Numero
18 febbraio 2017
272
205
Con la cultura non si mangia
In questi anni di Medioevo di cui incolpo Berlusconi insieme a tutti quelli che lo hanno aiutato, ci siamo fatti scippare tutti. Quel coglione - e la prego di scrivere coglione - che proprio in quell’epoca disse «Con la cultura non si mangia» avrebbero dovuto incarcerarlo Elio (senza le storie tese)
E la prego di scrivere coglione
Giulio Tremonti (apocrifo)
Maschietto Editore
NY City, Agosto 1969
La prima
immagine Un ritorno alla zona dei «Projects», la famosa edilizia abitativa per i meno abbienti, in genere neri e portoricani. Le unità abitative erano decisamente più che accettabili, anche se a volte la manutenzione delle strutture non era sufficientemente curata. Esistevano molte aree comuni con attrezzature e spazi ludici per giovani ed anziani. Panchine, piccoli spazi verdi, tavoli e sedute in cemento dove al riparo di qualche albero si poteva sopportare meglio l’odioso caldo umido estivo. Questa bambina giocava quasi sempre con questo manufatto in cemento e io ho avuto occasione di rivederla almeno un paio di volte durante il mio soggiorno
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
18 febbraio 2017
272
205
Riunione di famiglia All you need is love Le Sorelle Marx
Farsi da soli Lo Zio di Trotzky
Bucio de culo I Cugini Engels
In questo numero Un Prospero dei nostri giorni di Giancarlo Cauteruccio
Il fotografo alienato di Danilo Cecchi
Un esploratore delle strutture profonde del testo letterario di Serena Cenni
Per un Islam italiano di Barbara Palla
Le ombre racconto di Carlo Cuppini Destra, sinistra e altrove di Alessandro Michelucci Ilvo e le api di Mariangela Arvanas A German story di Cristina Pucci Disporre... dell’indisponibile? di Paolo Marini
rebus di Claudio Cosma Il caos alla stazione di Gianni Biagi Paris et le désert francais di Simonetta Zanuccoli Maledetti di Melia Seth e Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Paolo della Bella, Sandra Salvato.
Venghino signori, venghino premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Mandate i vostri racconti
redazione@maschiettoeditore. com
Primo dizionario aereo italiano (futurista) di Laura Mondaldi
Direttore Simone Siliani
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111 redazione@maschiettoeditore.com www.maschiettoeditore.com Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
Alessandro Serpieri
La tempesta di Giancarlo Cauteruccio, traduzione di Alessandro Serpieri
4 18 FEBBRAIO 2017
Un Prospero dei nostri giorni di Giancarlo Cauteruccio Caro Alessandro, prima che ricordarti come un grande professore, amato da molte generazioni di studenti dell’Università di Firenze e non solo, voglio ricordare la bellezza della tua persona. Sempre positivo, sempre disponibile, specie verso i giovani. Sempre sorridente insieme alla tua amata compagna Anna prima e poi alla dolcissima Chiara tua figlia. Grande Professore e massimo traduttore di Shakespeare in Italia, hai offerto la tua opera a molti importanti registi della scena italiana, fai parte a pieno titolo, della storia del teatro italiano. Nel 1999, sapendo che non avevi mai tradotto ‘La Tempesta’ di Shakespeare e avendo io il desiderio di metterla in scena, pensavo di chiederti di farlo per me. Ma tutte le volte, prima dello spettacolo, davanti al Teatro Studio, del quale sei sempre stato uno speciale spettatore, (interessato com’eri a osservare, analizzare, comprendere il rapporto tra i giovani e il teatro), tutte le volte, tentavo di chiederti la traduzione ma poi l’imbarazzo mi bloccava. Una sera mi armai di coraggio e te lo chiesi. Pensavo che, giustamente, trattandosi di una compagnia fuori dai grandi sistemi produttivi del teatro quale era la mia, mi dicessi, con l’eleganza che ti contraddistingue, che i tuoi impegni accademici e teatrali ti impedivano di prendere in considerazione la cosa. Invece no. Fosti entusiasta della proposta, come un bambino sollecitato da un nuovo gioco, mi dicesti che la cosa ti intrigava e la mia idea di messa in scena ti incuriosiva non poco, nonostante ‘La Tempesta’ non ti avesse mai attratto più di tanto. Nel 2000 il nostro progetto ha preso vita e i risultati sono stati eccezionali. Molti a distanza di ormai 17 anni ricordano quello spettacolo nel quale avevo messo insieme Shakespeare, Alessandro Serpieri e i 99 Posse. La Tempesta, l’ultima opera del Bardo, la necessit‡ di una sua riconciliazione con l’esistenza, una commedia senza scorrimento di sangue ma fondata sulla meraviglia della magia.
Un testamento, un grande gesto poetico per congedarsi dal suo pubblico e evidentemente dalla vita? Ecco l’epilogo di Prospero nelle parole della tua straordinaria traduzione: Ora i miei incantesimi sono tutti deposti e la forza che ho Ë mia soltanto, e poca. Ora, è vero, sta a voi tenermi qui confinato, o a Napoli mandarmi. Poiché ho ottenuto il mio ducato, e perdonato chi volle ingannarmi, non fatemi restare in questíisola nuda con il potere del vostro incantesimo, ma liberatemi dai miei legami con líaiuto delle vostre buone mani. Riempia le mie vele il vostro fiato gentile, altrimenti fallisce il mi progetto, che era di dare a voi piacere. Ora non ho più spiriti da controllare, nè arte per incantare, e la mia fine è la disperazione, se non mi dia sollevazione la preghiera, che trafigge così a fondo da assaltare la Misericordia stessa e liberare da ogni colpa. Come voi dai peccati vorreste esser perdonati, così con la vostra indulgenza date a me licenza di andare. (esce) Cosa aggiungere? Se non il dolore per la perdita di una persona straordinaria. Soltanto pochi giorni prima della tua morte, avevamo organizzato la tua partecipazione al laboratorio su ‘La Tempesta’ al Liceo Classico Galileo, dove sto lavorando con gli studenti per una messa in scena. Ancora una volta, l’idea di portare il tuo contributo ai giovani che sto facendo lavorare sulla tua traduzione, ti entusiasmava. La mia idea di registrare la tua bellissima voce per il personaggio di Prospero ti divertiva e naturalmente accettasti la proposta. Adesso io e i ragazzi ti porteremo con noi in questa nostra piccola impresa e dedicheremo a te lo spettacolo di cui tu sarai parte integrante.
Un esploratore delle strutture profonde del testo letterario di Serena Cenni Ci sono persone che non dovrebbero morire mai perché la loro vita, affettiva e intellettuale, sembra essere stata creata per illuminare quella degli altri, indicando cammini possibili, smussando ostacoli, addolcendo timori o sofferenze. Alessandro Serpieri era una di queste persone ‘speciali’ che sapeva coniugare, in modo straordinario, mente e cuore, intelligenza e passione, coraggio e riserbo, serietà e leggerezza. Chi scrive ha avuto il privilegio di averlo conosciuto come correlatore nel momento della laurea e di essergli poi stata accanto, per molti anni, come ricercatrice. Anni fantastici, quegli irripetibili Settanta e Ottanta del Novecento, ricchi di fermenti culturali e di approcci innovativi ai testi letterari, densi di incursioni temerarie in ambiti quali la psicanalisi, l’antropologia, la linguistica, la semiologia, alla ricerca di interpretazioni testuali che si discostassero profondamente dalle obsolete osservazioni biografiche, contenutistiche o impressionistiche della critica tradizionale. E se la Francia aveva offerto per prima, in traduzione, i saggi dei grandi formalisti russi degli anni Dieci e Venti del Novecento e presentava un’incredibile gamma di (più o meno giovani) pensatori - Barthes, Greimas, Genette, Lévi-Strauss, Lacan, Todorov -, l’Italia non era da meno, con studiosi dello spessore di D’Arco Silvio Avalle, Umberto Eco, Marcello Pagnini, Cesare Segre e, ovviamente, Alessandro Serpieri. Nei giorni successivi alla scomparsa di questo grande intellettuale, avvenuta il 6 febbraio, sono usciti molti articoli che hanno ricordato la sua ampia produzione critica nell’ambito della poesia inglese, della narrativa modernista e del teatro shakesperiano, le sue raffinate traduzioni, i romanzi, i molteplici premi e gli importanti riconoscimenti. Qui io vorrei ricordare il ‘primo’ Serpieri, quello giovane, appena arrivato a Firenze dall’Università di Bologna perché aveva vinto la cattedra di Letteratura Inglese e Marcello Pagnini (altra grande figura di anglista), lo aveva voluto come docente presso il proprio Istituto. Indimenticabili le sue lezioni, che trascinavano studenti e ricercatori dentro i suoi testi favoriti di allora (Am-
Addio maestro Jannis Kounellis (1936–2017)
al teatro Studio di Scandicci, il 23 marzo 2016
leto, Lord Jim, La terra desolata), per mostrare connessioni interne, sottili occultamenti della psiche nella retorica del linguaggio, segrete epifanie, in una compenetrazione costante di didattica e ricerca che lo portavano sempre ad appuntare – nell’hic et nunc della lezione – le ulteriori riflessioni che emergevano, in progress, dalle sue appassionate analisi. Di quegli anni, i primi illuminanti libri: Hopkins – Eliot – Auden. Saggi sul parallelismo poetico (1969), T.S.Eliot: Le strutture profonde (1973), e I sonetti dell’immortalità (1975), straordinario preludio all’analisi dell’intero canzoniere shakespeariano del 1991, dove nella nota introduttiva compare una limpida dichiarazione di metodo che lo accompagnerà a lungo: «Ho cercato di presentare analisi fondate, ma essenziali, e ho variato di volta in volta, come mi suggeriva il testo, il punto di vista – ma non la metodologia dell’approccio ermeneutico – soffermandomi sull’uno o sull’altro aspetto dell’organizzazione semiologica e semantica del sonetto. Nel far questo spero anche di aver mostrato come lo studio strutturale, diversamente da quanto ancora ritenuto da alcuni, non sia di per sé formalistico (in senso deteriore), o tautologico, o statico, ma possa anzi attivare ogni spazio del testo, quello storico non meno di quello grammaticale, quello filosofico non meno di quello retorico, mostrandone le interrelazioni di fondo». Mostrando, cioè, quelle strutture profonde che, operando in connessione con le strutture collettive (i codici di un’epoca), come annotava nell’introduzione all’altro suo grande studio, quello eliotiano, guidavano «l’artista», ma sarei tentata di dire anche il critico, «nella sua operazione affabulatoria». Il rigore dei suoi studi, il fascino della sua persona e l’umanità del suo essere non verranno mai dimenticati dai suoi studenti, dagli allievi e dagli amici che oggi, insieme con i figli, soffrono il distacco dal suo corpo fisico, perché lo ritroveranno nei ricordi personali e nei molteplici testi che ci ha lasciato come testimonianza -‘viva’ - del suo pensiero e del suo insegnamento.
5 18 FEBBRAIO 2017
Le Sorelle Marx
All you need is love
Dopo il festival della canzone italiana a Sanremo, il festival della banalità italica a Firenze. E lo ha inaugurato da protagonista assoluto il sindaco Nardella il giorno di S.Valentino a Palazzo Vecchio. Dove si è tenuta una pregevole iniziativa, in due turni, per le 1152 coppie fiorentine che nel 2017 festeggiano le nozze d’oro. Nardella si è lasciato andare ad un profluvio di melense banalità sul matrimonio da fare invidia a Liala: «grazie perché ci insegnate che nella vita ci sono valori e relazioni umane che possono durare per sempre». E giù una cucchiaiata di melassa, mentre gli uomini si sono profusi in gesti scaramantici delle più diverse forme. Ancora Mister Ovvio: «voi siete i veri rivoluzionari perché oggi se vuoi fare qualcosa controcorrente devi riuscire a costruire un progetto di vita che duri... E questo credo che sia rivoluzionario in una società in cui gli oggetti e le relazioni spesso durano poco e si consumano presto». Quindi tutti i separati, divorziati, conviventi e quelli al secondo matrimonio, tutti grigi conservatori, porci reazionari, travolti dall’ondata rivoluzionaria. E, per finire, non poteva mancare il tocco poetico: «L’amore è come una grande valigia robusta che può durare molto [e ridai, con la durata!], dentro la quale ci si possono mettere tante cose: la passione, il rispetto, la fiducia, la pazienza, la complicità, la felicità che a volte dimentichiamo e che invece è gratis». Fra un turno e l’altro, Nardella ha trovato giusto il tempo per firmare un contratto con la Perugina per una limited edition firmata di suo pugno di bigliettini con i suoi pensierini d’amore con cui avvolgere i Baci Perugina. Insieme a quelli della Pausini, saranno il prodotto di punta dell’azienda dolciaria umbra per il 2017. Poi una bella foto (qui accanto) per abbracciare tutti gli innamorati e via di corsa al Piazzale Michelangelo dove, a corredo di un restauro delle balaustre, non si è trovato di meglio da fare che realizzare una grande aiuola floreale con al centro un grande cuore di ciclamini con scritto «amo Firenze». Nardella, per chiudere il festival dell’ovvio, non ha potuto fare a meno di dichiarare che
6 18 FEBBRAIO 2017
Lo Zio di Trotzky Farsi da soli
«non facciamo solo misure spot ma puntiamo a un decoro generale di tutta la piazza». La glicemia sentitamente ringrazia.
I Cugini Engels
Si assiste davvero a cose incredibili nel mondo della moda italiana; roba da non credere alle proprie orecchie! Infatti, chi lo avrebbe mai detto che la Gaia Trussardi sarebbe diventata direttrice creativa dell’omonima maison di moda? Neppure lei se lo sarebbe mai aspettato; è venuto così, come un fulmine a ciel sereno. «Non avrei mai immaginato di lavorare in azienda – dichiara a Vanity Fair -. Pensavo che avrei fatto la regista, anzi no l’attrice, anzi no la fotografa, ma forse la scrittrice o la musicista. E invece il posto giusto per la mia creatività era proprio questo». Ma guarda un po’! In fondo poteva fare l’ingegnere nucleare, la biologa marina, la pasticciera o la fantina e invece si è trovata, chissà come, a fare la dirigente nell’azienda di famiglia. Che cosa strana... D’altra parte, la ragazza si è fatta da sola e non è certo stata viziata:«Per nulla. Mi ha aiutata anche il carattere: ho sempre voluto farcela da sola». Una vera self made woman!
Bucio de culo
Anni fa andava in scena una geniale (non) serie italiana dal titolo Boris, nella quale si prendeva in giro il mondo dello spettacolo, in particolare quello televisivo, italiano. Nella serie c’era un comico che arrivava al successo, inspiegabilmente, tramite un tormentone volgare che ripeteva continuamente senza alcuna logica, indipendentemente dal contesto e dalla situazione: semplicemente esclamava: «Bucio di culo». E giù risate. Arrivata la popolarità Nando Martellone, questo il nome del
personaggio, tentava il salto di qualità attoriale finendo però poi, incapace di fare altro, a riproporre il suo tormentone anche nei panni di un notaio. Ecco la sindrome Martellone ci pare sia quella che ha colpito Grillo che in difficoltà politica a Roma, se ne esce con il suo marchio di fabbrica, il suo «bucio de culo», offendendo così a caso. Questo giro se la prende coi trans, ma il soggetto poco importa. L’importante non è più nemmeno far ridere, al buon Beppe basta che si parli d’altro piuttosto che della movimentata giunta Raggi. Insomma, vista la frequenza con cui la povera sindaca riesce a mettersi nei casini, aspettiamoci molto presto molti altri «bucio de culo!».
Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Pittore Democratico Scissione pacifica XXI secolo
SCavez zacollo
disegno di Massimo Cavezzali
7 18 FEBBRAIO 2017
Primo dizionario aereo italiano (futurista) di Laura Monaldi Tra le avanguardie storiche il futurismo manifestò una volontà di rottura più radicale nei confronti delle tradizioni linguistiche, stilistiche e tematiche precedenti, muovendosi con strategie d’urto estremamente provocatorie. Non a caso al centro dell’ispirazione futurista vi fu il nuovo ruolo che la macchina esercitava nella società capitalistico-industriale all’inizio del suo decollo mondiale di inizio Novecento, analizzata a partire dal piano della percezione visiva e linguistica e dai meccanismi mentali che ne derivavano. Se la macchina fa vivere in modo diverso allora fa vedere e anche sentire in modo diverso e il mondo, di conseguenza, non può sottrarsi né al progresso né alla modernità, ma è destinata ad analizzarla con linguaggi e metodologie che superano il canone. L’esaltazione della velocità e della macchina si legarono indissolubilmente al mito del volo, in una fascinazione estetica ed espressiva che coinvolse in primis il linguaggio. Nel 1908 Filippo Tommaso Marinetti pubblicò la sua prima esaltazione lirica in versi dedicata al volo dal titolo «L’Aeroplano del Papa» e nel 1919 cominciò a collezionare vocaboli aviatori pubblicandoli sulla rivista futurista «La testa di ferro», mettendo in evidenza sia la visione del volo nella sua forma individuale ed eroica – basti pensare alle gloriose crociere atlantiche di Italo Balbo – sia il dinamismo, la velocità dell’aeroplano, il sentimento spaziale e la possibilità di mettere in gioco la propria vita. Successivamente le scelte lessicali vennero ampliate e poste al giudizio dell’artista-aviatore Fedele Azari. Nel 1929 l’editore milanese Morreale pubblicò il «Primo dizionario aereo italiano (futurista)»: un lavoro a quattro mani mai più ristampato che univa l’abilità estetica e comunicativa di Marinetti con le conoscenze tecniche dell’aviazione di Azari; un lavoro a quattro mani che venne
8 18 FEBBRAIO 2017
apprezzato non solo per lo sforzo analitico e «italico» ma anche per la completezza semantica delle definizioni. Il «Primo dizionario aereo italiano (futurista)» è uno dei volumi più importanti a livello storico-linguistico che il Futurismo ha tramandato ed è anche quello più sconosciuto e difficilmente reperibile. La particolarità – apprezzabile già dalla soluzione grafica della
copertina – e la rarità del volume sono state riesumate da Apice Libri che ha offerto al pubblico la prima ristampa anastatica, dopo più di cinquant’anni di oblio, con un eccellente ed esaustivo saggio introduttivo di Stefania Stefanelli che ha curato sapientemente anche l’intero volume, rivalutando l’aspetto più colto e analitico del Futurismo marinettiano.
di Alessandro Michelucci Sono oltre due secoli che i termini destra e sinistra popolano il dibattito politico. Inizialmente si trattava di una distinzione legata alla Rivoluzione francese, quindi tipicamente europea: a destra i conservatori, a sinistra i liberali (oggi diremmo progressisti). Poi sono diventati due campi che dovevano spartirsi tutte le idee politiche. Tanto è vero che le due etichette sono state applicate anche alle dittature: un criterio assurdo, in quanto destra e sinistra presuppongono quel pluralismo politico che la dittatura nega in radice. Col tempo il senso di queste definizioni ha subito varie modifiche: i loro contorni si sono fatti sempre meno chiari, mentre i due termini hanno cominciato a mostrare la corda. Del resto, se un’etichetta non serve a distinguere chiaramente questa perde la propria funzione. Ormai sono sempre più numerosi coloro che ritengono superata la distinzione destra/ sinistra. Proprio a Firenze, fra l’altro, si pubblicano da molti anni due riviste, Diorama letterario e Trasgressioni, che propongono il superamento di questa dicotomia. Entrambe dirette da Marco Tarchi, che insegna alla Facoltà di Scienza politiche, queste pubblicazioni ospitano i contributi di studiosi italiani e stranieri, Alain de Benoist e Danilo Zolo. Anche all’estero, comunque, crescono le voci che contestano la validità di questa demarcazione. Un ottimo esempio è il libro Droite/ Gauche: Pour sortir de l’equivoque (Editions Pierre-Guillaume de Roux, 2016). L’autore è Arnaud Imatz, basco francese, già noto per alcune opere sul sindacalismo spagnolo e su José Antonio Primo De Rivera. Il libro che ci interessa è la versione aggiornata di un lavoro pubblicato originariamente nel 1996. Profondo conoscitore della materia, Imatz traccia un ampio panorama che si concentra sulla Francia dell’ultimo secolo: monarchici e populisti, fascisti e sovranisti, senza dimenticare i non-confomisti degli anni Trenta (Robert Aron, Alexandre Marc, Emmanuel Mounier, etc.) e il Front National. Davanti a questo elenco sommario di tendenze politiche il lettore italiano può sentirsi disorientato o comunque sorpreso: da noi buona parte di quelle suddette vengono catalogate a destra. Questo non fa che confermare quanto siano vaghe e mutevoli certe etichette. Tanto più che la confusione fra destra e neofascismo è un’anomalia tutta italiana. In Europa il concetto di destra politica è sempre stato associato a partiti democratici, come i gollisti
Destra, sinistra o altrove del RPR (oggi Les Republicains) e i conservatori inglesi. In Italia, invece, questo termine ha indicato per mezzo secolo i neofascisti del Movimento Sociale Italiano (MSI). Interessante e documentato, il libro di Imatz
Della Bella gente
omette però almeno due tendenze che avrebbero meritato un certo spazio: gli anarchici e gli autonomisti. Per quanto riguarda i primi, a dire la verità, troviamo diversi riferimenti a Proudhon, ma più come ispiratore di altri orientamenti che come figura centrale del pensiero anarchico. Gli autonomisti, dal canto loro, avrebbero meritato molta attenzione per il loro rifiuto del centralismo giacobino. Basti pensare a gente come Robert Lafont, Edmond Simeoni o Bernard Wittmann, esponenti di minoranze linguistiche sensibili anche ai temi ecologisti. Nonostante queste lacune l’opera coglie nel segno, facendo piazza pulita di certezze vecchie e comode, come un abito consumato che non vorremmo mai buttare via perché ci stiamo bene. Riconoscere che i termini destra e sinistra non sono più adatti ai nostri tempi e archiviarli non significa buttare alle ortiche il bagaglio ideale che hanno rappresentato. Significa ammettere che non ci si può più nascondere dietro un’etichetta vaga che ciascuno può interpretare come vuole. Oggi il vero discrimine è costituito da temi come la giustizia sociale, i diritti delle minoranze, la difesa dell’ambiente, i rigurgiti di colonialismo che si manifestano in varie parti del pianeta. L’obiettivo principale deve essere quello di costruire un futuro che non sia fondato sulla religione del denaro e sul diritto del più forte.
di Paolo della Bella
Ne me quitte pas
9 18 FEBBRAIO 2017
Il mondo
senza
gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni
di Carlo Cuppini Il merlo scese in picchiata sulle nostre ombre e se le mangiò. A me restò solo un mozzicone sfrangiato attaccato al piede destro, a te una specie di ricamo sul polso sinistro: minuzie inutilizzabili. «Altro che Peter Pan,» hai detto, «questo è un bel guaio.» «Non che servissero a molto, le ombre,» ho replicato per minimizzare, ma in realtà la pensavo come te. Mi sono chinato e ho raccolto una ghianda. L’ho tirata all’indirizzo del merlo – che nel frattempo era tornato in cima all’abete – mancandolo. Abbiamo preso a lanciare contro l’uccello ghiande, pigne, lattine, pacchetti di sigarette e tutto quanto ci capitava tra le mani. Non eravamo campioni di mira, io e te, e il merlo continuava a cantare indisturbato, girando la testolina di scatto in ogni direzione. Non eravamo credibili attentatori:
Foto di
Pasquale Comegna
Il sole basso all’orizzonte
10 18 FEBBRAIO 2017
Le ombre
forse troppo pacifisti, oppure soltanto svogliati, di fatto mancavamo di foga e di livore e in queste condizioni centrare il bersaglio canterino era un’impresa. Nonostante i risultati insoddisfacenti ci sembrava però necessario insistere con una reazione decisa, indignata, severa, davanti a un affronto simile. Così continuavamo a far volare detriti e munizioni improvvisate; il merlo, per parte sua, continuava a cantare – e cantava anche bene, bisogna riconoscerlo – senza mai interrompersi, per niente disturbato dai nostri attacchi. Quando sono passati i carri armati alle nostre spalle, io e te, tutti presi dai lanci, non ci siamo accorti di niente, né il merlo si è zittito un istante. Molte ore più tardi, voltandoci per rincasare, esausti e sconfitti e ancora privi di ombre, siamo inciampati nei solchi lasciati dei cingoli e siamo rovinati giù nel fango. In città abbiamo trovato facce sconvolte,
tetti incendiati, muri abbattuti. La colonna dei carri era già ripartita, lasciandosi dietro disperazione e lamenti. Il sole scendeva all’orizzonte e le ombre si allungavano a dismisura, vuote e attonite sul selciato – tutte tranne le nostre, rubate. Scambiandoci uno sguardo silenzioso, ci siamo interrogati per un attimo sul loro destino: forse erano già state digerite, oppure sarebbero state custodite per chissà quanto tempo dentro la pancia del merlo. Che se ne stava sempre in cima all’abete, a cantare l’ultima strofa prima del buio.
di Mariangela Arnavas Sono fatte di carta, di cera, di filo di ferro; all’inizio erano solo due o tre, ora sono quasi 300 le api uscite dalle mani di Ivo Lombardi, che andranno a comporre su teli la sua ultima installazione esposta nella Rocca Estense di S. Martino in Rio (Reggio Emilia). E da questa installazione partiranno laboratori condotti da Ivo con i ragazzi delle scuole medie superiori i cui risultati confluiranno in una sorta di mostra collettiva. Perché l’avventura della materia di questo artista nasce dal basso, ha inizio con la cera, la carta, il cemento, il cuoio e la resina; perché si tratta di un’arte che si nutre costantemente di relazioni, con altri artisti, poeti, scrittori, con i ragazzi e gli allievi. Ivo Lombardi nasce a Livorno nel 1936, dove risiede e lavora; nel lungo percorso creativo ha partecipato a fiere nazionali in Toscana e in Emilia Romagna e internazionali (Francia e Germania) sempre in strettissimo rapporto con amici intellettuali, scrittori e poeti; la figura dritta e snella, lo sguardo limpido e penetrante, non dimostra i suoi anni, il suo linguaggio verbale e non verbale è capace di evocare il fascino della creazione artistica, l’emergere dal segno della struttura tridimensionale. Nel suo lungo percorso artistico, che nasce dalla grafica e cammina verso la scultura non dimenticando mai la pittura, emerge un segno preciso, quasi scolpito, su profondità oscure e senza confini; ed è un segno che progressivamente diventa plastico con assoluta naturalezza, quasi spontaneamente, come sempre accade al traguardo di un serio, profondo lavoro di ricerca. Tutto entra: le scritte, i versi, le macchie di Rorschach ed esce artisticamente più concreto, essenziale; un lavoro portato avanti con rigore scientifico e insieme con la forte, sensibile impronta poetica del vero artista ed una potente sensibilità materica. «Tutti dovrebbero avere la consapevolezza del fatto che, volenti o nolenti, siamo chiusi in un perimetro ben delimitato. Vive ognuno in una sua gabbia psicologica. Con leggi e limitazioni imposte dalla società, non sempre giuste per tutti. Decisivo è avere un gesto di ribellione. Un grido all’interno di questa gabbia che ti imbriglia: se non lo hai, significa che sei già morto», così parla l’artista di se’ , della vita e del suo lavoro artistico. Le parole sono parte integrante dell’opera di Lombardi, particolarmente in quello che ha definito «il libro d’artista» (2013) dove «il testo in
prosa o quello poetico, la rappresentazione pittorica, la composizione, il lettering, il materiale e la veste editoriale, presentano gli esiti di una sintesi organica che dà vita ad un prodotto/oggetto capace di presentarsi come una scultura da maneggiare e, con-
temporaneamente, alla stregua di una mostra personale dell’artista, come il riscontro a portata di mano di un intimo dialogo tra linguaggio scritto e linguaggio figurale». (Siliano Simoncini «La scrittura dipinta» ed. del graffio di Vo). Dal viaggio nella memoria emergono i fossili, nostro antico scheletro e la colonna vertebrale sembra un dei leitmotiv di Lombardi, quasi sempre scarnificata e isolata materialmente nello spazio, fragile sostegno esistenziale. Insomma, un artista da conoscere nelle diverse tappe del suo lungo percorso culturale, fino alle api e al loro habitat minacciato dall’uomo, che potremo incontrare a breve a Reggio Emilia.
Ilvo e le api 11 18 FEBBRAIO 2017
di Cristina Pucci Un documento straordinario, un documentario essenziale ed asciutto, bellissimo. Brunhilde Pomsel, nata a Berlino nel 1911, dal 1942 segretaria di Goebbels al Ministero per la Propaganda, catturata dai Russi all’uscita del Bunker dei suicidi, accetta, vecchissima, di dire la sua sul nazismo e sulla se stessa, emblema del popolo tedesco, di quel tempo. Il film è uscito nel 2015, è morta, a 106 anni, il 27 Gennaio, giorno della Memoria, di questo anno. Un volto, il suo, sempre in primo piano, di faccia o di profilo, come increspato, percorso, scavato da sottili e profonde ragnatele di rughe che non lasciano spazio a niente altro, solchi, linee, fessure, vie che attraversano e si incrociano, che scorrono parallele, vicinissime, come a sottolineare la bocca ad esempio, che separano le parti del volto, magro ed allungato. Sfondo nero. Non si sente in colpa, nè si assolve, come se nel tempo, lungo, trascorso da allora abbia comunque fatto fatica a capire. Mi colpisce il suo iniziale racconto della educazione ricevuta, severa e rigidissima, sottolineata da punizioni frequenti, il padre metteva i figli, rei di disobbedienza, in fila e li picchiava con il «battipanni». Questo mi ha ricordato il libro di Alice Miller «La persecuzione del bambino» in
cui si osserva come la «pedagogia nera» che dominava assoluta in Germania a partire dalla metà dell ‘800, sia riuscita a crescere generazioni di persone acriticamente obbedienti ai «padri». Essa era sostanzialmente finalizzata ad impedire la nascita di ogni autonomia mentale dei bambini ed ottenere, quanto più precocemente possibile, una sorta di resa incondizionata alla cieca sottomissione verso il padre ed i padri in genere, si avvaleva di crudeli punizioni corporali e morali. La Miller cita molti dei grandi gerarchi nazisti che idolatravano ed obbedivano Hitler, riferisce le parole che essi esprimevano e che hanno lasciato scritte e che sono impressionanti esempi di sottomissione assoluta ad un Padre-Dio. La Pomsel definisce la se stessa di allora «futile e superficiale» e, a proposito di obbedienza, racconta di quando le fu consegnato il Dossier sulla Rosa Bianca di Sophie Sholl accompagnato dalle parole «ovviamente non lo guarderà...», e dice,dopo sessant’anni, «mi sento molto fiera per non averlo guardato.... quando la giustiziarono fu una cosa terribile». Si definisce una vile, una persona non in grado di opporsi, perchè poi? Le era capitato di fare la segretaria part-time presso un avvocato ebreo e al pomeriggio dattiloscrivere le memorie di un fervente nazista, costui l’aveva aiutata ad entrare alla Radio e poi, previa tessera Nazista, al Mini-
A German Life
12 18 FEBBRAIO 2017
stero. «Perchè non avrei dovuto, si chiede, guadagnavo bene, mi piaceva molto il mio lavoro. Nessuno, allora, poteva opporre resistenza senza gravi conseguenze.» Di Goebbels: un grande attore, si trasformava da uomo elegante e garbato nel «nano urlante e delirante che abbiamo ascoltato...» Questo si vede solo una volta, durante una visita alla Biennale di Venezia, se ne ascolta invece l’incredibile discorso del 18 febbraio del ‘43 nel corso del quale chiese a tutti di pronunciare un sì alla guerra totale, la Pomsel sottolinea come sia stato incredibile che un uomo solo sia stato capace di fare alzare in piedi tutti gli astanti e far dire loro di sì. Si vedono inconsueti filmati di propaganda, uno mi ha colpito , non lo conoscevo, gli americani pretendono che tutti gli abitanti di un paese vadano a vedere i morti del contiguo campo, li riprendono mentre lo fanno, impongono poi loro di seppellire quei morti, si vedono file di semplici bare portate a braccia che sfilano fra due ali di tedeschi. Turbati? La Pomsel aveva una amica ebrea, alla fine dice che quando visitò il Monumento alle vittime dell’Olocausto, chiese se era nella lista dei morti nei campi. Sì. Se si sente colpevole ? «no, a meno che non si ritenga colpevole tutto il popolo tedesco per aver mandato al potere quelli lì!». 5 anni prigioniera in Russia le sono sembrati una punizione eccessiva.
di Paolo Marini Quando mi sono trovato a dover spiegare, nelle mie lezioni di diritto, che cosa si intende con il termine ‘diritto indisponibile’, talvolta ho portato con me un libro che mi consentiva di attirare l’attenzione dei discenti sugli esempi, piuttosto che sulle definizioni. Il binomio ‘disponibilità/indisponibilità’ è da tenere presente quando si ha a che fare, in particolare, con i cosiddetti ‘diritti personalissimi’. Il libro in questione è stato scritto da Armando Massarenti e si intitola «Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima». In uno di questi ‘esercizi’ - che solevo leggere in aula, per poi commentarlo insieme ai presenti -, si parla di uno strano sport che avrebbe (già a suo tempo, suppongo, perché il libro non è recentissimo) preso piede in Australia e in altri Paesi anglosassoni: appunto, il lancio del nano. Trattandosi di ordinamenti tutt’altro che autoritari, si può confidare che l’esercizio di questa pratica (parlare di sport mi è difficile) sia frutto di una scelta libera e consapevole da parte di coloro che si fanno lanciare. Sarebbe anche da presumere che queste persone non si accingano a tanto così, per puro divertimento, ma la presunzione è indimostrata e, forse, nell’economia del presente discorso, non troppo rilevante. Pur in presenza di norme di diritto internazionale che tutelano la dignità umana e i diritti fondamentali dell’uomo, nel mondo non sono probabilmente pochi i Paesi dove la detta pratica potrebbe essere (e forse è) esercitata, almeno di fatto, senza ostacoli di sorta da parte di chicchessia. Non è questo, certamente, il caso dell’Italia dove, a partire da alcune norme di rango costituzionale, tale possibilità sarebbe verosimilmente preclusa. Quando l’art. 2 parla di «diritti inviolabili» dell’uomo, la inviolabilità si impone, a livello interpretativo, come un presidio invalicabile non solo da atti, pretese o tentativi di terzi ma anche da parte di decisioni che il singolo titolare volesse prendere su/per sé medesimo. Semplice è la domanda che nasce da queste premesse: è giusto che ad un individuo adulto e – come suol dirsi - compos sui siano precluse scelte che pure ed in vario modo ne violano la dignità? E’ corretto che il suo consenso sia irrilevante? E’ rispettoso della sua persona pretendere che l’interessato abbia la stessa percezione/visione della fattispecie che ha – poniamo - la schiacciante maggioranza dei suoi consociati? Non ne viene con ciò, illegittimamente, conculcata la sua libertà? La risposta di Massarenti appare problema-
Disporre... dell’indisponibile?
tica, come forse si addice ad un autentico filosofo: «un libertario, come chi scrive – egli afferma - (…) vorrebbe che questa pratica non esistesse, ma come giustificarne il divieto? Vorrebbe che si facesse un uso migliore della propria libertà, ma non vorrebbe neppure biasimare chi si trova in un orizzonte di scelte imparagonabile con il proprio.» Invero, se ne desume una preferenza per l’impostazione che esclude il divieto, ancorché confliggente con una propensione squisitamente personale. E si impone una distinzione tra legittimità e merito: nell’ambito della prima, hanno cittadinanza anche scelte che non ci piacciono; nel secondo, si sceglie ciò che ci piace, escludendo qualcos’altro, che pure è lecito. Ma è l’ultima parte del ragionamento di Massarenti quella più interessante, come un invito a riflettere sulla relatività di ciò che in larga
prevalenza è considerato indiscutibile, anche solo in teoria. Si può ammettere che l’honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere (vivere onestamente, non recar danno agli altri, dare a ciascuno il suo), di ascendenza ulpianea, si declini in modo diverso a seconda del contesto, un po’ alla ‘paese che vai, usanza che trovi’? Non è insospettatamente debole un certo assolutismo del pensiero, che forse non giova alla causa che vuole a tutti i costi difendere? E’ desiderabile il preteso livellamento delle culture, nemico delle differenze, quando pure hanno un senso, una ragione, una storia e chiamano in causa tanto singole comunità quanto singoli individui? Così, il cosiddetto ‘lancio del nano’ finisce per farmi un po’ simpatia, anche se nei fatti – per la mia sensibilità e per l’idea che ho del rispetto di ogni persona - non vorrò mai dargli alcun sostegno, né tanto meno assistervi.
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Il caos alla stazione di Gianni Biagi Le insormontabili difficoltà nelle quali si dibatte il pur bravo assessore Giorgetti nel cercare di trovare una soluzione al caos di piazza della Stazione (conseguente all’avvio dei lavori della linea tranviaria in via Valfonda) non sono imputabili al destino cinico e baro. Al contrario queste difficoltà sono il frutto avvelenato lasciato alla città (e al sindaco Nardella) dalle improvvide, e improvvisate, decisioni del sindaco Renzi. Nella costruzione di un sistema tranviario complesso e articolato come quello fiorentino con soluzioni complesse studiate per mesi, e talvolta per anni, l’improvvisazione è esiziale. E di improvvisazione si trattò quando con un colpo di mano, disattendendo tutti gli studi trasportistici e di programmazione dei lavori (e disattendendo - sia detto per inciso - anche il programma elettorale del Partito Democratico per il quale si era presentato alla consultazione elettorale), l’appena eletto Sindaco di Firenze decise di chiudere completamente al traffico (anche ai mezzi di trasporto pubblico) il residuo spazio di piazza San Giovanni. Questa scelta, da molti indicata come la più significativa della breve permanenza di Renzi in Palazzo Vecchio prima di approdare a Palazzo Chigi, sta continuando a produrre i suoi effetti avvelenati. Questa scelta ha infatti costretto alla complessiva rimodulazione del quadro economico del Project Financing, con costi che sarebbe giusto fossero completamente resi pubblici. Questa scelta ha depauperato la parte centrale della città di un servizio di trasporto pubblico fondamentale per la vita dei cittadini e dei lavoratori che vivono e lavorano in centro, consegnando completamente la città ai turisti, ed in particolare a quelli mordi e fuggi (che possono sostare sui tavolini in Piazza San Giovanni a due passi dal Battistero) Questa scelta ha impedito che si portasse avanti una progressiva pedonalizzazione dell’area che arrivasse, in tempi compatibili con il progredire dei lavori della linea 2, alla chiusura completa del traffico per i veicoli (pubblici e privati) con motore a combustione interna, lasciando lo spazio solo per il tram a trazione elettrica silenzioso
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e non inquinante. Questa scelta ha reso in particolare non risolvibile il problema della cantierizzazione della linea 2 in piazza della Stazione (con la conseguente chiusura al traffico di via Valfonda), rendendo di fatto la Stazione di SMN inaccessibile ai veicoli privati (e poco anche a quelli pubblici). Infatti la dura legge della realtà non sente ragioni e se ne frega dei proclami e delle dichiarazioni sulla «bellezza» delle aree pedonali. La rete viaria della città di Firenze contenuta entro il perimetro dei viali è, nella parte che ci interessa, di impronta ottocentesca e rinascimentale e non consente molte soluzioni. La Stazione di SMN si trova proprio dentro questo perimetro e le vie di accesso disponibili per il trasporto pubblico sono limitate. Se poi si vuole mantenere in essere, come necessario per un buon funzionamento del servizio pubblico, il transito dalla Stazione delle principali linee di bus trasversali alla città (il 6, 11,17, 23 per esempio) le soluzioni si riducono drasticamente. In queste condizioni la direttrice, che da tempo si era consolidata, con il passaggio da Piazza San Marco, via Martelli, Piazza San Giovanni, Piazza dell’Unità costituiva un elemento centrale
del sistema di trasporto. Se si fosse mantenuta una corsia di transito per i mezzi pubblici (e solo per quelli) su questa direttrice oggi saremmo in condizioni molto migliori per affrontare il caos di Piazza della Stazione. Su questa corsia, una volta completata la cantierizzazione della linea 2 in piazza Stazione e via Valfonda, si sarebbe potuto far transitare il tram (con un binario banalizzato nel tratto centrale) garantendo così il servizio per il centro della città sia per tutto il periodo della canterizzazione e sia per il futuro. Ma si scelse il tutto e subito e si disse anche (e si continua a dire da parte del sindaco Nardella) che questa scelta non sarebbe stata reversibile. E per rimarcare questo concetto si decise anche di ripavimentare via Martelli (non certo una priorità della città). Chiunque ha un minimo di competenze in materia urbanistica e trasportistica sa, anche se alcuni non lo possono dire, che quella scelta fu sbagliata e che i problemi di oggi derivano dalle scelte di allora. La saggezza popolare insegna che «la gattina frettolosa fa i gattini ciechi». A Firenze i gattini sono anche incapaci di imparare dai propri errori per poterli correggere.
di Danilo Cecchi Quello che caratterizza l’opera di un fotografo sono le sue scelte di fondo, il luogo dove decide di lavorare, il tempo che si prende per farlo, ed il pubblico a cui vuole rivolgersi. Vi sono fotografi che scelgono luoghi lontani, tempi limitati ed un pubblico selezionato, altri che sottopongono le loro scelte di tempo e di luogo alle richieste del mercato o della committenza, altri infine che scelgono il luogo dove sono nati, non si pongono nessun limite di tempo, e cercano di rispondere principalmente alle proprie esigenze ed alle proprie domande. Simpson Kalisher appartiene a questa ultima categoria. Nasce nel luglio del 1926 nel Bronx, si diploma in storia nel 1948, ed inizia a lavorare come fotografo «free-lance» a New York, dove rimane per vent’anni fino al 1971, allontanandosi gradualmente ma decisamente dal tipo di reportages richiesti all’epoca dagli organi di stampa, che egli giudica degni delle «soap opera». Dopo avere trascorso del tempo in una stazione ferroviaria di smistamento merci, a contatto con gli uomini che fanno funzionare giorno e notte il sistema ferroviario, pubblica nel 1961 il suo primo libro «Railroad Men», in cui definisce quelli che sono i capisaldi della sua poetica, l’attenzione all’uomo, ai suoi problemi, alle sue attività, alla sua individualità ed al modo in cui si pone nei confronti della vita e dell’esistenza. Quello delle ferrovie è una parte di mondo su cui Simpson lavora più da narratore attento alla quotidianità che da fotoreporter attento all’eccezionalità. Il campo della sua indagine sull’umanità è invece assai più vasto, ed è l’intera città di New York che rappresenta per vent’anni il teatro del suo operare, della sua ricerca e della sua meditazione sul significato della vita. Con il suo lavoro Simpson si qualifica come uno fra i principali rappresentanti della «street photography», una categoria che conta numerosi autori di altissimo livello. Quindici anni dopo «Railroad Men» Simpson pubblica un secondo libro, dal controverso titolo «Propaganda and other Photographs», in cui il termine «Propaganda» va inteso in senso commerciale piuttosto che politico, anche se, come ci insegnava un docente universitario quasi mezzo secolo fa, spesso le due cose, commercio e politica, si confondono. Nelle immagini di Simpson invece quelli che si confondono, piacevolmente, sono la realtà ed il simbolo, la vita vissuta ed il suo significato profondo, l’in-
Il fotografo alienato contro accidentale e la presa di coscienza di un evento universale, l’individuo e la sua proiezione in termini generali. Ognuno dei personaggi scelti e raccontati da Simpson è l’espressione di una storia che va al di là del personaggio stesso, diventa un simbolo esistenziale ed incarna una situazione più ampia, senza perdere la sua individualità. A mezzo secolo di distanza dal suo primo libro, una sessantina delle immagini scattate a New York fra il 1950 ed il 1970 vengono raccolte nel 2011 in un altro libro, dal titolo eloquente «The Alienated Photographer», che descrive esattamente il modo di porsi di Simpson Kalisher di fronte al mondo. Non è possibile confrontarsi con il mondo, con la gente, con il passare delle cose e del tem-
po, senza «alienarsi» in una certa misura dal contesto, senza assumere una posizione da «estraneo», da straniero al mondo di ogni giorno, incapace forse di comprendere i gesti, i comportamenti, i rapporti, le azioni e le reazioni degli altri, ma capace sempre di stupirsi, di interrogarsi sul perché, sul come, sui meccanismi della società e degli individui, sul loro modo di esistere, essere e di mostrarsi. Come ogni bravo «street photographer» Simpson Kalisher sviluppa la capacità di immergersi tra la folla, di incontrare in maniera fugace centinaia di persone, di individuare i volti, le espressioni, gli atteggiamenti, e di sintetizzare tutto questo in immagini eloquenti, perfettamente composte e calibrate.
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di Barbara Palla Questo mese è iniziato con una novità importante nel dialogo tra Stato e religioni, in particolare nel dialogo con l’Islam. Le associazioni musulmane d’Italia hanno firmato insieme al Ministro dell’Interno Marco Minniti un «Patto nazionale per l’Islam italiano». Un passo importante verso l’integrazione, verso la comprensione reciproca, a fronte di cambiamenti, soprattutto internazionali, che invece vanno nel verso opposto. Il Patto ha però dietro di sé una lunga storia di contrasti e opposizioni. Nel 2005, l’allora Ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu aveva tentato di riunire le rappresentanze delle organizzazioni islamiche in un unico organo ausiliario. La Consulta per l’Islam italiano nasceva, infatti, con l’intento di dare una voce alla presenza crescente di musulmani in Italia, ma soprattutto di fornire un esempio istituzionale di integrazione in modo da arginare i potenziali fenomeni di radicalizzazione. Questo provvedimento, però, non ebbe molto successo a causa delle spaccature interne. A dividersi da un lato c’erano i partiti politici, in particolare la Lega Nord si opponeva alla Consulta, la riteneva «un errore enorme» dato che «con gli islamici ci vuole la legge del taglione» (suggerimento di Roberto Calderoli all’epoca Ministro per le Riforme); dall’altro, però, anche le associazioni musulmane stesse non erano in accordo, soprattutto in merito alla partecipazione di determinate associazioni. La questione riguardava infatti la presenza dell’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia) e del suo Presidente dell’epoca Mohammad Nour Dachan, accusato di essere eccessivamente vicino alle posizioni dei Fratelli Musulmani. La Fratellanza è nata nel 1928 in Egitto come organizzazione di tipo sociale e assistenziale con una chiara vocazione religiosa. In breve tempo, mentre diffondeva in numerosi paesi del Medio Oriente i principi morali islamici attraverso opere caritatevoli, ha assunto anche una veste di attivismo politico attraverso la quale intendeva proporre la creazione di uno Stato Islamico, ovvero una struttura statuale radicata nell’applicazione della legge islamica, la shari’a. Le divisioni interne hanno da subito impedito alla Consulta di lavorare in modo produttivo. Già nel 2006, i disaccordi impedirono l’approvazione della Carta dei Valori della Consulta stessa, un documento che l’UCOII riteneva eccessivamente discriminatorio e perciò non condivisibile. No-
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Per un Islam italiano
nostante i tentativi di favorire la coesione, le divisioni erano troppo forti e nel 2008 la Consulta fu abbandonata. Un secondo esperimento, altrettanto fallimentare, fu riproposto nel 2010 dal Ministro dell’Interno Roberto Maroni attraverso il Comitato per l’Islam italiano. Lo stesso organo di tipo consultivo, con un nuovo nome e dei nuovi membri, ma con la stessa vita breve dato che già nel 2011 non produceva più pareri. Parallelamente, negli stessi anni, la necessità di favorire l’integrazione e l’inclusione dei cittadini musulmani si è manifestata attraverso degli accordi istituzionali a livello comunale, in particolare in due città: Firenze e Torino. Entrambe sono state promotrici di un progetto pilota, diventato successivamente un Protocollo d’Intesa, sottoscritto nel novembre 2015 dall’UCOII (che nel frattempo ha cambiato Presidente e posizione) e dal DAP, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per favorire l’educazione religiosa e la presenza di imam all’interno delle carceri. Una misura volta a prevenire fenomeni di radicalizzazione all’interno di contesti sociali sfavoriti. Firenze, inoltre, è stata la protagonista del primo Patto di Cittadinanza, firmato dall’UCOII con il Comune, teso a promuovere un percorso di integrazione. Il Patto fiorentino si basa su tre punti fondamentali: l’uso dell’italiano per i sermoni e le preghiere (pratica già abbastanza diffusa dato che la maggioranza della comunità musulmana non è arabofona), la creazione di un tavolo permanente per le questioni religiose e un punto di incontro culturale, una bacheca, per pubblicizzare e coinvolgere tutta la cittadinanza nelle attività e negli eventi organizzati dalla Comunità islamica.
Il Patto Nazionale per l’Islam Italiano si basa proprio su questi due ultimi accordi. Il documento prevede dieci impegni fondamentali tra i quali si ritrovano da un lato, l’importanza dell’uso della lingua italiana, ma anche il dialogo interculturale favorito dall’organizzazione di eventi o attività. Altrettanta importanza viene data, ovviamente, all’impegno per arginare la minaccia di fenomeni di radicalizzazione. Un’esigenza che si esprime nel percorso di formazione dei nuovi imam, nella creazione di un albo pubblico contenente tutti i recapiti degli imam e l’ampliamento della funzione di mediazione culturale e religiosa anche agli a ospedali, scuole, centri di accoglienza, oltre che alle istituzioni penitenziarie. Particolare attenzione, infine, viene conferita alla trasparenza dei finanziamenti per la costruzione dei nuovi centri culturali o religiosi. Non è raro, infatti, che i nuovi centri culturali o le moschee nascano o si ingrandiscano grazie agli investimenti di alcune charity internazionali. Tuttavia è stato dimostrato che alcune di queste organizzazioni nascondono dietro la propria beneficenza reti di sostegno politico tese alla creazione di sfere di influenza internazionali. Recentemente questo modus operandi è stato ripreso per dar vita a canali preferenziali di diffusione di interpretazioni religiose particolarmente radicali. Le reazioni alla firma del Patto sono state, in generale, positive. Il Presidente dell’UCOII, Izzedin Elzir, imam di Firenze, vede in questo accordo l’inizio di un nuovo rispetto reciproco, un impegno quotidiano nel quale società civile e comunità musulmana sono alleate e non in opposizione. Un’opinione condivisa anche dalle altre associazioni presenti al tavolo (che rappresentano circa il 70% di tutti i musulmani italiani) come la CO.RE.IS, Comunità Religiosa Islamica, che vede in questa collaborazione la via per il riconoscimento delle voci autentiche della religiosità islamica. Anche il Segretario Generale del Centro Islamico Culturale d’Italia (la Grande Moschea di Roma) si dice pronto a fornire il contributo necessario alla crescita di un Islam responsabile in Italia. Le basi di questo accordo sembrano dunque essere maggiormente solide di quelle degli accordi precedenti, anche se è importante far notare che il Patto nasce come non vincolante in quanto non sono previste sanzioni in caso di inadempienza ai principi generali su cui si basa.
di Claudio Cosma La patata con le spine è una trasmutazione artistica operata da Sabrina Muzi. La serie di questi lavori è iniziata nel 2011 con l’idea che queste installazioni perissero entro breve tempo e la loro memoria fissata nelle foto scattate durante il loro rigoglio vegetale e in qualche caso procrastinata, sospesa con l’intervento di resine applicate sulle verdure trasformate, in un processo di conservazione simile all’imbalsamazione. Il parallelo con la ricerca della sopravvivenza in un bagno eterno nella fonte
rebus
della giovinezza e le nature morte olandesi del ‘600, le «vanitas» è evidente. Esiste un piacere nella morte come elemento livellatore che si riassume con la frase: «Io ero come tu sei, tu sarai come io sono» pronunciata di solito da uno scheletro e contenuta in un cartiglio, antesignano del fumetto, nelle antiche pitture o affreschi. Esiste, tuttavia, anche un piacere della vita, che io ho demandato alla collezione di arte contemporanea che sicuramente mi sopravviverà a patto che non venga dispersa, ma questo è un altro problema. Cosa centra la patata? Questa patata è immortale grazie alla parte progettuale del lavoro.
L’artista ha sistemato un certo numero di spine di rosa su altrettanti aghi d’acciaio e sono queste che di volta in volta, di patata in patata, come il bruco che diventa farfalla, che mi permette ogni volta che voglio, di ricostruire il lavoro. Le spine sono conservate in una loro scatolina e sono la parte stabile della scultura, la patata la compro al mercato e mi dispiace un pochino per lei in quanto, quando decido di trasformarla in opera d’arte e non in contorno, la devo infilzare con gli aghi, procedura questa fra l’esibizione di una fachiro indiano che usa se medesimo e il numero del prestidigitatore che usa una bella figliola. La patata non ne sof-
mia patata d’arte, sempre bellissima, con la sua pelle sottile e leggermente rossastra, io scelgo quella di Cetica, coltivata sul Pratomagno nel Casentinese, che ricorda le inconfondibili stoffe arancioni di quelle parti. La scelta di questo materiale vivente, anche nelle varianti di semi, polveri di spezie, bucce, frutta essiccata, ossi di seppia, conchiglie, rappresenta una costante nel lavoro di Sabrina Muzi che se ne serve per la forte valenza simbolica, direi ancestrale e legato allo sviluppo culturale umano legato ai cicli della natura, alla preparazione e conservazione del cibo, agli usi rituali, religiosi e scaramantici
fre, dopo qualche mese, incomincia a mettere i butti e ad avvizzire ed io la taglio a pezzetti e la pianto nell’orto e dopo poco tempo spuntano le piante nuove che a loro volta producono nuovi tuberi, in verità le mie rimangono piccolissime che mi fanno tenerezza. A questo punto rimetto le spine con gli aghi a loro posto o decido di realizzare una nuova opera. La materia organica di cui è costituito il lavoro rimane viva a lungo e come noi stessi è sensibile ai mutamenti dovuti al passare del tempo, al caldo e al freddo, agli accidenti agli insetti, in pratica guardando di giorno in giorno la metamorfosi a cui è sottoposto non si può fare a meno di fare degli accostamenti con quello che succede a noi, a me nella fattispecie, rughette, macchioline, tempi di recupero sempre più lunghi, per cui provo un po’ di invidia per la
Il lavoro si chiama «Rebus» e vive la sua essenza di ibrido, partecipe di due nature opposte, quella ctonia del tubero che vive sottoterra una esistenza quasi minerale di lenta assimilazione delle particelle contenute nell’humus e nei sali minerali disciolti dalle piogge e quella solare della pianta di rosa sui cui steli cresce la sua difesa, le spine a protezione del fiore, con i suoi valori simbolici di seduzione e bellezza. La metamorfosi che lascia supporre una trasmutazione genetica dovuta ad un accadimento di inquinamento radioattivo o alla antica caduta di un meteorite, costituisce la mia patata, conoscitrice delle profondità terresti, armata di spine come un riccio, solare come i fiori, fonte di nutrimento sia materiale che intellettuale, immortale perché frutto ambiguo della creatività di un artista.
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Maledetti La memoria del ventesimo secolo
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di Melia Seth Abbiamo perso. Maledetti. Abbiamo perso la memoria la memoria del ventesimo secolo. Venti. Ventesimo il abbiamo secolo perso. Perso il memorio secolo abbiamo secolo venti. Abbiamo perso la pappetta pappina pappona. Abbiamo. Ventesimo secolo. Ladies and gentlemen. È Demetrio che parla. È già evaporato? Maledetti! Giocare col mondo (degli Area) facendolo a pezzi (otto temi). Enrico e Valerio. Bambini che il sole ha ridotto già vecchi. Gli occhiali. Fuori dalla strada comune. Dove il centro è sul margine. Niente più cover band. Sono troppe. Tre chitarre. Tricantano elettriche il mondo. Chitarre e pedali. Delay (chitarre tricantano ancora) e reverse (arocna onatnacirt erratihc). Macchine. Suonare la voce. Senza voce. Suonare. I devoti di Demetra. La musica nasce a Est. Dare voce agli oggetti col suono. Il corpo a colpi di corde sul volto. Con il suono delle dita che ti spara sulla faccia. Come parole che raccontano note. Come? Girano in loop. Girano in loop. Girano in loop. Giro giro sempre in tondo. Le parole sono gabbie. Le note sono voci di un mondo lontano. Vicino. Presente. Che irrompe e disturba. Irritante. Occhi e labbra in tensione. Frastuono poi piano. Rassicuranti riprese che ripetono un tema ormai noto ma già leggermente cambiato. Con il suono sulle dita che si spara sulla faccia. In piedi e seduti. In piedi non legge. Sorride. Abolire la parola che t’incastra nello stile. Ai confini delle note (canzoni). Non conosco le note. Le mie band sono cover. Maledetti. Mi hanno strappato le cuffie. Ora posso ascoltare. Scopro lo spazio percorso da voci. Niente più differenze tra musica e vita. Fuori dalla strada comune. Perché il centro è sul margine. Gli occhi azzurro pallido da angeli in esilio. Maledetti. La stagione all’inferno è finita. I fratelli di Persefone hanno illuminazioni. «Questo mi piace, perché sembra che non sappiamo suonare». Sprezzatura. Mondi. Mondi nei mondi che fondono i tempi. Stratificazioni. Memorie. Echi a brandelli. Ancora riprese. Area di famiglia senza più famiglia. Bond Marley. Sessanta in Settanta. Settanta in Duemila. How many Miles to Heaven? Ricostruire il muro del suono con l’Internazionale. Abbiamo perso. Maledetti. Abbiamo perso la memoria del ventesimo secolo. Il ventesimo secolo? Non si ricorda un concerto a parole. Enrico Merlin & Valerio Scrignoli: Maledetti – Area Music. Electric Guitar Duo (Musicamorfosi). La presentazione del cd si terrà alla Fondazione Mudima di Milano, il 2 marzo 2017, h 18.
Come fanno le parole a parlare delle note?
Photo Cristina Crippi @ Musicamorfosi. Scatti realizzati durante la mostra «Vogliamo tutto». Opere di Nanni Balestrini
di Susanna Cressati Il «Leopardi maggianensis» può essere descritto così, con le stesse parole di Maurizio Maggiani: un essere fragile, con la schiena a «zeta», tormentato nel fisico quanto nella psiche. E anche per questo (ma non solo per questo) costretto all’angolo della vita, isolato dai comuni mortali. Deforme e (quindi) sprezzato. Un adolescente in balìa di due mostri: il padre, nobilastro miserevole e pidocchioso, che vuole esibirlo al suo pubblico codino e alla pretaglia che frequenta la casa di Recanati come precoce erudito, «come una macchinetta»; la madre assente, anaffettiva. Solo, malinconico. Convinto, come tutti gli adolescenti, che nessuno gli voglia bene. Un genio e, come tutti i geni, disturbato, «difettoso». Eroico nelle sue posizioni filosofiche, poetiche e umane, ostinato «perinde ac cadaver». Un pericolo pubblico, con i suoi canti che sono canzoni melodiche «alla Sanremo» e nello stesso tempo terrorismo contro il pensiero dominante, eversione pura. Gesti di un kamikaze che minaccia di farsi saltare in aria davanti alla gang letteraria dell’epoca. Un adolescente che ha cercato tutta la vita di scappare di casa, la casa del conformismo, ma non ci è riuscito. Con la poesia «A Silvia» mette il dito nella piaga del suo dolore e così facendo cerca di curare la piaga. Con L’infinito (che Maggiani recita con un filo di voce, producendo nella sala stracolma del Gabinetto Vieusseux un silenzio davvero «sovrumano») racconta una vertigine inebriante, che tutti gli adolescenti hanno provcato una volta, magari al termine di una ascesa, di uo sforzo fisico che libera endorfine. Con La ginestra scende a compromessi, rinuncia all’eroismo. Con le Operette morali, «lardellate» di erudizione, si riduce a bussare alle porte della gang culturale dominante («Fatemi entrare – cita Maggiani, canticchiando Mogol Batticti - voglio giocare, voglio ballare insieme a voi») che risponde sprezzante: «No sei troppo ignorante/odori di gente/che non conta niente e paura ci fai». Il bigotto e sifilitico Tommaseo, i senatori Capponi e Manzoni, che hanno accettato l’istituzionalizzazione, la morte del lavoro creativo. E, inframmezzate a questo ritratto, Maggiani regala divagazioni piene di fascino sul romanzo ottocentesco e l’impari confronto tra Dickens e Manzoni, strepitosi «cammei» dedicati al fondatore del Gabinetto, il ginevrino Giovan Pietro Vieusseux, banchiere e
nonostante questo «una brava persona», e a Cristina Trivulzio di Belgiojoso. Intelligente, bella, coraggiosa e ardente patriota combattente dell’epoca, condanata dagli austriaci alla morte civile, esule, infaticabile viaggiatrice, antesignana di Florence Nightingale, filantropa. Per la sua vita da «irregolare» Manzoni gli negò l’utimo saluto alla grande amica Giulia Beccaria, la sua mamma (di Manzoni) morente. Una figura scomparsa dalla memoria, come dimostrano le facce attonite degli studenti. E Maggiani si rivolge tagliente agli
insegnanti presenti: «Ma glielo fate studiare il Risorgimento?». Così Maurizio Maggiani al Vieusseux. Nemmeno il clima surriscaldato e sovraffollato della sala Ferri, palesementre inadeguata all’appuntamento (il primo del ciclo «Scrittori che incontrano scrittori»), riesce a spegnere la verve della sua affabulazione, la vivacità dei suoi ricordi di ragazzo contadino trapiantato in città e «salvato» dalla biblioteca paterna colma di romanzi di avventura, la cui lettura lo ha «reso libero di essere chiunque e dovunque». Quelli che, a suo dire, avrebbero «salvato» anche Leopardi: ah se invece del sanscrito avesse studiato l’inglese, se invece di astrusi testi antichi avesse letto Robinson Crusoe...«Io voglio bene a Leopardi come a un fratello – spiega appassionato – e voler bene è più difficile di amare. Voler bene è aver cura, è un impegno di fedeltà». Fedeltà a quell’eroico giovane poeta, eterno adolescente morto per mano propria – spiega Maggiani agli studenti stupefatti – scegliendo come arma un chilo e mezzo di confetti mangiati in un giorno solo. Sul sito del Gabinetto www.vieusseux.it il programma degli altri incontri del ciclo «Scrittori che incontrano scrittori». Gli organizzatori stanno cercando una soluzione logistica più ampia rispetto alla Sala Ferri.
«Giacomo Leopardi, mio fratello»
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Dragon Boat in Canada di Andrea Caneschi Si parte! È arrivato il momento di correre a difendere i colori dell’Italia in una lunga settimana di gare con la Nazionale Senior di Dragon Boat. Il Dragon Boat è uno sport di squadra che vede gareggiare imbarcazioni lunghe oltre dieci metri con equipaggi di dieci o venti atleti, secondo la specialità, che vogano affiancati due a due, seduti su apposite panche. La selezione è stata durissima; hanno pesato a mio favore l’età anagrafica non modesta, la possibilità di affrontare le spese e la disponibilità a consumare una settimana del mio tempo, peraltro abbastanza libero. Grazie anche alla preparazione fisica e alla perizia tecnica del gesto atletico, ho scalato rapidamente la top ten dei candidati e sono stato ammesso nel gruppo dei nazionali. È vero, non so cosa ho comprato con i soldi che la federazione mi ha richiesto e la maglia azzurra non ha nemmeno la scritta Italia, magari piccola, però ha un nastrino tricolore sul risvolto del colletto e potrò sempre provare a fare il fico con il colletto rialzato. E pazienza se è almeno una taglia e mezzo più grossa di me, capita, quando si
La partenza acquista per corrispondenza. Alla fine, andiamo a difendere i colori dell’Italia al campionato mondiale per nazioni di Dragon Boat nel lontano Canada: quanti possono sperare tanto dopo una vita da scrivania? L’arrivo a Francoforte, tappa intermedia, è questione di un attimo e mentre ci abbassia-
premio letterario
Maschietto Editore
PRIMA EDIZIONE 2017 È bandita la prima edizione del concorso «Racconti Commestibili», la sfida letteraria lanciata da Cultura Commestibile e Maschietto Editore, in collaborazione con il Ristorante Caffetteria La Loggia. Il concorso è dedicato al tema del cibo, inteso in tutti i sensi letterali e figurati. Può partecipare chiunque, senza limiti di nazionalità e di età, inviando un solo racconto della lunghezza massima di 5000 battute entro il 15 aprile 2017 all’indirizzo email redazione@maschiettoeditore.com. La partecipazione è gratuita. La valutazione e selezione degli elaborati sarà affidata a due giurie: la prima, formata da redattori interni alla casa editrice e della rivista, individuerà la rosa dei 10 testi finalisti, La giuria tecnica, composta da Marco Vichi (scrittore), Francesco Mencacci (direttore della scuola Carver di scrittura creativa), Sandra Salvato (giornalista), selezionerà i tre racconti vincitori che saranno pubblicati sulle pagine di Cultura Commestibile. Al primo classificato sarà offerta una cena per due persone al Ristorante Caffetteria La Loggia. Il regolamento completo è scaricabile dal sito www.maschiettoeditore.com.
20 18 FEBBRAIO 2017
mo sulla città si vedono quasi solo nuvole e boschi. Quando sbarchiamo il cielo è coperto e fa freddo. L’aeroporto di Francoforte è enorme e pieno di un traffico operoso di aerei che vanno e vengono cercando la loro area di sosta, mentre veicoli assortiti smistano merci e persone lungo le autostrade invisibili che collegano le piste con gli hangar e con le stazioni che ospitano i gate. Enormi cargo con gli sportelloni aperti in attesa del carico annunciano la loro destinazione con scritte sulla fusoliera che ammiccano a capitali lontane o a territori per me inesplorati. Tutto o quasi rigorosamente targato Lufthansa, con una flotta aerea che da sola chiarisce perché Alitalia è fallita; tutto rigorosamente tedesco, ordinato, scorrevole, pur nella quantità dei mezzi e nella vastità dei percorsi, che tutto questo mi permettono di apprezzare nel lungo tragitto dall’aereo alla stazione. Prima di riuscire a trovare il mio gate per Toronto (scendi, sali, cammina, cammina ancora, vai avanti, torna indietro...) si è fatta un’ora prossima al pranzo e approfitto di un ristorante tedesco per farmi servire un currywurst con patatine fritte e birra: meglio mettere al sicuro questa voce prima di finire troppo a ridosso dell’imbarco e rischiare di rimanere digiuno. Aspetto quindi con fiducia l’imbarco per la gloria.
Spiriti di
materia
Sandra Salvato nasce a Firenze dove, dopo una lunga parentesi bolognese di studi giuridici (in cui si laurea) e pratica giornalistica, torna a lavorare, a sposarsi, a vivere. Danza classica e pianoforte ne ritmano il passo fino alla scoperta della scrittura come unico diapason da seguire. Notizie, prosa, poesia, la parola diventa la vera, grande conquista quotidiana. Ha insegnato la terza pagina radiofonica e televisiva. Sogna una valigia sempre pronta, un cinema in casa e un cappello da chef. di Sandra Salvato
Posto unico Dico a loro di reggere sostenere trame di legno, ghisa e cemento la mano unica che orienta verso il cielo la mescola di sudore e scienza è dedicata al mondo, e sopra l’umano sforzo senza riparo alcuno muove e si sviluppa in verticale, poi si espande ancora in orizzontale, per contenere l’aria strappare spazio allo spazio Il giorno di sole giunge a disseccare gli animi farli tirati come crine arricciato mentre la fibra tiene, sotto pressione in un hangar di volontà e dovere L’orchestra di braccia è musica senza frontiere ritma il fiato nella babele di accenti si presta il fianco si tocca il fondo si riappare e martello e fune e l’obbrobrio del mostro è presto svelato alla ricognizione aerea
li vedo più chiari di prima pur senza profilo e credo di essere ancora, di essere io che mordo il tempo, incito la giornata a farsi breve e breve così non è stata mai Si rassegnano le nuvole basse offrono ganci alla realtà per far posto all’eterno mimo che la sappia replicare Più lontano si spuntano le armi si chiedono peso e misura di questa scellerata usanza, un equilibrismo pensato per gli acrobati e cucito per risparmio sulle spalle di chi non ha, non ha mai usato il trapezio Pago la fiducia la rete su cui loro cadranno, intanto oggi basta un solo applauso per due spettacoli all’ora di punta
Sto appeso all’attimo senza il sospetto che nella cernita del destino arrivi a corrompermi la morte in verso di stimolo e ricatto, per farsi più viva di sempre I tasti neri del piano suonano una marcia stramba la metrica è zoppa qualcosa non torna, un movimento incauto senza imbraco, senza ombra neppure di un moschettone così, all’improvviso è l’ammutolito ritorno di un mesto, inaspettato saluto da parte degli astanti che senza elmo né difesa piangono e ringraziano giacché ogni cosa per loro prosegue mentre io, ora
21 18 FEBBRAIO 2017
di Simonetta Zanuccoli
A Parigi le ormai, purtroppo, frequenti immagini di attentati fatti o sventati e di violenti disordini che rimbalzano sugli schermi televisivi di tutto il mondo stanno creando una ripercussione economica molto pesante soprattutto nel campo turistico. Se nel 2016 il numero dei visitatori francesi, spesso sotto i 30 anni, nei musei della capitale è rimasto lo stesso dell’anno precedente, quello proveniente da paesi esteri, circa il 70% sul totale, ha avuto una flessione del 15% con una perdita di entrate per il Comune parigino di quasi 10 milioni di euro. Anche gli alberghi, nonostante le tariffe ridotte a volte alla metà, hanno subito un calo del 9,9% (i turisti italiani a Parigi sono stati nel 2016 meno il 27% rispetto al 2015). Questa tendenza, veramente impressionante, coinvolge anche i luoghi-simbolo della capitale come l’Arco di Trionfo con meno il 35% di visitatori o Notre Dame con meno il 23%..... Tutti questi dati che appaiono spesso nei giornali francesi o nei dibattiti televisivi sono sempre riferiti a Parigi. É un fenomeno evidente infatti che dal punto di vista del turismo di massa la Francia è Parigi e le sue principali attrazione sono soprattutto nella capitale. Del tutto diversa è la situazione in Italia dove sarebbe impossibile per un turista, sia pure frettoloso, ridurla ad una sola delle principali città che la compongono. Naturalmente in entrambi i casi ci sono dietro delle ragioni storiche. L’Italia con la prolungata disgregazione territoriale ha visto un fiorire di piccoli stati
22 18 FEBBRAIO 2017
Paris et le désert
francais
con capitali e città, che gareggiando tra loro in bellezza e arte, sarebbero divenute dei veri e propri musei a cielo aperto (purtroppo non sempre ben tenuti). Chi vuole può visitare gli Uffizi a Firenze, i Musei Vaticani a Roma, il Canal Grande con i suoi magnifici palazzi a Venezia, la Pinacoteca di Brera a Milano.... Parigi invece con il Louvre, la Tour Eiffel, Notre Dame, il Pantheon...il Centre Pompidou, il Dorsay...fino a Versailles e persino a Disneyland, per lo stesso turista frettoloso, assorbe e divora il resto della Francia. Il fenomeno non è nuovo. Nel 1947 uscì sull’argomento un libro dal titolo scioccante Paris et le désert francais (Parigi e il deserto francese). Il suo giovane autore, il geografo Jean-Francois Gravier (1915/2005), non immaginava che la sua opera stampata in 3000 copie avrebbe avuto una lunga e lusinghiera recensione sul supplemento settimanale di Le Monde, né che, ripubblicato nel 1958, si sarebbe aggiudicato il Grand Prix d’Histoire dell’Accademia Francese, né che nel 1972 ci sarebbe stata una terza edizione e che il suo testo rimane ancora oggi fonte di riflessione per politici e sociologi. Nelle sue 400 pagine ricche di mappe e statistiche, l’autore è stato il primo a descrivere in termini molto incisivi l’ipertrofia della capitale rispetto al resto del paese che ne ha carat-
terizzato, nei secoli, lo sviluppo economico e culturale. Gravier analizza questo fenomeno anche dal punto di vista storico. Scrive infatti che anche se i re come Luigi XIV hanno voluto affermare losplendore del proprio regno attraverso quello di Parigi, la concezione attuale di una Francia ipercentralizzata nella sua capitale deriva, secondo Gravier, dal risultato politico della lotta tra le due correnti opposte dei Giacobini e dei Girondini durante il periodo della Rivoluzione francese. I primi teorizzavano di una Repubblica ideale e rigida che avrebbe imposto al popolo immaturo l’efficienza di un governo centralizzato e forte. I Girondini al contrario proponevano una vera decentralizzazione con corpi amministrativi nei vari dipartimenti lasciando al centro solo la coordinazione e la sorveglianza. I Giacobini, molto potenti e ben organizzati, ebbero la meglio sui secondi. Dalla metà del 900 si sono aperti molti dibattiti sulle politiche del territorio allo scopo di distribuire meglio lo sviluppo economico e di riequilibrare il peso della capitale anche con la politica di edilizia popolare delle banlieue e la nascita di piccole città rurali in un raggio di 15/50 km. Ma tutto è diventato nuova periferia di Parigi dimostrando così che il vecchio giacobinismo nazionale è duro a morire.
Ristorante caffetteria
La Loggia
La location esclusiva de La Loggia, con i suoi ampi e versatili spazi, è il luogo ideale per progettare ogni evento in maniera personalizzata in base alle vostre richieste ed esigenze. Grazie alla guida e ai consigli scrupolosi del
La Loggia vi aspetta tutti i giorni al piazzale Michelangelo, 1 Firenze. +39 055 2342832 www.ristorantelaloggia.it nostro ufficio commerciale, potrete organizzare il rinfresco del vostro matrimonio, una colazione di lavoro, una cena di gala, una sfilata di moda, un cocktail party o un battesimo sfruttando le eleganti sale e, nella bella stagione,
l’ambiente esterno con il suo Loggiato, l’ampio giardino e la Terrazza Panoramica. Il giorno del vostro matrimonio, probabilmente lo avrete sognato da sempre. Una giornata indimenticabile in cui gli sposi sono i protagonisti indiscussi. Per un evento così importante La Loggia offre solo il meglio: un panorama indimenticabile che è all’altezza del sogno più ambizioso, un menù personalizzato che potrete inventare assieme al nostro Chef e che verrà preparato per voi con la cura più eccezionale, solo con ingredienti genuini e freschi. Pesce o carne, avrete solo l’imbarazzo della scelta. E così per i cocktail e per la cantina dei vini pregiati, a vostra disposizione per fare brindisi pieni di bollicine o corposi e dal sapore intenso. Immaginate un edificio storico, antico di un secolo e mezzo, addobbato e allestito secondo il vostro gusto, tutto per voi. Una cornice ideale per un matrimonio indimenticabile. Ma nella vita ci sono molti altri traguardi da festeggiare! La Loggia offre ai suoi clienti la possibilità di celebrare qualsiasi momento che meriti un ricordo speciale: compleanni, feste di laurea, comunioni, battesimi... e perché no? Una promozione o un successo. Ogni evento merita la giusta importanza e La Loggia è qui per aiutarvi a farlo. La Loggia è anche il luogo ideale per concludere una trattativa di affari, organizzare una cena aziendale o per discutere di lavoro con calma, in una cornice storica. Potrete riservare un’intera sala per assicurarvi la necessaria privacy durante il pranzo o la cena, mentre il nostro Maître si prenderà cura di voi consigliandovi piatti e vini da accostare ad essi. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, La Loggia si prodigherà affinché tutto sia predisposto al meglio. La Loggia non è solo un semplice ristorante o una semplice caffetteria. Periodicamente organizziamo per il vostro divertimento serate a tema con allestimenti speciali e giochi di luce che rendono il loggiato un luogo magico e incantevole. Piatti squisiti con varie alternative tra terra e mare, aperitivi finger food o cene complete composte da un ricco menù; il tutto accompagnato da cocktail deliziosi, buon vino e un’ottima musica. A rendere ancora più uniche le serate, spettacoli dal vivo, musicisti e intrattenimento di alto livello che vi trasporteranno in un’atmosfera memorabile e incantata. Per una serata da passare in compagnia con vecchi e nuovi amici, La Loggia vi accompagna con la sua solita professionalità e accuratezza.
23 18 FEBBRAIO 2017
Maschietto Editore Un libro di Andrea Bacci, Aldo Frangioni e John Stammer, con la prefazione di Sergio Givone e i contributi dei più importanti protagonisti e osservatori del progetto della nuova tramvia. Con molte fotografie inedite e le mappe grafiche dei tracciati. Disponibile in doppia edizione, in italiano e in inglese.
La storia della tramvia a Firenze, dalla rete storica, dismessa nel Dopoguerra, fino all’attivazione della nuova Linea 1 tra Firenze e Scandicci inaugurata sette anni fa, il 14 febbraio 2010. Questo libro racconta il percorso trentennale di un progetto urbanistico che per molti aspetti rappresenta un’esperienza unica e innovativa. Senza dimenticare gli accesi dibattiti sul tram, la ‘battaglia’ tra il tram e la metropolitana, il controverso passaggio dal Duomo, le alternative e varianti al tracciato esaminate e scartate, la analisi sociologiche e ambientali preliminari… Fino all’apertura dei cantieri delle Linee 2 e 3, la cui inaugurazione è prevista tra un anno, e che saranno oggetto del prossimo libro di questa serie.
I lettori di “Cultura Commestibile” possono acquistare il volume al prezzo scontato di 20 €, invece di 26 €, scriverendo all’indirizzo info@maschiettoeditore.com.
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