Cultura commestibile 203

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Noi crediamo [anche] a Babbo Natale ÂŤCi sono due categorie di persone: quelli che credono a Babbo Natale e quelli che credono nel passaggio della tramvia dal DuomoÂť Dario Nardella

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Maschietto Editore


NY City, Agosto 1969

La prima

immagine Siamo in un Tennis Court per la upper middle class «di colore». Mi è capitato di vederne un paio durante il mio soggiorno. Come per le omologhe strutture prevalentemente riservate ai bianchi questi spazi sportivi erano decisamente selettivi e, tutto sommato anche abbastanza formali. A parte il colore della pelle, abbigliamento e atteggiamento dei clienti e dei gestori non presentavano alcuna diversità rispetto ai clubs per i bianchi. Ambienti rilassati, strutture efficienti e comportamenti sportivi: gli amici che mi ci hanno accompagnato definivano queste persone come dei neri «bianchi»!

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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4 febbraio 2017

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Riunione di famiglia La nuova linea rossa Le Sorelle Marx

La sfiga di Pompei Lo Zio di Trotzky

Oscar, il modesto I Cugini Engels

L’ambasciatore Le Nipotine di Bakunin

In questo numero Le categorie di Berlinguer. Oggi di Tomaso Montanari

La La Land, nonostante tutto di Francesco Cusa

Predatore di immagini di Laura Monaldi

Jukka Male Valokuvaaja di Danilo Cecchi

La grande frittata racconto di Carlo Cuppini

La salute diseguale di Roberto Giacinti

Per i caduti di Gallipoli di Alessandro Michelucci

Fedele a una aspettativa è indefinita di Felisia Toscano

Un noir proteiforme di Mariangela Arvanas

Ritratto con pentola di Claudio Cosma

Quel che resta dopo l’amore di Cristina Pucci

Napoleone e il suo maggiordomo di Simonetta Zanuccoli

Ristorante domestico, follia italica di Paolo Marini

e Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Sandra Salvato...

Della Bella gente

Shakespeare in Love

di Paolo della Bella

Direttore Simone Siliani

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111 redazione@maschiettoeditore.com www.maschiettoeditore.com Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

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di Tomaso Montanari Tomaso Montanari ha presentato il libro «Enrico Berlinguer. Vita trascorsa, vita vivente» di Susanna Cressati e Simone Siliani (Maschietto Editore, 2016) lo scorso 25 novembre, presso la libreria Feltrineli Red di Firenze: ne pubblichiamo qui ampi stralci. «Ciò che è vivo e ciò che è morto in Berlinguer» potrebbe essere crocianamente il titolo di questo libro. Ecco alcune riflessioni dopo la lettura. Quale leader. Nella sua intervista Gianni Cuperlo afferma che forse il Berlinguer che vive di più, quello che sentiamo più vicino, «è il Berlinguer che riflette sul pensiero delle donne, sull’ambientalismo, i missili a Comiso, il movimento pacifista e naturalmente la questione morale. A noi – cioè ai giovani di allora, del partito – il messaggio arrivò forte e chiaro: occupatevi del mondo, alzate lo sguardo; c’è una dimensione della politica che non può essere ristretta a manovra tattica, né può essere confinata in un orizzonte incapace di trascendere la dimensione del governo e delle istituzioni in quanto tali». Quella dimensione è la passione. Allora mi chiedo quale leader politico oggi, di qualunque schieramento, potrebbe essere definito così, per ampiezza di sguardo, per apertura a cose lontane dalla propria eredità? Vittoria Franco sottolinea un altro aspetto: «Col tempo Berlinguer divenne sempre più curioso e desideroso di capire». Queste due cose mi sembrano straordinarie: fare poli-

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Le categorie di Berlinguer.

Oggi

tica come un viaggio di conoscenza e comprensione del reale, interrogando ciò che è distante da noi. La politica per noi è ancora questo? Chi, tra coloro che la fanno «cammina» con l’idea di comprendere? Quale partito. Quale Partito comunista allora, quale Partito Democratico, oggi. Quale partito per la sinistra è possibile? Berlinguer, scrivono gli autori, rimprovera agli altri partiti «l’elettoralismo e la caccia al potere per il potere». Egli concepisce il potere non come obiettivo finale ma come strumento per attuare un progetto, per cambiare il mondo. Svolge una lunga riflessione sulla necessità di evoluzione del partito e cita Machiavelli, che scrive nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio: «Se le Repubbliche e le sette – cioè i partiti odierni, chiosa Berlinguer – non si rinnovano, non durano, e il modo di rinnovarle è ricondurle verso i princìpi loro». Il Partito Democrati-


co, mutando, è andato verso il principio suo o è andato verso un’altra identità? Berlinguer pensa a un partito fedele a se stesso ma capace di aprirsi, a una rivoluzione copernicana contro «una politica ridotta ai rapporti, ai giochi, alle schermaglie tra i partiti, tra maggioranza e opposizione». Qui mi pare che gli autori vedano il segno dell’attualità di Berlinguer. Ambiente e movimenti. Ho trovato nel libro delle cose bellissime di Berlinguer sull’ambiente, sul rapporto che c’è tra una forza politica e il movimento che sta fuori e che cerca una interlocuzione con il partito stesso. Berlinguer dice: «Questo movimento si caratterizza per la sua ampiezza, per la pluralità delle forze che lo compongono. Non si tratta soltanto di forze organizzate dai partiti, ma di forze come le chiese cristiane, di organizzazioni sindacali, di movimenti giovanili e femminili, di amplissimi strati di intellettuali, con i testa i fisici, i biologi, i medici e di tante parti della società che esprimono quei nuovi bisogni e auspicano quella nuova qualità della vita che si sta ponendo come una delle esigenze più vive nel mondo di oggi». Oggi si direbbe i comitati ambientalisti di base, il fronte della produzione della conoscenza. Alla fine tutto questo lo aiuta a interpretare l’austerità non soltanto come una necessità, ma come una occasione. In un discorso cita «il godimento di beni autentici quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura». Era un modo suo di capire fino in fondo l’articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») cioè la parte più originale del progetto della nostra Costituzione. Parlando con Alberto Vannucci, esperto di corruzione ed ex presidente di Libertà e giustizia, si fa riferimento a ciò che Berlinguer dice nel Comitato centrale del 4 giugno 1974. È la questione morale il punto, per cui Berlinguer viene continuamente ricordato e anche molto spesso travisato. «Si tratta di mettere fine – cito – non solo alle ruberie ma al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti». Cioè la questione morale non è solo il fatto di qualcuno che ruba, non è solo un fatto di corruzione individuale, è il fatto che all’interesse generale si sostituiscono interessi particolari, «privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere». E che esempi fa Berlinguer? «La salute, la

Sabato 4 febbraio, ore 17:30 Libreria Feltrinelli Point Arezzo via Giuseppe Garibaldi, 107, Arezzo Intervengono Tito Barbini, scrittore e viaggiatore Enzo Brogi, Consigliere del Presidente della Regione Toscana

difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge dell’equità». Poter avere oggi il leader di un grande partito disposto a dire e a capire queste cose! Oggi le leggi del Partito Democratico come lo «Sbloccaitalia» si fanno sotto dettatura delle lobbies. Chi è capace di intendere in modo così largo la questione morale, la salvaguardia del bene comune? Certamente non il Movimento 5 stelle. La sinistra. Nella lettera inviata a Berlinguer nel 1976, il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi scrive: «Tanti, soprattutto operai, immigrati, diseredati, guardano a voi come a una speranza di rinnovamento». Nella semplicità estrema di queste parole trovo che questo sia il tema: se molte persone così guardano a un partito con speranza, quel

partito è un partito di sinistra, altrimenti non lo è. In una società, diceva il vescovo di Ivrea, «in cui essi non trovano sicurezze per il loro lavoro, i loro figli, per una sia pur minima influenza nelle decisioni che coinvolgono tutti». La questione dell’inclusione dei cittadini nella decisione, in un momento in cui i cittadini vengono espulsi sistematicamente dalle sedi delle decisioni politiche. «Penso a quelli che hanno votato per voi e sono cristiani, e non intendono rinunciare alla loro fede religiosa, che anzi - forse nella sofferenza per la ‘disobbedienza’ alla gerarchia - pensano così di promuovere una società più giusta, più solidale, più partecipata, quindi più cristiana». E mi chiedo: ma il dialogo fra cristiani e comunisti era più forte in questo momento o quando si è fatto un partito unico mescolandoli a freddo? Cambiare il mondo. Questo è forse il testo più bello fra quelli di Berlinguer che ho letto in questo libro: «Talvolta – dice Berlinguer – siamo scossi e sgomenti di fronte ai giovani: ma sono figli nostri, sono figli della nostra lotta per la libertà. Noi vogliamo essere con i giovani e interpretare il senso della loro ribellione, anche quando non ne condividiamo certe forme. Lo spirito di ribellione è una premessa rivoluzionaria...». La capacità di parlare con questo mondo, senza compiacimenti, senza demagogia, senza infingimenti. Ma la volontà vera di parlare per fare che cosa? Per cambiare «le basi della società per trasformarla in una democrazia socialista». Domanda: esiste oggi una sinistra capace di dire con forza questo, parlando da una parte con i giovani e il loro istinto di ribellione e organizzando questa ribellione in una lotta politica che porti alla democrazia socialista? Dice, con molta forza, Maurizio Landini, sostenendo la centralità del tema dei diritti: «Oggi assistiamo a un ritorno della politica in mano ai poteri, alle lobby, alle multinazionali... I partiti non rispondono più ai cittadini che li votano, ma a chi li sostiene». Cioè esattamente il contrario, si parte dall’alto e non dal basso. Leggere oggi questo libro e ripercorrere le parole di Berlinguer, il progetto di Berlinguer, di chi sapeva dire ai giovani, alle donne, ai movimenti ambientalisti: vi ascolto, e grazie a voi costruisco strumenti più acuminati per rovesciare lo stato delle cose. Fare questo vuol dire costruire una sinistra possibile e dall’altra parte, in modo più ampio che include anche chi non è di sinistra, interpretare lo spirito più autentico della Costituzione italiana.

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Le Sorelle Marx

La nuova linea rossa

Come ai bei vecchi tempi, si direbbe in termini di scenari internazionali. Infatti, è stata riattivata quella che fu la «linea rossa» (ma di vergogna, oggi) fra USA e Russia e Trump e Putin si sono parlati sabato scorso per trenta minuti al telefono. Il nostro potente sistema di intercettazioni ha potuto registrare il colloquio. «Good morning, my dear friend Vladimir. How are you today? I am very very well! I am the President, you understand? Hai capito? E voglio che noi siamo amiconi veri. Dimmi di cosa tu hai bisogno?» «Dobroye utro, Donald. Io sto benone, ma anche io sono Prezident; e prima di te! Io no bisogno di niente da te: io Prezident di velikaya Rossiya, grande Rossiya» «Oh, com’on Vladimir, don’t get nervous. I love Russia! Voglio fare affari perché America first, but Russia second!» «Net, Rossiya net seconda a nessuno. Tu otvyazhis’ [intraducibile ma simile a vaffanculo in russo]» «No, don’t be angry, Vladimir. Look, voglio farti ridere con un joke americano: quando tu torni a casa, picchia forte tua moglie: tu non sai perché, ma lei certamente sì. Eh, divertente, vero?» «Da, da molto divertente. Grazie Donald, mi hai fatto venire in mente una idea straordinaria per una legge che voglio fare qui in Rossiya: se tu picchi moglie (e anche bambini) niente galera, ma solo una multa così Grande Madre Rossiya fa tanti soldi da spendere in nuove armi. Che pensi tu? Interessa per tua Amerika?» «Great, Vladimir: tu sei fortissimo! Figurati se non mi piacerebbe copiare la tua legge: con tutte quelle women asshole che hanno protestato contro di me. Ma se lo faccio Melania mi butta fuori dal letto. Sai, quella è dura; è delle tue parti. Piuttosto, con quelle armi nuove che vuoi produrre, non è che vieni to break my balls in America, vero?» «Net, net, idiot, Melania è di Slovenia, che ora è di quei rammolliti di europei, ma presto io riconquistare anche Slovenia. Net armi sono per distruggere quelle merde di ucraini. A proposito, ci sarebbe quella questioncella delle sanzioni: a me danno

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abbastanza fastidio, ti dispiace levarle, così io posso chiudere la questione con l’Ucraina senza tanti fastidi?» «Of course, my friend. I don’t give a fuck dell’Ucraina: non so nemmeno dov’è. Vai e fai quello che vuoi. Anzi, già che ci sei daresti anche una ramazzata alla Siria, please?» «Da, certamente Donald: ci penso io. Ma sai che tu sei davvero un amico. Facciamo così: vieni a trovarmi in primavera, che ho una dacia a Sochi che dai tempi in cui veniva Berlusconi non uso più; e magari ti faccio trovare anche qualche matroshka e qualche bottiglia di vodka» «Dear Vladimir, siccome America first, io mi porto un bel Manhattan ma le matroshka le accetto volentieri. Però, a Sochi mi dicono che c’è umido e io ho i reumatismi. Non si potrebbe fare un po’ più a sud; non so, a Batumi, in Georgia, per esempio. Sai anche noi abbiamo uno Stato che si chiama Georgia. Aspetta, ti canto la canzone di quel negro: Georgia, on my mind...». «Va bene, Donald: se vieni verso maggio ho il tempo di conquistare la Georgia, sistemare un po’ di cosette e ti preparo un bell’alberghetto a Batumi sul Mar Nero. Figurati se voglio essere meno di voi yankee: se ce l’avete voi una Georgia, ne voglio una anche io. Do svidaniya, Donald».

I Cugini Engels

Oscar, il modesto Nell’anno X dalla nascita di Eataly, Oscar Farinetti va alla Guerra. Che oltre a essere il cognome del presidente esecutivo dell’azienda (manco a dirlo, consigliere di Matteo Renzi), è proprio l’atteggiamento del fondatore: instancabile conducator si descrive leader, ma di un esercito ben oliato, con le solite ambizioni intellettuali (in cui, però, puntualmente si annoda). Nel luglio scorso, a Business People che gli chiedeva se si sentisse un leader, ha risposto napoleonico: «Abbastanza. Ma chi è in prima linea non è più importante dei suoi collaboratori. Il problema di noi italiani è che siamo figli di eroi solitari. Penso a Cristoforo Colombo o a Marco Polo. Uno a Ovest e uno a Est hanno conquistato il mondo. Ma il primo ha rischiato l’ammutinamento perché fino al giorno prima non voleva rivelare la rotta ai suoi uomini, il secondo, invece, non si decideva mai a scrivere Il Milione, malgrado continuassero a chiederglielo tutti.». Ecco, bisognerebbe che a nessuno dei suoi collaboratori venisse in mente di chiedergli di scrivere il suo Milione, se non altro perché nelle sue mani diventerebbe almeno il Miliardo. E poi, Oscarino è un generoso e non saprebbe negarsi. D’altra parte ha anche ammesso che «Egoisticamente, è bello essere alla guida di un gruppo perché si comanda. Ma senza coloro che lavorano per noi, non siamo nessuno.». Poi si è buttato sulla filosofia della vita quotidiana, in una sorta di anacoluto temporal-gastronomico, nella pubblicità della Vodafone, per cui con la chiarezza di un sillogismo aristotelico, ci informa che a lui «piace dimenticare il passato e ricordare il futuro» . Ma se la frase vi pare un po’ oscura, niente paura perché Oscarino, novello Cartesio, saprà illuminarvi: «In questa spaventosa, ma insieme meravigliosa imperfezione cosmica dentro la quale viviamo, abbiamo la facoltà di decidere qualcosa. Suggerisco di decidere di avere dubbi. Il dubbio ci aiuterà a trattare meglio chi mangiamo e chi abbracciamo».


Nel migliore dei Lidi possibili

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Le nipotine di Bakunin

Sollevatore greco-romano di austerità

L’ambasciatore

Lo Zio di Trotzky

Renzi, inviandogli un abbraccio solidale nel suddetto post, ha dichiarato che «in queste ore Osanna è sotto attacco da micro sigle sindacali e da piccoli interessi di parte. Vorrei che non fosse lasciato solo e che chi sta rimettendo a posto uno dei luoghi culturali più importanti del mondo avvertisse l’affetto di tutti noi. Difendere i funzionari pubblici che lavorano bene nell’interesse del Paese è un dovere per tutti.». Poi, citando il nostro padre putativo («i risultati di questi mesi dimostrano che la frase «Con la cultura non si mangia» è una delle frasi più sbagliate che un leader politico possa anche solo pensare»), Renzi ha concluso «che le cose si possono cambiare e che la cultura può essere strumento centrale di crescita e di riscatto per un territorio. Bisogna crederci, però, e non lasciare solo chi lavora in questa direzione. Ci proviamo insieme?». Osanna, nell’alto dei cieli e … tocchiamo ferro.

Il trumpismo dilaga. In giro si cominciano a vedere libri che ne parlano (oggetto di cui pare che Donald ignori l’esistenza o ritenga comunque reperto archeologico di una civiltà scomparsa e, quindi, come tale, perdente e per lui irrilevante); magliette con la sua effige; finanche qualche accenno di capigliatura à la Donald. E, come era facile immaginarsi, spuntano anche parentele inaspettate, che non potevano mancare in Italia. Rossano Rubicondi, che con Donald ha condiviso Ivana, (ex) moglie di entrambi, si è subito fatto avanti. Personaggio improbabile questo Rubicondi, non solo per la sua partecipazione all’Isola dei Famosi e per i suoi trascorsi matrimoniali (ma vi immaginate la pacchianeria! Trump, ex marito, ha accompagnato Ivana, ex moglie, all’altare il giorno delle nozze con Rubicondi!». A Domenica Live, Rossano ha rocambolescamente dichiarato nell’ordine che: a. «Ivana è famiglia» - b. «Trump è nato così rosso» - c. «Sono mezzo parente del presidente degli Stati Uniti» - d. «C’è qualcuno che mi chiama ambasciatore». Poi si è sentita una sirena e nello studio è entrato uno con il camice bianco..

La sfiga di Pompei

È definitivo: Matteo Renzi porta sfiga! Proprio mentre metteva a punto un arrembante post dal titolo «A Pompei l’Italia si gioca il futuro, non il passato» (titolo di ispirazione farinettiana), in cui glorificava le magnifiche sorti e progressive dell’intervento risolutivo del suo governo su Pompei affermando en passant che «Pompei faceva notizia per i crolli, adesso fa notizia per i cantieri e per le mostre», ecco che crolla il muro di una domus chiusa al pubbli-

co, nota come la casa del Pressorio di terracotta, in via dell’Abbondanza al civico 22 (Insula IV) della Regio I. Il povero sovrintendente Massimo Osanna (nome omen) deve avere fatto parecchi gesti scaramantici quando

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Luce e forma, 2008, Fotografia a colori cm. 100x150 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

Predatore di immagini Carlo Gianni di Laura Monaldi Con il passare del tempo l’arte contemporanea italiana ha superato i limiti disciplinari, indagando le diverse formule attraverso cui l’opera d’arte poteva essere realizzata. Nel momento in cui la riflessione artistica ha aperto i propri orizzonti e ha permesso di non cedere alle dispute che invocavano con forza la perdita di valore, anche lo scatto fotografico si è manifestato come una nuova forma di libertà espressiva, dando modo all’artista di dar voce alla propria sensibilità personale, attraverso la democratizzazione dei criteri formali di un’Arte, da sempre considerata elitaria e circoscritta alla pratica pittorica. Si viene in tal modo a completare quel difficile percorso evi-

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denziato dall’estetica contemporanea, che conduce a un’idea di bellezza accessibile a tutti e che solo la Luce, il dispositivo ottico e i processi chimici possono catturare. Nel panorama delle possibilità e del dialogo continuo fra le varie specificità che caratterizzano la cultura contemporanea – ossia quella complessa situazione esistenziale e quotidiana in cui il fatto e l’azione artistica si muovono – la fotografia fa emergere il proprio statuto creativo o, per meglio dire, l’essere predatrice di immagini e puro atto artistico, in quanto realizza un evento attraverso lo scatto e il dispositivo ottico. La fotografia artistica si differenzia per il pathos profondo che avvolge l’immagine fotografica e una razionalità creativa che si muove a priori con la progettazione dell’i-

dea e dell’intuizione artistica. D’altronde fotografare è un atto estetico ricercato che tende razionalmente alla rivelazione chimica dell’oggetto quotidiano, elevandolo a forma d’arte, in una contingenza che appare sensibilmente pura allo spettatore, ignaro di condividere inevitabilmente il medesimo pathos dell’artista al momento dello scatto. In tal senso Carlo Gianni ha fatto della fotografia uno strumento per realizzare suggestive ambientazioni, privilegiando quell’aspetto cromatico capace di far risaltare l’oggetto ritratto mediante i contrasti di colore e, allo stesso tempo, in grado di creare una dimensione onirica e sognante dai tratti poetici. Di fatto lo scatto fotografico è divenuto il modus operandi – strumento e oggetto nello stesso istante – di un fare creativo teso a rendere retorico un concetto artistico che prima appariva sostanzialmente dialettico e metaforico.


Musica

Maestro di Alessandro Michelucci La geografia è ricca di omonimie che vengono differenziate con un’aggiunta: Barcellona e Barcellona Pozzo di Grotto; Bastia e Bastia Umbra; Alessandria e Alessandria d’Egitto, e tante altre. Ma in altri casi l’omonimia è totale, quindi si rischia di far confusione. È il caso di Gallipoli, che per noi è una cittadina in provincia di Lecce, fra l’altro luogo natale di Rocco Buttiglione. Ma Gallipoli è anche l’italianizzazione di Gelibolu, cittadina portuale situata sulla sponda europea dello Stretto dei Dardanelli. Qui ebbe luogo l’importante battaglia della Prima guerra mondiale (25 aprile 1915-9 gennaio 1916) che oppose l’esercito ottomano a quello composto da australiani, britannici, francesi e neozelandesi. Il lungo scontro si concluse con la vittoria del primo, guidato da Mustafa Kemal, che pochi anni dopo (1923) avrebbe fondato la Turchia sulle ceneri dell’impero ottomano. In Australia la battaglia di Gallipoli è stata commemorata dalla televisione e dal cinema: il regista Peter Weir gli ha dedicato il film Gli anni spezzati (1981). Inoltre è oggetto di una vasta letteratura, nella quale spicca il recente Beyond Gallipoli: New Perspecti-

Segnali di fumo di Remo Fattorini Divisioni, offese, ritorsioni, sconfitte. Ecco a voi la sinistra europea. Ovunque in crollo impietoso dal 2000 ad oggi. Una sinistra al cui interno si distingue, per particolari meriti, quella italiana. Una classe politica che, nonostante gli insuccessi, non perde mai i propri vizi; non impara niente dalle sconfitte, continua a studiare poco ma in compenso esterna molto, soprattutto by facebook e twitter. Salotti televisivi e interviste a go-go. Pensando così di essere moderna ed efficace, di riempire il vuoto ideale e progettuale, di

Ince e Omar Faruk Tekbilek) e tre neozelandesi (Gareth Farr/Richard Nunns e Ross Harris). La loro collaborazione sottolinea che i tre popoli, un tempo divisi da una battaglia lunga e tragica, possono trovare nella musica un terreno comune che permetta di superare rancori e incomprensioni. Ogni parte è dedicata a un momento specifico della battaglia. Nell’iniziale «Gelibolu», composta da Tekbilek, un turco di oggi rilegge la tragedia del passato. La voce dell’autore si sposa felicemente col didgeridoo di William Burton.

Per i caduti di Gallipoli ves on Anzac (Monash Monash University Publishing, 2016), a cura di Raelene Frances e Bruce Scates. Ogni anno la battaglia viene ricordata il 15 aprile con l’Anzac Day (Anzac sta per Australia and New Zealand Army Corps). Nel 2015, per commemorare il centenario, alcuni compositori australiani, neozelandesi e turchi hanno composto una sinfonia, intitolata appunto Gallipoli Symphony (ABC Classics, 2016). La composizione è divisa in 12 parti, ciascuna delle quali è stata scritta da un musicista diverso: sette australiani (Ross Edwards, Elena Kats-Chernin, Graeme Koehne, Chris Latham, Andrew Schultz e Peter Sculthorpe), tre turchi (Demir Demirkan, Kamran

«The voyage», scritta da Koehne, è un brano triste e toccante con i fiati in evidenza. L’autore cerca di ricreare l’atmosfera del lungo viaggio che portò i soldati australiani e neozelandesi a Gallipoli, parte di un contesto geografico e culturale che molti di loro ignoravano. «Thoughts from home» è un pezzo intenso per armonica e quartetto d’archi composto da Sculthorpe. L’autore (vedi nn. 90 e 124) non ha potuto assistere alla realizzazione del disco perché era morto nel 2014. Gallipoli Symphony è un’opera collettiva, ma l’Australia svolge un ruolo prevalente: il CD è stato registrato e pubblicato in questo paese, australiani sono anche la Queensland Symphony Orchestra e la direttrice Jessica Collis.

mascherare le proprie subalternità. Una sinistra che a parole prometteva di combattere la finanza globale, l’evasione fiscale, gli squilibri e di contrastare l’idea che dalla crisi si poteva uscire solo con più rigore nella spesa, ma che poi nei fatti ha finito per fare esattamente il contrario. Risultato: aumento ovunque dei disoccupati e delle disuguaglianze, privando i giovani del loro futuro, costretti - per la prima volta - a retrocedere rispetto ai propri genitori. Contagiata dalla cultura neoliberista ha smarrito la dritta via e così i partiti nati per difendere i più deboli, il valore del lavoro e la sua dignità, hanno finito per essere, progressivamente, abbandonati proprio da loro, da chi sta pagando il prezzo più alto della crisi. Clamoroso il caso italico dove più cresce la disoccupazione, più l’impegno del governo si è concentrato sul regolamentare l’uscita dal mercato del lavoro piuttosto che sulle politiche per contrastare la precarietà e favorire la nascita di nuovi posti di lavoro.

Trionfa l’incapacità di accordarsi su una visione comune e condivisa. E, come se non bastasse, si persevera. Basti vedere quel che sta accadendo in questi giorni in Toscana. Anche qui prevalgono divisioni e ritorsioni: lo scontro tra il presidente della Regione e il segretario regionale del Pd è da incorniciare come un esempio di alto autolesionismo. Ma vi sembra serio (interessa a qualcuno?) lo scontro che si è aperto nel Pd – con ampio risalto esterno - sul congresso-subito, congresso-dopo, elezioni-subito, elezioni-dopo. È questa permanente lotta tra tribù che condanna la sinistra al declino e apre la strada al successo della destra e dei cosiddetti populismi. Infatti mentre nel Pd si litiga su tutto i populisti del M5S hanno mobilitato autorevoli esperti, prodotto e presentato un rapporto su come evolverà il mondo del lavoro nei prossimi 10 anni. Ma cosa deve accadere di più e di peggio perché la sinistra capisca che se vuole sopravvivere deve occuparsi non del proprio futuro ma di quello degli italiani?

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Il mondo

senza

gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni

di Carlo Cuppini Eravamo saliti senza biglietto sull’autobus per il quinto pianeta del quarto sistema solare. Per questo i proiettili fischiavano sopra le nostre teste e ogni minuto che passava la nostra situazione appariva più disperata: i tutori dell’ordine pubblico ci avevano beccati, fatti scendere a calci, accerchiati. E adesso che eravamo riusciti a sgusciare dalle loro grinfie e ci eravamo rintanati in un fossato, quelli non accennavano a ridurre la potenza di fuoco scatenata contro di noi. Per parte nostra, lanciavamo zolle di terra e grosse castagne infuocate al loro indirizzo, con risultati alterni, ma comunque insufficienti a cavarci d’impaccio. Sapevamo bene cosa ci sarebbe toccato in sorte se avessimo capitolato: percosse, umiliazioni, torture sessuali e infine le miniere remote, dove i nostri giorni sarebbero in breve terminati. Zico, il più intelligente e intrepido tra noi, era riuscito in quel difficile frangente a preparare una potente munizione sfruttando ciò che si trovava per terra nei pressi del nostro rifugio: uova di rettile, cipollotto selvatico, sali minerali, olio di palma spaziale, il tutto condito con varie spezie ed erbette tipiche di quel pianeta. Una portentosa frittata, cotta su una pietra vulcanica arroventata dal sole di mezzogiorno. Raggiunta la doratura ottimale, Zico sbucò fuori dall’avvallamento che ci proteggeva e si erse tutto per dare slancio al proiettile fragrante. Da sotto guardavamo l’impresa trepidanti; scorati vedemmo Zico cadere, colpito alla fronte dal piombo nemico, nel momento massimo della torsione del corpo, quando il suo braccio era pronto a scagliare in avanti il rustico manicaretto. Ricadde al suolo che era già morto, rigido e freddo, bloccato in torsione come la statua del discobolo. Zico era stato per tutti noi un amico e un compagno: adesso era un martire e un eroe. Gettando nell’aria lunghi lamenti gli demmo degna sepoltura, mentre Bebo, estratto a sorte, teneva impegnati gli accaniti servitori

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dello stato con lanci di fili d’erba e manciate di polvere. Verso sera il fuoco nemico cominciò a diminuire. Poi verso le undici si intensificò di nuovo in una sorta di recrudescenza finale. Intorno alle due era cessato del tutto e il silenzio della notte tornava a dilatarsi sopra le nostre teste, punteggiato del frinire di microscopici alieni innamorati, di sicuro pieni di zampe, che popolavano il sottosuolo e le chiome degli alberi. Restammo immobili per un paio d’ore, temendo che si trattasse di una trappola. Alla fine, visto che non accadeva niente, stanchi e affamati (nonostante ci fossimo divisi la frittata, che avevamo mangiato con foga

compiangendone l’artefice), optammo per rincasare. Alzammo la testa con cautela: tutto taceva, tranne il brusio delle stelle. La notte era un incanto, promessa di galassie scintillanti e di un’esistenza migliore, odorosa di forme di vita. Ci mettemmo in marcia verso casa. La strada per il nostro pianeta era lunga da percorrere a piedi. Non saremmo arrivati prima dell’alba. Camminavamo spediti e silenziosi, rinfrancati dal fatto che nessuno più attentava alle nostre vite. E ciascuno in cuor suo dedicava i propri passi all’amico scomparso, alla sua grande frittata.

La grande frittata


Un noir proteiforme di Mariangela Arnavas «Il buon gusto è una qualità che illumina la gente più improbabile», battuta simbolica di questo ultimo romanzo di Bill James «Uccidimi», pubblicato da Sellerio. In realtà Bill James è lo pseudonimo del gallese James Tucker, ex giornalista di cronaca nera, collaboratore della rivista umoristica Punch e autore di testi di critica letteraria. Questo è l’ottavo dei suoi romanzi pubblicati da Sellerio (a cadenza più o meno annuale) ed è immaginabile che ne seguiranno altri, data la prolificità dell’autore e il successo editoriale ottenuto finora. I romanzi pubblicati, tutti noir, sono ambientati in una cittadina immaginaria non lontana da Londra, seguono un ordine cronologico e hanno alcuni personaggi fissi; da una parte i poliziotti: Iles, ovvero l’ACC (assistente commissario capo), una sorta di dandy, cinico anche verso se stesso, ironico e talora sarcastico soprattutto verso il CC (commissario capo) da lui definito «capetto» e Harpur Cole, l’apparentemente solido, capace, corretto e complicato funzionario di polizia e dall’altra un gruppo di gangster, di composizione variabile, che stabilmente sopravvive perlopiù sul traffico di droghe varie, con un unico personaggio fisso Ralph Ember, detto Panico Ralph. Le storie si svolgono attraverso dialoghi successivi con uno sguardo spesso spietato sulle vicende umane dei vari personaggi e sono ritmate, senza perdere un colpo, da un’ironia costante e così pervasiva da far perdere ogni tanto il senso della storia. Al di là dei personaggi fissi, ogni racconto è mosso da una figura, in questo caso Naomi Ansthruther, giovane poliziotta infiltrata nelle associazioni dei narcotrafficanti a cui si lega un tema che fa da filo conduttore del romanzo ovvero, in questo caso, le personalità plurime o multiformi o «proteiformi» come vengono definite a Naomi. La ragazza era stata selezionata per l’infiltraggio da Rockmain, lo psicologo a capo del centro specializzato di Hilton Manor, «che tutte le forze territoriali della polizia britannica utilizzavano come centro di collaudo»; questi, quando Naomi aveva esternato la sua preoccupazione per la mutevolezza del proprio sé, aveva teorizzato, più o meno, per confortarla, che «A quanto pare Jung aveva dichiarato che non gli garbava l’idea di essere per sempre Jung, Jung, Jung; anche se certo ormai questo rischio non lo correva più».

Il tema della personalità multipla si svolge e coinvolge quasi tutti i personaggi, compreso un austero reverendo, un altro Anstruther, omonimo della giovane poliziotta, che così parla di un suo parrocchiano, ex spacciatore convertito: «Questo ragazzo, Graham...io ho cercato d’insegnargli anche un minimo di savoir faire, mica soltanto il Vangelo. L’opera del Signore va compiuta, ma dacché va compiuta in terra ostile, un po’ di diplomazia ci sta. Il Signore ne è perfettamente al corrente. Non è nato ieri, Lui». Un’altra caratteristica dei «quadri» che si susseguono

Foto di

Pasquale Comegna

in una forma di narrazione circolare è che tutti i personaggi da una parte e dell’altra del bene e del male più che del rispetto della legge, dato che i poliziotti sovente oltrepassano questo confine, è che, come in ogni ambiente di provincia che si rispetti, tutti conoscono tutto degli altri in tempo reale e la narrazione procede per approssimazioni successive ad una tappa finale, che è poi solo l’inizio del prossimo girotondo noir. Anche perché in questa lotta non ci sono vincitori dato che, alla base del sostentamento delle organizzazioni criminali, c’è la dipendenza dalle droghe di tutta l’aristocrazia e la buona borghesia dei dintorni. Quello che distingue un poco quest’ultimo testo dagli altri è un certo sconfinamento nel surreale, tanto che alcuni personaggi dall’inveterato cinismo sconfinano quasi nel diabolico ed altri virano nel grottesco, come quello da cui è tratto il titolo del libro. Comunque da leggere.

Il sole basso all’orizzonte

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Quel che resta dopo l’amore di Cristina Pucci

De Andrè cantava «...l’amore che strappa i capelli è perduto ormai / Non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza...» ai tempi di oggi però difficilmente si aspettano le svogliate carezze e presto si avviano dolorose separazioni «dopo l’amore». È questo il titolo di un film molto apprezzato alla Quinzaine di Cannes, il regista è un talentuoso quarantenne belga, Joachim LaFosse, alla sua quinta pellicola. Il titolo originale «L’economie de la couple» identifica subito, e meglio, il campo in cui si gioca lo scontro fra due sposi che sono oltre l’amore, genitori comunque e per sempre di due gemelline, che invece continuano ad amare entrambi e che entrambi amano. L’unico film di LaFosse passato in Italia si intitolava Proprietà Privata, e come nel nostro, oggetto centrale di scontro era una casa, grande e bella. Una proprietà diventa spesso e nelle più varie occasioni, il soggetto che traduce gli affetti in interessi materiali. La storia si snoda praticamente tutta all’interno del bell’appartamento di proprietà di Marie, restaurato al meglio però con le intuizioni ed il lavoro di Boris, Marie è una ricca borghese, di bellezza elegante e sottile, tagliente ed appuntita come una lama, che dirige se stessa ed il mondo intorno con determinata razionalità, senza cedimenti, Boris un immigrato, nullatenente, casinista sul piano della organizzazione e del propio rendimento economico e «imprenditoriale», affettivo però, creativo e più allegro se si vuole. Il clima che c’è negli spazi ben sistemati e sempre resi lieti da bellissimi e luminosi mazzi di fiori, è molto molto teso, i due si muovono con circospezione, si fronteggiano, spesso nel silenzio a volte interrotto dal tentativo di lei di ricondurre lui ai suoi orari, ai «suoi» giorni. Le piccole: sono lì, vivono in casa, tacciono molto, non si lamentano, chiedono, a volte, qualcosa senza capricci però, impotenti e un po’ annichilite subiscono. Il regista riesce a farci percepire benissimo questa tensione e a non farci prendere le parti di nessuno dei due. La casa di giorno e la notte soprattutto, assiste immota ed immanente a questo difficile percorso di

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separazione che all’inizio appare quasi crudele e che poi si stempera grazie a qualche scambio di parole che si ripetono simili a se stesse e pertanto sembrano impossibilitate a modificare la situazione, ma in realtà piano piano avvicinano ad una ragionevolezza, ad

un possibile accordo di cui si hanno i termini alla fine, in una unica scena esterna, dalla voce di un giudice. Due grandiosi momenti, una cena a cui Marie ha invitato degli amici e nella quale Boris irrompe e cerca, provocatoriamente, di imporre se stesso e la sua esclusione, l’altra in cui le piccole si esibiscono in una «radiografia» (leggi coreografia) danzante preparata con il padre nella quale si inserisce anche Marie che finisce, in un momentaneo ed umanissimo momento di debolezza, fra le braccia del suo perduto grande amore. Questo cedimento erotico ed amoroso sembra accelerare il percorso di allontanamento definitivo. Una delle bambine, in assenza della madre, si intossica, non certo casualmente, con i sonniferi della madre stessa, unico emergere del disagio delle piccole cui però a volte i due erano riusciti a parlare del loro conflitto, inutilmente dicendo che non le riguardava. La madre di Marie, una bellissima Marthe Keller, si rammarica del fatto che oggi niente sia più riparabile, ciò che si guasta viene subito buttato via, oggetti, elettrodomestici, matrimoni e parla dell’amicizia che si potrebbe provare a salvare dopo l’amore che, sempre, finisce. Allego al riguardo una citazione di Jodie Foster, « c’è solo un tipo di amore duraturo...È l’amore non corrisposto. Ti resta nel cuore per sempre.»


di Paolo Marini Con il comunicato numero otto Incipit, il gruppo di lavoro costituito dall’Accademia della Crusca per «esaminare e valutare neologismi e forestierismi ‘incipienti’, scelti tra quelli impiegati nel campo della vita civile e sociale, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana, al fine di proporre eventuali sostituenti italiani», focalizza l’attenzione sull’anglismo ‘home restaurant’. Tutto prende le mosse da una proposta di legge che il 17 gennaio scorso è stata approvata dalla Camera dei Deputati, per poi approdare in Senato, dove sarà oggetto di valutazione nei prossimi mesi. Per la prestigiosa Accademia la cosa sorprendente è che per definire tale attività il legislatore sia ricorso ad un anglismo, quando poteva benissimo assumere il termine ‘ristorante domestico’. Incipit non ha torto: d’altronde l’utilizzo di termini mutuati da una lingua straniera è non di rado (anche se non automaticamente) indice di povertà intellettuale e sudditanza culturale. Noi però non siamo l’Accademia della Crusca. E la cosa che ci disturba, leggendo il testo normativo, non è l’anglismo ma il testo stesso (si provi a dargli un’occhiata, scaricandolo dal sito istituzionale del Senato): un ennesimo fulgido esempio della acribia con cui il legislatore pretende di disciplinare, cioè dare una stretta ad ogni nuovo fenomeno che affiora nella società. Che piaccia o meno, si deve riconoscere che c’è un manto di oppressione burocratica che da decenni e sempre di più oscura sistematicamente la vita di milioni di individui. La gran maggioranza dei quali pare, tuttavia, affatto persuasa che l’orizzonte sia pervaso di luce. Ci limitiamo qui a riprendere alcuni passi di un testo fondamentale per la comprensione dei fenomeni giuridici nelle realtà statuali moderne («La libertà e la legge»), opera di un grande filosofo del diritto (oltre che, secondo alcuni, il più grande scienziato sociale italiano del XX secolo insieme a Norberto Bobbio e a Giovanni Sartori), alquanto e non casualmente ignorato: Bruno Leoni. Per Leoni «si tratta di decidere se la libertà individuale sia compatibile in linea di principio con gli attuali ordinamenti, incentrati e quasi completamente identificati con la legislazione»; e rinvia ai Romani, e all’Inghilterra, in quei secoli in cui «i rispettivi ordinamenti giuridici avevano il massimo

Ristorante domestico

follia italica

successo e la più grande fioritura», per il fatto che essi condividevano l’idea che «il diritto è qualcosa da scoprire piuttosto che da decretare e che nessuno è così potente nella società da essere in posizione di identificare la sua propria volontà con la legge». Senonché, l’idea vieppiù dominante è che il diritto non sia più il risultato di un processo secolare, bensì consista in una impostazione del tutto nuova, che produce «decisioni prive di precedenti»; il diritto, si può dire, si ‘costruisce’, si ‘inventa’, si ‘produce dal nulla’. Al punto che, forse, il termine ‘diritto’ dovrebbe essere soppiantato da quello, più calzante, di ‘regolazione’. Le norme di legge sono divenute lo strumento di quella che Leoni ha definito, con espressione drammaticamente esatta, «una guerra di tutti con-

SCavez zacollo

tro tutti», in conflitti in cui di volta in volta hanno la meglio i gruppi di pressione o ‘lobbies’ (con buona pace, stavolta, anche della Crusca) che hanno rapporti privilegiati con il gruppo al potere in un dato momento. Si chiedono ogni giorno nuove leggi per dare ‘tutela’ e ‘regole’ a qualcosa. I volenterosi carnefici della libertà individuale, quei solerti politici/burocrati(e non solo loro) che si sono abbandonati al delirio di onnipotenza e onnipervasività della legge, non sopportano neppure l’idea che qualcosa possa sfuggire al loro controllo. Conclusione? Vada pure per il ristorante ‘domestico’ ma la follia - quella follia che si intromette sempre di più, e sfacciatamente, perfino dentro casa – è sicuramente ‘nazionale’.

disegno di Massimo Cavezzali

13 4 FEBBRAIO 2017


Foto Ela Bialkowska OKNOstudio

di Francesco Cusa Nonostante io abbia detestato con ogni mia forza «Whiplash»… Nonostante gli insopportabili luoghi comuni sul jazz e sul suo perenne funerale… Nonostante l’eccesso melenso di trovate ad effetto… Nonostante le impacciate posture di Ryan Gosling…

Viaggio romantico, certamente, ricco di geniali trovate, ma al contempo saturo di surreale delirio (per es., il fantasmagorico finale), fondamentale humus che funge da antidoto agli inevitabili cliché di genere. «La La Land» è la storia di una simbiosi che narra le vicende edeniche nel contesto della contemporaneità. Non ci sono personaggi secondari e tutto ruota intorno al microcosmo dei nuovi Eva ed Ada-

flusso inarrestabile di meraviglie, à la Méliès, è una «scopa del sistema» che finisce col nettare tutto, facendosi beffe delle nostre posturali obiezioni, dimenticate già nell’istante perché fagocitate e calamitate dal turbinar della trama, dalla caustica dialettica della contraddizione, dal fuoco degli ardori che divampa proprio laddove avevamo ritenute spente le ceneri, bagnati i tizzoni e smarrite le speranza di stupore. È un film subdolo, che attenta alle spalle, pie-

Nonostante tutto questo e molto altro, ebbene, posso affermare che ho trovato adorabile «La La Land» di Dennis Chazelle, regista che, se non altro, ha il grande merito di riuscire ad emozionare lo scafato spettatore del 2017, quello dell’era del postprandiale. E lo fa ricostruendo l’anima del musical degli anni d’oro col respiro di una poetica che parla al cuore. «La La Land» è un avvincente melò che trova in Emma Stone il fulcro, la vera perla incastonata, la cui brillantezza fa da scintilla al fuoco che divampa per tutto il visionario viaggio degli amanti.

mo/Mia e Sebastian. Il mondo è emanazione del loro sentire, loro entro la bolla amorosa sospesa fra lo spazio e il tempo, in una sorta di paradiso artificiale che non contempla che comparse. Tutto è contorno, sfondo, cornice nostalgica volta a contenere ciò che sembra destinato a perire: il jazz, il musical. Le goffe metafore di natura estetica vengono tuttavia a vaporizzarsi, travolte e spazzate dalla giostra irrefrenabile, dalle danze vorticose, dalla struggente ineffabilità del sogno, dagli svolazzi per cieli stellati. È un vento perenne, impetuoso quello del film di Chazelle, che produce un

no di insidie e tranelli «rosa», che ti costringe a regredire, a sprofondare nei meandri dell’emotività adolescenziale, ad amare ciò che detesti e a detestare ciò che ami. Ci sono dei momenti in cui dici «no ti prego basta!», e degli altri in cui vorresti urlare «ancora, ancora, sì ancora»… Tutto questo è contemplato, è parte della narrazione di narrazioni, del canto dell’infinito amoroso, della sinfonia delle sinfonie. «Tutto è parola», direbbe Wittgenstein, e in questo senso Chazelle ci ha preso in pieno, anche se di jazz non ha mai capito un emerito tubo.

La La Land, nonostante tutto

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Jukka Male Valokuvaaja di Danilo Cecchi Le notizie biografiche del fotografo e cineasta finlandese Jukka Male (nome dal sapore esotico, ma che tradotto in italiano suonerebbe come Giovanni Maschio) non sono molte, o forse sono coperte da un certo riserbo, al contrario della sua produzione, articolata e varia, e ben rappresentata, ma soprattutto di ampio respiro, fortemente impegnata e decisamente ancorata a temi concreti ed attuali, come la Polonia fra gli ultimi anni Settanta e gli anni Ottanta, l’Unione Sovietica attraversata in treno, o le vittime della guerra dei Balcani. Una parte della sua produzione è concentrata su di un piccolo villaggio del sud-est della Polonia, Srednia Wies (letteralmente, villaggio medio o villaggio di mezzo), posto nella provincia di Podkarpackje nel distretto di Lesko, praticamente incastrato fra la Slovacchia e l’Ucraina. Nel villaggio di Srednia Wies il fotografo finlandese si reca più volte, fra il 1979 ed il 2015, fotografandone a più riprese la vita e gli abitanti, e riportandone una serie di immagini documentarie di forte impatto e di notevole valore, non solo visivo, ma con evidenti risvolti di tipo antropologico. Sul motivo della scelta del piccolo villaggio, inteso come un microcosmo che è in qualche modo lo specchio del mondo intero, non vengono fornite spiegazioni, ma probabilmente la scelta avrebbe potuto cadere su qualunque altro villaggio di qualunque altra nazione europea. Ritornare più volte negli stessi luoghi, incontrare a distanza di tempo le stesse persone, osservare ciò che cambia e ciò che rimane immutato, è un comportamento tipico di molti artisti, poeti, scrittori, pittori e filosofi, e denota la volontà di confrontarsi con se stessi, ma anche con il tempo, con ciò che è destinato a mutare e ciò che è destinato a rimanere identico a se stesso. In questo confronto il fotografo è avvantaggiato rispetto ai poeti, agli scrittori, ai pittori ed ai filosofi, perché il tempo è una componente essenziale dei suoi strumenti e del suo lavoro, perché la memoria dei luoghi e dei volti può essere ingannevole, perché la registrazione dell’immagine ottica permette meglio di qualsiasi altro strumento di confrontare

il prima con il dopo, di leggere l’impronta del tempo sulle cose e sulle persone. Srednia Wies è un piccolo villaggio di poche centinaia di abitanti, posto ai margini del mondo industrializzato, apparentemente indifferente agli sconvolgimenti dell’economia, della politica, della tecnologia, della moda e dei costumi, un piccolo mondo in cui i cambiamenti sono lenti e possono essere registrati solo a distanza di anni, e possono essere letti soprattutto nei volti degli abitanti. Un mondo sospeso fra l’immobilità e l’attesa, in cui i gesti si ripetono da una stagione all’altra, in cui i bambini crescono, i giovani invecchiano, i vecchi

muoiono, come dappertutto, ma forse con un ritmo più lento. Un mondo in cui il tempo scorre con una velocità diversa, una velocità che il fotografo può controllare ed interpretare in maniera più agevole. In questo senso il lavoro di Jukka Male acquista una valenza simbolica, egli non ferma il tempo, non coglie l’istante, non registra delle testimonianze irripetibili. Egli si immerge nel tempo, lo asseconda, fluisce insieme a lui, rinnova i propri scatti come le stagioni rinnovano il loro ciclo, in maniera continua, ripetitiva, solo apparentemente uguale, solo apparentemente diversa. Le sue immagini non sono ritagli di tempo, ma di eternità, ed è grazie a queste immagini che il minuscolo villaggio di Srednia Wies diventa, senza averne mai preso coscienza, una metafora del tempo, del mondo e della vita stessa.

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La salute diseguale di Roberto Giacinti Michael Marmot professore di epidemiologia e salute pubblica presso l’University College London, ha raccolto scritti di autorevoli scienziati sul tema delle disuguaglianze sociali che attingono largamente a fenomeni sociali osservati e studiati. Tra questi, quello del Prof. Achille Caputi, sulle «Società Giuste», stimola la comprensione dello stato di salute di una società come conseguenza delle scelte di politica economica effettuate nel tempo. La National Academy of Science (NAS) di Washington, approfondendo le politiche sanitarie degli USA, osserva che gli americani tra 15 e 60 anni sono più malati dei loro coetanei di altri paesi evoluti, con il medesimo reddito. Si evidenzia che gli USA si collocano quasi in fondo alla classifica per i seguenti importanti indicatori: esiti negativi alla nascita; lesioni e omicidio; gravidanza adolescenziale e infezioni a trasmissione sessuale; l’HIV e l’AIDS; mortalità da droga; obesità e diabete; malattie cardiache; polmonari croniche; invalidità. Dato che gli USA spendono per l’assistenza sanitaria più di ciascuno degli altri paesi di pari reddito, e data la natura dei problemi di salute, è possibile affermare che non vi è una

singola causa a determinare tale svantaggio. Le società hanno culture, valori ed assetti economici che influenzano lo stato di salute della popolazione, talvolta influenzandone l’equità e certo una buona società è quella in cui la salute e l’equità della stessa hanno un livello elevato e migliorano col tempo. Esaminando brevemente la struttura politica degli stati si osserva che, il comunismo in Europa centrale ed orientale non ha determinato un continuo miglioramento dello stato di salute mentre lo si è osservato in Cina sia nel periodo comunista che in quello misto odierno. Il libero mercato, senza regole, rappresenta per i paesi un modo per crescere, ma non sempre può assicurare una salute migliore ed una maggiore equità nella sanità. La questione non deve più essere «capitalismo sì o capitalismo no», ma quale tipo di società capitalistica vogliamo avere, ad esempio: la Norvegia si è classificata prima in base all’Indice di sviluppo umano; la Svezia è vicina per speranza di vita; la Finlandia eccelle per l’istruzione; la Danimarca possiede la migliore mobilità sociale, ma non ha la migliore salute. Insomma i paesi nordici dimostrano che per produrre una buona sanità è indispensabile affidarsi a politiche sociali universalistiche piuttosto che a politiche selettive mirate e basate sulle condizioni economiche; che è

Il gioco dei colori di Lu.C.C.A Giocare con i colori, con i vuoti e con i pieni. Si prevedono molto divertenti i laboratori didattici per i bambini dai 5 ai 10 anni preparati per i «Sabato al museo» dal Lab4kids che avranno come filo conduttore le opere della mostra «Beatrice Gallori. Core» in corso al Lu.C.C.A. (fino al 5 febbraio 2017). Le suggestive installazioni dell’artista toscana sa-

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pranno sicuramente essere una fonte di ispirazione per i più piccoli che, dopo la visita guidata, potranno cimentarsi nella realizzazione di oggetti e opere a tema. Lu.C.C.A. Lab4kids Per informazioni e prenotazioni: didattica@luccamuseum.com Elena Bravi +39 340 6850382

importante disporre di una vasta gamma di servizi pubblici a livello locale e quindi l’importanza della spesa sociale e della protezione sociale. Le enormi disuguaglianze di reddito e ricchezza conducono ovviamente a disuguaglianze di salute assolute e relative come puntualmente sottolineato e individuato con apposito indice da Amartya Sen. Dunque, solo se la spesa sociale di un paese è generosa e universale, minore è il tasso di mortalità nazionale. Insomma spendere di più per lo stato sociale migliora la salute generale e riduce le disuguaglianze di salute che sono considerate importanti non solo per il danno che producono alla popolazione nel suo complesso, ma anche come indicatore sintetico e sensibile del grado di giustizia sociale di una società, che a sua volta è metro del suo livello di civiltà.


di Felisia Toscano Fabio De Poli non è mai stato compatto, tutto d’un pezzo, banale o di facile interpretazione, dietro la sua apparenza leggera e disponibile si cela la complessità conturbante che con disimpegno e scioltezza gli consente di dialogare col mondo intero. Fa parte di un’èlite estetizzante con variazioni di vita fiammeggiante che si uniscono alla capacità di acuta osservazione concedendosi di tanto in tanto il lampo critico perfetto. È sempre all’altezza delle aspettative, soprattutto quando l’aspettativa è indefinita. Non ama soffermarsi sulle questioni che tormentano gli umani, le sue «diagnosi» sono lampanti definizioni con messa a fuoco clamorosa, le sue provocazioni hanno l’obiettivo di risvegliare la vera intelligenza. Fabio De Poli è un grande osservatore, gli basta un dettaglio per scoprire come è fatta una persona. Intuisce sempre quello che sta per accadere, possiede infatti la capacità di anticipare eventi ed azioni, il suo animo è continuamente sorretto dal desiderio di realizzare qualcosa di poderoso e improvviso che sorprenda.

Non gli piace chi cincischia, chi perde tempo, chi gira intorno ad un’idea senza partire deciso, lui ama chi si espone con coraggio, chi dice quello che pensa in modo chiaro, chi crede senza preoccuparsi delle conseguenze, solo dinanzi a ciò concede ammirazione autentica. Ha il pallino della forma, un’estetica della perfezione che conquista il suo culmine quando smonta tutte le idee di perfezione precedenti, perché per De Poli l’ideale è un divenire che quando sopraggiunge e già perduto e l’applaudirlo troppo, l’esaltarlo sarebbe come tradirlo. Imperdonabile. Capisce al volo grazie alla sua intuizione e al suo ragionamento sempre sottili e precisi. A De Poli non occorre la forza dell’argo-

Fedele a una aspettativa è indefinita Foto di Maria Di Pietro

mentazione potente per spogliare e lasciare nude le sue convinzioni, interviene sempre con un silenzio o una mezza parola, che non arriva diretta ma di taglio, come un laser che frantuma le falsità. Acume geometrico, sottile assenza di palpitazione romantica e desiderio di ordine sotto il caos sono le caratteristiche che denotano la sua pittura. Difficile per un pittore rendersi più socievole di quanto lui continuamente riesca ad essere. Mondano, pigro, a volte snob è luminosamente capace di essere ospite e al tempo stesso padrone assoluto di uno spazio mai usurpato, uno spazio che possa appartenere alla parola, al cibo e al buon bere che De Poli riesce sempre a governare con discrezione e maestria. Coltiva parallelamente l’arte di essere marginale e indispensabile. Sebbene sia nato a Genova, è Firenze la città che lo ha accolto e distrattamente amato e ricambia il sentimento percorrendone i luoghi e conoscendone le infinite sfumature. Non c’è in lui nessun residuo convenzionale, nessuna posa, non si è mai fregiato del titolo di artista, lo è. Comprende la sostanza e gli esiti della pittura come fossero il distillato di un mestiere, di una tecnica: il compimento di un’antica fatica travestita di leggerezza. De Poli opera sostenuto da un’idea dell’arte che cerca dentro di se i motivi della propria esistenza. La pittura è il campo dentro cui manualità e concetto trovano un equilibrio, il piacere

di poter accompagnare il quadro con il preventivo distacco dell’ironia. L’opera di De Poli si offre allo sguardo in una doppia valenza: come sostanza pittorica e come forma mentale. La sua mobilità produttiva nasce dalla pulsione di aggirare la geometria di ogni oggetto fissato ad un’idea del mondo. Figure comiche, timbri forti, colori accesi scorrono sulla superficie della tela secondo i dettami della sua sensibilità. Le singole opere diventano soste silenziose nel luogo dello stile, tutto permette a De Poli di trovare identità attraverso il fare. La cura del particolare e di piccole scene denota una coscienza della precarietà che lo portano ad operare facilmente sull’uso transitorio della pittura espressiva che poggia sull’oscillazione della sua pulsione creativa e disinibita. La sua arte è partire dalla catastrofe, approfittare della perdita di significati per produrre una sana deriva creativa pronta a transitare in ogni luogo che sia questo comune o proibito. De Poli ribadisce il suo essere strumento di rappresentazione, l’esecutore di una capacità espressiva fatta di memoria culturale direttamente proporzionale alla velocità di vita del proprio tempo che permette sopravvivenza soltanto alle attività produttive capaci di agire in sintonia con essa. Per De Poli l’opera deve essere sottratta al monopolio del puro sguardo e destinata all’attenzione di un pubblico che vuole tenere la memoria sotto il dominio del presente.

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Spiriti di

materia

di Sandra Salvato

Verso dove Andare dove, ma andare va bene per quelle strade che iniziano, girano, tornano indietro guardarmi non posso, avanti neppure ferma nel merito non so pensare che al poi Precaria umanità, cammino per superare l’incertezza che un cane randagio non conoscerà, né può allentare il morso poiché un osso è un osso, un osso è quanto basta Mi guardi spaurito mentre si allunga l’ombra della premura per me non c’è niente che non vada a parte il girare attorno ed è ancora l’inizio Precario l’alzarsi che subito si vacilla compreso il randagio che mangia aria e certezza del domani poi che sarà, ti rigiri i pollici e pensi che tanto torno qui a dar ragione alle tue cure infinite, per me

Sandra Salvato nasce a Firenze dove, dopo una lunga parentesi bolognese di studi giuridici (in cui si laurea) e pratica giornalistica, torna a lavorare, a sposarsi, a vivere. Danza classica e pianoforte ne ritmano il passo fino alla scoperta della scrittura come unico diapason da seguire. Notizie, prosa, poesia, la parola diventa la vera, grande conquista quotidiana. Ha insegnato la terza pagina radiofonica e televisiva. Sogna una valigia sempre pronta, un cinema in casa e un cappello da chef.

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di Claudio Cosma Guardando un ritratto fotografico di Silvia Noferi, che tengo in salotto e come la consuetudine con lavori d’arte generi pensieri su questi. Questa fotografia di sapore rinascimentale ha come rappresentazione privilegiata la luce, la postura delle mani, il volto celato, che noi sappiamo essere quello dell’artista. Il ritratto tende alla idealizzazione e mantiene la scelta classica del busto intero con sfondo nero, quindi le poche cose presenti assumono valore simbolico. La luce proveniente di fronte, assicura una centralità statuaria sottolineata dalla perdita totale di movimento. Il movimento, tuttavia, c’è stato nella ideazione del progetto e nella costruzione dell’immagine, tutto infatti ci lascia pensare ad una voluta rimozione di qualsiasi stato d’animo emozionale che sfocia nella calma solenne, quasi una Giovanna d’Arco in armi, algida e irraggiungibile, misteriosamente avvolta nel nero manto della notte. In questo strano ritratto rimangono scoperte le mani, il collo ed il mento, tutto il resto è divorato dal buio che assorbe e trattiene le forme come un drappo di velluto seta, compatto e liquido insieme. Le mani, piccole e morbide sono staccate da precisi riferimenti di postura, pur essendo dove devono stare, sembrano appoggiarsi là dove sono state ritratte dopo un volteggiare di ali d’uccello, forse di una colomba. In linea con una iconografia leonardesca le mani ci comunicano quiete, quasi a compensare l’impossibilità di interpretare l’espressione del volto intero, stanno a indicare pace e riflessione, suggerendo quello che sta facendo il protagonista del ritratto. Indubbiamente l’artista è in un momento di astrazione, di profonda meditazione, forse in viaggio per mondi differenti dal nostro. Probabilmente gli occhi sono chiusi, le orecchie tese ad ascoltare non rumori esterni, ma suoni interiori, il respiro sospeso è sottolineato dalla posizione del mento, leggermente sollevato, come sempre si fa quando si trattiene il respiro per ricordare un pensiero che sta sfuggendo. Poco si avverte la presenza della pentola d’acciaio come tale, tanto è l’astrazione siderale della foto, di fatto questo comune utensile da cucina, usato in modo così non convenzionale, se preso alla lettera, ironicamente, ci lascia pensare ad un cervello sotto pressione, in una vaporosa ebollizione mentre attende ad un sofisticato manicaretto intellettuale. Più simile ad un casco interplanetario, discende senz’altro da un elmo da parata, curiosa-

mente indossato da una donna, con la visiera abbassata dove il cavaliere che tra poco intraprenderà la giostra in suo onore, scorge riflesso nel lucido metallo il suo stesso volto. Dunque il tempo nel quale è sospeso il ritratto spazia in un continuo rimando atemporale dalle madonne medievali ai ritratti del rinascimento

per arrivare alla contemporaneità dei viaggi nello spazio, abbracciando la visione che il mondo in questi secoli ha della donna, di volta in volta, angelicata, mistica, povera, regina, madre, protetta o condannata che sia, ma sempre indissolubilmente legata alla propria essenza spirituale generatrice di pensiero e di vita.

Ritratto con pentola

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di Simonetta Zanuccoli Per chi va per la prima voltà a Parigi è quasi un obbligo visitare, insieme al Louvre e la Tour Eiffel, il Musée de l’Armée meglio conosciuto come Les Invalides. Costruito da Luigi XIV per accogliere gli invalidi di guerra, è uno dei più imponenti complessi architettonici della capitale. Al suo interno è ospitato il museo dell’Esercito, tra i più grandi di arte e storia militare del mondo, ma la vera attrazione è la cripta circolare aperta nella barocca Eglise du Dome che ospita, circondata da 12 statue e 8 scritte incise sul pavimento policromo che simboleggiono altrettante vittorie, la tomba in quarzo rosso su un piedistallo di granito verde di Napoleone. La causa della sua morte, avvenuta a Sant’Elena nel maggio del1821, forse per un tumore allo stomaco, forse per avvelenamento d’arsenico, è tutt’oggi avvolta nel mistero. Nel caso di morte violenta non si sa se l’abbiano ucciso gli inglesi ma pare abbastanza probabile che questi comunque progettassero di portare la salma a Londra per evitare che i francesi ne facessero un simbolo di venerazione. Lo stesso Napoleone che aveva detto desidero che le mie ceneri riposino sulle rive della Senna a fianco del popolo che tanto ho amato pare che temesse di essere trafugato post-mortem. Comunque il suo corpo fu tumulato nell’isola con tutti gli onori, vestito in uniforme da parata con camicia, cravatta, pantaloni e calze di seta bianche, giacca verde con i rovesci rossi dei Cacciatori della Guardia carica di decorazioni, il suo classico cappello con il tricolore e gli stivali con gli speroni. Al lato 2 vasi d’argento contenenti il cuore e il fegato. Nel 1840 il figlio cadetto di Luigi Filippo d’Orleans, allora al potere, venne incaricato di riportare le spoglie di Napoleone in patria. Prima però i francesi pretesero che il corpo fosse riesumato per essere sicuri che fosse quello del loro Imperatore. E qui cominciarono a nascere i primi dubbi. La testa, che al momento della morte era stata accuratamente rasata, ora si presentava con barba e capelli ed inoltre aveva una circonferenza di 56,20 cm mentre nel 1821 era di 59,40 cm. Tutte le decorazioni erano scomparse e rimaneva una sola medaglia malinconicamente attaccata a un cordoncino rosso. Inspiegabilmente erano scomparsi anche le calze di seta bianche e gli speroni. I due vasi d’argento con il cuore e il fegato posti prima ai lati del corpo ora si trovavano fra le sue gambe. La bara sembrava essere rimpiccolita o la salma allungata perchè le gam-

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Napoleone e il suo maggiordomo be erano leggermente genuflesse e i tacchi degli stivali urtavano contro le pareti. Ma cosa ancora più «misteriosa» è che quando fu fatta una seconda maschera funeraria, dato che il corpo si presentava ancora in buone condizioni, questa non corrispondeva a quella presa a momento della morte nel 1821. Quest’ultima infatti era di un uomo di mezza età con il volto leggermente raggrinzito, le guance tondeggianti e una piccola ma evidente cicatrice. Quella del 1840 era invece di un individuo di aspetto giovanile, con il viso sottile e scavato, senza cicatrice e molto rassomigliante ai ritratti fatti a Jean-Baptiste Cipriani, maggiordomo di Napoleone e agente segreto dei Borboni. Fu comunque preso da quella salma al momento della chiusura del nuovo feretro un lembo di pelle e una ciocca di capelli, il primo conservato oggi al Musée de l’Arme e la seconda a Becancon. Gli storici del tempo, basandosi su questi elementi e sulle memorie di chi aveva assistito alla sepoltura nel 1821, espressero molti dubbi che il corpo fosse realmente quello di Napoleone, ma non vennero ascoltati e la bara dell’Imperatore, dopo pochi giorni, con tutta la solennità del caso, su un carro trainato da 16 cavalli e accolto dalle salve dei cannoni e da

una folla immensa di parigini passò maestosamente sotto l’Arco di Trionfo per arrivare alla sua ultima destinazione. Le polemiche però non sono mai cessate. Negli ultimi decenni storici come Bruno Roy-Henri che ha scritto anche un libro dal titolo significativo L’ènigme des Invalides, Jean Tulard, uno dei più noti studiosi di Bonaparte e molti altri insiema a giornali come Libération hanno chiesto il confronto tra il DNA ricavato da quel lembo di pelle conservato e quello dei discendenti dell’Imperatore. Il Ministro della Difesa, direttamente responsabile del Musée dell’Armée, nonostante l’indubbio interesse storico e la semplicità, oggi, di tale verifica, è sempre stato contrario alla richiesta dichiarando che allo stato attuale le teorie che mettono in dubbio l’identità del corpo inumato a Les Invalides non presentano elementi sufficienti per procedere all’esame. Les Invalides con i suoi quasi 2 milioni di visitatori l’anno è il quinto museo per importanza della Francia, e si sa che i francesi, sotto certi aspetti, sono molto pragmatici... Resta però il dubbio se lo splendido mausoleo marmoreo contiene il corpo di un grande Imperatore o di un semplice servitore (ma è vero anche che dopo la morte siamo tutti uguali).


Ristorante caffetteria

La Loggia

La Loggia è un luogo magico che si presta a ogni occasione e necessità. Grazie ai suoi ampi spazi, distribuiti su numerose sale interne ed esterne, è in grado di accontentare qualsiasi cliente: da chi desidera trascorrere una serata romantica, a chi vuole festeggiare un matrimonio o organizzare una cena aziendale. Dall’alto del piazzale Michelangelo avrete a disposizione una vasta scelta di ambienti. Durante bella stagione, ad esempio, è possibile sfruttare una delle sale esterne a scelta tra: Terrazza Loggiato, dove consumare un pranzo o una cena informale, un aperitivo in compagnia di amici o festeggiare compleanni. Attrezzato con ombrelloni che riparano i tavoli dal sole, potrete sedervi a conversare e gustare i nostri piatti sul panorama mozzafiato di Firenze. Un elegante e spazioso loggiato vi offrirà un ulteriore riparo ombreggiato, ventilato e con vista superba. Ristorante esterno, sito nella Terrazza Log-

giato, è l’ideale per godersi la bella stagione e gustare pranzi e cene, tra i sapori raffinati del menù «la Gran Carta» e la magia di un’atmosfera unica. Il panorama farà da sfondo naturale alle portate, preparate dal nostro chef con cura e attenzione. Questo ambiente è l’ideale per una cena romantica o con amici, per pranzi in famiglia o occasioni formali. Terrazza Panoramica, il nostro fiore all’occhiello. Se già dal loggiato è possibile ammirare molte meraviglie dell’architettura fiorentina, dalla terrazza posta sul tetto della Loggia, la vista su Firenze è a perdita d’occhio. La location è per-

La Loggia vi aspetta tutti i giorni al piazzale Michelangelo, 1 Firenze. +39 055 2342832 www.ristorantelaloggia.it reservation@ristorantelaloggia.it Segui La Loggia anche su Facebook e Instagram.

fetta per party privati o cene speciali, da festeggiare nella cornice di un quadro mozzafiato. Quando arriva l’inverno, è comunque possibile sfruttare questa terrazza grazie all’impiego di tensostrutture, che la rendono accogliente anche nella stagione più fredda. All’interno il Ristorante caffetteria La Loggia dispone di altre tre stanze: Sala caffetteria, ottima per pranzi e cene veloci, oppure per concedersi una pausa al gusto di un cappuccino, di una bevanda calda o di un drink servito direttamente dal nostro cocktail bar. Sala Ristorante, per le cene o i pranzi più formali, situata nella parte più antica dell’edificio. Anche da questa postazione i nostri clienti non dovranno rinunciare al paesaggio di Firenze mentre selezionano le pietanze dal ricco menù o scorrono la carta dei vini facendosi consigliare dal nostro sommelier. Sala Eventi, un’ambiente luminoso e sfarzoso, la cui vetrata laterale offre una vista ineguagliabile sul protagonista indiscusso della città, Ponte Vecchio.

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Maschietto Editore

ALBERTO BURRI E TITO FORTUNI L’ARTE, L’AMICIZIA, LE PASSIONI

Un ritratto intimo del grande artista attraverso i diari del suo amico di una vita e medico Tito Fortuni, curato e commentato da Guelfo Guelfi, con una prefazione di Bruno Corà

Tito Fortuni Alberto Burri. L’amicizia pagine 224 / 16 €

Il libro, uscito in occasione del centenario della nascita, racconta gli aspetti meno conosciuti e più umani di Burri. Dalla metà degli anni Sessanta Tito Fortuni annota ogni incontro, discussione e scambio con il suo grande amico di sempre, divenuto già uno dei massimi artisti al mondo. Entrambi medici, appassionati di calcio, legatissimi al paese natale, Città di Castello: le vite di Alberto e Tito scorrono in parallelo, intrecciandosi sempre più via via che l’artista investe l’amico-medico del ruolo di consigliere e collaboratore fidato per la creazione della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri.


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