza di più cicli di diversa lunghezza, abbandonando l’impostazione precedente secondo cui le fluttuazioni avrebbero portato comunque all’equilibrio generale di lungo periodo. I cicli più lunghi, da 50 a 70 anni, furono posti all’attenzione internazionale nel 1925 da Kondratiev; da allora non è più facile teorizzare diversi cicli economici e tanto meno la durata. I principali cicli lunghi teorizzati sono la rivoluzione industriale 1771; l’era del vapore e delle ferrovie 1829; l’era dell’acciaio, dell’elettricità e dell’ingegneria pesante 1875; l’era del petrolio, dell’automobile e della produzione di massa 1908; l’era dell’informatica e delle telecomunicazioni 1971. Diverse scuole di pensiero hanno cercato di individuare all’interno delle economie capitalistiche i motivi scatenanti di questi lunghi cicli identificandoli soprattutto nelle innovazioni, negli investimenti, nelle invenzioni, nelle guerre e nelle crisi capitalistiche. È chiaramente constatato che ad ogni ciclo lungo si accompagnano modifiche strutturali anche profonde, a differenza di quanto normalmente avviene per i cicli di breve o medio periodo. Da allora gli economisti viaggiano a vista, pare proprio che la mancanza di nuove teorizzazioni sia dovuta alla generazione di fatti nuovi di peso internazionale ben più rilevanti di una guerra. Gli economisti non sapevano prevedere il dopo 11 settembre, tanto meno il dopo Lehman ovvero un’ipertrofica crescita degli investimenti finanziari a fronte di un rallentamento dell’economia reale, e poco dimostrano ancora oggi sul dopo Brexit. Dagli anni 70 l’Europa ha anche

La stagnazione secolare

sbagliato orizzonte credendo di dominare la crescita vendendo tecnica e prodotti evoluti contro prodotti a basso valore. La Cina ha dimostrato di correre più delle previsioni degli economisti dimostrando che le leggi della fisica sono irrinunziabili più di quelle dell’economia. È ben noto che tra mercati non sufficientemente protetti vale la legge dei vasi comunicanti per cui fintanto che il livello dei redditi o dei prezzi, e parzialmenLido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Il Sedutone del Librone degli editoroni a Milano

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

te anche dei tassi, non si avvicinano, le emorragie rimangono profonde. La crescita globale ormai è stabilmente debole cosicché gli economisti hanno cominciato a definirla «stagnazione secolare». L’economista che coniò il termine è stato Alvin Hansen, che divenne il più importante propagandista delle idee formulate da Keynes nella Teoria Generale. Si deve poi a Larry Summers, ex segretario del Tesoro americano durante la presidenza Clinton, l’aver sottolineato come lo stato generale dell’economia potrebbe non essere solo una congiuntura negativa, ma diventare lo stato normale dell’economia mondiale. Oggi dobbiamo fare i conti con un importante rallentamento di due fattori chiave: quello demografico, che comprime i consumi, e quello tecnologico, che comprime gli investimenti. A questi si accompagna la stagnazione (e in certi casi la riduzione) dei salari, l’indebitamento dei governi, la deflazione e una crisi di fiducia collettiva che danno vita al circolo vizioso della crisi economica, in una spirale negati-

va che si autoalimenta. Molte ricette vengono formulate per sconfiggere questa spirale, ma è certo che in ogni caso occorre puntare su una strategia lungimirante che non dimentichi l’importanza di una più equa distribuzione della ricchezza sociale. Per rilanciare sia gli investimenti che i consumi, bisogna insomma invertire l’evoluzione numerica della classe bassa e reciprocamente di quella media; solo aumentando quella media si possono elevare i consumi e quindi gli investimenti, e di conseguenza i redditi complessivi ed i gettiti fiscali. Occorre ricostruire un nuovo rapporto fra politica ed economia, per avere una buona politica e una economia sostenibile. Purtroppo chi si è formato alla scuola della politica in quanto tale, ha accumulato solo esperienza amministrativa che pretende di applicare tout court alla vita economica. Ecco perché occorre ridurre l’approccio ideologico per uscire dalla crisi prima che rimanga secolare!


8 OTTOBRE 2016 pag. 13

Le case sincroniche e diacroniche del mezzadro toscano

Aldo Frangioni aldofrangioni@live.it di

R

oberto Zuri, fotografo fiesolano per diletto, ma non dilettante, ha documentato, per quasi 50 anni, la vita e il paesaggio del comune di Fiesole. Trecentocinquanta foto, solo una piccola parte del suo lavoro, sono state donate all’Archivio del Comune di Fiesole. L’Archivio Storico fiesolano si colloca, nel settore della documentazione, fra le istituzioni meglio organizzate della Regione Toscana e non solo, arricchendosi, negli ultimi 30 anni, di fondi provenienti da enti pubblici e privati cittadini. Gran parte del materiale, le prime carte risalgono alla fine del XV secolo, è digitalizzato e può essere agilmente consultato da tutti, anche se non esperti in ricerche storiche. Il merito della sua sistematizzazione e valorizzazione va alle archiviste Maura Borgioli e Lucia Nadetti. Si deve proprio a quest’ultima l’acquisizione delle foto di Roberto Zuri. Il Fondo riguarda il paesaggio agrario fiesolano e gli ultimi esempi di coltivazione mezzadrile esauritasi agli inizi degli anni ‘70 del XX secolo. La mezzadria si diffuse in varie parti d’Europa, in Italia fu praticata sopratutto nel centro Italia (Toscana, Umbria, Marche). Alla fine degli ‘50 del XX secolo inizia un veloce superamento di questo rapporto di lavoro agricolo. Tutto il territorio fiesolano (Valle del Mugnone, Valle dell’Arno e Collina fiesolana) viene interessato dall’abbandono dei poderi per tutti gli anni 60. L’attenta documentazione di Roberto Zuri fotografa gli ultimi momenti della mezzadria: gli edifici, gli strumenti di lavoro, le coltivazioni, uomini e donne. Più tardi agli inizi degli anni ‘80 il Comune di Fiesole approverà un fondamentale atto della pianificazione extra-urbana (opera dell’architetto Gianfranco di Pietro) che verrà utilizzato da altri comuni della Regione Toscana, anche se non da molti. Questa “variante” al Piano Regolatore vigente permetteva il cambio di destinazione d’uso della casa colonica per usi di civile abitazione condizionando questa “concessione” al mantenimento del podere circostante e della sua minima manutenzione. Questo strumento ha permesso il mantenimento del prezioso valore paesaggistico impedendo frazio-

namenti e ulteriori edificazione in aree agricole. Il valore delle foto di Zuri è particolare perché precede di oltre dieci anni la documentazione fotografica fatta dal Comune di Fiesole. La storia della mezzadria, oggetto di numerosi studi, attende ancora un’organica

verifica delle trasformazione del territorio fiesolano insieme all’analisi, dopo oltre trenta anni dall’approvazione alla “variante”, dello strumento urbanistico, tutt’ora operante, anche per comprendere pregi e difetti di quell’intervento. Il corpus di fotografie che Roberto

Zuri ha donato all’Archivio storico del comune è sicuramente una testimonianza fondamentale per qualsiasi studio sul paesaggio nella campagna fiorentina. Di particolare interesse sono gli edifici rurali che sono stati fotografati nello stato in cui si trovavano prima che fossero trasformati in civili abitazioni. La casa colonica del mezzadro è la casa della famiglia, spesso numerosa, la stalla di mucche e buoi, le stalle per i maiali e gli altri animali domestici. Lo spazio della vita della famiglia mezzadrile ha al centro la grande cucina con il focolare, la loggia con il forno per il pane e l’aia per l’attività all’esterno. Le case coloniche toscane si differenziano fra sincroniche (quelle progettate espressamente per l’attività mezzadrile in gran parte costruite fra la fine del XVIII e la prima metà del XX secolo) e quelle diacroniche, caratterizzate da edifici preesistenti adattati all’uso agricolo. Queste ultime spesso inglobano parte di antiche costruzioni, alcune delle quali risalgono al 1200-1300. Con attenzione e raffinata conoscenza Zuri documenta lo stato di questi edifici, le culture arcaiche come i filari di viti inframmezzati da ulivi e pioppi, l’estesissima sistemazione del suolo collinare attraverso balzi e muri a secco e i tanti strumenti del lavoro contadino. Una parte delle foto sono esposte in permanenza nei locali della Casa del Popolo di Caldine.


8 OTTOBRE 2016 pag. 14 di

Elisabetta Trincherini

L

ucy Jochamowitz, peruviana di nascita, cresce in una famiglia che incrocia i tipici e fecondi caratteri della “mescla” sudamericana. Poco più che ventenne si trasferisce in Italia, prima a Roma e poi a Firenze, con una borsa di studio a completamento del suo percorso di formazione in ambito artistico già intrapreso a Lima. Da lì in poi, pur non perdendo mai il legame con la terra d’origine, elegge l’Italia e Firenze per risiedere a lavorare. Molte sono le tappe del suo percorso espositivo: nel ’95 la XLVI Biennale di Venezia, nel 2004 la personale Palabra Rossa al Salone di Villa Romana di Firenze a cura di Katalin Burmeister e la collettiva Ipermercati dell’arte a cura di Omar Calabrese al Museo Santa Maria della Scala di Siena. La cifra stilistica che di primo acchito e maggiormente ne denota visivamente il lavoro ha a che fare con il flusso sanguigno. Capillari rossi traslati in forme arborescenti intessono trame sulla carta ma che dalla carta fuoriescono anche, concretizzandosi in spinosi rami di biancospino e huaranguillo che mantengono il colore rosso intenso e brillante del sangue. E poco importa che la resa stilistica dell’opera sia, pur nell’immediatezza delle forme, sofistica, il sangue è un primo elemento, imprescindibile, del lavoro di Jochamowitz che lo lega senza riserve alla potente e viscerale cultura latinoamericana. Un altro è il femmineo che del sangue è contraltare: l’importanza e la centralità della donna, a lungo espressa nella sua opera attraverso la forma della gonna, esageratamente ampia e resa attraverso una varietà di materiali, evolve qui nell’opera Madreflor, sorta di etereo manto bianco, immacolato, fatto di fiori e seni materni, punteggiato e avvolto da rovi rossi. L’ispirazione dichiarata dall’artista per l’opera Picaflor-Madreflor è un fatto concreto che ha luogo da centinaia di anni in un piccolo paese del Perù rurale, La Arena. Qui tutti gli anni il giorno dei morti viene

celebrato un rito che coinvolge le madri e i figli, vivi e morti: tutte le donne che sono state madri e hanno perso dei figli vanno in piazza con il locale miele di canna da zucchero da offrire, spalmato sul pane dolce, ai figli, vivi, di altre madri per nutrire simbolicamente anche i propri. Si tratta di un rituale in nessun modo religioso, specifica l’artista, sebbene l’illuminazione delle tombe (ridipinte in colori sgargianti ogni anno per l’occasione) attraverso centinaia di lumini rimandi anche al culto cattolico, inevitabilmente derivato dai colonizzatori spagnoli: il significato profondo del rito è certamente laico o meglio culturalmente autoctono. Il concetto di nutrimento, altro elemento profondamente utile alla comprensione del lavoro di Jochamowitz, è il senso ultimo di questo rituale antico, come nell’opera Gonna di Flora Tristán, omaggio all’eroina femminista e combattente franco- peruviana. In questo senso non deve sorprendere che di lei e del suo lavoro abbia voluto scrivere (La Falda di Flora 2004) il premio Nobel peruviano per la letteratura Mario Vargas Llosa. Il femmineo animato da Jochamowitz è quello di pensiero, ma anche strutturalmente connesso alla tradizione popolare delle piante, delle erbe germogliate e fiorite; la sua è una donna di intelletto che non rinuncia a essere curandera, non rinuncia a farsi carico di nutrire e curare gli istinti e i bisogni primigeni di un figlio che per traslazione diviene il genere umano nel suo complesso. Questo aspetto è qui vividamente rappresentato: a regalare il nutrimento sono grandi seni bianchi, sontuosi e delicati. Il colore bianco ricorda l’elemento primario del nutrire, il latte materno, tessuto vivo come il sangue, richiamato dagli scarlatti rami di huaranguillo che punteggiano e raccolgono l’installazione delimitandola. A supportare l’installazione anche alcune serie di disegni. Ragnatele di rosse ramificazioni che suggeriscono le forme di organi riproduttivi femminili

Il flusso sanguigno latino-americano si alternano a elementi floreali. I petali, che nell’installazione fungono da corolla ai seni, ritornano sulle pareti nei toni del rosso cupo e del bianco. L’elemento floreale, già caro all’artista, qui rimanda anche a un’altra componente del rito: quella del picaflor. Piccolo volatile, messaggero dell’aldilà, metafora del bambino morto (los angelitos nella tradizione popolare), che svolazzando si reca di fiore in fiore alla ricerca del suo nettare: miele, latte, sangue e, in ultima istanza, memoria. Il picaflor rincorre i fiori materni sulla parete e vibra nello spazio della sala grazie alla sua

presenza smarginata di ologramma. L’esagerazione delle forme dell’istallazione Picaflor-Madreflor e la loro resa, che non prescinde da una componente ironica, rimanda invece alla dimensione gioiosa del rituale. Quella che ha luogo nella piazza di La Arena il giorno dei morti è una festa. Il dolore, la sofferenza, così connaturati al sentire cattolico, non hanno avuto la meglio sulla cultura autoctona dei popoli latinoamericani. Questi, colonizzati dalla violenza missionaria, non hanno abdicato alla loro intima natura: l’anniversario è triste ma per celebrarlo si festeggia.


L immagine ultima

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8 OTTOBRE 2016 pag. 15

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

n uomo sandwich all’angolo di West 43rd street. Non è un momento particolarmente frenetico e quest’uomo, che visto di dietro sembra quasi un manichino, fa pubblicità ad uno studio fotografico specializzato nelle riprese di nudo di “live models”, le modelle in carne ed ossa, più carne che ossa, che si espongono in ambienti abbastanza degradati allo sguardo famelico di pseudo fotografi pruriginosi.

NY City, agosto 1969


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