Cultura commestibile 190

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

“Lo vedo regolarmente e la maggior parte delle volte discutiamo di geopolitica. Quando parla con gli oligarchi, che cercano di uccidere il paese, sono quelli ad aver paura di lui e non il contrario. Il popolo russo gli è riconoscente perché con lui ha ritrovato una dignità che aveva perso”

L’ultimo metro

Gerard Depardieu parlando dell’amico Putin

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Simone Siliani s.siliani@tin.it di

Prato futura

I

ncontriamo l’assessore alla cultura del Comune di Prato, Simone Mangani, a 10 giorni dall’apertura del nuovo Museo Pecci di arte contemporanea e non possiamo non iniziare con una prima valutazione su come è stato accolto questo veramente nuovo museo. Innanzi tutto il giorno dell’apertura è stato straordinario per la città, ma non solo perché molte persone sono venute anche dall’estero per visitare il nuovo museo. Nella giornata di domenica 16 ottobre abbiamo avuto 13.000 visitatori e nella tre giorni di preview altre 15.000 persone lo hanno visitato. Per noi è stata una gioia incredibile perché è il coronamento e al tempo stesso l’inizio di un percorso. Il coronamento perché negli ultimi due anni abbiamo lavorato tantissimo per arrivare qui: abbiamo costituito una fondazione che gestisce dal 1° marzo 2016 il centro Pecci al posto della storica associazione; nella Fondazione sono soci il Comune di Prato e l’Associazione Centro per l’arte contemporanea “Pecci” e la Regione Toscana entrerà ad inizio anno 2017 come socio sostenitore. Abbiamo chiuso una partita aperta all’inizio del 2006 sulla proprietà della collezione del museo e quindi, con un accordo tombale ma al tempo stesso pacifico, il Comune di Prato è diventato comproprietario di tutta la collezione, acquisita dal Centro dalla sua apertura al 31 dicembre 2004. E soprattutto, grazie all’accordo con la Regione Toscana, Comune di Pistoia e Fondazione “M.Marini – S.Pancrazio”, abbiamo potuto investire gli ultimi 3,5 milioni di euro che sono stati indispensabili per creare quello spazio pubblico, quella piazza che si vede oggi davanti al Pecci, per ristrutturare l’edificio di Gamberini su cui si innesta l’anello di Nio e per rendere visibile quello che prima non era, perché l’ingresso del museo sembrava un labirinto. Citavi prima l’innesto fra il nuovo edificio di Nio su quello antico di Gamberini. Forse, anche dal punto di vista simbolico, possiamo dire che così come il nuovo di Nio aggredisce e ingloba il vecchio, così possiamo pensare che il nuovo Pecci avvolge il vecchio Pecci che pure nel 1988 fu il primo centro d’arte contemporanea italiano costruito appositamente con

questa finalità. Ecco, dopo 28 anni non solo l’architettura, ma anche l’arte contemporanea è profondamente cambiata. Cosa è cambiato oggi nel realizzare un centro d’arte contemporanea? Partendo dall’edificio, che è bellissimo, oggi si entra dentro l’anello di Nio e in fondo c’è un passaggio di vetrate fra il vecchio e il nuovo, si vede l’anfiteatro che l’architetto Gamberini, in modo assolutamente lungimirante, progettò per il vecchio edificio del Pecci. Già questo rende evidente che c’è una missione che ha delle radici, in verità risalenti ancor prima del 1988 perché il Centro Pecci fu edificato dopo anni di discussione sulla destinazione di quell’area grazie ad un accordo con il cavaliere del lavoro Enrico Pecci che ebbe un’intuizione nient’affatto banale. Oggi, a distanza di 28 anni, è cambiato tutto: il 25 giugno 1988 c’era ancora il Muro di Berlino e la missione dell’arte contemporanea sembra essere cambiata moltissimo per il solo fatto che oggi è sulla bocca di tutti grazie ad alcune star milionarie e che magari drogano il mercato, l’attività espositiva o quella museale in senso più stretto. Però la missione, nonostante questo, rischia di essere paradossalmente simile a quella degli anni ‘80, perché alla fine l’arte contemporanea è una domanda, un punto interrogativo che è rivolto al cittadino, al fruitore, anche al turista e che non necessariamente ha bisogno di una risposta in tempi rapidi e si giova del fatto di essere estremamente immediata anche quando è articolata e complessa la sua gestazione da parte dell’arti-

sta. È un approccio che può essere anche respingente nei confronti del visitatore che potrebbe anche non aver bisogno di filtri e di strumenti interpretativi particolarmente raffinati, come a volte l’arte storicizzata invece richiede. Quindi la prima missione dell’arte contemporanea è quella di costruire una relazione con il territorio di riferimento. Che non è la città di Prato, ma quanto meno l’area metropolitana e senz’altro anche la Toscana, a voler essere conseguenti agli atti di programmazione della Regione. La città di Prato ha sempre avuto una relazione ambivalente con il Centro, perché da una parte era orgogliosa che il Pecci portasse nel mondo il nome di Prato, dall’altro considerava il Pecci come un corpo estraneo alla storia della città. Quindi è evidente che il Pecci è di tutti, non soltanto perché dei 14,5 milioni di euro necessari per la ristrutturazione, ben 14,45 sono soldi pubblici, ma è di tutti perché ha una missione che è condivisa ancora oggi dagli enti pubblici. Una relazione stretta con il territorio che è facilitata da due cose: la collezione che è il patrimonio di partenza del Centro e dal Centro di Arti Visive, il Centro di documentazione che a suo volta ha un patrimonio sterminato di circa 5.000 volumi, non soltanto libri d’artista, che hanno richiamato nel corso del tempo ricercatori, semplici curiosi per conoscere la genesi di quello che viene esposto non soltanto al Pecci ma nei musei di arte contemporanea di tutto il mondo. E su questi due patrimoni, una struttura didattica che è messa a

disposizione di tutti i musei anche i più piccoli, quella struttura che Munari al Pecci portò ad un livello altissimo. Quindi la prima missione è la relazione con il contesto di riferimento. E questo credo che i pratesi l’abbiano capito, perché la curiosità non è solo per la mostra “La fine del mondo” curata dal direttore Fabio Cavallucci – che invito a venire a vedere e che riempie completamente il museo e non ha a sua volta bisogno di un filtro eccessivo (ci sono delle opere che colgono immediatamente l’occhio e alcune avvolgono completamente il visitatore), la curiosità è anche per questo luogo che sembra atterrare dallo spazio in città e che in realtà ha delle radici ben ancorate nella sua storia. Infatti il Pecci nasce grazie al Comune di Prato, alla famiglia Pecci e ad un contesto di collezionisti che avevano perorato al tempo la nascita di quel museo. Oggi il museo si apre alla città. A proposito di territorio, a Prato abbiamo messo assieme 11 spazi indipendenti che si occupano in modo professionale di arti contemporanee, che hanno creato, con il contributo e la spinta dell’amministrazione, una rete che si chiama PuntoCon che, in contemporanea apertura del Pecci, ha avuto un boom clamoroso di visitatori. Sono realtà che esistono a Prato, in alcuni casi addirittura da 30 anni e in altri da pochi anni, perché c’è un clima, un ambiente favorevole al contemporaneo. La nuova forma di governo del museo è anche fondamentale perché da un lato ci sono il Comune e la Regione Toscana che garantiscono la funzione pubblica e dall’altro


Da non saltare

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la fondazione rinnova la sua missione perché nel corso dell’ultimo anno è passata da 120 associati a 300 e sta continuando a crescere; ed è l’altra gamba fondamentale per la vita di quello spazio. Che è estremamente impegnativo e paradossalmente credo che Gamberini dimostrerà di essere nuovo quanto Nio nel corso del tempo. Nio ha fatto una cosa davvero visionaria e quell’antenna che simboleggia il nome del progetto, “Sensing the wave”, captando le onde, è esattamente la misura di quello che dovrebbe essere il Pecci: un centro che capta le onde del territorio, ma anche le rimanda. Hai fatto riferimento all’area metropolitana nel parlare del rapporto con il territorio, e questo riporta il tema Firenze, oltre che di Pistoia. Firenze ha un rapporto complesso con la contemporaneità e con Prato. Che evoluzione vedi a seguito della riapertura del Pecci in questo rapporto? Io ho un’opinione non ortodossa e minoritaria in proposito: se Palazzo Strozzi, che ha anche questa missione, diventa un luogo di esposizioni dedicato anche all’arte contemporanea il Centro Pecci può soltanto giovarsene. Perché il luogo per eccellenza dell’arte contemporanea in Toscana - per la sua storia, per la sua collezione, per il Cid – rimarrà comunque il Pecci. Ma è ovvio che la capacità attrattiva di Firenze in termini di flussi è paragonabile solo a quella delle altre grandi capitali europee e, siccome l’arte contemporanea è uno dei motivi che fa muovere le persone, la compresenza e la collaborazione fra Firenze e Prato può soltanto rendere un giovamento al Centro Pecci. Quando abbiamo riunito le due Giunte comunali di Firenze e Prato, nel documento finale era scritto che avremmo avviato una collaborazione anche sull’arte contemporanea. Non perché la mostra di Jan Fabre debba essere replicata a Prato, ma perché vi è un centro espositivo come Palazzo Strozzi e un centro di coordinamento delle politiche del contemporaneo in Toscana che è Prato a cui abbiamo dato seguito con un semplice accordo sul biglietto unico tra “La fine del mondo” e la mostra di Ai Weiwei. Firenze e Prato, in questa nuova situazione, ci consentono – se riuscissimo a tematizzarlo – di fornire una panoramica completa dello sviluppo dell’arte, da quella moderna dalla

Intervista all’assessore Simone Mangani fine dell’Ottocento fino agli anni ‘50-’60 del Novecento, fino a quella contemporanea. Firenze nella prima ha avuto un ruolo importantissimo, basti pensare alle correnti artistiche di inizio Novecento o all’architettura della prima metà del secolo; mentre Prato ha svolto un ruolo più importante negli anni più vicini a noi, dagli ultimi decenni del secolo scorso ad oggi. Qui potremmo cogliere questa evoluzione dell’arte e comprendere che la Toscana non è stata poi così marginale come si pretende. Forse manca ancora la consapevolezza di questo percorso che, ad esempio, a Firenze non è marcato tanto da Palazzo Strozzi quanto piuttosto dal Vieusseux, dalle Fondazioni Michelucci o Primo Conti, dal museo Marino Marini, lo stesso museo Novecento e la Galleria di arte moderna di Palazzo Pitti, nonché dalle grandi opere architettoniche di Michelucci o Nervi. Credo che vi sia da rendere evidente quello che, anche se non in modo continuativo, esiste: una sorta di “unisci i puntini e avrai la figura”. Sulla relazione fra Prato e Firenze penso anche all’operazione fatta dalla Fondazione Ferragamo che ha realizzato un percorso espositivo in quattro luoghi diversi, che si chiama “Fra arte e moda”, che ha coinvolto gli Uffizi, la Galleria del Costume a Palazzo Pitti, ovviamente la Fondazione Ferragamo e anche il Museo del Tessuto di Prato e fino a febbraio questa esposizione rimarrà aperta. Il Museo del Tessuto, tra l’altro, si trova in un contesto di archeologia industriale che è uno dei più interessanti, con la fabbrica Campolmi nel centro storico che oggi è la straordinaria biblioteca “Lazzerini”. Bisogna dare una cornice e un disegno ad una relazione che, in modo non ancora strategico, già esiste fra le due città. Esiste del materiale per rendere chiaro che quello che dal punto di vista urbanistico è ormai una realtà, cioè la continuità fra le due città, lo è anche dal punto di vista artistico e culturale. Dobbiamo lavorare con più convinzione ad una prospettiva di questo genere, senza dimenticare Pistoia, che è stata designata Capitale italiana della cultura per il 2017. Ho letto il progetto e mi ha convinto per due motivi: per la sua semplicità e per il fatto di non aver prospettato alla commissione esaminatrice voli pindarici o effetti speciali. L’arte contemporanea in questa area me-

tropolitana ha una sua continuità. Noi abbiamo in piazza S.Marco “Forma squadrata con taglio” di Henry Moore, ma lui l’esposizione la fece a Forte Belvedere a Firenze agli inizi degli anni ‘70. Poi c’è la Fattoria di Celle a Pistoia di Giuliano Gori, che è un’esperienza clamorosa, forse non ancora conosciuta quanto dovrebbe essere. Abbiamo un tratto e un passato comuni che tendiamo alle volte a dimenticare in nome di rivendicazioni particolaristiche che lasciano il tempo che trovano. Hai citato giustamente la collezione, ma il Pecci si pone anche come centro di produzione dell’arte contemporanea? Dovrebbe, certamente. Uso il condizionale per rispetto tanto del CdA della Fondazione quanto della direzione. A chiosa del sistema di governance del Pecci, va ricordato che i membri del CdA sono 6, quattro del Comune, uno dell’Associazione e uno dei soci sostenitori (che è poi la rappresentante della famiglia Pecci) e poi c’è un Collegio dei fondatori in cui il Comune di Prato è rappresentato dal delegato del sindaco, cioè il sottoscritto, l’Associazione dal presidente o suo delegato, che dà degli indirizzi molto generali all’interno della Fondazione. Io mi auguro che la vocazione produttiva si sviluppi. Noi abbiamo in programma di collocare opere storiche della collezione seguendo il progetto di Nio e la sua espansione verso la città. Staccioli è collocato vicino alla Questura, nella rotonda davanti al Pecci c’è il cantiere; la famosa colonna spezzata di Anne e Patrick Pioirier, dedicata a Luigi Pecci, verrà deciso dove collocarla; in piazza Ciardi nel centro storico ci sarà un’altra opera alla fine di dicembre. Oltre a questo, nell’ambito del percorso espositivo delle mostre è auspicabile che – come è sempre stato nella storia del Pecci – rimanga qualcosa nel patrimonio del museo. Nel percorso di avvicinamento per la riapertura siamo partiti il 16 settembre con l’opera di Anis Kapoor che si chiama “Here and there” e che è uscita dalla prima mostra di apertura del Centro Pecci che era “Europa oggi” del 1988 curata dall’allora direttore Amnon Barzel e rimasta da allora nella collezione. Vorremmo che questo potesse continuare. Immagino che come assessore ti

preoccupi anche l’aspetto della gestione di uno spazio così ampliato, addirittura raddoppiato, rispetto all’originale Ho letto in una vetrina nel centro storico di Prato una citazione, non so se aprocrifa, di Picasso: “la creatività finisce dove inizia il buon senso”. In termini logici, probabilmente, è vero anche il contrario. La gestione è un obiettivo prioritario per l’amministrazione. Abbiamo come tutti delle difficoltà di bilancio, ma fortunatamente non ci sono a Prato istituzioni culturali a rischio di chiusura. Quindi il Centro deve essere in grado di sostenersi con i contributi pubblici, che per la città di Prato sono ingenti perché noi mettiamo 1.180.000 euro, compreso la convenzione tra la Biblioteca Lazzerini che gestisce per conto del Pecci il Cid, e la Regione Toscana che nel 2016 ha messo 1 milione di euro. Poi vi sono gli sponsor, i donor, il ricavato dall’affiliazione, la famiglia Pecci che è sostenitrice dell’associazione con 150.000 euro. Senz’altro è auspicabile un aumento della partecipazione di soggetti diversi da quelli pubblici. Come fare? Io credo che i soci fondatori dell’Associazione potrebbero, alla luce della rinnovata missione del museo e del grande successo di questi primi giorni di apertura, riconsiderare la loro partecipazione in termini economici. Oltre a questo, registro che l’effetto apertura ha fatto sì che vi siano una serie di soggetti che vogliono venire al Pecci a fare una loro attività non legata strettamente alla missione del museo, ma che può essere generativa di altri introiti. Quello che mi preme è strutturare il Pecci per partecipare ai bandi europei, così come sono in tal senso attrezzate il Museo del Tessuto e la Fondazione Teatro Metastasio. Non è pensabile che una realtà come il Pecci, che ha una funzione regionale, non si doti anche di personale per questo tipo di progettazione. Dei 3,5 milioni di euro dell’accordo di programma tra Regione Toscana, Comune di Prato, Comune di Pistoia e Fondazione “Marino Marini S.Pancrazio”, i 2 milioni della Regione Toscana sono in anticipazione di Fondi europei.


riunione

di famiglia

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I Cugini Engels

Le Sorelle Marx

Narciso

Come è noto, varie sono le versioni del mito di Narciso, in verità uno dei più fortunati dell’antichità, tanto che è giunto fino a noi in forme sempre cangianti a ugualmente tragiche. La versione ellenica del mito appare una sorta di racconto morale in cui il superbo e insensibile Narciso viene punito dagli dèi per aver respinto tutti i suoi pretendenti di sesso maschile, finanche lo stesso Eros. Si sa che Narciso, contemplando in una fonte la sua bellezza, restò incantato dalla sua immagine riflessa, innamorandosi perdutamente di se stesso, e in quella fonte si perse. Vi è la versione romana nell’episodio narrato da Ovidio. La versione di Pausania trova poco credibile (usando le sue stesse parole “idiota”) che qualcuno non sia in grado di distinguere Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

Cecco da Caravaggio, gli anziani e il referendum

un riflesso da una persona reale, e propone una variante in cui Narciso si innamora di sua sorella gemella e quando questa muore, alla fonte Narciso vi si specchia e trova consolazione scambiando il suo volto riflesso con quello della sorella amata.. Oggi Narciso dà il nome ad un disturbo della personalità con il quale si intende l’amore esagerato per la propria immagine e per se stesso. Quella moderna si definisce la versione di Giani. Sì, è il nostro Eugenio il novello Narciso; così follemente innamorato della sua immagine di homo omnia e di homo initium che si è perduto nel suo Iphone in un raptus selfico che non poteva che avvenire con uno sfondo composto dei suoi aedi che ogni giorno ne raccontano le incredibili gesta e l’inarrivabile beltà.

Scavezzacollo

Tomaso Montanari valente storico dell’arte e amico di questa rivista è rimasto vittima di un male comune a molti professori fiorentini. Un morbo volgarmente detto girotondinite che ha già colpito nel passato e procurato danni (è questo uno degli aspetti più singolari della malattia) più agli altri che ai soggetti colpiti. Vedere alla voce Pancho Pardi per capirsi. Ecco Montanari è ormai vittima del morbo e la campagna per il No al referendum costituzionale è il suo lazzaretto. Non passa giorno che il prode Montanari non mostri i sintomi del male: foga eccessiva, retorica schifiltosa (la bava dei cortigiani) e iperboli sulla fine della democrazia, il prossimo regime che la

riforma Renzi produrrebbe. Un crescendo di mali e pene bibliche che ogni volta ricorda più la scena tra John Belushi e Carrie Fisher (le cavallette!!!) nei Blues Brothers che un saggio di politologia. Non pago di questo gira in rete in questi giorni un filmato in cui, con il suo fare educato e professorale, declama un quadro di Cecco del Caravaggio di 400 anni fa come profetico della vittoria del No. Aldilà dell’erudizione, della bellezza dell’opera, ma sono sicuri dalle parti del No che prima l’ANPI, poi i pittori del XVII secolo siano in linea con le affermazioni di D’Alema che sono gli anziani a votare sì? Quanto meno sorge il dubbio che Tomaso abbia sbagliato pubblico.

Lo Zio di Trotzky

Il maratoneta Le maratone son corse defatiganti, si sa. Anche quelle d’ascolto. A Nardella devono essere gonfiate le orecchie e diventate rosse paonazze dopo aver partecipato alla maratona d’ascolto sulla cultura lo scorso 22 ottobre. Infatti, stando alle dichiarazioni stampa, il sindaco è apparso abbastanza confuso oltre che, come spesso gli accade, esaltato. “Ganzo, si fa l’arte contemporanea alle fermate della tramvia!”, si sarà detto. Ma subito dopo ha precisato che l’ideona gli viene dalle “stazioni dell’arte” della metropolitana di Napoli, dunque una roba d’inizio secolo. Ma, aggiunge, il perspicace Nardella, “quali luoghi più popolari delle fermate della tramvia?”. Giustissimo, ma forse non ci voleva una maratona d’ascolto per arrivarci. Poi la seconda idea geniale: la prossima Estate fiorentina la dedichiamo alle periferie! Figo! E facciamo anche una mappa dei luoghi non ancora utilizzati per la cultura. Fighissimo! E quale è il primo spazio che gli viene in mente a Nardella? La ex scuola dei carabinieri il cui chiostro “potrebbe essere utilizzato per la

prossima Estate”, ma, essendo in piazza S.Maria Novella proprio in periferia non è. Terza idea magica: la Vodafone propone di utilizzare i ‘big data’ del roaming dei telefonini per studiare i movimenti dei turisti. E Nardella, che è furbo come una volpe, gli viene subito in mente che “possiamo modulare la programmazione culturale tenendo conto dei flussi”... fatta, però, salva la privacy... ergo, non se ne fa di nulla. Allora l’eccitato sindaco ripiega su un bel banner “per pubblicizzare la mostra in corso o gli eventi culturali in programma” avendo ben 10 mila contatti al giorno sulla rete civica. Che, diciamo, non è proprio una idea innovativa. Come del resto gli ultimi due fuochi d’artificio che il sindaco riserva per il finale: la ‘App FlorencÈ dove il turista può trovare di tutto, dalle linee ATAF agli orari dei musei e degli eventi culturali; e il piano di riapertura dei cinema per il quale “convocherò presto una riunione con tutti i gestori”. Accipicchiolina, che genialata! Più che un maratoneta, ‘sto sindaco ci sembra un passeggiatore di collina.


29 OTTOBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

S

e, come sostiene Woody Allen, la masturbazione è fare sesso con una persona di cui si ha la massima stima, probabilmente anche l’autoritratto fotografico non è altro che l’impiego come modello di una persona di cui si ha la massima stima. L’autoritratto non sarebbe allora altro che la versione pittorica e/o fotografica dell’onanismo, e del resto la crescita esponenziale dei così detti “selfie” sembra esserne oggi una chiara dimostrazione. Tuttavia la storia dell’arte e quella della fotografia ci forniscono decine di esempi che riportano il tema ed il giudizio critico un poco più in alto. Fra le dozzine di artisti/fotografi che hanno fatto dell’autoritratto il loro tema preferito, in maniera continuativa e non saltuaria, uno dei primi e dei migliori esempi è rappresentato dall’artista tedesca Gertrud Hantschk Arndt (1903-2000). A vent’anni Gertrud arriva al Bauhaus di Weimar per studiare architettura, ma poiché quel dipartimento non è ancora attivo, viene iscritta al corso di tessitura, un corso ritenuto di livello “inferiore”, come ceramica e rilegatura dei libri, e per questo frequentato, nonostante le premesse paritarie della scuola, soprattutto da studentesse. Al termine degli studi Gertrud decide di non proseguire nella carriera di progettista tessile, ma di seguire un’altra strada, quella della fotografia, attività praticata già in giovane età, interessandosi di architettura. Nel 1926 acquista una fotocamera e comincia a realizzare una prima serie di autoritratti, l’anno successivo si sposa con il compagno di studi Alfred Arndt, allontanandosi dal Bauhaus, dove i due tornano nel 1929 nella sede di Dessau dove Alfred comincia ad insegnare. Nel 1930, non avendo occupazioni proprie, Gertrud riprende la fotocamera e si dedica alla realizzazione della serie “ritratti in maschera”, allontanandosi dalla poetica fotografica del Bauhaus, basata su geometrie esatte e prospettive rigorose, coltivan-

Gertrud Arndt

La maschera del Bauhaus do invece la propria immagine ed indulgendo alla passione per l’autotravestimento. La sua attività artistico/fotografica è limitata nel tempo, viene rallentata dalla nascita della figlia nel 1931 e si interrompe con la chiusura del Bauhaus ad opera dei nazisti ed il trasferimento della coppia in Turingia. Anche il numero delle opere realizzate è limitato, poco più di una quarantina, mentre è ampio il ventaglio dei personaggi da lei stessa interpretati, ed è indubbio il suo ruolo di anticipatrice di quel filone fotografico, soprattutto frequentato dalle fotografe, che è incentrato non tanto sull’immagine di sé quanto sullo scambio di identità, fra il sé ed il non-sé. La ricerca iconografica di Gertrud parte dalla semplice constatazione che ogni donna è se stessa, ma allo stesso tempo altro da sé. Se ognuno interpreta un ruolo, che raramente corrisponde alla propria immagine, ma all’immagine che vuole mostrare in pubblico, perché mai ci dovrebbe essere un limite al numero ed al tipo di immagine che una donna vuole e può dare di sé? Cambiando gli abiti, la pettinatura, il trucco, Gertrud, con un acuto senso di autoironia, diventa di volta in volta una donna diversa. Non giuoca ad interpretare donne prelevate dalla storia, dalla letteratura o dal cinema, ma esibisce una galleria di donne reali, prese dal mondo contemporaneo e dalla società in cui vive, femme fatale, brava ragazza, ragazzina frivola, signora rispettabile, vedova seria e stoica, donna moderna, ma sempre un poco sopra le righe, spesso irriverente. Nelle sue immagini non cerca se stessa o un proprio ruolo immaginario, ma afferma tutta la propria personalità ed individualità, attraverso la diversità dai modelli. Riscoperta all’inizio degli anni Ottanta, viene riconosciuta come anticipatrice negli anni Trenta di quella tendenza, esplosa solo decenni più tardi, che vede i fotografi/artisti farsi modello di se stessi, per affermare perentoriamente il loro essere “opera d’arte”.


29 OTTOBRE 2016 pag. 6

Andrea Chiarantini

Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

I

l vero artista contemporaneo è colui che ripensa continuamente sul proprio linguaggio; è colui che si snoda nei labirinti della comunicazione per sondare i territori inesplorati dell’espressione e della percezione incondizionata dell’opera d’arte; è colui che conquista il pubblico con un’innata e mai scontata capacità di meravigliare e coinvolgere emotivamente. Simboli, riferimenti ancestrali e referenti inusitati affollano le opere di Andrea Chiarantini, che costantemente dedito alla creazione, riflette sull’oggi con un punto di vista personale e lontano da qualsiasi canone. Restio a una classificazione troppo oppressiva, l’artista si muove in modo eclettico fra le discipline estetiche, emergendo brillantemente per originalità e senso critico. Quello di Andrea Chiarantini è un criticismo volto a mettere in luce l’esigenza di creare una modalità artistica capace di porsi al mondo in maniera ludica e sensibile, immaginifica e ricercata, proponendo e rinnovando i dettami di un fare artistico troppo uguale a sé e imprigionato in un circolo vizioso del visto e rivisto. Tele, vetroresine, sculture e progetti di design soddisfano l’occhio dello spettatore inconsapevole di trovarsi di fronte al tentativo di una rottura con la tradizione, di uno sforzo liberatorio per emancipare le forme geometriche dalla bidimensionalità della rappresentazione e di conseguenza porle in una dimensione nuova, ricca di significati e di evocazioni. I pittogrammi di Andrea Chiarantini richiamano alla memoria l’esistenza di una lingua arcaica, al contempo primitiva e primigenia, la cui purezza deve essere riscoperta, per permettere al lettore dell’opera d’arte una più soddisfacente fruibilità. Al mistero comunicativo si unisce una prosa visiva dal denso sapore poetico, tesa a ristabilire gli equilibri persi nel caos della complessità attuale, talmente settorializzata nel disordine delle poetiche e delle rese estetiche contemporanee da non lasciare spazio alla creatività e all’immaginazione. Tutta l’opera d’arte di Andrea Chiarantini è un monito intellettuale teso a ricordare che l’Arte è una sintesi indissolubile di tecnica e fantasia, poiché senza quest’ultima il linguaggio perde ogni valenza e incanto.

Il sognatore

Tutte le opere Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


29 OTTOBRE 2016 pag. 7 di

Mariangela Arnavas

Vuoi diminuire il numero dei politici?”. Arrivata con un po’ d’affanno alla fermata dell’autobus, mi trovo sotto la pensilina a pochi centimetri da questa scritta “a grandezza naturale”, si fa per dire, ovvero ad altezza umana, davvero aggressiva; dopo un momentaneo spaesamento, capisco che si tratta di propaganda per il sì al Referendum. Avverto una sorta di dissonanza: chi sarebbero questi politici che si vogliono far diminuire? Si potrebbe definire un politico, per esempio, chi fa politica attiva, in qualunque campo, anche a titolo volontario, ma certo, in questo caso non si comprenderebbe perché, in una democrazia, si dovrebbe cercare di ridurre il numero di coloro che attivamente partecipano alla cosa pubblica. Anzi, direi che bisognerebbe incoraggiare alla partecipazione politica quanti più cittadini possibile, ma evidentemente non è questo il versante che interessa chi pone

Il 29 ottobre alle ore 17.00 presso la Libreria IBS di Firenze in Via dÈ Cerretani, 16/r, avrà luogo, ad opera di Giuseppe Previti, la presentazione del libro “Grazie, Graziano” (a cura di Alberto Eva) appena uscito per Carmignani Editrice. Si tratta di un’antologia di racconti gialli e noir scritta a 32 mani da 16 giallisti italiani e curata da Alberto Eva. Perché “Grazie Graziano”? Per il senso di profonda gratitudine che lega gli autori alla figura di Graziano Braschi, scomparso appena un anno fa. Oltre al compianto Graziano Braschi hanno donato il proprio racconto ad maiorem rei memoriam Lucia Bruni, Sergio Calamandrei, Riccardo Cardellicchio, Linda di Martino, Alberto Eva, Leonardo Gori, Loriano Macchiavelli, Stefano Martinelli, Maurizio Pagnini, Riccardo Parigi e Massimo Sozzi, Roberto Pirani, Enrico Solito, Mario Spezi, Laura Vignali. Postumi, ahimè, sono anche gli scritti di Linda di Martino e (recentissima scomparsa) Mario Spezi. E solo tredici ne restarono, vien da pensare.

Diminuire?

la domanda. È’ chiaro, infatti, che non è questa l’area semantica a cui rapportarsi; l’insieme di quelli che si definiscono “ i politici” deve essere in questo caso riferito a chi fa politica a tempo pieno e in modo retribuito,

insieme odiato come non mai (e con molte buone ragioni) dalla pancia del paese che si cerca di solleticare gradevolmente con questa domanda che vuole a tutti i costi essere intesa come retorica, anche se a me non viene naturale perché faccio parte di una generazione che riteneva la politica indispensabile alla crescita individuale, ambito fondamentale per il miglioramento della vita umana e sociale; mi sembra invece che in questa domanda ci sia un pericoloso fondo di falsità e, al tempo stesso, l’emergere di un’inconscia verità. È chiaro che la domanda corretta avrebbe dovuto essere: “vuoi diminuire il numero dei parlamentari?” Perché di questo, seppure in maniera minima, si tratta dato che tra coloro che stanno nell’area semantica di “chi fa politica attiva in modo retribuito” ci sono migliaia di consiglieri regionali, sindaci,

assessori, presidenti e consiglieri di enti vari, un numero tale per cui la diminuzione dei senatori, prevista dalla Riforma Renzi, appare sicuramente da un punto di vista quantitativo, che è anche l’unico possibile, irrisoria e risibile. Però chi ha pensato la frase ritiene probabilmente che alla pancia del paese suoni meglio “i politici” e forse suona meglio anche alle orecchie di chi lo ha approvato, coloro per i quali l’area semantica, l’insieme di riferimento del termine “i politici” contiene come elementi non “quelli che fanno politica attiva in modo più o meno retribuito” ma “quelli che hanno potere in politica” e, più o meno consapevolmente, ne vuole ridurre sensibilmente il numero facendo virare la nave del paese verso un ristretto regime oligarchico. In questo senso, la domanda è posta con onestà intellettuale, ma solo a chi ha strumenti e voglia di decodificare; altrimenti è una trappola per chi attende l’autobus o la metropolitana e legge per noia, senza riflettere.

Riconoscimento in giallo a Graziano


29 OTTOBRE 2016 pag. 8 Rossella Seniori e Marco Zappa adelesenioricostantini@tin.it di

A

bbiamo viaggiato da Mosca a Irkutsk facendo circa due terzi della Transiberiana, la ferrovia più lunga del mondo (9288 Km) che, attraversando l’Europa orientale e l’Asia settentrionale, collega Mosca a Vladivostok (o a Pechino con la variante che passa attraverso la Mongolia). Iniziata nel 1891, la Transiberiana fu costruita con tempi da record - con una velocità di costruzione delle rotaie di 740 km/anno, impiegando fino a 90.000 uomini contemporaneamente, molti dei quali deportati e “ai lavori forzati” che lavorarono in condizioni di grandi difficoltà per le terribile condizioni ambientali nei mesi invernali (fango, neve, temperature fino a -40°). 15 giorni tra la fine di Giugno e gli inizi di Luglio. In questo periodo dell’anno la luce in Russia è particolarmente bella e le temperature gradevoli. La Siberia è il luogo degli spazi infiniti. Un luogo senza tempo. Certo sarebbe stato bello anche andarci d’inverno e viaggiare nel bianco e nel silenzio della neve. Ma d’inverno, con la neve, è difficile muoversi carichi di valige se si viaggia da soli e con i treni di linea. D’altra parte avevamo escluso di viaggiare con treni turistici superlusso (ne esistono di bellissimi, ove tutto è organizzato) non solo per i prezzi proibitivi, ma anche perché ci sembrava che rendessero un po’ falso ed edulcorato un viaggio il cui fascino stava anche nell’idea di un po’ d’avventura. Avevamo comunque affidato a un’agenzia di Mosca la prenotazione dei treni e degli alberghi ove ci siamo fermati. Solo la preoccupazione di perdere il treno; non sarebbe stato possibile prendere un altro treno per la stessa destinazione e arrivare nei tempi stabiliti. Abbiamo fatto tratte da 400 a 3.000 chilometri (a circa 130 Km/ora). Inoltre in tutte le stazioni della Transiberiana le indicazioni sono solo in cirillico e, all’infuori che a Mosca e negli alberghi, nessuno parla inglese. Prima di prendere la Transiberiana, ci siamo fermati 1 giorno e mezzo a Mosca; non era la prima volta, ma la città è così grande e così piena di cose da vedere che il tempo a disposizione è stato

dell’avanguardia russa e del realismo socialista. Goncharova, Malevich, Tatlin, Rodchenko e molti altri le cui opere ti riportano a quello straordinario periodo di rivolgimenti culturali, politici, sociali. Il quadrato nero di Malevich ti colpisce particolarmente. È l’archetipo di una forma di rappresentazione “il monocromo” che tante volte sarà ripreso nell’arte del novecento. Ma in realtà è un nero particolare, è il colore della notte. Quel quadro era posto nello studio di Malevich in alto all’incrocio fra due muri. Dove tradizionalmente si poneva

Transiberiana Inaugurazione della Transiberiana

davvero pochissimo. È stato però sufficiente a vedere come sta cambiando questa città. Nel 1987 Mosca era ancora “sovietica”: un solo negozio per turisti, lunghe code ai pochi ristoranti, venditori di pesce salato per strada, qualche mercatino di rape, patate e poco altro. Nei famosi Magazzini GUM si vedevano per lo più articoli poveri, di scarsa qualità. Quando siamo tornati, nel 2000, già si apprezzavano diversi cambiamenti: un maggior numero di negozi, ai GUM si cominciavano a vedere le “grandi

marche” occidentali. Più traffico nelle strade. Ma non ti sentivi sicuro quando uscivi di notte. Oggi i Magazzini GUM sono un centro commerciale molto elegante. La città è complessivamente più bella e curata. Non si vede miseria, almeno nei quartieri del centro. Ma la Piazza Rossa, che è sempre bellissima, era più suggestiva allora quando non si affacciavano sulla piazza caffè alla moda con i loro “dehors”. Abbiamo visitato la interessantissima “nuova galleria Tretyakov” ove sono esposte pitture e sculture

“Worker’s club”. Ricostruzione dell’originale di Alexander Rodchenko (1925). Nuova galleria Tretyakov (Mosca)

l’icona, la presenza del divino. La notte pulsa di mistero e di vita. Eravamo partiti pensando alla Russia come una realtà dove la simbologia sovietica fosse stata cancellata, negata, come per noi il fascismo. In realtà scopriamo subito che il nuovo design dell’Aeroflot contiene stilizzata una falce e martello, il cappello dei ferrovieri ha due martelli incrociati e altre cose inattese. In Siberia questa simbologia è ancora più viva e quel periodo ti sembra più vicino. Ma di questo diremo la prossima volta.


29 OTTOBRE 2016 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

I

l 6 agosto 1945 l’aviazione statunitense devastò la città giapponese di Hiroshima con la bomba atomica. Tre giorni dopo, il 9 agosto, la stessa sorte toccò a Nagasaki, che ospitava la più grande e antica comunità cristiana nipponica (soprattutto cattolica). Questi due crimini, compiuti contro una popolazione civile stremata dalla guerra ormai finita, hanno lasciato una ferita profonda anche nei giapponesi che non avevano vissuto quella tragedia. Non è quindi un caso che la colonna sonora del film Nagasaki: Memories of My Son (Milan Records, 2016) porti la firma di Ryuichi Sakamoto, musicista noto per l’impegno pacifista ed ecologista. Come si può capire, per lui questa non è una colonna sonora come le altre, dato che la tragedia di Nagasaki è iscritta nella sua memoria storica. Diretto dall’anziano regista Yoji Yamada, il lungometraggio racconta la storia di Nobuko, una levatrice di Nagasaki che viene visitata dal fantasma del figlio morto durante il bombardamento della città. Madre e figlio parlano a lungo rievocando il passato. La musica sottolinea in modo

Sergio Favilli sergio.favilli@libero.it di

Qualcuno dirà: la frittata è stata fatta!! Invece no, quanto accaduto in settimana ci rivela definitivamente un sospetto che molti di noi avevano da tempo e cioè che il nostro caro sindaco menestrello Dario Nutella soffre di sdoppiamento della personalità. Ne aveva già dato prova con il tunnel della Foster, prima si al tunnel, poi no al tunnel, poi si al tunnel in versione ridotta e ancora non è finita. In seguito aveva pensato ad una Villette de noartri: ipotesi abbandonata il giorno dopo. Da cosa viene la conferma ai nostri dubbi? Stiamo ai fatti: il Sindaco di Firenze Dario Nardella inserisce la bonifica dall’amianto del vecchio ITI Leonardo da Vinci nell’elenco delle opere da realizzare con i recenti finanziamenti, di contro: il Sindaco Metropolitano Nutella Dario dispone la cancellazione

Elegia per Nagasaki

perfetto la tensione emotiva che pervade il film, ma evita di cadere nel cliché. La Tokyo Philharmonic Orchestra domina in vari brani melodici, fra i quali quello che intitola il disco, “Koji’s Room” e “Machiko”. I rumori cupi di alcuni brani (“B29”, “Au-

gust 9th 11:02AM”) rievocano il bombardamento della città. Altrove la tensione lascia il posto a brevi pezzi dominati dal piano (“At the Graveyard”, “Raindrops”). In “Nobuko” spicca la bella voce di Jiro Takano. La confezione

apribile è arricchita dai disegni di Chie Morimoto. Le colonne sonore occupano un posto importante nella carriera del musicista giapponese, che spazia dal classico all’elettonica, dalla samba al rock. Sakamoto ha vinto l’Oscar con le musiche del film L’ultimo imperatore (1987), diretto da Bernardo Bertolucci. Inoltre ha collaborato con Pedro Almodóvar (Tacchi a spillo, 1991), Alejandro Iñárritu (The Revenant) e molti altri registi. Il 19 ottobre questa lunga attività è stata premiata nel contesto del sedicesimo World Soundtrack Awards Gala. Legato al festival del cinema di Gent (Belgio), questo è il più importante riconoscimento che venga conferito ai compositori di colonne sonore. Il premio è stato accompagnato dalla pubblicazione del CD Ryuichi Sakamoto. Music for Film (Silva Screen Records, 2016), dove la Brussels Philharmonic diretta da Dirk Brossé esegue alcuni brani del musicista nipponico. Approvato da Sakamoto stesso, questo è il primo disco dove le sue musiche vengono proposte in arrangiamenti orchestrali diversi da quelli originali.

Il dottor Jekyll e Mr. Hyde

dal suddetto elenco dell’opera approvata ed inserita il giorno

prima dal suo omonimo. Spero, per la salute di tutti, di sbagliar-

mi ed allora occorre frugare presso l’anagrafe comunale, sai mai che, a nostra insaputa, a Firenze ci siano due Nardella Dario?? L’ITI Leonardo da Vinci è stata la mia amatissima scuola da me frequentata a metà anni 60; spero, con entrambe le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, che le migliaia di ragazzi che ci hanno studiato per cinque e più anni non abbiano a patire alcuna conseguenza e che il vecchio e pericoloso amianto venga smantellato al più presto. In caso contrario sorge un dubbio atroce: a chi chiedere i danni?? Al Dott. Nardella Jekill buono, di bell’aspetto e di nobile animo oppure a Mr. Nutella Hyde, malvagio, brutto e cattivo e anche un po’ peloso??


29 OTTOBRE 2016 pag. 10 Giacomo Aloigi giacomo.aloigi@tiscali.it di

A

nche quest’anno si rinnova il rito pagano di Lucca Comics & Games, appuntamento tradizionale e imprescindibile per tutti gli appassionati di fumetti (in realtà sempre meno) e di giochi in tutte le multimedialità declinabili (questi invece sempre più numerosi). Tutto cominciò addirittura cinquant’anni fa. Era il 1966, infatti, quando Lucca ospitò la seconda edizione del Salone Internazionale dei Comics e da allora prese a dipanarsi quel flirt tra la città e i fumetti che dura ancora oggi. La versione attuale della manifestazione ha però origine all’inizio degli anni Novanta, quando fu addirittura sdoppiata in due appuntamenti, uno primaverile e uno autunnale. Quest’ultimo, da una decina d’anni, è l’unico rimasto. Oggi Lucca Comics & Games è diventata un vero happening che coinvolge tutta la città. Infatti gli stand e i padiglioni si dipanano attraverso tutto il centro urbano, che viene invaso letteralmente da decine di migliaia di visitatori, per lo più, com’è ovvio, giovani e giovanissimi, spesso mascherati con costumi d’ogni foggia. Del resto siamo alle porte di Halloween, carnevale made in Usa che ormai scimmiottiamo alla pari dei fast food e dell’hip hop. In quest’ultimi trent’anni il sottoscritto, affetto dal morbo di Gutenberg di cui il fumetto è una sintomatologia, ha spesso coperto i 100 km scarsi che separano Firenze da Lucca per immergersi nel mare variegato e sgargiante della bande dessinée. Quei banchi disseminati di giornalini, volumi, riviste, manifesti, brochure e plaquette sono un godimento per gli occhi e per l’anima, anche se, soprattutto quand’ero un giovanotto squattrinato, anche causa di sofferenza immane per non potermi permettere che pochi e modesti acquisti. Diversi bei ricordi mi legano a Lucca Comics. Come quando v’incontrai Gallieno Ferri, il creatore grafico di Zagor, nonché autore di migliaia di

tavole dell’eroe bonelliano. Ferri, scomparso quest’anno ancora nel pieno del suo lavoro a dispetto dei quasi novant’anni d’età, stava autografando alcuni suoi disegni. Mi avvicinai con

– io la volevo ringraziare perché lei mi ha fatto sognare per tutta la mia gioventù”. Lui mi prese la mano e sorridendo mi rispose “Non lo dica, non lo dica. Sono io che la devo ringraziare”. Me ne andai quasi commosso dalla sua modestia e dal suo sguardo gentile Ricordi anche divertenti, come quando – doveva essere il 1994 – il primo giorno d’apertura della manifestazione (che allora si svolgeva al Palazzetto dello Sport, fuori le mura) ci trovammo in centinaia ammassati fuori dai cancelli. Quell’anno erano ospiti niente meno che Tom De Falco e Mark Bagley, il primo supervisore di tutte le pubblicazioni Marvel di Spiderman e il secondo disegnatore della testata di punta “The

A Lucca Comics ricordando Gallieno Ferri e Ade Capone

autentica emozione. Grazie ai suoi splendidi lavori aveva riempito la mia infanzia di avventure meravigliose ambientate in mondi incredibili. “Maestro – gli dissi quasi sottovoce

Amazing Spiderman”. Eravamo quindi tutti eccitati all’idea di incontrare due calibri del genere. Ma i cancelli restavano chiusi e l’orario di apertura era già passato da un pezzo. La tensione cominciò a salire, la gente rumoreggiava e chiedeva spiegazioni. Si cominciò a parlare di problemi di sicurezza degli impianti, di boicottaggi della concorrenza, di baccelli sporoidi che si erano sostituiti ai veri organizzatori. Per placare gli animi surriscaldati, De Falco e Bagley furono spediti tra la folla ad autografare manifesti. Riuscii a farmi fare da Bagley anche uno schizzo di un piccolo Spiderman che ancora conservo gelosamente. Comunque per quel giorno Lucca Comics rimase chiusa e tornammo scornati a casa. Il giorno seguente, era sabato,

giunse la notizia che finalmente avevano aperto. Ripartii da Firenze ma quando giunsi, orrore, i biglietti erano già tutti esauriti e non facevano entrare più nessuno. Non potevo crederci. Dopo qualche minuto di scoramento decisi che non potevo arrendermi. Cominciai a girare attorno alle recinzioni del palazzetto. Finalmente individuai un punto adatto. C’era una cabina del gas o del telefono, non ricordo, addossata alla cancellata. Valutai che ero in grado di issarmi fino in cima e da lì aggrapparmi alla rete. Così feci. Il salto verso il basso era di almeno due metri e mezzo, ma la gioventù e l’incoscienza mi fecero superare agevolmente la strizza. Ero dentro, ma non era finita. Per accedere agli stand dentro al palazzetto occorreva mostrare il biglietto a un energumeno che indossava una t-shirt con su scritto “Non mi fate incazzare”, che contingentava il passaggio dal portone. Cominciai a guardarmi intorno, a terra, alla disperata ricerca di un tagliando buttato via. La fortuna mi assistette e ne trovai uno quasi integro. L’energumeno gli dette un’occhiata distratta e finalmente fui all’interno del palazzetto. Ricordo che la prima persona che incontrai fu Ade Capone, anche lui purtroppo morto all’improvviso qualche anno fa, che in quei giorni promuoveva l’uscita della miniserie da lui scritta “Erinni”, forse il suo lavoro migliore. Acquistai al volo una copia del n.1 e lui mi ci fece una dedica con un pennarello dall’inchiostro dorato. (Ciao Ade, le tue storie ci mancano). A Lucca Comics ho conosciuto tanti altri personaggi, Alfredo Castelli, Franco Saudelli, Marco Marcello Lupoi, Michele Medda... Sarà per l’illusione di sentirsi per un istante ancora bambini, seduti all’ombra di un albero con un giornalino in mano a sognare attraverso le storie dei nostri eroi, ma anche quest’anno, ormai alla soglia dei cinquanta, percorrerò di nuovo quei 100 km scarsi per incontrarli una volta di più, quegli eroi.


29 OTTOBRE 2016 pag. 11 Sara Chiarello twitter @Sara_Chiarello di

S

iamo stati all’inaugurazione della Casa del Cinema della Toscana, ovvero La Compagnia, in via Cavour 50r, Firenze. Dove, giovedì 27 ottobre il red carpet è stato per le istituzioni e per tutti quelli che in questi anni hanno accompagnato Regione Toscana e Fondazione Sistema Toscana nel percorso per riaprire lo storico cinema: progettato e realizzato negli anni ’80 dai noti architetti Natalini, e poi chiuso per oltre 10 anni, è stato acquistato nel 2010 e restituito a nuova vita in questi giorni. Natalini lavorò sull’ex “Cinema Modernissimo”, fondato nel 1921. I posti della sala ora sono quattrocentocinquanta, le sedute sono poltroncine in velluto color vinaccia, e sulla facciata sbucano maschere grottesche; il cinema è dotato di salette multimediali, sala stampa, una per le riunioni, un impianto per proiezioni di ultima generazione, con proiettore 3D, una cabina attrezzata per la traduzione in 5 lingue contemporaneamente, e la possibilità di proiettare con tecnologia 4k. Tra le novità, la caffetteria “Ditta Artigianale”, aperta tutti i giorni dalle ore 8 alle ore 24, che, allestita dagli architetti Marco e Luca Baldini di Q-Bic secondo un concetto di ospitalità, con i tavolini posti sotto una boiserie in legno da cui spuntano i volti noti del cinema (da Monica Vitti a Vittorio Gassmann), offrirà un servizio di ristorazione completo, dalla colazione alla cena, in un ambiente moderno e accogliente. Il cinema-teatro, costato 3 milioni e mezzo di euro, ai quali vanno aggiunti un milione e mezzo per i lavori di adeguamento infrastrutturale, e altri 250 mila euro per l’impiantistica, vedrà una programmazione di eventi 330 giorni l’anno. A dare il via la decima edizione della rassegna “50 giorni di cinema internazionale”, in corso fino al 9 dicembre, è “France Odeon”, diretto da Francesco Ranieri Martinotti, che, fino al 19 novembre porta il meglio del cinema d’oltralpe a Firenze: dai cortometraggi realizzati da giovanissimi talenti, tutti al femminile, rappresentativi delle

La casa del cinema

multiculturalità del cinema francese, alla selezione di film per il 90% mai visti in Italia. Tra i titoli “Tour de France” con Gerard Depardieu (presente al festival) e “Un vrai faussaire” sulla vita di Guy Ribes, pittore noto per i falsi d’autore. Tra gli altri ospiti Nicole Garcia (re-

gista Mal de pierres), Caroline Deruas, Jenna Thiam e Christine Gozlan (regista, attrice e produttrice di L’indomptée),

Rachid Djaïdani e Jean-Louis Livi (produttore di Une vie). Si procede poi con “Una finestra sul nord” con film provenienti da Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda (2-3 novembre), “Cinema e donne” con 46 film e Margarethe von Trotta come ospite d’onore (5-9 novembre). A seguire “Florence Queer Festival” (10-15), che affronta le tematiche Lgbtiq e che vedrà fra gli ospiti il regista e scrittore Ivan Cattaneo,”Lo Schermo dell’arte” dedicato alle arti visive (16-20), i grandi classici restaurati del “Cinema Ritrovato”, in collaborazione con la Cineteca di Bologna (21-24), iI Festival dei Popoli, tra le più importanti rassegne dedicate al cinema documentario, con film su Frank Zappa, Rolling Stones, e, tra gli ospiti, Valeria Bruni Tedeschi (25-11/2-12). Segue il meglio della cinematografia indiana nel “River to River Florence Indian Film Festival”, con un’edizione che indagherà il tema dei diritti nella società contemporanea (3-8/12) per chiudersi con il premio Nice Città di Firenze. Tra gli impegni, la promozione ogni anno di 30 documentari toscani. Per informazioni sul programma www.cinemalacompagnia.it.

della Toscana


29 OTTOBRE 2016 pag. 12 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

D

opo l’articolo precedente sul fenomeno della Boutique sans argent a Parigi, basato sull’ economia della solidarietà che dovrebbe creare, sia pure in piccola scala, il senso di appartenenza a una comunità più etica, voglio insistere sull’argomento descrivendo un altro esempio, sempre francese, che, come il primo, potrebbe essere facilmente imitato con l’impegno congiunto delle amministrazioni locali e dei cittadini. Da quando è stato eletto a Cannes nell’aprile del 2014, il sindaco David Lisnard ha lanciato il suo programma chiamato Stop aux incivilités. Lisnard è convinto che piccole inciviltà, come una lattina o un mozzicone gettati per distrazione o pigrizia sul marciapiede o l’occupazione del parcheggio per disabili, rivelano un decadimento dei legami sociali e della qualità della vita. Combatterle è quindi un dovere della politica, che così acquista anche un senso dimostrandosi efficiente e utile, e dei cittadini che devono sentirsi sempre coinvolti in obbiettivi comuni. Il sindaco ha quindi fatto leva sull’impegno dell’amministrazione e sulla coscienza collettiva con un battage d’informazione attraverso la stampa locale, le scuole e i cartelloni in cinque lingue (francese, italiano, inglese, russo, arabo) che tappezzano la città e avvertono locali e turisti che le piccole manifestazioni d’inciviltà possono costare care, con multe da 180 a 1500 euro fatte dai vigili ambientali che pattugliano la città in borghese. Questa “tolleranza zero”, che può essere considerata da qualcuno impopolare e troppo aggressiva, ha già portato in poco più di un anno dalla sua applicazione a 1670 multe per oggetti ingombranti abbandonati per strada, 645 per piccoli rifiuti buttati sui marciapiedi, 86 per escrementi di cani non raccolti (per le strade ci sono contenitori con graziosi sacchetti a disposizione dei padroni diligenti), 454 per veicoli troppo rumorosi e 758 per affissioni non permesse.

Cannes: stop aux incivilités

Il risultato di tanta severità passeggiando per la bellissima (e pulitissima) Cannes,

comunque, si vedono. Ma la lotta contro l’inciviltà prevede anche il coinvolgimento indi-

Le forme della memoria di

Pasquale Comegna

viduale di ogni cittadino che diventa attraverso una semplice app uno dei protagonisti dello sviluppo della qualità della vita del proprio territorio. L’idea è già in uso in diverse città americane come Boston, Portland e Pittsburg. In Francia Cannes ne è il primo esempio. L’app Cannes Civique che si installa gratuitamente sullo smartphone permette al Comune di intervenire in maniera rapida alle varie segnalazioni dei più di 2700 abitanti già registrati. Basta fotografare quello che si vuole segnalare, dare l’indirizzo (ma il servizio di geolocalizzazione dello smartphone consente automaticamente di individuare il luogo) e scrivere un breve commento. Attraverso poi il proprio account si potrà seguire lo stato di avanzamento della propria richiesta d’intervento e ricevere comunicazione quando questo è avvenuto. La visita del sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, a David Lisnard fa capire che presto l’esempio di Cannes sarà seguito da altre città francesi. Forse potrebbe essere un’idea anche per quelle italiane...


29 OTTOBRE 2016 pag. 13 di

Ruggero Stanga

N

on ci siamo riusciti. Il modulo di atterraggio che la sonda TGO in orbita intorno a Marte ha sganciato, ha fallito l’atterraggio morbido, e si è schiantato al suolo, scavando una bella buca e frantumandosi in mille pezzi. Peccato! Il Mars Reconnaissance Orbiter (MRO), sonda della NASA in orbita intorno a Marte ha fotografato la zona dell’impatto, con una camera capace di identificare oggetti di una decina di metri e ci ha fatto vedere i rottami ed il paracadute arrivato poco lontano. A breve, Hi-Res, una camera con una risoluzione di circa 1 metro, ci spedirà altre fotografie più dettagliate. Perché sia successo all’ESA se lo stanno ancora chiedendo. Di sicuro, era andato tutto come previsto fino a circa un minuto dall’arrivo: la discesa nella tenue atmosfera di Marte (una pressione al suolo che è un mezzo centesimo di quella che abbiamo qui da noi), che ha rallentato la caduta da 21000 km/h a circa 1700 km/h, quando, ad una quota di circa 11 km si è aperto il paracadute, che ha frenato la caduta fino a circa 250 km/h, ad una quota di poco più di un chilometro. Fin qui, pare, tutto bene. Il paracadute è stato sganciato. A questo punto, tre razzi avrebbero dovuto rimanere in funzione per l’ultimo tratto di discesa, e Schiaparelli avrebbe dovuto atterrare ad una velocità di circa 10km/h, quella di un salto da un muretto di un mezzo metro, qui sulla Terra. Ecco, pare che il problema sia stato proprio nel funzionamento dei razzi. Alcuni sensori avrebbero dovuto misurare la distanza dal suolo, per spegnerli all’altezza di un paio di metri. Invece li hanno spenti (o i motori si sono spenti per un guasto loro) alla quota di un chilometro. Non c’era scampo, nemmeno con la debole attrazione di Marte, meno del 40% di quella terrestre. Quali i danni sulla missione? Di sicuro, l’amor proprio gravemente ferito, soprattutto in confronto al successo della missione Rosetta, giunta a termine qualche settimana fa sulla cometa P67. Danni meno gravi al ritorno scientifico. TGO rimane saldamente in orbita con i suoi strumenti che devo-

Marte amaro

no misurare il quantitativo e la distribuzione di gas come metano, vapor d’acqua, acetilene, ossidi di azoto, con una precisione mille volte migliore di prima. Deve misurare come varia la composizione stagionale dell’atmosfera, e perfino rivelare l’idrogeno presente fino ad un metro sotto la superficie, alla caccia di possibili depositi di acqua sotterranei. Schiaparelli non era progettato per muoversi sulla superficie, aveva strumenti che hanno misurato Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Cacciatore incostituzionale

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

come previsto la pressione dell’atmosfera marziana, e la temperatura. Privo di pannelli solari, una volta atterrato avrebbe potuto funzionare solo per pochi sol (sol è il nome del giorno sui pianeti; su Marte è più lungo del nostro di una mezza ora abbondante), funzionando come stazione meteorologica. Portava a bordo anche uno strumento passivo, una sorta di catarifrangente, in grado di riflettere un raggio laser verso l’orbiter che l’avesse illuminato.

Chissà, se è andata bene, e non si è rotto nell’impatto, non si è rovesciato, o la polvere non l’ha coperto, potrebbe essere l’unico pezzo capace di funzionare. Leggendo i commenti su Fb, si scoprono polemiche mai sopite sul costo e l’opportunità della ricerca scientifica e di quella spaziale in particolare. Non starò a sottolineare che la ricerca scientifica è strategica, quindi non a breve termine, per il miglioramento delle condizioni di vita; né ricorderò quanto ormai si debba ai satelliti meteorologici, né a quelli per telecomunicazioni, né a quelli per il sistema di posizionamento del GPS. Non ricorderò le indagini ai raggi X, né TAC e risonanza magnetica, e nemmeno gli acceleratori di particelle di uso medico, tutti figli della ricerca scientifica di base, in fisica ed astrofisica, non finalizzata; e nemmeno citerò tutti gli altri successi della biologia, della medicina: dovrebbero essere evidenti già senza una menzione specifica. Ma ricorderò l’importanza dell’incremento di conoscenza dell’Universo, che alla fine è miglioramento della conoscenza di noi stessi. Come dice un antico proverbio orientale, “Se hai due soldi, con un compra del pane, e con l’altro un fiore per il tuo spirito”.


29 OTTOBRE 2016 pag. 14 Aldo Frangioni aldofrangioni@live.it a cura di

S

i è aperta al pubblico al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, e rimarrà visibile fino al 26 febbraio 2017, l’esposizione “Donatello e Verrocchio. Capolavori riscoperti”. La mostra presenta il magnifico busto in terracotta raffigurante San Lorenzo, recentemente riconosciuto come opera di Donatello, e un rilievo sempre in terracotta, con Decollazione di San Giovanni Battista, che ha lo stesso soggetto, dimensioni e composizione sia figurale che prospettico-architettonica della scena commissionata ad Andrea del Verrocchio per lo straordinario Altare d’argento conservato nel Museo dell’Opera del Duomo. Entrambe le opere, che appartengono alla Collezione di Peter Silverman e Kathleen Onorato, gettano luce su importanti capolavori conservati nel Museo e permettono di individuarne il rapporto con altre realizzazioni e artisti del XV secolo. A Francesco Caglioti, studioso ed esperto di Donatello, si deve la riscoperta del busto di San Lorenzo e la ricostruzione della sua avventurosa vicenda. Ideato e modellato da Donatello verosimilmente intorno al 1440, il San Lorenzo era destinato al timpano della porta maggiore della pieve a lui intitolata di Borgo San Lorenzo, centro principale dell’area montana a nord di Firenze nota come il Mugello, terra natale di Giotto, dell’Angelico e anche del casato dei Medici. Per secoli rimarrà sul portale della chiesa fino a che, nel 1888, l’antiquario Stefano Bardini riuscirà ad acquistarlo, sostituendo l’originale con una copia ancora in situ. L’anno dopo, grazie alla mediazione del celebre studioso della scultura italiana del Rinascimento, Wilhelm Bode, Bardini lo venderà al principe Giovanni II di Liechtenstein che lo terrà nel palazzo di famiglia a Rossau, presso Vienna, fino alla sua morte nel 1929. Settanta anni dopo, nel 2003, gli eredi del principe metteranno in asta il San Lorenzo come “opera ottocentesca”. Ad acquistarla, con intelligenza e lungimi-

ranza, saranno i coniugi Silverman, noti collezionisti di disegni, sculture e dipinti dal 1400 al 1800. Negli anni successivi, rimossa la ridipintura ottocentesca, l’attribuzione al grande Donatello. Molto più diretto il rapporto tra il rilievo in terracotta con Decollazione del Battista attribuito al Verrocchio e un’opera simbolo del patrimonio del Museo dell’Opera del Duomo, l’Altare d’argento, realizzato tra il 1366-1483 per il Battistero di Firenze, da più artisti, tra cui, il Verrocchio stesso e Antonio del Pollaiolo, massimi esponenti della scultu-

Un Donatello e un Verrocchio ritrovati ra fiorentina dell’epoca e grandi rivali tra di loro. Il rilievo Silverman, trafugato durante la seconda guerra mondiale dai nazisti per il museo di Hitler a di

Linz, mostrato solo una volta in Svezia nel 2010, si presenta oggi mancante di quasi tre delle sette figure originarie: il carnefice, lo sgherro con la mazza, il

San Giovanni Battista. L’esposizione al Museo dell’Opera del Duomo, accanto all’Altare in argento, è un’occasione unica di studio e di confronto per capire se il rilievo Silverman sia uno dei modelli preparatori della scena con Decollazione del Battista dell’Altare in argento e se ci fu l’intervento di altri artisti associati alla bottega del Verrocchio in quegli anni, in primis Leonardo da Vinci, la cui attività come scultore è stata collegata al lavoro del Verrocchio per l’Altare.

spesi 120 miliardi per la ricostruzione, ma solo briciole per adeguare abitazioni, ospedali, scuole, fabbriche e altri edifici pubblici. La carenza di prevenzione ci fa spendere assai di più per ricostruire e indennizzare. Spetterebbe alla politica cambiare verso, invertendo questo tran tran. Investire sulla prevenzione oltre a garantire una maggiore sicurezza e risparmiarci tragedie, porterebbe lavoro e occupazione. Basterebbe guardare a ciò che fanno vicino a noi, in Francia, Spagna e Germania: investono sulla conoscenza del territorio e sulla sicurezza degli edifici. Più volte si è parlato di istituire un “fascicolo di fabbricato” per misurare il grado di sicurezza e fornire tutte le informazioni sulla sua vulnerabilità. E poi offrire sgravi fiscali ben più consistenti

rispetto a quanto si è fatto per l’efficienza energetica. Si perché mentre investire per ridurre i consumi energetici procura immediati vantaggi, investire sulla sicurezza sismica no. Si spende per un’eventualità, ma senza alcun ritorno economico. E poi servirebbe l’assicurazione obbligatoria sugli edifici, del tipo bonus-malus: più la casa risulta solida meno si paga. Un’altra spinta a realizzare interventi per la sicurezza. Invece ci si mobilita – giustamente e con generosità - per gestire le emergenze e le ricostruzioni ma poi ci dimentichiamo della parte più importante. Per il terremoto nelle Marche il governo ha già stanziato 50 milioni, mentre nel bilancio 2016 ci sono solo 44 milioni per la sicurezza sismica. Non ci resta che vivere sperando e cambiando canale.

Remo Fattorini

Segnali di fumo La terra trema e le persone hanno paura. Il fatto è che i terremoti ci sono e la prevenzione no. Il problema è la fragilità dei nostri edifici. Si stima che il 70% non sia in grado di resistere ai terremoti. La Protezione Civile dice che solo il 14% rispetta gli standard di sicurezza sismica. Eppure l’Italia è un paese esposto a questo rischio: 1.700 i terremoti nel corso dell’ultimo secolo e 45 - quelli con magnitudo superiore a 5.0 - solo negli ultimi 30 anni. In Toscana un centinaio dai primi del ‘900 ad oggi. Eppure. Eppure, passata la paura legata ai momenti drammatici ci dimentichiamo di tutto. Da noi la percezione del rischio è molto bassa ed evapora velocemente. Negli ultimi 50 anni si sono


29 OTTOBRE 2016 pag. 15

Grandi formati di Schifano La gabbia di Lunardi alla nuova Galleria Bagnai around the world

La Galleria Alessandro Bagnai inaugura i nuovi locali di Foiano della Chiana con la mostra Mario Schifano. ottantanovanta, un’occasione per portare all’attenzione del pubblico una selezione di opere degli anni ‘80 e ‘90, tutte di grande formato, con l’obiettivo di far luce sulla produzione degli ultimi decenni dell’artista, un periodo molto significativo ma ancora poco conosciuto. La mostra sarà accompagnata da un catalogo con testi di Giorgio Verzotti.

Turcato a Milano

La galleria Il Ponte comunica che la Galleria Milano, in collaborazione con Paola De Angelis e la stessa galleria Il Ponte di Firenze, presenta una mostra da ora a gennaio - dedicata a Giulio Turcato (Mantova, 1912 – Roma, 1995), pittore instancabile, considerato tra i maggiori esponenti dell’astrattismo e dell’informale italiano. Galleria Milano - Milano Via Manin 13, Via Turati 14

La Galleria si arricchisce inoltre di un ulteriore spazio espositivo. Un’unica stanza, la cui destinazione sarà quella di ospitare un lavoro site-specific o la riproposizione di un’opera storica. Per questa prima apertura verrà presentata un’installazione di Nunzio. In collaborazione con la Galleria Antonella Villanova, saranno esposti una serie di gioielli inediti di Monica Cecchi, realizzati fra il 2015 e il 2016, omaggio al lavoro di Mario Schifano. Fino al 31 Dicembre.

Dopo la mostra al Museo di Arte Contemporanea di Zagabria, al Benaki Museum di Atene in occasione de L’Athens Photo Festival e con cinque proiezioni alla mostra Visual Paths in Italian Videoart a cura di Silvia Grandi - rassegna di videoarte dedicata agli artisti italiani a Patrasso, il videoartista lucchese Marcantonio Lunardi prosegue la presentazione delle sue opere al Shoah Film Festival.con Anthropometry 154855, al Festival di Buenos Aires Arte Non Stop Festival /

Michele Rescio mikirolla@gmail.com

Gnocchi alla zucca

di

Per prima cosa, cuocete la zucca. Tagliatela a metà, con la buccia, e disponetela in una piastra da forno cosparsa sul fondo di sale grosso. Coprite la zucca con l’alluminio e mettetela a cuocere in forno a 180 gradi per circa un’ora. Quando la zucca è cotta, fatela raffreddare: pelatela e passate la polpa con lo schiacciapatate per ottenerne una purea. Per fare l’impasto degli gnocchi di zucca, disponete la polpa di zucca schiacciata sul piano di lavoro e aggiungete sale, pepe e noce moscata. Unite l’uovo e la farina e mescolate tutto insieme. Controllate la consistenza dell’impasto: è pronto quando al tatto risulta soffice e morbido ma non si attacca alle dita. A questo punto preparate gli gnocchi. Cospargete il piano di lavoro con un po’ di farina e tagliate una piccola parte del composto che an-

drete ad arrotolare, ottenendo dei cilindretti allungati di pasta. Tagliate i cilindretti in pezzetti della stessa misura. Gli gnocchi devono essere cotti in abbondante acqua salata bollente. Mentre l’acqua bolle preparate il condimento degli gnocchi: in una padella fate sciogliere il burro con alcune foglie di salvia fresca

ba2016 con la proiezione “The Cage”. Il lavoro è stato selezionato dal curatore Kisito Assangni per la rassegna internazionale itinerante Love.10 Screening. “The Cage” sarà in proiezione in Argentina in occasione del festival Prix édition 2016 - concours international du court-métrage fic organizzato dall’ambasciata francese in argentina. Infine sarà al festival Instants Vidéo Numériques et poétiques 29th a Marsiglia sotto la curatela di Marc Mercier.

per profumarlo. Gettate gli gnocchi nell’acqua bollente. Aggiungete al burro e salvia un cucchiaio di acqua di cottura per migliorare la consistenza della salsa. Quando gli gnocchi tornano in superficie, sono cotti: dovete scolarli con l’ausilio di una schiumarola o di un mestolo bucato. Saltate delicatamente gli gnocchi in padella con il burro fuso, la salvia e il Parmigiano Reggiano grattugiato. Impiattate gli gnocchi cospargendoli con parmigiano reggiano e servite. Ingredienti per 4 persone 800 g di zucca 150 g di farina 00 (doppio zero) 1 uovo sale e pepe q.b. noce moscata q.b. 60 g di burro 8 Foglie di salvia 60 g di Parmigiano Reggiano grattugiato


29 OTTOBRE 2016 pag. 16 Luisa Moradei moradeiluisa@gmail.com di

I

l marmoreo ed imponente Chronos del Silvani, che afferma l’implacabile voracità del tempo calpestando una clessidra, preannuncia già dal cortile dell’Ammannati il tema dell’esposizione. Questa entità inarrestabile, che tutto attanaglia inesorabilmente, si presenta però meno ossessiva all’ingresso della mostra dove rassicuranti tic-tac scandiscono la proiezione di immagini relative allo scorrere del tempo a palazzo Pitti durante le varie ore del giorno e nel corso delle stagioni; una sorta di ouverture che preannuncia le molteplici valenze collegate al concetto stesso di tempo lasciando intuire che l’oggetto dell’esposizione non è considerato solo nella sua funzione di segnatempo ma si spinge oltre, ad approfondire le possibilità espressive che gli sono proprie. La mostra presenta una straordinaria selezione dagli oltre 200 orologi conservati a palazzo Pitti ed ha il pregio di metterli a confronto con pitture che li rappresentano o ne raffigurano di simili. La rarità e il valore di questi strumenti sono determinati dalla tecnica interna e dalla meccanica che aziona il numero dei rotismi e quindi delle suonerie (la grande suoneria è composta da tre rotismi e batte le ore, le mezze e i quarti con suoni e motivi diversi). Si tratta di esemplari, come quello realizzato per Cosimo III dal maestro orologiaio inglese Ignazio Hugford, il cui meccanismo costituisce di per sé un capolavoro, “incastonato” a sua volta in pregevolissime e varie soluzioni estetiche. Allegorie, personaggi mitologici, composizioni in bronzo dorato, raffinate porcellane o delicati fiori in stoffa generano una sorta di compenetrazione fra arte e scienza. E proprio con attenzione scientifica il tempo viene considerato non solo nel senso della durata ma anche nelle sue molteplici sfaccettature, ecco dunque esposti i congegni atti a misurare il tempo meteorologico, come il barometro e la rosa dei venti, o il tempo inteso come scansione musicale di cui carillon ed automi collegati ad orologi musicali rappresentano la più alta testimonianza. Un’attenzione particolare merita il monu-

La misura del tempo

mentale Orchestrion restaurato per l’occasione: si tratta di un pregiato arredo arricchito di un meccanismo regolato dall’orologio a lira posto sulla sua sommi-

tà. Ad ogni ora viene messo in azione il congegno che applicato ad un organo a canne di legno e ad un “fortepiano” riproduce, al pari di un’orchestra, una

melodia tratta dalla Sonnambula di Bellini. Per i curiosi di queste complesse strumentazioni vengono esposti a corredo accessori come il temperatore, le ghiere, le lancette etc. L’ultima, vivace sezione propone Suggestioni del 900. Dislocata, quasi un’appendice, è in realtà una mostra nella mostra che indaga il tempo da altre prospettive. E qui troviamo il tempo dilatato dell’attesa nel quadro omonimo di Zanini, il tempo astratto de “Lo straniero” di Casorati, il ritmo del polso di una malata misurato da un medico nel bozzetto di Gabbrielli, ed ancora l’orologio come affermazione di status e denuncia di disparità sociali nell’opera di Fresquet. Ma troviamo anche opere che ci prospettano nuove visioni del trascorrere del tempo, in particolare il tempo libero, ecco diventare protagonista l’ora di prendere l’aperitivo nel manifesto Campari firmato da Depero. Esaltano il tempo libero anche i vari manifesti pubblicitari di viaggi, spettacoli e moda, non ultima la pubblicità degli innovativi orologi da polso, rispondenti ad uno stile di vita caratterizzato da nuove abitudini lavorative e da ritmi più incalzanti. E per finire una serie di bozzetti realizzati da Vagnetti, Balò, Laurenti e Buzzati per scenografie di opere musicali ispirate allo scorrere del tempo. Tempo Reale e tempo della realtà Gli orologi di Palazzo Pitti dal XVII al XIX secolo a cura di Simonella Condemi ed Enrico Colle fino all’8 gennaio Galleria d’Arte Moderna

I giorni dell’Alluvione di Balthazar Korab È stato uno dei più celebri e prolifici fotografi di architettura del secolo scorso, Balthazar Korab. Le sue immagini dei lavori di Mies Van Der Rohe e Frank Lloyd Wright, di Le Corbusier, Richard Meier e soprattutto di Eero Saarinen, a partire dalla fine degli anni Cinquanta furono pubblicate in tutto il mondo su libri e riviste, valendogli premi, riconoscimenti e mostre negli anni a venire. Nel momento di maggior successo, nell’autunno del 1966, decise di prendersi un anno

sabbatico e, con la moglie e i due figli, venne in Italia. Arrivò a Firenze, più precisamente a Settignano, nei primi giorni di

novembre di quell’anno e, per puro caso, si trovò ad assistere all’alluvione che sconvolse la città di lì a poco, raccontandola in una serie di scatti che ora, in occasione dei cinquant’anni da quell’evento, vengono proposti alla Tethys Gallery nella mostra Balthazar Korab. I giorni dell’Alluvione, curata da John Comazzi, Christian Korab, Guido Cozzi e Massimo Borchi, dal 27 ottobre al 26 novembre 2016. La mostra è organizzata in collaborazione con l’Università del Minnesota.


L immagine ultima

29 OTTOBRE 2016 pag. 17

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

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ivisto dopo tutti questi anni il signore in primo piano potrebbe sembrare un mio sosia o un mio parente! Nè l’uno né l’altro, era semplicemente un passante incontrato per caso nel mio girovagare all’interno del quartiere ebraico della Grande Mela. Mi incuriosiva molto vedere persone a giro per strada con questo tipo di abbigliamento. Sembravano personaggi del secolo scorso e, per uno come me che vedeva in questa città l’esempio di un’umanità lanciata verso il futuro e l’eterna gioventù, questi incontri mi rimescolavano improvvisamente le carte facendomi capire che in questa metropoli non c’erano assolutamente limiti a quello che si poteva incontrare uscendo per strada per una semplice passeggiata.

NY City, agosto 1969


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