Numero
25 febbraio 2017
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«Avete visto che è successo in Svezia? In Svezia! Nella tranquilla, pacifica Svezia. Da non crederci!!»
Donald Trump
Scongiuri svedesi
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Maschietto Editore
NY City, Agosto 1969
La prima
immagine Questo signore era un italo americano che spesso incontravo durante i miei spostamenti in quella parte dei «projects». Non erano molti gli italiani in questa parte della città. In questo momento era in attesa di alcuni amici per la consueta partita a briscola o scopa. Mi sono fermato diverse volte a scambiare quattro chiacchiere con lui e mi ripeteva sempre come per lui fosse un grande piacere ascoltare la mia «parlata toscana». Questo un po’ mi inorgogliva ed ero sempre felice quando lo incontravo. Lo ricordo come una persona dolce e garbata e spesso mi sono chiesto che fine avesse fatto.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
25 febbraio 2017
Le scimmie nude (e non è Sanremo) Le Sorelle Marx
Piange il telefono I Cugini Engels
273
206
Riunione di famiglia
In questo numero 4 voci per Firenze Libro Aperto di Paolo Ciampi, di Paolo Marini di Roberto Innocenti di Stefano De Martin
La stagione all’inferno di Danilo Cecchi
Pennacce racconto di Carlo Cuppini
Fantasmino di Claudio Cosma
Contrappunto meccanico di Alessandro Michelucci
Dragon Boat in Canada (seconda parte) di Andrea Caneschi
Primula bianca di Mariangela Arvanas
Quattro passi tra vero e falso di Melia Seth
Il giardino di cera rifiorisce di Cristina Pucci
50 anni di Irpet di Sara Nocentini
La poesia di Lucia Mannucci di Laura Monaldi
e Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Susanna Cressati, Paolo della Bella, Vera Linder
Direttore Simone Siliani
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Ardire e tenerezza di Gabriella Fiori
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111 redazione@maschiettoeditore.com www.maschiettoeditore.com Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Venghino signori, venghino premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Mandate i vostri racconti
redazione@maschiettoeditore. com
Progetto Grafico Emiliano Bacci
redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
4 voci su Firenze Libro Aperto Critiche, riflessioni, commenti, suggerimenti non richiesti sul festival fiorentino della scorsa settimana
4 25 FEBBRAIO 2017
5 consigli d’autore di Paolo Ciampi Ore 13 della domenica, in Sala Bianca ho appena finito di presentare Tito Barbini, con i suoi viaggi veri e immaginari. Faccio per alzarmi, mi si avvicina una persona dell’organizzazione in compagnia di un noto critico letterario. Tra un minuto inizia il suo incontro, mi spiega, ma abbiamo perso il presentatore. Puoi pensarci tu? Momento di panico, veloce incursione su wikipedia per capire di quale libro si dovrà parlare. Poi io e il critico ci voltiamo vero le persone sedute. C’è qualcosa che non torna: è evidente che non sono qui per noi, ma per tutt’altro. Io e il critico ci guardiamo negli occhi e ci viene da ridere. L’incontro è annullato all’istante, siamo liberi di proseguire verso qualche altro luogo del festival: io a dedicarmi a un bel libro che mette insieme Livorno, Taranto, Trieste, lui non so. Ecco, episodi del genere ne sono capitati a iosa, a Firenze Libro Aperto. Per tre giorni il festival del libro – il primo che Firenze è stato in grado di ospitare – è stato anche un festival di disguidi, approssimazioni, piccoli e grandi disagi. Ci sono stati microfoni che non funzionavano, stand che non si sapeva dove diavolo fossero finiti, baristi a cui chiedevi un caffè e ti rifilavano un panino alla porchetta. Ma se rammento tutto questo lo faccio con sorriso largo e cuore leggero. Perché sapete, a me il festival è piaciuto. Per tre giorni mi sono immerso in questa baraonda, saltando da un incontro all’altro, trovando, perdendo, ritrovando. Ho salutato, discusso, condiviso, scoperto. Ogni sera sono tornato a casa frastornato ma contento. E con qualcosa in più rispetto al mattino: un’idea, una proposta, una frase azzeccata. È vero, sono così indulgente che non mi limito nemmeno a constatare il bicchiere mezzo pieno. Considero con qualche simpatia anche ciò che altri metterebbero in lista sotto un «malgrado» o un «nonostante». Immagino che anche la prima edizione del festival
di Mantova o di Umbria Jazz abbia avuto qualcosa dell’impresa garibaldina, nel bene e nel male. Non lo dico ora, che i numeri hanno dato ragione agli organizzatori di Libro Aperto. L’ho sostenuto anche prima, quando il festival era un’incognita e un azzardo. Ai tanti detrattori mi veniva da opporre l’idea di un tentativo che poteva essere di vantaggio per tutti se tutti avessero messo qualcosa del loro. Ora possiamo dire che la prima prova è andata, l’esame superato. Più che gli organizzatori – mi verrebbe da dire – a superarlo sono stati i fiorentini, che con loro presenza – e pagando un biglietto di ingresso significativo – hanno dimostrato che Firenze si merita un grande festival del libro e della lettura. C’è futuro in Libro Aperto – anche se non credo che tutti ne siano contenti, ma si sa, Firenze non sarebbe Firenze senza guelfi e ghibellini. Un futuro, certo, in cui non potrà più esserci comprensione e persino simpatia per ciò che questa volta non ha funzionato. Per questo mi sento di concludere con alcuni consigli per la prossima edizione 1. Come una talpa che scava e venga alla luce puntate al piano superiore della Fortezza. E bello l’open space, però fate in modo che nei vari spazi si possa davvero ascoltare. 2. Non compromettetevi con la più smaccata editoria a pagamento, quella che in un stand prometteva libri a 990 euro. 3. Invitate le istituzioni, non i leader di partito, che di passerelle ne hanno già fin troppe. 4. Costruite un programma off, perché un festival vive anche nella città non solo in uno spazio espositivo 5. Fate vivere Libro Aperto anche durante l’anno, magari con tappe di avvicinamento realizzate assieme alle librerie indipendenti. Per il resto l’augurio che gli organizzatori conservino anche l’entusiasmo – e la temerarietà dell’inizio. E come ha detto Serena Dandini: «Magari tornerò qui tra due anni e questo sarà il festival più importante di Italia».
Una metafora di un mercato asfittico di Paolo Marini Si vorrebbe che ogni cosa che si intraprende a Firenze fosse speciale così come è lei (nonostante ambiti di degrado e di decadenza), dovrebbe bastare il marchio di origine ma si capisce che la faccenda non è semplice e la città, in ogni caso, non è un novello Re Mida. Ce ne siamo accorti, anche recentemente, con la mostra «Firenze Libro Aperto», alla quale siamo approdati con curiosità sincera. Al piano terra del Padiglione Spadolini, dove erano tutti e (forse) un po’ pigiati, l’agglomerato degli stands poteva sembrare, con nostro stesso rincrescimento, Babbo Geppetto nel ventre della Balena, un’isola nel vasto oceano dello spazio circostante. La mattina del primo giorno (premessa l’attenuante ch’era un venerdì 17...) le porte della mostra si sono aperte in ritardo di venti minuti e, superata l’entrata, si potevano ancora cogliere i segni dei lavori in corso, il tutto conferendo all’ambiente un’aura di improvvisazione. Al primo giro di giostra abbiamo subito incontrato Eugenio Giani e questo ci ha rassicurati: se c’era lui, voleva dire che eravamo - se non nell’’evento’ - quantomeno in uno degli eventi della giornata, e tanto bastava. Abbiamo quindi proseguito fino all’estremo limite delle terre conosciute finché, tornando sui nostri passi, ci siamo imbattuti in uno stand (dell’editrice della comunità delle Piagge) bardato e ‘scocciato’ (da ‘scotch’, il nastro adesivo): una forma di protesta contro la presenza in fiera di Matteo Salvini, definita «negativa, divisiva e assolutamente contrastante». E così, poco dopo, abbiamo inaspettatamente còlto il Salvini medesimo, in conferenza stampa, dinanzi a un centinaio di persone. Non sapevamo se essere più contrariati dalla filza di banalità che stava inanellando il sedicente futuro premier d’Italia, o dalla condotta reprensibile di chi pretende di montare una polemica a distanza, senza degnarsi d’essere presente, come a marcare una pretesa superiorità. Avevamo già prematuramente pieni gli zebedei e non era forse passata neppure un’ora, che abbiamo inteso stringere la visita, sfogliando qualche libro, parlando con alcuni
dei protagonisti. Ci è venuto in mente Luigi Einaudi quando spiegava, nelle sue «Lezioni di politica sociale», che «in un libero mercato nessuno fa quel che vuole, né i produttori né i consumatori», indicando con ciò una esplicita interdipendenza degli uni dagli altri. Perché, nel pur piccolo contesto di questa fiera, ci siamo (per l’ennesima volta) resi conto di quante e quali pubblicazioni siano messe in circolazione; e abbiamo ricordato che ai 60.000 nuovi libri sfornati in media (molto approssimativa) ogni anno, fa da contrappunto una percentuale assai esigua di lettori: nel 2015 solo il 42% delle persone di 6 anni e più avevano letto, nei 12 mesi precedenti, almeno 1 libro. Inoltre, il 9% delle famiglie non aveva alcun libro in casa, mentre il 64% circa ne possedeva non più di 100 (fonte Istat, 2016). Si spiega così la bassa qualità del maggior numero di pubblicazioni (a volte non sembra possibile chiamarle ‘libri’)? Con il fatto che non c’è una domanda abbastanza forte che selezioni e irrobustisca l’offerta, ‘sì da renderla mediamente qualificata? Un esercito di scriventi, non necessariamente di scrittori (la distinzione non è mia, la prendo in prestito dal presidente della Accademia della Crusca) affolla il lato dei produttori di presunte idee ingegnose, trame mozzafiato,
saggi mai osati, e sforna una gamma incredibile di oggetti che quasi nessuno acquisterà. Il poco o il nulla che attende il lavoro di questo esercito legittima dunque qualsivoglia intrapresa, il risultato non cambia. Così, forse, si finisce per scrivere più per gratificare il proprio ‘ego’, che per comunicare, testimoniare, consegnare. Di questo strano mercato la fiera fiorentina non porta responsabilità; si è limitata, pro quota, a rappresentarlo. Del resto, non era neppure tutto carbone, ciò che pareva nero. Non è mancata la possibilità di sfogliare/incontrare qualche bel libro, di ammirare cose stravaganti e/o preziose. Né sono passate inosservate talune - non molte - presenze di rilievo, editori che si distinguono nel panorama culturale per la qualità di ciò che propongono. In fine, con quanto abbiamo detto, non abbiamo parlato dell’entusiasmo che pure deve avere mosso coloro che dal nulla hanno tirato sù il giocattolo, attirando in fiera autori/personaggi di fama anche internazionale, come Tahar Ben Jelloun, Franco Cardini, Mauro Corona, Paolo Crepet, Vinicio Capossela, Joe Lansdale, segno che avevano pure qualche buon argomento da spendere. Concludendo? Se (ci) son rose, fioriranno...
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4 voci Sarebbe come su Firenze se... Libro Aperto Critiche, riflessioni, commenti, suggerimenti non richiesti sul festival fiorentino della scorsa settimana
di Roberto Innocenti Sarebbe come se Greenpeace, per difendere i cetacei, affidasse il comando al Capitano Achab. Sarebbe come se nominassero Comandante dei Pompieri, Claudio Cesare Augusto Nerone. Sarebbe come se a tutela dei leoni nei parchi africani incaricassero Ernest Heminghway, o quella degli orsi grigi a Theodore Roosevelt, o delle alci alla gentile signora Palin. Sarebbe come se assegnassero il Premio Nobel per la Fisica a Mariastella Gelmini. Sarebbe come se all’inaugurazione della festa del libro, della cultura e della letteratura invitassero Matteo Salvini.
Gli organizzatori si scusano sostenendo che tutti gli altri politici non hanno accolto l’invito e solo lui si è presentato, forse incuriosito da quegli strani blocchetti di carta rilegata e pieni di segnetti neri in file allineate, esposte come prodotti al centro dell’iniziativa. Ci si domanda per quale misteriosa ragione occorra invitare i segretari dei partiti politici all’apertura di una kermesse libraria anziché le Istituzioni locali: per esempio, il Presidente della Regione Toscana o il suo sostituto Genio Giani, che non ne perde una, o il Sindaco di Firenze, al momento libero negli intervalli fra Pitti Donna, Pitti Uomo, e Pitti Bimbo, o la sua nuovissima Assessore, Assesssora, Assessrice, Assessoressa. (questo è il problema? ) Il debutto di questa fierucola ha rilevato appunto l’inesperienza dei debuttanti, la buona volontà nell’approssimazione, ma non si deve sottovalutare la novità rivoluzionaria dell’evento. Che idea, tentare per la prima volta una Fiera del Libro in quella «Città dell’Arte e della Cultura», che sarebbe Firenze. Sarebbe come proporre la lettura dell’Antologia di Spoon River al Crazy Horse, una lettura analitica del «Capitale» a WallStreet, o pro-
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porre l’ «Evoluzione della specie» alla scuola parrocchiale di Salem. Come in tutte le feste del libro c’è stata un’affluenza di pubblico, un pubblico che conosco bene su cui si può sempre contare. Si tratta di una minoranza un’élite, che si occupa ancora di educazione, di grammatica, di letteratura, d’informazione, di etica, di estetica, di cultura, che conserva la curiosità e il piacere della conoscenza, Persone che non accettano di essere plebe, né sudditi, né d’essere valutati con l’appellativo di consumatori, che cercano con tenacia, resistendo disperatamente, di custodire il titolo di cittadini. Un pubblico che esiste in tutti i luoghi del mondo e si incontra, malgrado tutto, festoso ad ogni fiera del libro in ogni paese o città. Firenze è arrivata, nessuno si stupisca, ultima. Presenti molti piccoli, medi Editori e Librerie che hanno dato sostegno e vita alla manifestazione; assenti quelli grossi, quelli che dettano le « leggi del mercato» stabilite dalla SS. Quattrinità Speriamo che abbia un seguito non solo mercantile ma soprattutto culturale. Sarebbe come una pozza d’acqua nel deserto. Sarebbe come una conversazione interessante in treno, o un sorriso senza doppi scopi. Un saluto cordiale e senza olio di palma
Un’apertura col botto di stampo leghista di Stefano De Martin (edizioniPIAGGE) Nel comunicato stampa diffuso poche ore prima l’apertura della prima edizione di Firenze Libro Aperto alla Fortezza da Basso (17/19 febbraio), edizioniPIAGGE, casa editrice della Comunità di base delle Piagge, chiedeva agli organizzatori di annullare la visita di Salvini, avvertiva della chiusura per protesta del suo stand e invitava gli altri espositori a fare altrettanto. «Abbiamo appreso con meraviglia e disappunto l’invito ‘a sorpresa’ di Matteo Salvini, segretario della Lega Nord a Firenze Libro Aperto. La sua presenza all’interno del Festival è negativa, divisiva, non comprendiamo come questa possa dare lustro ad ‘una condu-
zione culturale rivolta anche ai giovani delle scuole’, come si legge nel programma. Non c’è traccia di nessuna ‘trama culturale’ nel dare spazio e visibilità alle pericolose posizioni razziste di Salvini. Per questo, per i valori e i gesti che ispirano da sempre la nostra attività, EdizioniPiagge prende le distanze da tale decisione tenendo chiuso il proprio spazio espositivo nel lasso di tempo in cui sarà presente Matteo Salvini». L’iniziativa di protesta ha avuto una forte eco su giornali e televisioni locali e il momentaneo sbarramento del piccolo spazio mt 2x2 con dei nastri da cantiere bianchi e rossi è stato meta di curiosi e di sostenitori. Il giovane ideatore della manifestazione, Paolo Cammilli, si è tuttavia guardato bene dal venire a spiegarci
la ratio dell’evento forse anche perché la sua verità («ho invitato tutti i politici ma ha risposto solo Salvini») puntava a fare breccia nei molti visitatori distratti rovesciando come antidemocratica la nostra presa di posizione. Nel programma di venerdì 17 alle 11 però era indicato un ‘ospite a sorpresa’ e non risultavano altri dibattiti del tipo «Politica e nuova editoria». La partecipazione poi del segretario della Lega Nord è stata nobilitata con una amena conversazione su tematiche personali e, in quel contesto, assai strumentali (come se Salvini fosse un ospite come tanti), conversazione che niente aveva a che fare con la ‘filiera del libro’ e confezionata con un palco gremito solo di rappresentanti toscani del partito. Aprire dunque la prima manifestazione del libro a Firenze dopo più di 80 anni (azioni meritoria e giustamente premiata dal pubblico) con un ‘comizio politico’ (oggi i comizi non sono più come quelli di una volta!!) ci è parso un tentativo ben architettato di conferire legittimazione culturale a un impianto ideologico iniettato di odio proprio nei confronti dei nostri luoghi della cultura. Quello che può essere utile qui segnalare è l’assenza di imitatori, di persone o gruppi interessati a dare corpo, anche creativamente, alla nostra azione pur condividendone l’ispirazione. Certo non si è avuto un aiutino neppure dagli amministratori locali. Il presidente del Consiglio regionale, nell’aprire la kermesse, avrebbe dichiarato che Salvini poteva tornare utile agli organizzatori in termini di immagine e di risonanza mediatica (e stop!). Non ci pare poi che altri amministratori (vi era il patrocinio, oltreché della Regione, della Città metropolitana, dei Comuni di Firenze e di Campi Bisenzio) abbiano avuto tempo e modo di intervenire sulla vicenda. Può dunque tornare utile rileggere «Uno strano amore» che edizioniPIAGGE ha presentato nel corso della fiera che contiene una riflessione di Antonio Tabucchi sulla necessità di individuare forme sempre nuove e incisive per passare dall’indignazione a gesti concreti di dissenso; dissentire oggi significa ridare vita alla possibilità di pensare ed essere altrimenti.
7 25 FEBBRAIO 2017
Le Sorelle Marx
Le scimmie nude (e non è Sanremo)
Allora, facciamo così: o la catena Lidl denuncia i suoi due dipendenti del negozio di Follonica che hanno avuto la luminosa idea di chiudere in una gabbia due donne che cercavano del cibo nei rifiuti nei pressi del magazzino e poi li licenziano (tanto con il Jobs Act non ci vuole neppure la giusta causa, ma questa sarebbe giustissima), oppure organizziamo un bel boicottaggio dei negozi della catena tedesca. Questi due buontemponi, dopo aver chiuso queste due donne nella gabbia, le hanno irrise, insultate e filmate per potersi meglio vantare dell’impresa sui social network. Dove, sia detto per inciso, hanno trovato decine di trogloditi come loro che li hanno applauditi e proclamati eroi. Chissà se la Lidl, azienda tedesca fondata nel 1930 da un membro della famiglia Schwarz (allora si chiamava Lidl & Schwarz Lebensmittel-Sortimentsgroßhandlung), prenderà qualche provvedimento contro questi due signori. Forse, avranno paura di incorrere ancora in qualche incidente giudiziario come nel 2003 quando il giudice del lavoro del tribunale di Savona emise una sentenza di condanna contro Lidl per attività antisindacale. Oppure come quando la Lidl fu multata dal tribunale di Trento per aver multato dipendenti che scioperavano. D’altra parte con due dipendenti come questi è certo che la Lidl raggiungerà il suo dichiarato obiettivo di offrire prodotti di eccellente qualità a prezzi ridotti, risparmiando su varie voci, compresi i punti vendita, non particolarmente attraenti ed essenziali nel presentarsi alla clientela. Come donne ci dichiariamo solidali con le due signore che hanno subito un simile infame trattamento: ci piacerebbe invitarle a cena, vorremmo abbracciarle e dire loro che hanno avuto particolare sfortuna di incappare in due persone così spregevoli come i due dipendenti Lidl. Attendiamo altre attestazioni di solidarietà da istituzioni locali e nazionali. E soprattutto le scuse della Lidl. Il cui slogan pubblicitario «Anch’io!» speriamo sia smentito.
8 25 FEBBRAIO 2017
I Cugini Engels
Piange il telefono
Per riprendersi dallo stress delle vicende del PD, Matteo Renzi ha deciso di recarsi negli Stati Uniti d’America, dice, per imparare come si fa a creare lavoro, occupazione, crescita. Ha scritto sul suo blog: «Mentre la politica italiana post-referendaria litiga su tutto o quasi, il mondo fuori continua a correre. Ho deciso di staccare qualche ora – mentre il PD scrive le regole per il congresso – e di dedicarmi ad alcuni incontri di qualità in California». Giustamente, lui mica è la politica e soprattutto cosa c’entra con il PD? Ma sappiamo di un suo tentativo di incontrare Trump. Ecco la telefonata. «Helloooo, Donald! How are you, old man?» «What??? Who the fuck are you? Maybe your mother is old, not me!!» «But Donald, I’m Matteo, Matteo Renzi; your old friend» «Friend? Fuck you! You endorsed for Hil-
lary Clinton: maybe she is your friend, you asshole!» «No, Donald, I was jocking! You are my only friend! Listen, Donald, siccome I am coming dalle tue parti, in California, I was thinking to step in to visit you. Si fa two chat, two barzellets, we speak di women and ideas! I have great ideas!» «Listen to me, Matteo; I will speak just one time in a very clear way and in Italian: you don’t conti one fucking mazza! You are not President di one minchia! » «But Donald, I am president; president of political party» «You are kidding me? Tuo Partito chiama Democratic? Allora, fuck it too! Io, come dici tu, rottamato Democratic Party! So, I don’t want to see you! And, even in that shit of a party, maybe you will not be president soon. I repeat: you are niente! Go to hell!» click
Nel migliore dei Lidi possibili
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Tutti in fuga dal proprio cervello
Segnali di fumo di Remo Fattorini Vergogna. Da noi, nonostante i richiami dell’Onu e la condanna della Corte di giustizia europea, ancora oggi, la tortura non è reato. In parlamento si parla di cambiare marcia, di volere istituzioni più efficienti, una giustizia giusta, riforme per sbloccare il paese, ma non si riesce ad approvare una legge sulla tortura. Dopo 30 anni di attese (è dal 1988 che ne parlano con solenni impegni) e a 15 anni dal G8 di Genova e dai drammatici fatti della scuola Diaz (con 61 feriti dai pestaggi delle forze dell’ordine, 3 in prognosi riservata e uno in coma), arriva
SCavez zacollo
disegno di Massimo Cavezzali
un altro stop alla sua approvazione. La politica discute da decenni su come definire la tortura e da decenni la legge viene insabbiata. Non c’è riuscito neppure il governo Renzi, che ha fatto notizia per averla fatta approvare alla Camera, ma che poi non ha detto pio per lo stop messo dalla destra e da Alfano al Senato. Un classico del nostro gattopardismo. E non si può certo dare la colpa al bicameralismo perfetto. Udite, udite. Alfano vuole che venga inserita nella legge la parola «reiterata». Dice che «la violenza deve essere reiterata per potersi definire tortura». Evidentemente, secondo lui, se si pratica solo una volta non è tortura ma normale attività delle forze dell’ordine. Per il ministro il reato deve scattare solo se si va oltre la «modica quantità». Ancora più esplicito l’on. Gasparri: «La legge rischia di inibire un uso legittimo della forza da parte di poliziotti e di chiunque sia impegnato a garantire l’ordine pubblico». E non poteva mancare Salvini: «Non bisogna impedire ai poliziotti
di fare il loro lavoro». E subito, per evitare dubbi, chiarisce: «Le forze di polizia devono avere libertà di azione assoluta». E pensare che c’è chi, proprio qui in Toscana, la tortura l’aveva abolita già nel lontano 1786. Parlo del «codice leopoldino» - voluto dal Granduca Pietro Leopoldo - che per la prima volta in Europa abolisce la tortura e la pena di morte, il reato di lesa maestà, instituisce la libertà provvisoria, amplia le pene pecuniarie, il carcere, l’esilio e i lavori forzati. Certo altri tempi, ma anche altre teste. Basta scorrere la premessa, dove si dice che la riforma nasce dal fatto che la «mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le reazioni, e mediante la celere spedizione dei Processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri Delinquenti, invece di accrescere il numero dei Delitti ha considerabilmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci». Un testo che qualcuno dovrebbe far leggere a tutti i nostri parlamentari. Per legge.
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La poesia di Lucia Marcucci di Laura Monaldi Nelle prime operazioni poetiche di Lucia Marcucci, e principalmente, nella raccolta, del 1962, Non c’erano barche nei canali, si allude a una perentoria e drammatica rappresentazione del reale, in cui si manifesta sensibilmente la depressione culturale e nichilista della società e, di conseguenza, la volontà incondizionata di un nuovo ordine rigeneratore. Si tratta, infatti, di una poesia tesa verso il dominio della parola e della forza comunicativa del linguaggio (sottratto alla propria referenzialità e ridotto, ormai, a cliché) sulla realtà sociale, in virtù di una maggiore coerenza con la dinamica del mondo moderno; è una poesia che tenta la presa di posizione e la presa di coscienza, da parte dell’Io, sulla crisi rappresentativa e dialettica, sul naufragio delle ideologie e sulla complessità del senso della reale. Nella raccolta i ricordi soggettivi e autobiografici dell’infanzia e dell’adolescenza si combinano con gli aspetti del quotidiano, in una sintassi semantica, e oggettiva che tenta il riconoscimento esistenziale e ontologico del mondo. Attraverso questa figurazione melanconica e fotografica, infatti, la realtà si presenta all’Io come un’assenza/presenza effimera e priva di concretezza morale, che esige una forte presa di posizione. In tale critica al reale, dunque, i paesaggi naturali si confondono con gli ambienti metropolitani e cittadini, in un’osmosi alienante che, unendosi alle immagini soggettive, lascia emergere quel sentimento alienato caratteristico dell’esistenza moderna. Il soggetto trasposto dall’ovvio «status» d’appartenenza a un luogo a esso inedito, perde di significato e, assieme alla figurazione iterata di elementi sacri, la composizione poetica si presenta come emblema del naufragio ideologico e della crisi delle certezze, la quale incarna l’esigenza della ricerca di una profondità maggiore di riflessione, sulla condizione dell’uomo e sulla realtà contemporanea. Si tratta, da un lato, della consapevolezza della necessità di un rinnovamento culturale capace di scuotere l’Io dall’assopimento generazionale delle coscienze; dall’altro della volontà incondizionata, da parte dell’Io, di una maggiore aderenza al mondo e alla vita di relazione, da
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cui Lucia Marcucci trarrà la spinta razionale ed emotiva all’eversione morale e linguistica. L’oggettività descritta, infatti, svela la negatività del reale che aliena l’uomo moderno e lo rende indifferente all’esistenza di ciò che lo circonda. Attraverso la meditazione estetica si dischiudono, in tal modo, gli archetipi più oscuri e misteriosi, si prende coscienza dell’alterità, della solitudine, e il riconoscimento della negatività del mondo inquieta l’essere esistente. Ne consegue il sentimento dell’alienazione che converge in una dimensione panico/contemplativa per manifestare
l’agonia esistenziale. Il sentimento di insoddisfazione e frustrazione obbliga, da una parte, ad una rifrazione interiore e a un ripiegamento intimo ed esistenziale, come chiusura e rifugio, dall’altra, il desiderio conscio di apertura al reale quotidiano, provoca l’inevitabile gioia nel sentimento d’appartenenza al mondo, alla natura e agli altri uomini. Il suo modo di essere incarna l’anima dell’artista alla continua ricerca di qualcosa di nuovo, al di là delle strutture convenzionali, in una continua sfida all’immaginazione umana e al pensiero conformato.
di Alessandro Michelucci Cento anni fa, il 25 febbraio 1917, nasceva Anthony Burgess. In Italia lo scrittore inglese è conosciuto soprattutto per il romanzo fantapolitico Arancia meccanica, e sicuramente sarebbe ancora meno noto se questo non fosse stato trasposto sullo schermo da Stanley Kubrick (Arancia meccanica, 1971). La ricorrenza ci offre quindi l’occasione di ripercorrere la sua parabola creativa. Quello che ci interessa, soprattutto, è mettere in evidenza il suo stretto legame con la musica: «Vorrei che la gente mi vedesse come un musicista che scrive romanzi, anziché come un romanziere che scrive musica» diceva lui stesso. John Anthony Burgess Wilson nasce a Manchester il 25 febbraio 1917 in una famiglia cattolica della media borghesia. La madre è cantante e ballerina, il padre suona il piano nei locali da ballo. L’anno successivo la madre e la sorella maggiore muoiono di influenza. John ha soltanto 11 anni quando comincia a scrivere i primi racconti. La passione per la musica arriva dopo: a 18 anni, dopo aver mparato a suonare il piano da solo, compone la prima sinfonia. Quindi si laurea in letteratura inglese e si arruola nell’esercito, dove dirige una banda. Negli anni successivi, dedicati in buona parte alla composizione, scrive fra l’altro il poema sinfonico Gibraltar (1944), la Sonata for cello and piano in G minor (1945) e Sinfoni Melayu (1956). In quest’ultima fonde le tipiche sonorità dei metallofoni malesi con quelle della grande orchestra europea. In questi anni lo scrittore-musicista vive in Malesia, dove lavora nella struttura coloniale britannica. Profondamente interessato alla cultura locale, Burgess usa correntemente la lingua malese. Anche la scrittura risente di queste influenze asiatiche: lo attesta The Malayan Trilogy (ed. it. Trilogia malese, Einaudi, 1999), che si compone di tre romanzi pubblicati fra il 1956 e il 1959. Nel 1962, in tre sole settimane, Burgess scrive A Clockwork Orange, che viene pubblicato il 14 maggio. Sopra si accennava al film di Kubrick, ma in realtà il primo a interessarsi al romanzo è Andy Warhol, che ne trae il film sperimentale in bianco e nero Vinyl (1965). Il celebre film di Kubrick porta sullo schermo lo scenario angosciente del romanzo omonimo. Ambientato nella Gran Bretagna del ventunesimo secolo, Arancia meccanica descrive una società autoritaria che cerca di contrastare l’esplosione demografica scoraggiando il matrimonio, la procreazione e il piacere fisico in genere. Il ruolo del protagonista Alex DeLarge, teppista sadico e violento, è interpretato magistramente da Malcolm McDowell.
Contrappunto meccanico Musica e letteratura, comunque, non restano separate, ma si intrecciano in molte occasioni. Nel 1973 scrive il testo per il musical Cyrano de Bergerac, tratto dal classico di Edmond Rostand. Napoleon Symphony: A Novel in Four Movements (1974) rilegge la vita dell’imperatore corso seguendo la struttura della Terza
Della Bella gente
sinfonia di Beethoven (la celebre Eroica). In The Pianoplayers (1986) lo scrittore rievoca il padre. Mozart and the Wolf Gang (tr. it. La banda Amadeus, Bollati Boringhieri, 1995) vede protagonisti alcuni santi che vogliono commemorare il bicentenario della morte di Mozart. Inoltre, come molti ricorderanno, la Nona sinfonia di Beethoven irrompe spesso in Arancia meccanica. Il romanzo più celebre dello scrittore viene poi adattato per il teatro (A Clockwork Orange: A Play with Music, 1987), con musica composta dall’autore. Attorno alla metà degli anni Settanta Burgess torna a dedicarsi alla composizione. Predilige la musica tonale, con influenze che spaziano da Debussy a Elgar, ma non disdegna occasionali sconfinamenti nella dodecafonia, come nel brano cameristico Mr Burgess’s Almanack (1987). Burgess muore a Londra nel 1993 per un male incurabile. Chi vuole avvicinarsi alla sua musica può ascoltare due CD recenti, Mr W.S. – Ballet Suite for Orchestra (Naxos, 2016) e The Piano Music of Anthony Burgess (Prima Facie, 2016). Il libro di Paul Phillips, A Clockwork Counterpoint: The Music and Literature of Anthony Burgess (Manchester University Press, 2010) racconta con passione sincera l’intreccio fra musica e letteratura che ha segnato la vita di Anthony Burgess.
di Paolo della Bella
Ristampa
11 25 FEBBRAIO 2017
Il mondo
senza
gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni
di Carlo Cuppini Da qualche tempo grossi uccelli neri oscurano il cielo. Sono ricoperti da un duro pelame, che infoltisce negli spazi liberi tra le rade pennacce. Hanno becchi grigiastri e occhi piccoli e puntuti. Muovono le ali carnose pesantemente, come sbattendo tappeti polverosi. Impressionanti sono soprattutto le dimensioni: poche decine di essi sono sufficienti a schermare del tutto l’azzurro del cielo. Volteggiano sopra le nostre teste incessantemente, lanciando grida orrende che lacerano l’aria. Sembra che non abbiano mai la necessità di posarsi. La loro presenza non è la tappa di una migrazione che li porterà più lontano: è ormai chiaro che sono venuti per restare. A volte sembrano danzare tutti insieme con lugubre grazia e coordinazione. Poi all’improvviso si aggrediscono violentemente, si gettano uno contro l’altro con lo scopo deliberato di uccidersi. Corpi ingombranti allora cadono al suolo con tonfi potenti che fanno tremare la terra e rimangono lì a decomporsi per giorni, dato che nessuno di noi ha il coraggio o la voglia di avvicinarsi a essi, rimuoverli, smaltirli. Ci disturbano non poco i suoni che emettono, almeno quanto gli escrementi che ci piombano addosso con grandi scrosci inaspettati, causando a volte danni ingenti. Ma soprattutto ci secca che il loro volteggiare ingombrante ci precluda del tutto la visione del cielo: l’azzurro, le nuvole, il tramonto, le stelle. Le nostre armi non hanno potere contro di essi: quando capita che un tappo di sughero colpisca i loro coglioni (hanno grossi testicoli che penzolano come sacchi di sabbia), solo allora, irritati, si accorgono della nostra presenza e si gettano in picchiata colpendo col becco alla rinfusa, lasciando una dozzina di noi sul terreno. Celebriamo ogni volta la morte dei nostri compagni con riti solenni e compunzione. La lista dei martiri si fa ogni giorno più lunga. E se l’uccello colpito, piombando dal cielo, perde una penna smisurata – come talvolta succede – la rac-
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Pennacce
cogliamo e poi la bruciamo su una catasta di legna, affidando al fumo che ascende la nostra più ardente speranza: che in una delle loro schermaglie fratricide l’intero stormo finisca sterminato, e che si liberi il cielo.
Foto di
Pasquale Comegna
Il sole basso all’orizzonte
di Mariangela Arnavas La chiamano «primula vulgaris», ma di volgare non ha niente: i petali sono bianchi, delicati, con un cuore dorato, le foglie ovali, avvolgenti, da sola è un piccolo cespuglio fiorito e sboccia coraggiosamente quando ancora fa piuttosto freddo ma si sente nell’aria odore di primavera, febbraio appunto. Parecchi anni fa, ho rapito un paio di piantine dai contorni di una strada asfaltata (le difficoltà non spaventano le primule), in Maremma; trapiantate nel mio giardino, ai margini di una siepe d’Iperico, ogni anno, prima della primavera, spuntano e sbocciano per poi disseccarsi all’arrivo del caldo primaverile e sparire dalla superficie fino alla stagione successiva. Però l’anno scorso, quando ancora erano in foglia, il mio improvvido giardiniere, nel ridare assetto alla siepe d’Iperico, le ha letteralmente sbarbate, trattandole come erbacce. Mi sono rassegnata alla perdita e non le aspettavo più; invece, due giorni fa, sono rispuntate, un po’ distanti, già fiorite, perfette; molto più forti del «frullino» del giardiniere. Per render loro omaggio ho cercato di sapere di più sulle loro caratteristiche e la storia: ho scoperto che, trattate come il te possono essere usate per bevande mentre, prima della fioritura, le foglie si possono mangiare in insalata o lessate, in minestre con altre verdure; possono essere usate anche per trattare crampi, spasmi e dolori reumatici, in infuso per alleviare il mal di testa o come blando sedativo, in decotto per il trattamento di tosse e bronchite. Nella regione inglese del Sommerset la primula viene chiamata «burnch of keys», mazzo di chiavi ovvero, secondo la leggenda, le chiavi del paradiso che S.Pietro gettò dal cielo e che, cadendo sulla terra, fecero nascere le prime primule. Santa Ildegarda, Hildegard von Binger, una benedettina tedesca, studiosa di medicina, intorno al 1100, consigliava questa pianta per la cura della malinconia e non sembra affatto strano perché la sua incredibile forza e tenacia, unita alla delicata bellezza sembrano un perfetto antidoto contro l’»umor nero». Per questo mi è venuta voglia di parlarne in questi momenti, quando le vicende cui assistiamo sono talora, a dir poco, sconfortanti; perché la primula vulgaris è la dimostrazione viva e scientificamente attendibile che la bellezza e la delicatezza, unite alla fecondità possono dimostrare di possedere una grandissima forza e tenacia, rinascendo dal nulla apparente, quando ancora fa freddo, intuendo la primavera. Sono una pianta perenne e nessun improvvido giardiniere le può fermare.
Primula bianca
Cauteruccio a Valencia Il 22 febbraio e stata presentata l’installazione TEATROIMMAGINE, pensata da Giancarlo Cauteruccio realizzata appositamente per Centre del Carme di Valencia, Plaza del Carmen 7, e prodotta dal MuVIM, in collaborazione con Consorci de Museus de la Comunitat valenciana e Diputaciò de Valencia. Con un esplicito omaggio e riferimento al movimento teatrale denominato Teatro – Immagine, che nacque e si diffuse in Italia tra la fine degi anni 60 e la metà degli anni 70, Giancarlo Cauteruccio crea un’installazione che invade tutto lo spazio espositivo e che imprigiona e restituisce a nuova vita tutte le immagini, la memoria, i materiali, i volti e i corpi che hanno attraversato la sua lunga vicenda di artista totale. Un artista «anomalo» che ha lavorato e lavora – come scrive Pietro Gaglianò - «spingendosi fino ai margini più taglienti dell’interdisciplinarietà e del multilinguismo». «Questa mia opera – dichiara Cauteruccio – tenta di far sì che lo spazio espositivo non venga considerato come contenitore passivo che ospita opere concluse nella loro oggettività, ma diventi scenario attivo, opera totale, immersiva, nella quale gli attori siano gli stessi visitatori. L’installazione si espande nell’intero spazio che diviene palcoscenico delle visioni, cosi da poter raccontare, attraverso l’immagine nell’immagine, i frammenti o i detriti del mio lungo viaggio teatrale che, sottratto alla materialità del palco-
scenico, si fa luce, colore, memoria. Le immagini procedono, camminano, per compiere un nuovo viaggio e imprimersi in un diverso spazio-tempo. Così come la parola nel suo succedersi partorisce la favola nella pagina del libro, il verso della poesia nel suo comporsi, genera il luogo speciale della parola, e i fotogrammi del film nel loro susseguirsi si fanno narrazione, così le immagini del mio teatro mutano in un nuovo racconto. I corpi, la luce, l’architettura, gli sguardi, le espressioni, le azioni, adesso monumentalizzate-storicizzate,nel trasformarsi in immagini, abbandonano la loro realtà del qui e ora dell’origine, e si congelano per abitare una nuova dimensione che solo gli sguardi disponibili dei visitatori potranno rigenerare portandoli nella loro complice percezione.
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di Cristina Pucci In questa città di straordinarie e splendenti bellezze, visibili anche solo guardandosi intorno mentre le si cammina nel cuore e godibili con maggiore pienezza entrando in Musei e Chiese e Palazzi e Chiostri, penso sia importante dare riconoscimento e valore a piccoli capolavori frutto di un saper fare con le mani che è piu arte che artigianato, ricordare oggetti altrimenti ignoti e dimenticati, insieme a chi di loro si prende cura con paziente perizia ed infinito e competente affetto. «Il giardino rifiorito», si chiama la piccola mostra di 7 cere botaniche appartenenti al Museo di Storia Naturale di Firenze, restaurate dall’Opificio delle Pietre Dure, nella cui sede, dentro una vetrinetta , sono visitabili fino a metà Marzo. Alla fine del ‘700, il Granduca Leopoldo, diede vita al Museo di Fisica e Storia Naturale per alimentare la conoscenza della natura circostante e vicina e di quella misteriosa e lontana, ad esso potevano accedere sia gli Studiosi che chi voleva dell’incolta popolazione. Per incrementare la ricchezza delle collezioni scientifiche il Museo fu dotato di una Officina di Ceroplastica che riproducesse reperti anatomici, animali e vegetali. Fin dal Rinascimento a Firenze si coltivava la lavorazione della cera, per lo più usata per produrre ex-voto ed oggetti di devozione. L’Officina realizzò decine e decine di modelli di varietà di vegetali, frutta, ortaggi e quasi 200 riproduzioni di piante esotiche, a grandezza naturale. Esse sono perfette, ricche di particolari e sfumature di colore, addirittura hanno qualche picccolo difetto e particolarità, ognuna è corredata da una vicina mini conchiglia di porcellana che ne propone, ingranditi, gli organi ripoduttivi, ogni pianta sta in un vaso, coevo, verde, di porcellana di Doccia , prodotto dalla Ginori, la cui indubitabile eleganza passa dalla bordatura bianca in cui corre un meandro rosso in alto, dal sottile bordo bianco e rosso «a quadretti « in basso e dal centrale cartiglio bianco, rifinito sempre in rosso, su cui è scritto il nome latino della pianta secondo la Nomenclatura del Linneo.Il tempo ha causato loro molti danni. Il restauro ha ripulito foglie e fiori riportando i colori alla loro originaria brillantezza, ha riprodotto, su calchi originali, le foglie rotte e mancanti, regalando alla nostra visione un assaggio di quella che sarà, una volta interamente risistemata, la bellezza di questa unica ed irripetibile collezione. L’Opificio delle Pietre Dure, che ospita il mini giardino rifiorito, costituisce esso stesso una preziosa e gradevole testimonianza di abilità artistiche ed artigianali del tempo andato. Nato come Manifattura di opere in «commesso fiorentino», splendidi in-
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tarsi in pietre dure e semipreziose che ornano quadri, tavolini, mobiletti e «stipi», è ora e da tempo, centro di restauro superextrastrong. I manufatti esposti sono belli da vedere, fiori solitari ed in mazzi, nature morte con strumenti
musicali che sembra riescano persino a suonare, paesaggi, elaborate decorazioni, marmi neri in cui sono incastrati altri marmi colorati e pietre che sembrano dimenticare la loro durezza e si adeguano ad interpretare sfumature e particolari perfetti, petali impalpabili e trasparenti, corde musicali sottilissime, frutta succosa che pare emanare profumo. Opere come silenziose nella loro fredda e lucida magnificienza, nel loro elaborato ordine decorativo, gradevoli e dall’aspetto lieve sia pure nella consapevole pesantezza . Al piano superiore i bellissimi tavoli da lavoro degli artigiani, in alcuni cassetti le prove di disegno di coloro che partecipavano ai concorsi che selezionavano chi avrebbe lavorato lì. Disegni precisi e belli ovviamente.
Il giardino di cera rifiorisce
di Gabriella Fiori Da quando seppi che non era più fra noi su questa terra e mi nacque dentro spontaneo il desiderio di scrivere di lei per ritrovarla sto in sua compagnia. Molto grata per il numero 102103 della suggestiva rivista «L’area di Broca» a lei dedicato, fin dalla copertina mi si rivelò nuova, lieta, ammiccante. Non so perché, o lo so, per gli occhialoni e il casco aderente, vidi in lei una sommozzatrice e quel nome le è rimasto nel mio immaginario, anche se, guardando meglio, è una pilota impavida pronta, per un video, a lanciarsi in volo. Sommozzatrice dell’animo umano attraverso tutti i risvolti dell’espressione nella scrittura in prosa e poesia, questo però le è rimasto; perché lei, Gabriella, è molteplice: molto concreta e decisa, serena e frizzante come i bambini e insieme «fuggitiva» come si definisce nella poesia «La nana» di Parola e silenzio del 2004 (p.13). Via via che ti ho letta sia nelle tue pagine e fotografie sia nell’Antologia critica e nelle Testimonianze di coloro che ti hanno conosciuta in modo diretto o indiretto, ho imparato a trovarti e a trovare il significato che tu perennemente ricerchi in te stessa e nel mondo intorno, nelle età degli esseri viventi, nelle nuvole, nella fronda che si china sull’acqua, nella rosa sfogliata, nel nero addor- mentato fra i suoi cenci sulla panchina coi piedi nudi attorti a terra, ai gambi spinosi della rosa. Tutto vibra, febbrilmente, tutto chiama, ci chiama. così ho ritrovato sulle gote la fresca carezza dell’erba in cui tuffavi il viso da bambina, sentito «la nera foglia del sonno» dalla quale tuo padre doveva staccarsi verso l’alba, sentito sotto i piedi «le scale rosse» che scendeva. Ho potuto guardare in faccia con divertita tenerezza la vecchina risucchiata dal suo viso grinzoso che lascia trapelare un sorriso di bambina poggiato sul vezzo femminile di una sciarpa leggera (p. 17). Sì, femminile. Poiché tu, Gabriella Maleti che con la consueta profondità ti chiedi in una poesia cosa vuol dire «vero uomo» e «vera donna», sei il respiro femminile della terra. E questo respiro palpita in quella che Luzi chiama felicemente «l’euforica grazia che ha in [te] la scrittura». Per cui l’incomprensibile, l’assurdo, il crudele, il ripugnante, il maniacale, il grottesco che non hai paura di scavare, in cui ci fai tuffare impietosa e pietosa insieme, non ci opprimono cupi ma ci inducono a un nostro scavare. E a volte mi è capitato di esplodere in una franca risata; questo ricordo per un racconto letto anni fa, allora inedito, sul sentimento incestuoso di una madre per il figlio, stupendamente tragicomico: «Pompelma».
Gabriella Maleti Ardire e tenerezza Come poesia, ho scelto d’impulso questa, a p. 9 del numero monografico : da «È bene saperlo» (Inedito, 2014): «Beh, non piango più./ Che succede?/ Solo l’Alfa nera spazza via le mie/ nere soglie./ Quando la guardo e ci salgo su e tengo/il robusto volante tra le mani, poi odo/ il bel motore, ecco posso dire gioia.// Cominciò presto all’Idroscalo, a Milano,/ correvo sui go-kart, ebbrezza, curve strette:/ tutto era mio: cielo, anima, tenerezze.// Ho trovato accanto ad un cassonetto una/macchinina rossa, a pedali, un modello d’Alfa./ L’ho pulita e oliata./ È per Mattia, un bambino che amo.» (Gabriella Maleti) Questa, di Gabriella Fiori, è una delle numerose sentite evocazioni di Gabriella Maleti (Marano sul Panaro, MO 1942 - Firenze 2016), scrittrice (poesia, narrativa, prosa letteraria), fotografa (video-film, documentari, video d’arte), redattrice della rivista «L’area di Broca», fondatrice (1984) con Mariella Bettarini delle Ed. Gazebo, che un caldo pubblico ha potuto seguire alla Casa di Dante il 7 febbraio. Mario Luzi ha detto di lei: «un aumento vitale della lingua mi pare il suo atout, il suo speciale talento».
Paolo Uccello in Versilia La mostra di Giancarlo Baglini Geometrie e tematiche rinascimentali rilette, reinterpretate e riproposte in chiave contemporanea. È questo il lavoro pittorico che ci propone l’artista toscano Giancarlo Baglini con la sua mostra personale «All’origine», allestita negli spazi del Lu.C.C.A. Lounge&Underground, dal 25 febbraio al 26 marzo. Cosa sarebbe successo se Paolo Uccello fosse venuto in Versilia e avesse ambientato la sua Battaglia di San Romano a Torre del Lago, o invece Raffaello avesse posto quella magnifica architettura circolare de Lo Sposalizio della Vergine sullo sfondo del lungomare di Viareggio, o ancora se Piero della Francesca avesse aperto uno dei suoi famosi portici della
Flagellazione di Gesù in un’area industriale lombarda? È una domanda che Giancarlo Baglini, pittore viareggino, sembra si sia posto provando a vederne i particolari risultati, commistionandoli con rigorose forme volumetriche multicolori, che se anche incastonate come dettagli o rappresentate sparse nella composizione – tra le zampe dei cavalli durante la battaglia o disseminate sull’ampia pavimentazione prospettica – alla fine fungono da punto di riferimento e catalizzatore per tutta la composizione. Costituiscono il cosiddetto fil rouge che accomuna queste alle altre opere dell’artista, tese invece all’esplorazione della forma geometrica con le sue possibili variazioni ed eventuali mutazioni cromatiche.
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Dragon Boat in Canada/2 di Andrea Caneschi Il salto oltre oceano è senza storia: sufficientemente comodo, ben assistito, molti film disponibili. Il tempo passa contando le ore che mancano all’ arrivo, che giunge imprevisto: mentre il monitor delle informazioni ai passeggeri ci segnala un altitudine di 500 metri, il sobbalzo dell’aereo al contatto con la pista ci avvisa che siamo appena atterrati a Toronto. Un nuovo viaggio attraverso l’aeroporto e poi il primo filtro all’ingresso della stazione, con un blocco di polizia che controlla gli ingressi. Poco più avanti altro blocco, alla fine di un lungo corridoio. Ci accalchiamo contro le transenne, con il passaggio governato da un agente che lascia passare i passeggeri in transito e indirizza la gran parte di noi, desiderosi di ricongiungersi ai nostri bagagli, in una lunga e affollata fila che - scopriremo dopo mezz’ora di lentissimo procedere - alla sua fine si avvolgerà su stessa, aiutata dalle apposite fettucce marca corsie, e tornerà indietro zigzagando e diluendosi e allungandosi nell’immenso salone... per tornare al punto di partenza! Possiamo finalmente varcare un ingresso evidentemente non adatto a sostenere l’assalto di una folla compatta, la cui pressione doveva essere educata, dispersa, sminuzzata in un lunghissimo corteo capace di superare senza affollamenti l’ostacolo. Ultimo controllo dei documenti, ancora il mio inglese all’opera, stentato ma efficace, e poi finalmente sono ai nastri per la consegna del bagaglio. Penso alla mia bella maglia azzurra e a tutto il resto, di cui sento ovviamente la mancanza, sempre di più anzi, via via che la botola vomita fuori valigie che trovano i loro più o meno affettuosi proprietari a riconoscerle ed accoglierle. Il mio bel valigione blu, avvolto nella sua plastica protettiva verde tarda, ad uscire. Mi guardo intorno, riconosco ancora persone in attesa notate sul mio stesso volo e cerco di rassicurarmi, ma la valigia si fa aspettare. Uscirà per ultima, vergognosa e dolente, con il suo brillante abitino verde tutto strappato e malmesso, che mi segnala da lontano dispiaceri in arrivo. L’afferro al volo al primo passaggio, senza altri indugi, a stento riconoscendola tanto contusa e ferita si presenta. Non è aperta, come è toccato ad un’altra che continua a girare abbandonata, rovesciata sul suo contenuto che si sta ormai sparpagliando lungo
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L’arrivo a Toronto il nastro, ma è decisamente compromessa, schiacciata e scoppiata, con la lamiera robusta che mi punge un dito a sangue mentre la afferro per portarla in salvo, distrutta. Temo per la mia maglia azzurra: il disastro è tale che dubito si sia salvata e immagino di ritrovarla, anche quella, contusa e ferita dentro quella massa contorta. Bel modo di cominciare l’avventura. Fuori dell’aeroporto ritrovo alcuni compagni di squadra, appena arrivati da Roma; andiamo insieme a ritirare al noleggio il pulmino che ci consentirà la mobilità necessaria per la settimana che ci attende. È ancora presto; abbiamo il tempo di pranzare a Toronto e farci una rapida idea della città, che attraversiamo in una giornata scura di pioggia con grandi nuvoloni incombenti che scendono bassi e troncano a mezzo le architetture verticali del centro cittadino, denso di grattacieli modernissimi e immensi, collegati da passaggi sotterranei dove il passeggio e i commerci vivono durante tutto l’anno, al riparo dalle inclemen-
ze del tempo. Non cogliamo nulla di diverso da altre metropoli del mondo che abbiamo conosciuto: quantità di persone che corrono rapide, turisti con il naso in aria, negozi di ogni genere, i marchi internazionalmente noti in bella evidenza. Niente di quel che possiamo vedere in questo breve passaggio ci sembra degno di nota, ma ci rendiamo conto che la città merita un approccio approfondito e prolungato. Non abbiamo tempo. Solo allontanandoci dal centro, ormai diretti alla nostra sede di soggiorno, sfiliamo lungo l’Ontario e la prospettiva della città cambia, allungando i suoi volumi lungo il lago, che si stende immenso ai suoi piedi. E quando ancora ne stiamo percorrendo la sponda, molti chilometri più avanti lungo una autostrada ampia e poco frequentata, ci voltiamo a guardare e possiamo ancora vedere il profilo della città, dominato dalla svettante Canadian National Tower, lontanissimo di là dalla distesa d’acqua che sembra non avere fine.
di Danilo Cecchi «Se si possiede la forza di guardare le cose incessantemente, più o meno, senza mai chiudere gli occhi, si vede molto. Ma se si riduce lo sforzo anche solo una volta, e si chiudono gli occhi, tutto svanisce subito nel buio. « (Franz Kafka citato da Miron Zownir) Il mondo può essere visto in molti modi, da lontano e dal di fuori, oppure da vicino e dal di dentro. Mentre la maggior parte dei fotografi (ma non solo) si accontentano di guardarlo da lontano e restandone prudentemente fuori, come degli osservatori privilegiati, solo una piccola parte di essi hanno il coraggio o l’incoscienza di avvicinarsi molto, a volte troppo, e di guardare il mondo dall’interno, a costo di rimanerne coinvolti pericolosamente. La storia della fotografia conta diversi esempi di fotografi che hanno osato entrare in mondi «difficili» e «problematici» riportandone immagini che hanno sconvolto i concetti stessi di «arte» e di «estetica», ma riportandone talvolta anche dei traumi fisici o mentali, così profondi da accelerarne in qualche modo la fine. A questa esigua schiera di fotografi che hanno deciso di spingersi un po’ più in là rispetto alla visione consolidata ed «accettabile» della realtà si aggiunge già a partire dagli anni Ottanta il tedesco Miron Zownir (1953 - ) di padre ucraino e madre tedesca, che negli anni Settanta vive fra Berlino e Londra frequentando gli ambienti della controcultura e delle sottoculture, degli eccessi alcoolici, di droghe e sessuali, per spostarsi nel 1980 a New York City, dove prosegue nella frequentazione dei medesimi ambienti, caratterizzati da un grado ancora maggiore di libertà e di permissivismo, sviluppando una sorta di attenzione morbosa verso tutto ciò che parla di degrado, morale, fisico ed economico. Le sue immagini sono «crude» e «dirette», realizzate con la complicità dei personaggi raffigurati, ma con una règia ridotta al minimo, quasi inesistente, e raffigurano lo stato delle cose senza finzioni e senza ipocrisie, in maniera sfacciata e plateale, senza nascondere niente né inventare niente. I suoi personaggi sono spesso collocati ai livelli più bassi della così detta «scala sociale», ubriachi, mendicanti, malati, alienati mentali, drogati, prostitute, omosessuali o transessuali, esibizionisti, feticisti, truffatori, piccoli criminali, ma anche persone «normali» che in quel mondo a metà fra il sotterraneo e il precario, si spogliano del loro «perbenismo» per assecondare le proprie «inconfessabili» pulsioni e per dedicarsi ad ogni forma di eccesso e di abuso sul proprio corpo e su quello altrui, liberando per una notte il mostro che ciascuno di noi tiene nascosto e bene imbrigliato. Le immagini di Miron Zownir non contengono
nessun insegnamento morale, nessun giudizio, nessuna condanna, e forse neppure forme di compiacimento o di voyeurismo, solo la presa d’atto dell’esistenza di un mondo, dalle numerose sfaccettature, che vive ambiguamente sospeso fra la notte e l’alba, fra l’oscurità ed il chiarore dei neon, in perfetta simbiosi con il mondo della luce accecante e della «normalità» quotidiana. Quando nel 1995 torna di nuovo a Berlino, e si reca a Mosca e poi in Ucraina, scopre delle realtà non troppo dissimili da quella di New York. Al suo primo fotolibro del 1983 «Viele Grusse
aus New York» seguono nel 1988 «Poet der Radikalen Fotografie», nel 1998 «Radical Eye», nel 2010 «30 Jahre Radical Photography» e «The Valley of the Shadow», nel 2014 «Down and Out in Moscow», nel 2015 «Ukrainian Night» e «NYC RIP» e nel 2016 «Poet of Radical Photography». Accanto all’attività di fotografo Miron Zownir realizza una serie di cortometraggi incentrati sugli stessi temi, e dai primi anni Duemila inizia a scrivere ed a pubblicare racconti e romanzi, ovviamente del genere «Kriminal».
La stagione all’inferno
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di Melia Seth Che succede se in un museo colloco arte contemporanea? Non che l’arte contemporanea non abbia i suoi musei. Ma qui «contemporanea» è lettera: fatta ora e talvolta appositamente. Non sono i già classici Fontana, Vedova, Turcato, Burri esposti a Artefiera. Il museo è Palazzo Poggi. Nasce laboratorio nel Settecento. Marsili, generale e scienziato, raccoglie il sapere scientifico della modernità e crea un Istituto delle scienze. Il luogo è di discussione ed esperimento, formazione e ricerca. Napoleone smembra e assegna agli istituti di competenza: le lenti a Ottica, i forcipi a Ostetricia e Ginecologia, le raccolte di fossili e minerali a Geologia, i coralli a Scienze naturali, le cere del corpo o di parti del corpo a Medicina. Nel 2000 si rimette tutto insieme. Oggi Art City, a lato di Artefiera, fa dialogare il museo con l’arte contemporanea. In tutto sono quattro tempi, che corrispondono a quattro regimi di verità: 1. effettiva pratica medica e scientifica, riunita perché la scienza è una e la natura è una; 2. disarticolazione in epoca napoleonica: risponde alla specializzazione in corso; 3. ricomposizione: nel 2000 si ricostituisce la collezione secondo la forma originale, forma divenuta nel frattempo quella non più del laboratorio, ma del museo; 4. installazioni. Oggi è museo, prima era laboratorio. Prima era vero. Oggi è (come se fosse) falso, comunque passato. Nei tempi 1 e 2, forse anche 3, era la preistoria (vera) della scienza (vera). Nel tempo 4 non sembra contare il pre ma piuttosto il post, e tutti e due appaiono opinabili. Da 1 a 4, la scienza è verità o credenza? Cosa accade agli strumenti e alle scienze che non sono più veri? Che cosa significa dialogarci? Opposizione, continuità, o variazione su un tema? Lo scienziato del Settecento (1) crede nella scienza, crede che la conoscenza scientifica sia cumulabile, crede che la comunità scientifica sia una rete senza segreti. Raccoglie il sapere scientifico degli ultimi tre secoli: carte geografi-
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Quattro passi tra vero e falso che, disegni dei differenti abitanti del mondo, ossa, conchiglie, crani, scheletri, mani, muscoli, lingue, denti, mandibole, cere di feti che nascono e crescono nel grembo materno. Tu oggi (4) che cosa credi? Se nella vetrina di
legno che risale al Settecento e contiene fossili introduci i campioni di sassi, i calchi, le fotografie stenopeiche, la distribuzione delle sabbie, le fotografie al microscopio ottico di sottili fette di pietra di Mariateresa Sartori, qual è il risultato? Se nella vetrina di legno metti il vassoio pieno di uova di Bertozzi & Casoni, che effetto vuoi ottenere? Giochi a confondere, mi fai chiedere cosa è vero e cosa è falso, e mi fai rispondere non lo so. Forse invece mi illumini: sottolinei, riprendi, rilanci. Il contemporaneo mima e porta all’estremo (svelandola forse) la logica del museo. Perché il museo di storia naturale è già così: crudo come la testa tagliata del gorilla sul vassoio e come il verano trafitto dal puntale dell’albero di Natale di Bertozzi & Casoni; seriale come i frottages di Sartori; cinico (il tempo che tutto porta via) come il teschio che ride e ha il naso di Pinocchio, ancora di Bertozzi & Casoni. Il museo accumula, ordina, mostra, seziona, mette in prospettiva. Un occhio. Un utero. Un orecchio gigantesco. Una cera di donna vera e falsa insieme. È già Man Ray, Dalì, Duchamp. Mariateresa Sartori, Per caso e per necessità. In dialogo con le collezioni Marsili e Monti di Palazzo Poggi, a cura di Lucia Corrain su invito di Angela Vettese. Bertozzi & Casoni, Storie naturali, a cura di Marco Antonio Bazzocchi e Lucia Corrain. Museo di Palazzo Poggi, Bologna, 27 gennaio - 26 febbraio 2017. Fanno parte degli eventi di Art City in occasione di Artefiera.
Foto Ela Bialkowska OKNOstudio
di Claudio Cosma Questo lavoro, si mostra come delicato sia nel contenuto sia nella rappresentazione sia nei materiali scelti per rappresentarlo. Il vetro è il supporto sul quale è stata eseguita una leggera sabbiatura che invisibile se non è colpito da una luce diretta, diventa un racconto sulla fragilità. La luce, che è l’essenza del lavoro di questo artista, lascia apparire, l’immagine di un fazzoletto, ma non sul vetro, che rimane completamente trasparente e immacolato, ma sul muro dove è installato. Il vetro rimane fissato con una semplice striscia di legno dipinto di bianco, con due viti che lo stringono e contemporaneamente lo forniscono di un minimo di materialità a testimonianza della sua reale esistenza. La sabbiatura intercetta e ostacola la luce, proiettando sul muro quello che ho definito un fazzoletto. Questo sta cadendo, preso com’è per il suo centro e non potendo definirne la grandezza per mancanza di riferimenti oggettivi, sembra un lenzuolo indossato da un fantasma, proprio come un travestimento di carnevale o l’immagine archetipica che di loro ci facciamo. Una brezza d’aria lo sostiene a imitazione del volo immobile di certi piccoli uccelli rapaci, denominato «spirito santo». Il vedere un panno bianco sospeso a mezz’aria o l’ombra di questo, senza capire a cosa sia dovuta tale levitazione, lascia stupiti e meravigliati, stati d’animo questi che sempre accompagnano le sculture di luce del Corneli. Un piccolo segreto consistente nel come l’artista realizza tecnicamente le sue idee pervade anche «Fantasmino»; fatto di niente, nasconde studi di ottica, di fisica, di organizzazione percettiva, che non complicano, mostrandosi, la sua semplicità di mostrarsi, come se ci fosse sempre stato e non fosse realizzato da mani umane. Il mondo della visione è organizzato in regole basilari, come discernere e organizzare sfondi e figure, ma l’opera che descrivo, sfugge senza clamore alle definizioni comuni, ha bisogno di essere guardata con attenzione, di un approfondimento visivo, di collocare la realtà sul piano extrasensoriale. Dove si disloca quello che vediamo? Sul vetro? Sul muro? O non piuttosto in una fase intermedia di questi supporti? È forse un ologramma, quindi una realizzazione frutto di alta tecnologia o un «apporto», un passaggio di materia da uno stato all’al-
Fantasmino
tro secondo regole non accettate di teoria spiritica. Più probabilmente chi osserva il Fantasmino subisce inconsapevolmente una mesmerizzazione, un fenomeno di suggestione, uno scambio di influenze che le cose esercitano sulle persone e le persone sulle cose. Di fatto il peregrinare con gli occhi da un dettaglio all’altro, costituisce un viaggio geografico in miniatura. Lo sguardo passa incessantemente dai confini esterni alle linee che determinano le pieghe della stoffa ai bordi effimeri del vetro in primo piano. I contorni riportati dall’ombra, ci sembrano più nitidi perché simulano l’effetto del disegno di quelli reali che si identificano
solo modificando il nostro punto visuale e incrociando l’angolo formato dallo spessore del vetro che si mostra di un verde cupo, rispetto al nero dell’ombra. Un piccolo teatrino dove la quinta è protagonista al posto degli attori, un palcoscenico illuminato da un invisibile riflettore, un «trompe l’oeil» evocato dalle pieghe del bianco tessuto, una immagine che non riusciamo a percepire né come vera né come illusione, l’artificio di una prospettiva accelerata, una storia che dobbiamo rappresentare con la nostra fantasia resa evanescente dalla fragilità volatile del Fantasmino. Fabrizio Corneli, Fantasmino, 2010, legno, vetro, luce ombra.
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di Sara Nocentini Con l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario dalla fondazione dell’Istituto per la Programmazione Economica della Toscana che ricorre nel 2018, l’Irpet e la Regione Toscana hanno programmato una serie di iniziative volte a ripercorrere la storia e il significato del noto ed apprezzato ente di ricerca attraverso i temi che questo ha affrontato negli anni della sua attività. La programmazione di questi eventi è venuta casualmente e malauguratamente a coincidere con la scomparsa del primo direttore dell’Istituto, Giacomo Becattini (si veda CuCo n. 202), il cui ricordo trova un naturale intreccio con la storia dell’Istituto, accompagnando il percorso verso il suo cinquantenario. Questa coincidenza carica ancora di più di un significato simbolico il momento di confronto sull’attività dell’Istituto, chiamato necessariamente ad interrogarsi su quale sia stato il suo contributo alla costruzione e al consolidamento dell’istituzione regionale e in quale modo questo contributo possa essere aggiornato in un contesto istituzionale mutato per la complessità dei rapporti tra stato e regioni, per la maggiore articolazione delle funzioni tra livello regionale e livelli territoriali più contenuti (Province, con quel che ne sopravvive, Città Metropolitana, Comuni, Associazioni di Comuni ecc.), per un orizzonte di attività e analisi necessariamente non solo nazionale, ma anche europeo. I primi due eventi di questa stagione di incontri sono stati segnati da uno sguardo al passato, o per evitare la connotazione negativa che purtroppo sembra avere questa espressione, con uno sguardo alle radici della cultura, della cultura economica e dell’economia della nostra Regione. La presentazione del volume di Marco Almagisti (Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Carocci 2016) è stata l’occasione per riflettere sul contributo della subcultura rossa allo sviluppo democratico ed economico della Toscana. Un tema su cui Giacomo Becattini ha avuto negli ultimi anni parole generose e positive, forse non adeguatamente ricambiate, con qualche eccezione, dagli eredi di quella tradizione politica e culturale. La tesi sostenuta da Becattini e rafforzata dagli studi di Almagisti è che il forte e duraturo radicamento della cultura rossa nella Regione Toscana (con poche eccezioni) abbia costituito
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50 anni di Irpet Nel prossimo numero di CuCo avremo occasione di soffermarci sul secondo appuntamento della programmazione, la presentazione del volume Storia illustrata dell’economia in Toscana dall’Ottocento ad oggi (Pacini editore, 2016) e segnaliamo che il prossimo evento dell’Irpet sarà il 6 marzo alle ore 17:30 presso la sede della Regione Toscana, in Piazza Duomo, con il libro di Salvatore Biasco, Regole, Stato, uguaglianza (Luiss University Press, 2016).
un humus culturale fertile per lo sviluppo economico e sociale regionale. Rafforzata da una contrapposizione con i governi nazionali da cui era stato escluso il PCI fin dal 1947, e animata da una spiccata tendenza tanto al radicamento territoriale quanto all’allargamento della sua rappresentatività (contadini, operai, ma anche piccola borghesia urbana) la gestione del potere locale a guida PCI e PSI ha favorito lo sviluppo sociale ed economico toscano, promuovendo una cultura inclusiva nelle istituzioni, nelle organizzazioni politiche e sindacali, nei luoghi della cultura e della socialità che hanno rafforzato quella «coralità produttiva» che per Becattini è il tratto distintivo dei distretti industriali e del loro successo. Sullo sfondo del dibattito - a cui hanno partecipato, oltre all’autore del volume, il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, il direttore dell’Irpet, Stefano Casini Benvenuti, Antonio Floridia, Marco Caciagli, Ilvo Diamanti - è rimasta una domanda a cui non è facile dare risposta immediata ossia se, in quale misura e in quale forma sia rimasta traccia di quella cultura rossa e, soprattutto del suo potenziale inclusivo e di sviluppo. Per non cedere alla nostalgia o, ancor peggio, alla rassegnazione sarà necessario tornare a indagare ancora più in dettaglio e più a fondo le dinamiche della Toscana al tempo della società liquida e, probabilmente, proprio in questa complessa ricerca l’Irpet può trovare il senso di un rinnovamento, confermandosi un punto di riferimento per lo studio e la comprensione della società toscana.
di Susanna Cressati Come l’aquilone della sua poesia prediletta, la saga familiare di Giovanni Pascoli, e soprattutto la sotterranea forza, in essa, della presenza femminile, «ruba il filo dalla mano» a Melania Mazzucco e porta la sua attenzione a «rifiorire» sul terreno di una storia parallela: quella dell’amicizia del poeta e di sua sorella Maria (quasi sua sposa) con Angiolo e Laura Orvieto, nata Cantoni. Giovane e ricco lui, figlio di un banchiere, poeta di «vena gracile ma non indegna», fondatore nel 1896 della rivista letteraria Il Marzocco. Giovane milanese appassionata di letteratura, vivace e di indole ribelle lei, che per tutta la vita affiancherà il marito nelle attività culturali, reagirà con maggior vigore di lui alle nefaste leggi razziali e si conquisterà un duraturo successo pubblicando, sotto lo pseudonimo di Mrs El, un libro per bambini amatissimo e che merita ancora oggi regalare: «Storie della storia del mondo». «Anime candidissime», gli amici del Marzocco. Quando Angiolo e Laura si sposano, allestiscono per loro un «quaderno di nozze» (usanza ora perduta) che, oltre agli scritti di D’Annunzio e Pirandello e alle illustrazioni di Giovanni Segantini, contiene le poesie di Giovanni. Angiolo è nel pieno della sua attività, si spende per le idee nuove che risuonano nell’avanguardia letteraria cosmopolita (Rimbaud era quasi un coetaneo). Nel 1890, ancora prima del Marzocco, sulla rivista «La vita nuova» pubblica le poesie giovanili di questo Pascoli, latinista formidabile, aspirante professore e docente universitario, socialista, povero in canna (e forse invidioso della sua ricchezza). «I gattici», «Il nido», «La siepe». Sonetti, strambotti, madrigali, strofe saffiche, versi in cui di Pascoli c’è già tutto o quasi: la lingua aulica e arcaica; il contrasto inverno-primavera, interno protettivo-esterno minaccioso; il tono cupo, sconsolato, i morti che irrompono in modo lugubre e che, come i morti di Omero, non si placano; interi cataloghi di desolazione. Ma anche una tecnica raffinata, un arsenale poetico nuovo, sperimentale: la sinestesia, cioè l’accostamento di due parole appartenenti a due piani sensoriali diversi (ad esempio una sensazione sonora e una immagine visiva); gli affioramenti della «memoria involontaria», che Pascoli chiama «meteore» (davanti all’attento pubblico di studenti e non solo, convocato al Teatro della Compagnia dal Gabinetto Vieusseux, Mazzucco si spinge a dire «quasi meglio di Proust»...).
Non nasconde all’amica Laura Orvieto, con cui continuerà a corrispondere fino alla morte, e ai suoi lettori il cocente rimpianto per i «figli non nati», il suo dolore di madre mancata, di donna mutilata. Che poi Il Marzocco, grazie agli iniziali buoni uffici del fratello, glieli pubblica anche questi versi. Ma questa sofferta gloria dura poco. Già nel 1903, nei Canti di Castelvecchio, Giovanni pubblica in nota (!) le stesse poesie di Maria definendo i versi un «nulla». Maria smette i panni di Sibylla, lo pseudonimo che il fratello stesso, appassionato dantista, le aveva affibbiato, chissà se per alludere alla vacuità della sua produzione («così al vento ne le foglie levi/si perdea la sentenza di Sibilla», Paradiso, Canto XXXIII). Rinuncia, torna nell’ombra. Si costruisce una vita segreta per scrivere la vita del fratello. Incautamente consegnato a un editore, il primo manoscritto brucia in tempo di guerra nel rogo della tipografia bombardata. Ma Maria, come Sherazade, a 78 anni ricomincia, riscrive altre mille pagine e, scrivendo attraverso la biografia
Melania Mazzucco Pascoli-Orvieto, doppia coppia Un delitto senza catarsi, una sequenza ininterrotta di lutti familiari e le difficoltà di carriera nell’insegnamento lastricano la strada che conduce il poeta a chiudersi nella sua morbosa famiglia. Un poeta completo, ma un uomo a metà, sintetizza Mazzucco. Giovanni e la sorella Maria, infatti, fanno coppia. Nei giorni feriali lei bada alla casa, lava, stira e ricama. Ma sa anche di latino e di poesia e (magari solo «nelle feste») vorrebbe dedicare a ben altro il suo tempo: «Caro Giovannino Le trine, ahimè! le calze e tutto quanto opra è di donna, il far continuamente m’annoia e m’addolora tanto tanto. Farle però vorrei, ma similmente vorrei scrivere, leggere e studiare per dar respiro all’inquieta mente.»
di un altro la sua propria autobiografia, compone un grande romanzo familiare dell’Ottocento italiano. Sarà pubblicato nel 1961 con il titolo «Lungo la vita di Giovanni Pascoli». Anche Laura scrive, mentre Angiolo, dopo le leggi razziali, spegne la sua intelligenza. Laura scrive la storia del marito in tono leggero, quasi fiabesco. Il libro verrà pubblicato solo nel 2001 con il titolo «Storia di Angiolo e Laura». Il nome dell’autrice dopo quello del marito. «Le donne letterate – dice Mazzucco - hanno sempre bisogno di farsi perdonare».
21 25 FEBBRAIO 2017
Spiriti di
materia
di Vera Linder
Vera Linder nasce nel marzo 1992 e vive a Milano fino all’età di 5 anni. Frequenta le scuole elementari in Austria e si diploma al liceo classico a Venezia. Nell’estate 2015 partecipa a un corso di scrittura creativa presso la Naropa University, in Colorado. Una brezza invade l’incrocio delle possibilità. D’improvviso quello scrivere di persone solo perché non scivolino nell’oblio, quel diario di memoria, quella ricerca infinita nelle lettere riacquistano il loro Vero senso insensato. Nell’estate 2016 torna alla Naropa University. Attualmente sta terminando i suoi studi di Giurisprudenza a Trento. Ancora non è chiaro se dovrà accantonare il suo progetto di una tesi giuridica scritta in versi. Certo è che a giugno tornerà alla Naropa.
22 25 FEBBRAIO 2017
Prende corpo prende forma prende spazio prende me un bisturi arrugginito ha diviso atomi che non sapevo di avere. È stata una mutilazione senza anestesia. Offro il ricordo di una nebbiosa sera invernale di tante me fa offro la sensazione del velluto l’eccitazione sotto pelle la speranza di un poi, realizzato tutto questo, in cambio rivoglio un braccio. Offro le diapositive cerebrali dei divani perduti Architettura contemporanea, in Toscana si quelli un po’ scuciti degli ostelli apre la sfida. Prende ufficialmente il via la quello proibito -in origineI edizione del Premio di Architettura della fido custode silenzioso Toscana (PAT) organizzato da Consiglio Ree tutti quelli che le mie gambe gionale della Toscana, Ordine degli Archihanno solo accarezzato tetti di Firenze, Federazione degli Architetti tutti quelli che mi hanno sdraiata della Toscana, Ordine degli Architetti di e in cambio tagliatemi Pisa, Fondazione Architetti Firenze e Ance ridatemi Toscana. Il bando è già reperibile online sul una coscia dalle mie gambe. sito www.premio-architettura-toscana.it. Le Offro la sensazione iscrizioni vere e proprie si apriranno alle ore delle papille gustative, visive 12 di lunedì 6 marzo per chiudersi alle ore rammemorative 24 di venerdì 14 aprile. che ci hanno resi Il Premio nasce con l’obiettivo di stimolare la archivi poi trascurati, impolverati riflessione intorno all’architettura contempoe in cambio ranea protagonista delle trasformazioni del un camion da traslochi territorio e per diffondere la cultura del proper asfaltare la memoria. getto come garanzia di qualità ambientale e Offro l’esperienza civile. incollata come i chilometri Il PAT è rivolto alle opere ultimate in Toa suole di scarpe e in cambio scana nei cinque anni precedenti alla data almeno un piede di pubblicazione del bando, tra il 2012 e il per risalire la collina di scale 2017. Possono essere candidate al Premio censurare l’inutilità opere realizzate da singoli architetti o in recuperare l’organo vitale. gruppo, da dipendenti pubblici e privati. A presentare la candidatura possono essere sia Il corpo ancora il progettista che la committenza ma anche non è tornato ma l’impresa che ha eseguito i lavori. i san pietrini d’un tratto Il Premio si articola in cinque differenti casi son fatti nuvole tegorie: opera prima; opera di nuova costruquando un sorriso zione; opera di restauro o recupero; opera per strada di allestimento o di interni; opera su spazi m’è cascato tra i piedi. pubblici, paesaggio e rigenerazione. I partecipanti possono candidare una sola opera per Sembrerebbe ben impigliato ciascuna categoria. Al vincitore della categoabbastanza aggrovigliato ria opera prima sarà assegnato un premio agtra trillice e illice. giuntivo in denaro pari a 5.000 euro. A valutare le opere candidate al PAT sarà una giuria nominata dal Comitato organizzatore, composta da un critico o storico dell’architettura, tre progettisti e un sociologo: Prof. Arch. Luca Molinari, Arch. Simone Sfriso, Arch. João Luís Carrilho da Graça, Arch. Sandy Attia, Prof. Guido Borelli.
Al via la prima edizione del Premio regionale di architettura
Ristorante caffetteria
La Loggia
Corposo, fruttato, fermo, liquoroso, velato, morbido, viscoso, elegante, effervescente, a tratti persistente: sulle nostre tavole ce ne sono di ogni tipologia e colore. Parliamo del vino, re indiscusso di ogni pasto, ottimo alle-
La Loggia vi aspetta tutti i giorni al piazzale Michelangelo, 1 Firenze. +39 055 2342832 www.ristorantelaloggia.it ato delle papille gustative e indefesso stimolatore dei sapori e del gusto. Ogni pietanza elegge il suo. La carne, ad esempio, si sposa benissimo con il Chianti o il Brunello. E il nostro partner vinicolo, Castello Banfi, è
premio letterario
maestro nella preparazione di questa antica bevanda, un nettare degli Dei creato al tempo dell’Olimpo e arrivato ai giorni nostri. Castello Banfi, inaugurato nel 1984, è un produttore vinicolo diventato ormai sinonimo di qualità nel mondo, con un vino prestigioso e indissolubilmente legato alla sua terra d’origine, Montalcino. Il Chianti non ha neppure bisogno di presentazione. La sua prima apparizione, nell’ omonima area della Toscana, risale addirittura al 1398. È nel cuore di questa terra, a Castellina in Chianti, che Banfi gestisce quaranta ettari di vigneto specializzato e realizza un vino strutturato, elegante e con una spiccata caratterizzazione toscana. Lo stesso che noi utilizziamo anche nella cottura dei piatti più raffinati. Il vino è sacro e noi de La Loggia offriamo ai nostri clienti solo vini pregiati, selezionati dai vitigni della migliore qualità e prodotti attraverso processi ecologici. Lasciatevi inebriare dal profumo della nostra cucina e dai nostri vini, e regalatevi un attimo di beatitudine, proprio come gli Antichi e mitologici Dei dell’Olimpo.
Maschietto Editore
PRIMA EDIZIONE 2017 È bandita la prima edizione del concorso «Racconti Commestibili», la sfida letteraria lanciata da Cultura Commestibile e Maschietto Editore, in collaborazione con il Ristorante Caffetteria La Loggia. Il concorso è dedicato al tema del cibo, inteso in tutti i sensi letterali e figurati. Può partecipare chiunque, senza limiti di nazionalità e di età, inviando un solo racconto della lunghezza massima di 5000 battute entro il 15 aprile 2017 all’indirizzo email redazione@maschiettoeditore.com. La partecipazione è gratuita. La valutazione e selezione degli elaborati sarà affidata a due giurie: la prima, formata da redattori interni alla casa editrice e della rivista, individuerà la rosa dei 10 testi finalisti, La giuria tecnica, composta da Marco Vichi (scrittore), Francesco Mencacci (direttore della scuola Carver di scrittura creativa), Sandra Salvato (giornalista), selezionerà i tre racconti vincitori che saranno pubblicati sulle pagine di Cultura Commestibile. Al primo classificato sarà offerta una cena per due persone al Ristorante Caffetteria La Loggia. Il regolamento completo è scaricabile dal sito www.maschiettoeditore.com.
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Maschietto editore
Albania Architettura e città Attraverso una serie di volumi Maschietto Editore ha dedicato una particolare attenzione all’esplorazione dell’architettura, della storia e della cultura dei Balcani, dei Paesi del Levante e del Magreb affacciati sul Mediterraneo: un percorso che si articola tra temi di architettura, urbanistica, arte, paesaggio, scambi culturali internazionali che vedono spesso al centro l’Italia. Un’attenzione particolare è rivolta all’Albania e alla città di Tirana. Lo sviluppo industriale, l’affermarsi del capitalismo, l’evoluzione e la crescita delle aree periferiche, la diffusione infrastrutturale, il rapporto tra percezione estetica e intervento politico e sociale: queste tematiche sono state analizzate sotto diversi punti di vista, grazie agli interventi di studiosi e artisti nazionali e internazionali. Ne emerge il ritratto di un territorio vitale, affascinante e in continua evoluzione. Maria Adriana Giusti, Albania. Architettura e città 1925-1943 Maschietto Editore, 2007.
www.maschiettoeditore.com