Numero
4 marzo 2017
274
207
ÂŤNoi non siamo una superpotenza militare o industriale. Noi siamo la superpotenza della cultura della bellezza e del gustoÂť
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Bellezza atomica Angelino Alfano
Maschietto Editore
NY City, Agosto 1969
La prima
immagine Il ragazzo Sono il ragazzo che vive nel Ghetto, pieno di problemi e senza spazi per correre. Sono il ragazzo senza speranza, Sono il ragazzo della porta accanto, con il padre ubriaco e la madre puttana. Sono il ragazzo dalla vita dura. Sono il ragazzo che dipende dal coltello a molla. Sono il ragazzo che deve sfruttare la prima occasione, perchĂŠ i bianchi non mi lasciano fare quello che vorrei. Sono il ragazzo che deve premere il grilletto. Sono il ragazzo che i bianchi chiamano ÂŤil negraccioÂť. Jose Dernier
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
4 marzo 2017
274
207
Riunione di famiglia Berlusconi e il Silvio Le Sorelle Marx
Camera con vista Lo Zio di Trotzky
Questione di decoro I Cugini Engels
premio letterario
Mandate i vostri racconti
PRIMA EDIZIONE 2017 redazione@maschiettoeditore.com
In questo numero 7 nuovi pianeti di Ruggero Stanga
Dislessico nelle gambe di Giovanni Zorn
Gli struzzi racconto di Carlo Cuppini
Fussel di Claudio Cosma
Omaggio catalano di Alessandro Michelucci
Ciao Italia di Simonetta Zanuccoli
Carnevale di Mariangela Arvanas
The hidden figures di Ilaria Sabbatini
Balkan express festival di Cristina Pucci
Il signor Smithsonian di Simone Siliani
Il vademecum di Elisa di Laura Monaldi
Piante ogm: queste sconosciute di Paolo Marini
Fotografi italiani d’America di Danilo Cecchi
e Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Susanna Cressati, Paolo della Bella, Vera Linder, Sara Nocentini, Monica Innocenti, Sergio Favilli
Direttore Simone Siliani
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111 redazione@maschiettoeditore.com www.maschiettoeditore.com Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
SCavez zacollo
disegno di Massimo Cavezzali
Progetto Grafico Emiliano Bacci
redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
7 4 4 MARZO 2017
nuovi pianeti di Ruggero Stanga Piccole diminuzioni di intensità, qualche centesimo, hanno tradito la presenza di 7 piccoli pianeti intorno a una poco significativa stellina della nostra galassia. Relativamente vicina, solo 39 anni luce. L’analisi della luce che manda ci fa sapere che si tratta di una stella piccola, meno di un decimo della massa del Sole, appena sufficiente a innescare nella sua regione centrale le reazioni di fusione nucleare che danno origine all’energia che poi essa irraggia, e che quindi fanno di una sfera di fluido una vera stella. La nostra linea di vista sta nel piano in cui si muovono i pianeti, che quindi periodicamente ci appaiono passare davanti alla stella. Ecco, in quell’avverbio: «periodicamente» sta buona parte del succo della scoperta. Non basta avere visto una diminuzione di intensità del flusso, per decidere che un pianeta ha oscurato parzialmente la vista della superficie della stella: molte sono le cause di una variabilità dell’intensità di quel tipo di stelle, dovute alla loro natura, senza tirare in ballo altri oggetti celesti. Occorre che il fenomeno si ripeta a intervalli regolari, più e più volte. È facile rendersi conto che questa tecnica ci limita a osservare pianeti su orbite con un raggio piccolo, che hanno un periodo breve: per confermare l’esistenza di un pianeta che fosse alla distanza Terra - Sole dalla sua stella occorrerebbero anni! Per di più, osservazioni ripetute di tutti quei pianeti permettono di misurare con una certa accuratezza la massa di tutti gli oggetti in gioco. Sappiamo dunque, che i pianeti hanno una massa simile alla massa della Terra, che hanno periodi di rivoluzione intorno alla stella che stanno fra circa un giorno e mezzo e circa venti giorni; inoltre la diminuzione dell’intensità luminosa della stella ci permette di calcolare il raggio dei pianeti, noto il raggio della stella da quanto sappiamo della fisica delle stelle; e dal rapporto fra massa e volume, calcoliamo la densità dei pianeti: possiamo dire che sono abbastanza densi da essere rocciosi. Di più, il flusso di energia che li illumina è tale da mantenere
almeno tre dei sette a una temperatura tale che se acqua fosse presente, potrebbe essere allo stato liquido. E l’acqua allo stato liquido è uno dei prerequisiti per potere anche solo pensare all’esistenza di forme di vita simili a quelle terrestri sui pianeti. Molto bene: abbiamo scoperto ormai qualche migliaio di pianeti, in sistemi che spesso hanno più di un pianeta. Abbiamo scoperto pianeti a distanze vicine alla Terra e con metodologie diverse (questo metodo dei transiti è uno di quelli possibili) intrinsecamente limitate: i pianeti in realtà esistenti debbono essere infinitamente più numerosi di quelli di cui abbiamo conoscenza. E questo conferma alcuni modelli di formazione di stelle e di formazione del nostro Sistema
Solare. Inoltre, abbiamo anche imparato un po’ di cose sull’evoluzione dei sistemi, per esempio dal conteggio in molti sistemi di pianeti grandi e gassosi, come Giove e Saturno, però molto più vicini alle loro stelle, cosa del tutto inattesa. Bene. Possiamo fare la valigia e partire? È un po’ presto. A parte la durata del viaggio (Arthur Clarke nel romanzo «Rama» pensava ad astronavi abbastanza grandi da poterci coltivare aree estese e da poterci allevare animali, per viaggi destinati a durare parecchie generazioni di astronauti), c’è tutta un’altra serie di domande a cui non abbiamo ancora risposta. Ci può essere acqua liquida. Ma c’è? Un po’ presto per dirlo, occorrono altri dati. Bisogna analizzare la
luce della stella che attraversa l’atmosfera del pianeta, per capire quali gas sono presenti sul pianeta. Ma ci sarà una atmosfera sul pianeta? Stelle come quella che ci interessa possono essere sede di fenomeni del tipo delle tempeste solari, molto più violenti, che portano all’emissione di venti stellari sufficienti a strappare l’atmosfera dal pianeta. Per di più, l’interazione con il campo gravitazionale della stella rende probabile che il pianeta le rivolga sempre la stessa faccia, come la Luna con la Terra: temperature alte su quel lato, molto fredde sull’altro, con generazione possibili di venti molto forti (sempre che l’atmosfera ci sia..). Per dare risposta a queste domande, bisognerà aspettare ancora molti anni, fino a quando entreranno
in funzione i telescopi della classe dei 40m di diametro, con una capacità di raccolta di luce sufficiente all’analisi di dettagli così minuti. Infine, se pensiamo di trovare lassù tanti fratellini verdi: secondo quello che sappiamo dell’evoluzione stellare, dai dati che abbiamo, quella stella è ancora molto giovane, circa 500 milioni di anni, anche se ha davanti a sé una vita ben più lunga di quella che avrà il Sole, cento volte. Bene, 500 milioni di anni dopo la formazione del Sistema Solare, la vita sulla Terra era appena agli albori, con esseri monocellulari molto semplici. Per cui, se la vita lassù esiste, e ha una parentela con quella terrestre, non dobbiamo aspettarci troppo.
5 4 MARZO 2017
Le Sorelle Marx
Berlusconi e il Silvio
Quel diavolo del Berlusca, una ne fa e cento ne pensa. Il vecchio leone, oltre a designare il suo (ennesimo) delfino individuandolo in Luca Zaia, sfodera la sua ricetta economica per l’Italia: «una nuova moneta, dice, per riprenderci la sovranità monetaria». Dopo una cena, elegante ma un po’ pesante, il Berlusca si è rivoltato tutta la notte nel letto partorendo infine l’idea di una nuova moneta interna per i pagamenti dello Stato, mentre per le importazioni e le esportazioni si conservi l’euro! Dettosi assolutamente convinto di questa soluzione, la mattina presto ha telefonato all’(in)fido Tremonti: «Oilà Giulio, vècc barlafüs, come stai? Ho avuto un’idea fantastica! Mandiamo in cül quell’euro lì e ci facciamo un bel dané italico. Così quella culona flaccida della Merkel può farci il barbecue con i suoi euro! E ho
trovato anche un nome fighissimo per la nuova moneta: il Silvio. Eh, che ne dici Giulio?» Tremonti medita un po’, ma poi con la vocina stridula di sempre, rampogna il suo nume tutelare d’un tempo: «Caro presidente, questa mi sembra un’idea un po’ farlocca. Un po’ come pretendere di mangiare con la cultura. Intanto perché arrivi un po’ tardi: Matteo ha già battuto moneta a Ponte di Legno con il suo Salvino. E poi perché non tieni di conto delle variabili di Friedrich A. von Hayek e delle teorie di Smith, Mills e Keynes ...» «Oh Giulietto, mi hai già scocciato. Io mi faccio il mio Silvio e te vai pure a rosicare dai tuoi amichetti Salvini, Meloni e Gasparri, ché con la mia ideona io mi pappo Renzi e Alfano in un sol boccone. Va a ciapa’ i ratt, Facia da cul de can da cacia!»
Lo Zio di Trotzky Camera con vista La bellezza salverà il mondo... e anche il porno. Si sa che l’avvento di internet con il proliferare di siti specializzati ha messo in ginocchio l’industria del cinema porno, allora il principe dell’hard core, al secolo Rocco Siffredi, ha deciso di puntare sulla qualità e la cultura. E quando pronunci questa parola, il pensiero va direttamente, come un riflesso condizionato, a Firenze. Con una sceneggiatura di film da brivido: la storia di uno scrittore fiorentino che ha perso l’ispirazione che la ritroverà grazie alla bellezza di Firenze e di alcune signore della buona società. Ha trovato una location straordinaria in una residenza storica con vista su Ponte Vecchio. E poi ha deciso di curare personalmente
6 4 MARZO 2017
il casting organizzato a metà marzo a Calenzano per selezionare i migliori attori sulla piazza. Decine di aspiranti attori si stanno già iscrivendo, ma pochi sono quelli che hanno già avuto qualche parte – anche solo di comparsa – in altri film; fra questi tale Dario (che si presenta con violino) e un altro Eugenio (con fascia d’ordinanza). Un film destinato a fare scandalo e polemica in città, ma... è tutto PIL, c’importa ‘na pippa!
I Cugini Engels
Questione di decoro Nello Studio Ovale della Casa Bianca è iniziata la guerra del decoro che vede da un lato la signora Kellyanne Conway, consigliera di Trump e colta a spararanzarsi sul divano dello studio ovale per fotografare meglio un incontro del suddetto presidente, e dall’altra Pamela Eyring, presidente della Scuola di Protocollo di Washington che ha stigmatizzato l’atteggiamento un po’ disinibito della Conway. Ma in realtà la consigliera ed ex responsabile della campagna elettorale di Trump si era già distinta per ben più indecorosi discorsi. Come quello di aver affermato che «Donald Trump ha sempre elevato le donne alle più alte sfere». O di aver esclamato stupita che «Non ho mai pensato di essere così stupida e brutta fino a quando non sono apparsi i social media». La Conway è una delle massime ispiratrici della politica del presidente, tanto è vero che ha dichiarato di voler «avere una grande e aperta relazione con la nostra stampa» pochi giorni prima che Trump escludesse la CNN dai breefing settimanali con la stampa. Ma il suo capolavoro del suo decoro è stata l’invenzione del Massacro di Bowling-Green, attraverso cui ha giustificato l’ordine esecutivo con il quale si vietava l’ingresso negli Stati Uniti da sette paesi a maggioranza islamica: il massacro sarebbe avvenuto nel 2011 ad opera di due cittadini iracheni. Peccato che non risulta alcun massacro, giacché nel 2011 furono effettivamente arrestati due cittadini iracheni, Mohanad Shareef Hammadi e Waad Ramadan Alwan, accusati nel 2013 di attività terroristiche contro i militari americani in Iraq avendo tentato l’esportazione di armi verso l’Iraq, ma i due non hanno mai eseguito alcun attentato. Allora il problema non è andare a piedi nudi sul divano, ma a testa vuota nel mondo.
Della Bella gente
Nel migliore dei Lidi possibili
Dichiarazione dei redditi
La torre messicana disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
di Paolo della Bella
Segnali di fumo di Remo Fattorini Scissioni. Separazioni. Divisioni. Guarda caso tutte questioni di genere maschile. Naturalmente di sinistra. Ma di una sinistra malata. Basta ripercorrere, a grosse linee facendo appello alla memoria e con l’aiuto di Google – le vicende dell’ultimo secolo per ricostruire le rotture che hanno fatto sognare e soffrire tante persone. Si parte nel 1921 dal Teatro Goldoni di Livorno, dove si consuma la scissione tra comunisti e socialisti. Segue Palazzo Barberini, Roma 1947, in piena guerra fredda: i socialdemocratici di Saragat scelgono l’om-
brello americano e rompono con i socialisti. Ancora nel 64, a seguito della nascita del primo centrosinistra, nasce il Psiup da una costola del Psi. Psiup che nel ’72 in parte confluirà nel Pci mentre l’ala di Vittorio Foa fonda il Pdup. Senza dimenticare il ’69, con la radiazione dal Pci del gruppo de Il Manifesto. E non è finita. Nel 1991 a Rimini viene scritta la parola fine alla storia del Pci. Dalle sue ceneri nascono due partiti: il Pds guidato da Occhetto e Rifondazione Comunista da Cossutta. Si prosegue. Anche se per qualche anno si viaggia controcorrente. Accade nel 1998 quando il Pds con la scelta dell’inclusione perde la P e si trasforma nei Ds. Poi nel 2007 il parto più difficile: la nascita del Pd con la fusione a freddo tra i Ds e la Margherita. L’idea è bella, il progetto ambizioso ma qualcosa non funziona. Infatti appena 10 anni dopo la malattia torna a manifestarsi. Incomprensioni e rotture portano alla fuoriuscita dal Pd – questa volta a guida renziana - di Civati, Cofferati, Fassina, Mi-
neo, D’Attorre e Galli. E siamo solo all’antipasto. Tanto che oggi alla sinistra del Pd troviamo un arcipelago di movimenti, associazioni e gruppi, ognuno con un proprio simbolo, leader e strategia, spesso inconciliabili. E allora ecco a voi la galassia-rossa 2017: Rifondazione Comunista di Ferrero, Dema di De Magistris, Sinistra Italiana di Fratoianni, Possibile di Civati e ancora Campo Progressista di Pisapia-Boldrini, ConSenso di D’Alema e, ultimi in rampa di lancio, i Democratici e Progressisti di Rossi-Speranza. Una sola annotazione: i protagonisti di queste rotture sono tutti maschi. Mi fa piacere pensare che se ci fossero state le donne al potere tutto questo si sarebbe potuto evitare. Louann Brizendine, dell’Università della California, ha dimostrato che le donne sono più capaci nel selezionare le priorità, hanno modalità diverse di elaborazione del pensiero e sono più capaci a gestire i cambiamenti. Vere maestre nel placare i conflitti. Tutte qualità che gli uomini non hanno. Ahimè.
7 4 MARZO 2017
di Laura Monaldi Il mondo pittorico di Elisa Zadi è inconfondibile e dettato da una particolare espressività capace di mettere in luce l’elemento emotivo al di là dell’immagine rappresentata; è un viaggio intimo nell’essenza del sé volto a cogliere le sfumature dei sensi e le manifestazioni dell’anima; è un’indagine che dalle realtà oggettive del mondo porta lo spettatore nella dimensione isolata e misteriosa dell’introspezione; è il tentativo di fare del gesto artistico un atto creativo che manipola l’immagine con espressionistici giochi di colore fino a cogliere quella spiritualità umana perduta nel tempo. Come in un gioco di specchi, l’artista racconta se stessa attraverso ciò che la tela e gli strumenti del mestiere gli permettono di comunicare, avvolta nella meditazione e nello slancio intuitivo della contemplazione. Nel suo percorso Elisa Zadi si è fatta pittrice e perfomer, unendo all’aulica tecnica pittorica il vitalismo scenografico ed eclettico della teatralità estetica, donando al mondo l’irripetibile possibilità di immergersi nei turbamenti umani, in una catarsi d’eccezione che da sguardo a sguardo purifica dal consueto modo di sentire e percepire l’esistenza circostante. Con «Vademecum. Pittura come ricerca del sé», in mostra al Borghetto di Bagnolo (Montemurlo-Prato) fino al 12 marzo, l’artista ha curato nei minimi dettagli una propria sintesi antologica: opere famose e inediti interagiscono nello spazio espositivo per far scoprire al pubblico il proprio modus operandi e il personalissimo universo che domina la vita intensa di un’artista alla continua ricerca del vero senso del sé. «Vademecum» è un viaggio poetico e filosofico nel quale scoprire e riscoprire come l’Arte e la Vita siano la doppia faccia della stessa medaglia e come Elisa Zadi riesca in modo
8 4 MARZO 2017
Il vademecum di Elisa Pittura come ricerca di sé
concreto e tangibile a fare della pittura come un’analisi cosciente delle infinite possibilità che la psiche può generare. Come scrive il critico e curatore Marco Palamidessi «Elisa cerca instancabilmente se stessa per ritrovarsi, per conoscersi, per capirsi e sapersi viva nel mondo, al centro del privato quotidiano, rincorrendosi costantemente all’interno delle sue opere come immagine da reiterarsi all’infinito, in ogni sfumatura, in ogni cambiamento lieve o sostanziale, per affermare inderogabilmente il proprio Io, per sapere fino in fondo cosa sta succedendo intorno e dentro di sé», poiché quello dell’artista è un temperamento lirico senza tempo né limiti, che con ardore muove i fili della creazione, dalle pulsioni interiori fino alla realizzazione di un’immagine che fa del volto, del corpo, dell’oggetto e del vestito un salto cognitivo nel mistero dell’Io e dell’inconscio.
di Alessandro Michelucci Joan Manuel Serrat, nato a Barcellona nel 1943, è uno dei principali cantautori catalani contemporanei. La sua parabola artistica inizia attorno alla metà degli anni Sessanta e arriva fino ai nostri giorni. In questo mezzo secolo il musicista ha conosciuto il grande successo, ma anche la dittatura franchista (1939-1975). Il fatto che Serrat, insieme a Lluis Llach e molti altri, rivendicasse un’identità culturale distinta da quella castigliana rendeva ancora più dura la repressione operata dal regime. In Italia il suo nome può suonare nuovo ai più giovani, ma chi ha superato il mezzo secolo dovrebbe ricordare l’attenzione che alcuni dei nostri cantanti gli hanno dedicato in anni ormai lontani. La prima fu Mina, che nel 1969 ha ripreso «La tieta» trasformandola in «Bugiardo e incosciente» grazie al testo di Paolo Limiti. Alcuni anni dopo Gino Paoli ha realizzato un intero LP (I semafori rossi non sono Dio, 1974) con dodici canzoni del cantautore catalano tradotte in italiano. Attivo dal 1965, Serrat è influenzato inizialmente da cantautori francesi come Brel e Ferré. Ma presto la sua musica assume una fisionomia propria, fatta di cose semplici ma non banali: l’amore, la madre, la natura, l’adolescenza, l’universo femminile. La sua discografia è sconfinata. Spiccano opere come Dedicado a Antonio Machado (1969), omaggio al poeta antifranchista, Mediterráneo (1971) e Serrat sinfónico (2003). Ma forse il disco migliore per conoscerlo la Antologia
Da sinistra: Serrat, Mas e Miralles
Omaggio catalano desordenada che ha pubblicato nel 2014. Nonostante il richiamo all’identità culturale catalana, buona parte dei dischi realizzati da Serrat sono cantati in castigliano. Questo spiega perché il suo successo non sia limitato alla regione d’origine, ma tocchi anche l’intero mondo ispanofono, da Madrid ai paesi dell’America latina. Innumerevoli anche le collaborazioni e i contatti con gli altri musicisti. L’omaggio più recente che sia stato dedicato a Serrat è quello di due pianisti catalani, Josep Mas (noto anche come Kitflus) e Ricard Miralles. Il CD, Serrat sense Serrat (Picap, 2016), è tratto da un concerto che i due hanno tenuto a Barcellona nel 2014. I due pianisti vantano una lunga collaborazio-
ne con Serrat, sia in sala d’incisione che dal vivo. Mas ha suonato a lungo con Pegasus, un gruppo di rock-jazz attivo fra gli anni Ottanta e Novanta. Ricard Miralles, jazzista affermato, è stato allievo e amico di Tete Montoliu, pianista catalano di fama mondiale. È stato proprio lui il primo a dedicare un omaggio discografico al cantautore (Tete Montoliu interpreta a Serrat, 1969, vedi n. 112). Val la pena di notare che all’epoca Serrat era attivo da pochi anni. Serrat sense Serrat contiene 14 canzoni che abbracciano la lunga carriera del musicista barcelloneta. Concepito e suonato col cuore, omaggio sincero a un amico, il disco conferma ancora una volta il legame intenso che esiste fra il jazz e la canzone d’autore.
Foto di
Pasquale Comegna
Il sole basso all’orizzonte 9 4 MARZO 2017
Il mondo
senza
gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni
di Carlo Cuppini Gli struzzi colpivano alla cieca, con beccate violente, lasciando crateri profondi sul cuoio capelluto dei profughi. Dietro gli struzzi, dall’alto delle groppe degli elefanti, i gendarmi in assetto da guerra manovravano lunghi rampini telescopici, bastoni uncinati con cui a loro volta colpivano, arpionavano le nuche e i capelli degli uomini, delle donne e dei bambini che si assiepavano premendo contro la barriera eretta lungo il confine. «Tornatevene alla vostra miseria!» gridavano i militari, e arpionavano. «Guardatevi da questi becchi, disgraziati!» facevano eco gli struzzi, e colpivano. «Lasciateci passare!» gridavano i profughi, e incassavano. I pachidermi tacevano. A volte qualcuno riusciva a farsi largo tra i rotoli di filo spinato, lasciandoci appese strisce di pelle variopinta. Sanguinante, con la speranza di raggiungere la boscaglia retrostante, correva in mezzo agli struzzi schivando i colpi, si infilava tra le gambe degli elefanti abbassando la testa. Ma in genere un rampino lo raggiungeva, gli agganciava il colletto della camicia, con slancio lo sollevava da terra e lo sbalzava oltre il reticolato, dove i suoi compagni di sorte lo rimettevano i piedi. «Tornate indietro, qui non c’è parmigiano per tutti! Non ce n’è punto per voi!» gridavano i gendarmi coi megafoni. «Sì, ma il parmigiano lo fate col latte delle nostre vacche!» «Questo non è l’Eldorado! Risolvete i vostri problemi a casa vostra invece di portare guai anche qui, smidollati!» E giù colpi, raspi, graffi, lanci per aria. La gente premeva, sfondava, correva, volava, ricadeva. Gli struzzi colpivano seccamente, con stolida regolarità. Gli elefanti invece, bestie sensibili, davano segno di nervosismo. Tutt’a un tratto uno di taglia modesta s’imbizzarrì e iniziò a scalciare. Gli altri subito gli andarono dietro. Era tutto un impen-
10 4 MARZO 2017
Gli struzzi
narsi, barrire, sbattere di proboscidi, calpestare a casaccio. Nel giro di pochi minuti molti struzzi restarono schiacciati, troppo intenti a svolgere con solerzia il loro compito per pensare che fosse opportuno togliersi di mezzo. I militari non riuscivano a riportare l’ordine. Picchiavano gli elefanti con i rampini ottenendo però il risultato opposto, promettevano alle bestie derrate di caramelle alla fragola, sussurravano parole dolci nelle loro grandi orecchie. Ma non c’era verso di farli tornare nei ranghi. Il panico passava di proboscide in proboscide e all’improvviso qualcosa serpeggiò tra i pachidermi: un’idea balzana, un impulso elettrico, come un segnale che in istante si propagò. Tutti insieme si misero a correre in direzione del reticolato, radendolo al suolo, e in pochi secondi sparirono dietro l’orizzonte. Gli struzzi finora scampati al calpestio, ancora intenti a beccare, restarono spiaccicati. I profughi si scansarono, se la diedero a gambe sparpagliandosi in ogni direzione. La distesa fu presto deserta: non c’era più traccia di confine, di gendarmi, di profughi, struzzi o elefanti. Un unico struzzo superstite si guardava intorno stupito, stupefatto, istupidito. Girava di scatto la testa di qua e di là, domandandosi se fosse per caso successo qualcosa. L’eco dello spazio vuoto rimbombava dentro il suo cranio vuoto, lasciando inevitabilmente la domanda senza risposta. Inquieto, sovrappensiero, tormentato da un’incognita più grande di lui, lo struzzo raccolse da terra un rampino e prese a grattarsi il capo, distrattamente, nel tentativo vano di riuscire a concentrarsi per capirci qualcosa. Andò avanti con metodo, con insistenza, con movimenti regolari come era solito fare, finché, consumato del tutto l’osso sottile del cranio, l’anima esile ne fuoriuscì e si disperse nell’aria, e l’uccello crollò.
di Mariangela Arnavas Come molti della mia generazione ho provato nel corso del tempo verso il Carnevale un misto di indifferenza e irritazione, soprattutto fastidio per l’allegria forzata, la ridondanza della cartapesta, l’invasione del posticcio e la mancanza di vero umorismo. Naturalmente fanno eccezione gli anni dell’infanzia, quando la maschera nasceva dall’immagine fantastica della donna che avrei voluto diventare. Tra l’altro, negli anni cinquanta, almeno dalle mie parti, i vestiti si facevano soprattutto in casa: veniva per una settimana a stare da noi una zia di mia madre, «sarta a giornata», che, con l’aiuto delle donne di casa, mia madre, mia nonna e qualche zia che si aggregava, tagliava e cuciva gli abiti per tutta la famiglia. Il salotto diventava laboratorio di sartoria e chiacchierando si confezionavano i vestiti per tutta la famiglia, dai grembiuli per me ai completi per mio padre, i taillleur per la mamma e il cappotto per la nonna; così la zia che non si era mai sposata e non aveva figli, girando tra le case dei parenti, passava il tempo in famiglia e contribuiva all’economia domestica. Questo valeva anche per i miei costumi di carnevale: nascevano come immagini nella mia mente, poi veniva la ricerca dei modelli sulle riviste e dopo la scelta e l’acquisto delle stoffe, non i lussi da Carnevale di Venezia ma nemmeno il nylon e cartone di adesso, roba buona, che doveva durare perché, con qualche aggiustamento, il costume andava mantenuto per diversi carnevali, finché la crescita e lo sviluppo lo consentivano. In effetti, in tutta l’infanzia, a pensarci bene, ne ho avuti solo due ma, usciti dalle mani delle donne di famiglia, per la cura e l’affetto con cui venivano confezionati, erano davvero quanto di più vicino alle mie fantasie si potesse immaginare. Poi, nei periodi successivi o il Carnevale veniva ignorato da me e dai miei amici o, più tardi, era solo un obbligo per far divertire i figli, certo assecondandone le fantasie, ma senza la preparazione e lo studio dei tempi della mia infanzia. In effetti, sembra che il Carnevale fosse in origine una festa legata alla liberatoria celebrazione della fine dell’inverno, una specie di sfida, anche di colori, alla stagione ancora presente e spesso rigida in febbraio. Sembra che il Carnevale sia in qualche modo una derivazione degli antichi Saturnalia, non a caso Saturno o Crono era il dio del tempo e dell’agricoltura e quindi legato ai rituali di passaggio delle stagioni nonché patrono del libero arbitrio; i Saturnalia avevano in sé anche un significato di trasgressione delle divisioni sociali: era una
Carnevale
festa alla quale potevano partecipare a Roma anche gli schiavi, che talora venivano serviti dai padroni, in un simbolico scambio. Un po’ di questo spirito il Carnevale, nei secoli , lo ha mantenuto, non foss’altro perché la maschera, celando l’identità, consentiva libertà di movimento e trasgressione delle regole sociali. Di tutto ciò non è rimasta quasi traccia nei carnevali odierni; il cinismo e il cattivo gusto di quella rappresentazione in maschera delle due nomadi ingabbiate dai dipendenti Liedl, anche se episodio limitato, è un segno simbolico dell’involuzione antropologica in atto. Nei giorni scorsi però sono capitata a Barcellona, scoprendo solo dopo che era ancora Carnevale, ma devo dire che la città riserva, come spesso già mi è capitato di notare, diverse piacevoli sorprese: niente cartapesta, ma solo tappeti di coriandoli per le strade del centro e sulla rambla, dalle finestre aperte dei palazzi
piccole feste e poi, in mezzo alla gente, senza imbarazzo ma neppure ostentazione piccoli gruppi di maschere che si notavano solo per la fantasia dei costumi oppure anche soltanto parrucche colorate sulle teste di eleganti, giovani signore, qualche tocco d’oro o di rosa, così, semplicemente e in libertà, come a dire, «oggi avevo voglia di travestirmi o di mettermi dei colori in testa perché l’inverno deve pur finire o comunque solo per il gusto di farlo». Quasi mi era venuta voglia di provare di persona a passeggiare con una parrucca d’argento in testa o magari blu, mescolandomi tra la gente. Non so, forse sarà lo spirito fondamentalmente anarchico della Catalogna o la lunghissima dittatura fascista che ha oppresso il popolo spagnolo, ma a Barcellona si respira il gusto della libertà e della diversità nell’uguaglianza che nei nostri carnevali, secondo me, è andato perduto. Da riscoprire.
11 4 MARZO 2017
di Cristina Pucci Quinta Edizione del Balkan Florence Express e prima al Teatro della Compagnia, risorto ospite dei Festival Internazionali, stimolanti primizie culturali che propongono selezionati e bellissimi film, provenienti da varie parti del mondo, che mai potremmo vedere altrimenti con la distribuzione «normale». Ho visto un film molto bello, la regista serba, Mirjana Karanovic, già protagonista dell’altrettanto bello «Il segreto di Ezma», Orso d’oro 2006, ne è anche interprete ed è davvero molto brava. Applaudito al Sundance Festival, ha vinto il premio lungometraggi al Trieste Film Festival 2017, con cui il Balkan quest’anno collabora. «A good wife» si intitola, ed in effetti Milena, la protagonista, appare una moglie devota e una madre impagabile, affettuosa, efficiente, sollecita verso i suoi figli cui prospetta colazioni, torte e marmellate e di cui tollera veloci apparizioni, scarsa responsività e magliette da lavare. I figli sono spesso così, le madri anche, preparano torte e marmellate e soffrono le distanze. Ama il grande e grosso marito, anch’egli la ama e la tratta con rispetto e attenzione.. Hanno amici che frequentano piacevolmente, per lo più... Con garbo affiorano piccole crepe. Una figlia vive a Belgrado, il padre l’ha ripudiata in quanto rea di una pubblicazione «contro la sua Patria». Periferiche allusioni e riferimenti alla recente guerra, in Tv il marito guarda programmi in cui si parla della necessità di individuare i criminali di guerra e brontola, «prima quando avevano bisogno ci volevano....ora ci infamano». Sempre presente in Tv e in prima linea come ricercatrice di criminali di guerra una donna che Milena, per caso, vedrà entrare in Ufficio a Belgrado. Uno degli amici, alcolista e sgangherato, ripete spesso al marito di Milena «tranquillo non racconterò mai nulla....» Riordinando un casotto in giardino trova abiti militari del marito e una videocassetta che, oltre a scene di famiglia, conserva riprese della guerra... Non riesce a guardarla tutta la prima volta, vi compaiono giovanissimi prigionieri legati e il marito che raccomanda a qualcuno di riprendere tutto. Uno del gruppo di amici del marito viene assassinato in un Bar, Milena vede la moglie buttare via divisa e stivali militari uguali a quelli che ha trovato nel casotto... La vedova poi le rivela quanto tutti avessero paura di lui più che rispettarlo e che la picchiava. A Milena viene diagnosticato un tumore al seno, lei resiste, resiste, vuo-
12 4 MARZO 2017
Balkan Express Festival
le dimenticarsene, non vuole occuparsene. Assiste dalla finestra a una scenata dell’ubriacone che parla al marito ancora di cose vissute insieme e che non dirà, questo resta calmo, ma una volta in casa perde il controllo e si lascia andare a una serie di urli terribili e minacciosi. La moglie dell’ubriacone chiede a Milena di riferire al marito un messaggio rassicurante, e le chiede quasi pietà. L’ubriacone muore in un «incidente» stradale. È ora di affrontare il tumore e la videocassetta: le asporteranno un seno, poi l’altro, nella cassetta i ragazzi vengono uccisi, il marito spara e continua a chiedere che le scene vengano riprese. Disperata Milena va dalla figlia a Belgrado le dice della malattia e di quanto sia fiera di lei, disperata picchia il marito «come farò senza te....» Poi va, con la cassetta, dalla cacciatrice di criminali di guerra. Ogni male mortifero che sta sotto la nostra pelle o sotto la coltre dell’oblio va affrontato. La regista, in sala, ci racconta che da quando aveva sentito parlare del gruppo di combattenti, denominato «gli scorpioni», che riprendevano efferate esecuzioni e violenze non aveva avuto pace fino a che non lo aveva raccontato. Donne: brave, coraggiose, consapevoli, lucide. Per l’8 Marzo. Ve l’ho raccontato, non credo che lo potrete vedere.
di Giovanni Zorn Non capisco esattamente come funziona il mio corpo, ma so che da quando sono in grado di ricordare ho avuto difficoltà a stare fermo, soprattutto in ambienti chiusi; ricordo come un incubo le giornate invernali a scuola, il corridoio era il massimo spazio di movimento che avevo a disposizione per i pochi minuti di ricreazione. Un disagio che posso descrivere come senso di costrizione, di compressione. Vivere in una casa colonica ai piedi di Monte Morello mi ha aiutato. Ricordo che questo disagio, come i sensi di rabbia o di ingiustizia, riuscivo a sfogarli solo fisicamente, correndo disordinatamente nei campi e nei boschi. Crescendo ho incanalato questa energia nello sport e ne ho sempre ricavato un grande equilibrio. Ma è solo da quando ho deciso di vivere la corsa nei grandi spazi aperti, sui sentieri di alta montagna che ne ho ricavato come una sintonia sempre maggiore che mi ha portato a non essere più in grado di scindere il gesto sportivo dal contesto in cui lo svolgo. Ed è così anche adesso, sui sentieri della GTE, Grande Traversata Elbana, il cammino che percorre la dorsale principale dell’Elba, da Cavo a Pomonte. Non riesco nemmeno a contare quante volte ormai ho corso questi sentieri, ma è solo la terza volta che affronto l’intero percorso in una sola tappa, ed è diverso. Attraversare l’Isola tutto d’un fiato da quasi la sensazione di possederla, di entrare a farne parte. Congiungere con i passi l’Oriente con l’Occidente, la sicurezza del continente con la libertà, un po’ audace, del mare aperto verso la Corsica, nel mezzo lasciarsi assorbire da un territorio in cui gli elementi si incontrano. Immergersi nei paesaggi, colori, odori; passare dalle rocce rosse delle zone minerarie ai graniti compatti del Capanne, dalle leccete alla macchia mediterranea, dalle praterie dominate dal profumo di elicriso ai boschi di montagna, lanciare lo sguardo dove la terra incontra il mare, dove il mare si confonde con il cielo e forse c’è poca differenza. Ogni volta mi sorprendo di continuare a sorprendermi, parto sapendo cosa mi aspetta, ma quando lo vivo scopro che in realtà non lo sapevo. A volte l’emozione è così intensa che sento la necessità di rendere omaggio alla natura che mi ospita, di ringraziare un Dio cui non credo, ed allora, correndo, alzo un braccio e faccio un piccolo gesto verso l’alto, oppure poggio la mano a palmo pieno su un masso, una corteccia oppure accarezzo un cespuglio o la affondo in un morbido
Dislessico nelle gambe
muschio. Questa volta c’è anche l’agonismo a pulsare nelle mie vene, sono qui per fare il mio miglior tempo sui circa 51 km ,con 2800 metri di dislivello positivo, del percorso. Si tratta di una sfida indiretta col grande trail runner Filippo Canetta, atleta milanese che tre anni fa percorse questo tracciato in un tempo molto inferiore al mio. Un record che, all’epoca, giudicavo talmente inattaccabile da farmi ritenere la questione definitivamente chiusa. Trascorsi tre anni qualcosa è cambiato; ho fatto tanti chilometri, gare, allenamenti, crinali, salite e discese. È cresciuta la mia esperienza e il mio allenamento. Pur consapevole dell’oltre quarto d’ora che mi separa dal record, 10 minuti, forse qualcosa in più, li posso guadagnare. Avanzerà allora solo il tempo che mi differenzia, inevitabilmente, da un campione di questo sport, pochi minuti comunque. I miei desideri sono specializzati nel trovare anfratti in cui insinuarsi per alimentare e far crescere sogni. Così, nonostante la ragionevolezza dicesse che non era un obiettivo raggiungibile, mi sono trovato a cercare di raggiungerlo. Mi ripetevo che mettermi alla prova era l’unico modo per vedere dove stava il mio limite. Ho studiato ancora il percorso, ho cercato di migliorare qualità atletiche e tecniche che mi potevano aiutare ad affrontarlo e pensato la strategia ottimale per gestire la corsa. Il racconto della mia fatica in due prossime puntate.
13 4 MARZO 2017
di Simone Siliani Più o meno nelle stesse ore in cui il 45° presidente degli Stati Uniti d’America pronunciava il suo primo discorso al Congresso, definito «normalmente di destra» da Michele Serra («la Repubblica») ma che ad esempio Jeff Shesol che scriveva i discorsi per Bill Clinton, sul New Yorker del 1°marzo 2017, ha ben spiegato come normale non fosse affatto quanto meno per la contraddittorietà totale con le altre dichiarazioni del presidente nei giorni precedenti, mi è capitato fra le mani un testo di un grande americano, uno che sta agli antipodi di Trump. Si tratta di David Skorton il 13° Segretario generale degli Smithsonian, uno che sovrintende a 19 musei, 20 biblioteche, lo zoo nazionale e molti centri di ricerca fra i quali l’osservatorio astrofisico, l’istituto di ricerche tropicali e il centro di ricerche sull’ambiente. Insomma, uno che vive immerso nella cultura e gestisce fra i maggiori attrattori di visitatori della Capitale, che significa un budget annuale di 1,3 miliardi di dollari, 6.500 dipendenti e 6.300 volontari. Tuttavia, non cita una sola volta nel suo splendido testo pubblicato sul blog http://labs.aam-us.org il termine turismo o il paragone fra petrolio e cultura. Al contrario, parlando della «pacifica transizione di potere» con l’insediamento del nuovo presidente, che si stava svolgendo a poche centinaia di metri dal National Mall dove sono stati costruiti i «suoi» musei, ha definito gli Smithsonian un simbolo della democrazia americana, «fondata e continuamente rinnovata da cittadini informati». Una democrazia, tuttavia, attraversata da di Sergio Favilli Il significato della parola «presa», come ben tutti sanno, può assumere intenti diversi a seconda dell’uso e delle situazioni più svariate. Il più comune è quello di «presa di corrente», in uso da circa 150 anni e recentemente adottata da Massimo D’Alema nei confronti della «corrente» di scissionisti dal Partito Democratico, presa e letteralmente portata fuori da PD. Poi c’è il termine «presa del potere» ben simboleggiato dalla carriera politico-militare di Napoleone Bonaparte; anche questa variabile è stata nuovamente riportata in auge da Matteo Renzi con la sua repentina scalata al comando dello stesso Partito Democratico. Appartiene, invece, ad una antica tradizione la famosa «presa di coscienza», quello stesso fenomeno accampato come scusa da svariati parlamentari del succi-
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Il signor Smithsonian
profonde divisioni, fondate su motivi partitici, sulle sfide economiche e su profonde convinzioni culturali. Tutte però accomunate da una crescente mancanza di fiducia nelle istituzioni, dal governo, alle organizzazioni religiose, fino ai media. «E questa perdita di fiducia porta ad una perdita di fiducia nelle informazioni di cui abbiamo bisogno come cittadini per formarci opinioni fondate e compiere decisioni critiche». È per invertire questa tendenza che abbiamo bisogno di luoghi come quelli che gestisce Skorton, luoghi in cui «possiamo discutere rispettosamente, dissentire e dibattere – in altre parole, parlare con e non uno all’altro». Ecco, musei, biblioteche, centri di ricerca sono dei luoghi essenziali per la vitalità della democrazia. I musei per Skorton sono dei dinamici centri didattici che usano gli oggetti che conservano per impegnare, insegnare e
Piccola storia della presa tato PD per votare contro decisioni prese a stragrande maggioranza solo per il gusto di apparire più radicali, o meglio, per apparire e basta. C’è anche la doppia presa recentemente rivalutata da Emiliano il quale in «presa diretta» ha assunto prima una «presa di posizione» a favore della fuoriuscita da PD, poi si è corretto con una nuova «presa di posizione» a favore della permanenza nel PD per
ispirare le persone; perché i cittadini americani «imparino, si ispirino e si sollevino». I musei Smithsonian «operano per favorire un significativo dialogo su ciò che è importante per le comunità e per il paese». Le ricerche che si compiono negli Smithsonian toccano temi controversi e Skorton cita non a caso quelle sui cambiamenti climatici (nell’America di Trump dire che «noi condividiamo il consenso scientifico diffuso intorno alla realtà dei cambiamenti climatici e alla loro dipendenza dalle attività antropiche» non è fatto neutro ma, dice Skorton, «il nostro primario obiettivo è informare il pubblico e fornire ai nostri leaders dai necessari per assumere le loro decisioni politiche»), sulle diseguaglianze economiche, sulle relazioni razziali. Certamente sono ricerche che possono avere implicazioni politiche, «ma il nostro ruolo non è difendere o giudicare. Al contrario, le istituzioni culturali devono fornire un contesto e le informazioni per affrontare le grandi questioni con competenza e costruttivamente. … Come ogni giuramento di un nuovo presidente ci ricorda, la nostra democrazia dipende da noi». Ecco, viene da pensare che finché esistono persone così anche nei momenti più oscuri della democrazia americana esistano speranze. Ma vi sono qui lezioni interessanti anche per i «petrolieri culturali» nostrani su come debbano correttamente essere concepiti musei e luoghi di cultura. concludere con una «presa d’atto» inerente alla sua candidatura alla segreteria dello stesso Partito Democratico!! Grande Emiliano, non più, quindi, doppia presa ma anche tripla e quadrupla in attesa della «penta presa» destinata a convincere l’elettorato grillonzo. Poi c’è la famosissima «l’ho presa, l’ho presa» della nota filastrocca subito adottata dal buon Bersani il quale, però, non si riferiva ad una gentil farfalletta svolazzante ma alla sonora cantonata di aver lasciato la «ditta» !!
di Danilo Cecchi Come è noto, la massiccia emigrazione di fine Ottocento verso le Americhe, porta molti emigranti italiani ad esercitare in questi paesi le più disparate professioni, fra cui (ovviamente) anche quella di fotografo, attività che viene svolta con successo specialmente nei paesi dell’America Latina, in Argentina ed in Brasile, ma anche negli Stati Uniti. Se non esiste, salvo rarissime e parziali eccezioni, una documentazione attendibile circa questo fenomeno negli USA, spulciando le liste dei fotografi operanti nei diversi stati a cavallo fra ‘800 e ‘900, si trova un discreto numero di fotografi dal nome italiano, talvolta «americanizzato», talvolta rimasto invariato. La più grande concentrazione di nomi italiani si trova all’inizio del Novecento fra New York ed il vicino New Jersey, ma altri fotografi, arrivati nel nuovo continente trenta o quarant’anni prima, hanno attraversato il paese per arrivare fino in California. Fra questi, considerati dei veri pionieri della fotografia in America, vi sono nomi di personaggi diventati famosi, come il ticinese Giovanni Battista (J. B.) Monaco (1856-1938), che nel 1875 raggiunge ad Eureka nel Nevada il fratello Luigi (Louis), titolare di uno studio fotografico fino dal 1870, per trasferirsi con lui nel 1888 a San Francisco, dove accanto alla attività di ritrattista, diventa il testimone dei principali avvenimenti cittadini, fino al terremoto del 1906. Un altro personaggio famoso è il napoletano Carlo (Charles) Gentile (1830-1893), che lascia l’Italia subito dopo l’annessione del meridione al regno d’Italia per girare il mondo approdando alla fine negli USA, dove apre diversi studi fotografici fra California, Arizona e Colorado, poi a Chicago, sposando la causa dei nativi americani fino ad adottare un giovane Pima ed a curare la sua educazione portandolo a diventare un medico ed un fervente attivista dei diritti del suo popolo. Di origine italiana sono anche George Lenzi, famoso ritrattista di Norristown in Pennsylvania attivo fino dagli anni Sessanta, i fratelli Genelli, il cui Studio viene aperto nel 1883 a Saint Louis nel Missouri, ma è presente anche a Soux City nello Iowa, ed i Montignani, Frank e Vincent (forse fratelli), con uno Studio presente a cavallo fra ‘800 e ‘900 a Bridgeport nel Connecticut. Tornando a New York troviamo nei primi due decenni del Novecento numerosi studi di fotografi italo americani di prima o di seconda generazione, come Andrew Caputo, Vincent Cesareo e James Simonelli, tutti e tre con studi in Canal Street, i diversi membri della famiglia Caruso, Bartolomeo, Raffaele, Silvestro e Vincent, dislocati fra la prima e la seconda Avenue, Regolo (o Rigolo) Fabbri e Louis
Lanza, ambedue presenti sulla prima Avenue, Giuseppe Nicoletti sulla seconda, Clemente Parlavecchia sulla quarta, Luigi Favata sulla famigerata Mulberry Street ed Antonio Favataa (fratello?) sulla Bleecher Street, Giacomo Cipolla ed Achille Silvestri sulla quattordicesima, Salvatore Ciresi sulla Bowery, Salvatore Vitali sulla Catherine Street, Francesco Fumagalli e Pietro Galli sulla 115th, e molti altri dal cognome (forse) italiano, di cui è difficile appurare la nazionalità. A Brooklyn troviamo Peter Trombetta sulla Broadway, George Di Santo sulla Navy e James Sangunitto (Sanguinetti?) sulla Surf Avenue, oltre a Giacomino e Giuseppe
Fotografi italiani d’America Visconti, ambedue sulla President. Spostandosi nel New Jersey troviamo i Costello, Alfred ad Hudson City, John ed Edward a Jersey City, ed a Newark troviamo sulla Washington un John Catano e sulla Orange Petrino (Peter) Mattia, noto per essere stato testimone di risse fra gruppi di italiani e di irlandesi. Di alcuni di questi fotografi è possibile ritrovare le immagini, spesso sotto forma di «carte de visite» debitamente firmate sul fronte o sul retro, di altri è possibile ricostruire in una certa misura i dati biografici, il paese di provenienza e le vicende familiari. Della maggior parte di essi ci si limita invece al nome ed all’indirizzo della «bottega», a qualche data e ad un elenco forzatamente incompleto, mentre il campo di indagine sarebbe estremamente interessante ed andrebbe a colmare un enorme vuoto della storia dei fotografi italiani, di quelli che per poter sopravvivere e lavorare hanno dovuto attraversare l’oceano, in una vera e propria «fuga», non ancora di «cervelli», ma in questo caso, di «occhi».
15 4 MARZO 2017
di Monica Innocenti Quale che sia l’ambito preso in esame, realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni è una specie di percorso obbligato verso la serenità, qualcosa che dovrebbe rappresentare il naturale completamento dell’esistenza di ognuno. Ma nella strana e confusa società in cui ci tocca vivere, dove davvero [… il fatto eccezionale è essere normale …] tutto questo diventa sempre più spesso un’eccezione, la serenità prende le forme dell’utopia e quel cammino che, con le inevitabili difficoltà, dovrebbe essere bene o male percorribile, si riempie di ostacoli insormontabili. Risultato: lo scontento e la rassegnazione sono ormai la triste e multigenerazionale compagnia di troppe persone. In occasione dell’8 marzo ho piacere di raccontare, molto semplicemente, la storia di una donna, una ragazza di 30 anni, per cui la scintilla è scoccata: grazie ad inventiva e perseveranza, Giulia Pagano è riuscita a completare l’accidentato percorso verso una vita più rispondente ai propri desideri, un percorso tra l’altro iniziato non per insoddisfazione, ma per passione. Il giorno in cui Giulia sentì la scintilla scoccare, capì che il suo desiderio più grande (chissà, forse indotto dalla sua meravigliosa capigliatura) era creare una linea di prodotti biologici per i capelli, a basso impatto ambientale, innovativi ed efficaci. E contemporaneamente si trovò di fronte il primo, grosso problema: la mancanza dei fondi necessari. Partecipò ad un concorso per ottenere finanziamenti pubblici: il risultato fu positivo, ma la cifra copriva solo la metà del suo fabbisogno. Poteva contare sull’aiuto morale delle amiche più care, che la spronavano a non mollare, ma il problema economico continuava a incombere sul futuro: non le restava quindi che rivolgersi ad un istituto bancario. Avete presente l’episodio del film «Tu mi turbi» nel quale Roberto Benigni va in banca a chiedere un mutuo per comprare casa e finisce col litigare col serioso funzionario dicendo che se avesse avuto i soldi non sarebbe venuto in banca a chiederli? Giulia si ritrovò in una situazione simile. Per fortuna un’altra donna, funzionaria della stessa banca, decise che era giusto credere nei sogni di quella ragazza combattiva e determinata e dimenticare, per una volta, la burocrazia e le procedure. Giulia ottenne i soldi che le servivano, si buttò anima e corpo nel progetto e, rischian-
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La naturale scintilla di Giulia
do presente e futuro, creò dal nulla la sua azienda (Scintilla appunto) e la linea di cosmetici naturali che aveva nella testa e nel
cuore: la scintilla era diventata un fuoco. Shampoo, maschere e oleolita a base di erbette tintorie e ayurvediche, con profumi «golosi» (come cacao, liquirizia, camomilla ecc.); in pochi mesi di attività è riuscita a ritagliarsi una importante fetta di mercato e, soprattutto, a sentirsi soddisfatta ed appagata. Questo è in definitiva il racconto di un successo tutto al femminile, una storia a lieto
fine che può essere di stimolo e di esempio per le tante tra noi che sono in attesa ...di una scintilla.
Nasce l’Associazione degli Amici della Galleria dell’Accademia La nuova Associazione degli Amici della Galleria dell’Accademia nasce dall’idea di Cecilie Hollberg, direttore del museo, di creare un’associazione che sostenga le attività di questa importante istituzione, coinvolgendo i giovani, i fiorentini, gli italiani e i tantissimi stranieri che adorano proprio questo museo: un modo per riappropriarsi dell’Accademia, di viverla. L’appello di Cecilie Hollberg è stato accolto subito con grande entusiasmo da personaggi legati al mondo dell’imprenditoria, delle banche, dell’arte e dell’antiquariato, italiani e internazionali (da Lipsia a Bruxelles, da Londra a New York) e come presidente dell’Associazione è stato scelto Fausto Calderai, esperto d’arte, a cui si affianca l’avvocato Nicola De Renzis Sonnino come vicepresidente. Lunedì 6 marzo, alle ore 18.00, in occasione del 542° compleanno di Michelangelo Buonarroti, l’Associazione festeggia la sua nascita e si presenta ufficialmente, organizzando presso la Galleria una serata di raccolta di adesioni. Per partecipare basta mandare una mail a info@friendsofdavid. org Tre le possibilità di associarsi ai friends of David: «ordinario» (100 euro); «aderente» (50 euro); «Under 28 (30 euro). Le quote associative sono annuali e vanno dal 6 marzo 2017 al 6 marzo 2018. La tessera consentirà una serie di benefici, dall’ingresso gratuito e prioritario ogni giorno dell’anno, a sconti nel Bookshop dell’Accademia, possibilità di organizzare visite private, inviti a eventi speciali. Il socio ordinario avrà diritto a un’entrata prioritaria per un ospite il giorno del suo compleanno.
di Claudio Cosma Lo svolgersi della vita con i grandi accadimenti che la segnano, porta nelle sue pieghe una moltitudine di oggetti che a loro volta imprimono al mondo la volontà dell’uomo di plasmarlo a proprio piacimento. All’interno delle infinite famiglie di oggetti esiste quella creata dagli artisti il cui statuto è diverso da quello di tutti gli altri. Le opere d’arte, infatti, non servono a niente, apparentemente, ma dagli albori del mondo sono sempre state fatte per accompagnare lo sviluppo dell’umanità. A differenza degli utensili il cui scopo consiste nell’adattare la natura alle proprie necessità e a trasformarla, l’oggetto d’arte si limita ad un intervento che non agisce sull’esistente in modo invasivo come, invece, per esempio, una diga, i cui risultati possono essere contenere o provocare inondazioni o in modo pratico come un passaverdure che comunque produrrà un minestrone. L’arte e le sue creazioni, ai loro inizi, esploravano e tentavano una descrizione del mondo alla ricerca dei suoi modelli e del suo ordine interiore, al pari della matematica e della filosofia. Esistono da sempre luoghi specifici per ogni specie di oggetti, istituzionali come i musei o privati come la collezioni, ognuno di questi, indifferentemente, cerca di catalogare, ordinare e conservare le proprie raccolte. Io, appassionato di oggetti d’arte, cerco dagli anni ‘80 di dare vita ad una collezione, che dal 2012, grazie all’aiuto di un prezioso amico e la collaborazione di artisti ed amici, ha trovato a Firenze una sede, che con procedure complicate è aperta al pubblico degli interessati di questo particolare settore. Dalla collezione, in accordo con la redazione di culturacommestibile.com, sto scegliendo delle opere che descrivo, astraendomi dalla storia dell’arte, in modo intuitivo e associativo, seguendo la mia sensibilità e la cultura di genere che sono riuscito a formarmi con la frequentazione di artisti, mostre, fiere, musei, collezioni e letture specifiche. Esplorando la collezione noto che ho dato attenzione ad opere costruite con materiali fragili come la carta, le stoffe, i semi delle piante, la terracotta, il vetro, i crini di cavallo, i capelli, la vernice essiccata, le spine di rosa, la buccia di una mela ed anche la pasta del cioccolato. Sono lavori semplici nel loro mostrarsi che rifuggono dalla monumentalità, delicati, bisognosi di cure e manutenzione, sempre sul margine di una loro ambigua appartenenza.
Foto di Massimo D’Amato
Per questo articolo ho però scelto un oggetto d’oro, che non contrasta colla maggioranza dei suoi «colleghi» in collezione, è infatti piccolissimo, minuscolo che quasi non pare fatto da mani umane. È un «Fussel», parola tedesca che ne costituisce il titolo e il cui significato potrebbe essere «laniccio», «pallino di lana» di quelli che si formano sui pullover, se non addirittura «sporco». Secondo la logica dell’artista, Peter Bauhuis, qualcosa che susciti non ammirazio-
Fussel
ne, ma una reazione emotiva, un senso di fastidio che sempre si prova di fronte ad un qualcosa che sembra stonare, come appunto un pallino di lanugine su un capo di abbigliamento, per di più di un colore diverso da questo; di solito si indossa su un qualcosa di scuro di modo che il bagliore infinitesimale del pin attiri una l’attenzione discreta e curiosa insieme. Secondo il grado di familiarità che abbiamo con chi indossa questo curioso gioiello, possiamo dirgli che c’è qualcosa che non va sulla sua giacca, possiamo provare a toglierlo o saggiamente tacere. In realtà il pallino di lana è una scultura a tutti gli effetti, se pur minima. L’artista ha fatto un calco dal laniccio, ne ha ottenuto una forma negativo/positivo, ha fuso l’oro e lo ha colato e nel foro della fusione «a cera persa» ha inserito lo spillo per fissarlo dove si desidera. Viene consegnato spillato in un rettangolo di gomma piuma grigio scuro, contenuto in una scatola di latta bianca con un piccola pubblicazione dove il fussel è indossato da personaggi celebri come Ludwig di Baviera, in una storia del fussel mai esistita. È un oggetto strano, dove per comprenderlo bisogna fare marcia indietro mentale, cosa comune a molta arte contemporanea e servirsi della stessa ironia usata dall’artista. Certo non si è mai visto un gioiello che per sua natura dovrebbe generare ammirazione e invidia in chi lo guarda, che al contrario ne annulli il significato di monile prezioso e generi un desiderio di rimozione, per buttarlo e non per appropriarsene.
17 4 MARZO 2017
di Ilaria Sabbatini Katherine Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson. Ricordatevi questi nomi perché ne sentirete parlare. Di professione scienziate, matematiche e fisiche afroamericane, hanno preso parte ai programmi Mercury e Apollo 11 della Nasa. Oggi un film porta alla luce la loro storia nascosta. Hidden figures, in italiano Il diritto di contare, è un film del 2016 di Theodore Melfi, che parla del gruppo partecipazione ai programmi spaziali NASA a cavallo tra la fine degli anni ‘50 e la fine degli anni ‘60. Stiamo parlando dell’America segregazionista e delle lotte per i diritti civili, quando i bagni, gli autobus e le scuole erano divisi tra bianchi e neri. Le leggi segregazioniste furono abrogate nel 1964 con il Civil Rights Act, quando vennero dichiarate illegali nelle strutture pubbliche. Ma nel 1965 si raggiunse il punto più alto della battaglia per i diritti civili mediante una il Voting Rights Act, che introduceva regole severe per assicurare il diritto di voto a tutti i cittadini, garantendo così le minoranze. Per dare un’idea di quali erano i tempi in Alabama, nel 1955, Rosa Louise Parks aveva rifiutato di cedere il posto su un autobus a un bianco venendo arrestata. Nel 1960 degli agenti federali scortavano Ruby Bridges a una scuola della Louisiana. La bambina era la prima a entrare in una scuola per soli bianchi grazie a un ordine federale. Nel 1964 tre attivisti per i diritti civili degli afroamericani venivano uccisi in Mississippi da un gruppo del Ku Klux Klan. Nel 1968 Martin Luther King veniva ucciso a Memphis con un colpo di fucile alla testa. Tre anni prima era toccato a Malcolm X, durante un discorso pubblico. Sullo sfondo di questi eventi drammatici le brillanti menti di tre donne afroamericane stavano dando il loro contributo allo sviluppo del programma spaziale americano. Katherine Coleman Goble Johnson: fisica, scienziata e matematica, calcolava le traiettorie, le finestre di lancio e i percorsi di ritorno di emergenza dei voli. Mary Jackson, matematica, aveva seguito i corsi post laurea in una scuola serale per bian-
18 4 MARZO 2017
The hidden figures
chi frequentata da soli maschi, ottenendo le qualifiche necessarie a diventare la prima ingegnere donna nera della NASA. Dorothy Vaughn, matematica, la meno conosciuta delle tre, fu la prima donna afroamericana a supervisionare uno staff di ricerca alla NASA, come capo della sezione di programmazione della Divisione Analisi e calcolo di Langley. Ricordatevi i loro nomi, ricordatevi il loro contributo, ricordatevi che sono donne e afroamericane. Nelle loro vicende si concentrano ed esplodono vari pregiudizi sulle donne, la scienza e la capacità di comando. Le loro storie rappresentano una sintesi di quello che oggi viene chiamato approccio intersezionale alle questioni di genere, un approccio che tiene conto delle donne non come categoria astratta ma come individui con proprie peculiarità, inseriti in situazioni specifiche. La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, donna, vegetariana, etc. (Amartya Sen) Essa fa parte di diverse collettività simultaneamente, ognuna delle quali le conferisce una determinata identità. Approccio intersezionale significa questo: considerare le donne come identità complesse e fatte di appartenenze culturali molteplici e contemporanee. E lo potete vedere rappresentato nella storia delle tre scienziate nere della Nasa oggi raccontate in film.
di Susanna Cressati Nella registrazione di un discorso sul conferimento del premio Nobel nel 1926 la voce è una fermissima sfida. Il linguaggio è aspro, irregolare, proprio come lo descrive Michela Murgia agli studenti riuniti nella sala Ferri del Gabinetto Vieusseux: «Un italiano forzato, rozzo, come sono rozzi i diamanti». Grazia Deledda scandisce: «Sono nata in Sardegna. La mia famiglia è composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti produttivi. Aveva autorità, aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere a tredici anni fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: «Se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti. Se lo trovi nella poesia per la seconda volta, puniscilo ancora. Se fa per la terza volta, lascialo in pace, perchè è un poeta». Senza vanità, anche a me è capitato cosi». Due donne italiane hanno ricevuto il grande premio, Rita Levi Montalcini nel 1986 per la medicina e sessant’anni prima Grazia Deledda per la letteratura. Scienziata la prima, scrittrice autodidatta Grazia (aveva la quarta elementare), che dopo aver esordito adolescente con i primi racconti arriva alla completa padronanza della lingua italiana non prima dei trent’anni. Scrittrice prolifica di testi e di lettere, grafomane, sprezzante e sofferente dello sprezzo con cui a Nuoro, il »nido di corvi» in cui era nata, veniva trattata. Combattente indomita, colma di furore e di contezza di sé, in testa, dice tagliente Murgia, aveva la «resolza», il coltello a serramanico dei sardi: avrebbe usato ogni mezzo pur di riuscire a realizzare il suo progetto. Scriveva all’alba e poi faticava a casa. Rubava l’olio in dispensa per rivenderlo e comprare i francobolli per spedire in giro per il mondo novelle e lettere. Non impegnata socialmente, agnostica in politica. «Lei ha la scrittura – dice Murgia - e la scrittura vince su tutto. I romanzi sono più pericolosi delle cronache perché durano di più». Quando le danno il Nobel (in Svezia, a una donna di Nuoro negli anni Venti del secolo scorso...) quegli accademici motivano la decisione con un tweet: «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.» Qesta donna è stata capace di viaggiare da local a global. Tanto basta.
e perfino capace di scrivere grandi storie. Via da Nuoro, a Roma, costruisce la sua vita. Intreccia relazioni, tiene salotto, diventa potente, ascoltata, temuta. L’»animaletto esotico» spuntato come una erbaccia dall’arsura delle campagne nuoresi prende la parola. Ha al fianco un saggio marito che la sostiene; non si nega una relazione extraconiugale (con Emilio Cecchi, documentata nelle carte dell’archivio del Gabinetto Vieusseux), replica con feroce sarcasmo a una stroncatura dei suoi scritti che viene pubblicata a Firenze sulla rivista Il Marzocco, a firma di Leopoldo Carta, il «mago rosso» di Nuoro. È il 1904. Grazia ha trentatrè anni, è già illustre ma non «certificata», si sente ed è, nella comunità letteraria, ancora in discussione. Dice orgogliosa: «Sono sulla soglia dell’arte grande e severa». Ma davanti a questa soglia che tanto brama varcare si materializza un incubo: il tremendo odio sardo, quel «pulviscolo nuorese» di lodi e critiche, ostle e pericoloso come un veleno da cui, dice, Dio ci scampi: «Il mio paese
Parola d’ordine: dimenticare Deledda Brutta. Era brutta. Lei, con umana debolezza, si definiva «bruttina». Piccola di statura e in maturità grassa. «Nana» gli disse in faccia Stanislao Manca, giornalista di bella presenza di cui si era innamorata a distanza, come accade ora alle ragazzine su Facebook, e che si era stufato di questa stalker che lo tormentava con continue missive. Lei «si fece un film» su Stanis. Quando il nobile gigante biondo arrivò nella povera casa di Nuoro, si vestì per lui con un abito di seta nera stellato d’oro. Invano. Ma il suo sangue bolle. Scrive, scrive, manda nel mondo lettere e racconti; scrive, scrive, un romanzo ogni anno della sua vita. Non la fermano il pregiudizio, il contesto ostile alla donna e ancora più crudelmente alla donna piccola, brutta, non ricca, e per di più intelligente, attiva, sovversiva, tenace
non mi ama». E intanto scrive, scrive, e non scrive se non per parlare di Nuoro. Qualche volta raccontandone il bene e qualche volta il vero. Qualche volta in toni sovversivi (in Canne al vento servi uccidono padroni, figlie si ribellano ai padri) qualche volta precorrendo i tempi, come nelle sue pagine «ecologiste» sulla predazione delle foreste dell’amatissimo monte Ortobene. Da local a global. C’è uno studio – dice Murgia – che cerca di rintracciare il perchè delle somiglianze tra alcuni immaginari letterari lontanissimi tra loro, ad esempio quello di Grazia Deledda in Canne al vento e quello di Emily Brontë in Cime tempestose. Il segreto potrebbe essere la similarità del contesto storico economico e i suoi «marcatori» la realtà contadina del tempo, i matrimoni endogamici, il rapporto con la natura. Spunti di riflessione. Alla sua figlia illustre e dimenticata Nuoro ha dedicato una statua bassa bassa, in tono con la perfidia dei «cari paesani», e ha riservato una tomba nella chiesa della Madonna della Solitudine, «sa Solidae».
19 4 MARZO 2017
Conservatorismo
Spiriti di
materia
di Vera Linder
Vera Linder nasce nel marzo 1992 e vive a Milano fino all’età di 5 anni. Frequenta le scuole elementari in Austria e si diploma al liceo classico a Venezia. Nell’estate 2015 partecipa a un corso di scrittura creativa presso la Naropa University, in Colorado. Una brezza invade l’incrocio delle possibilità. D’improvviso quello scrivere di persone solo perché non scivolino nell’oblio, quel diario di memoria, quella ricerca infinita nelle lettere riacquistano il loro Vero senso insensato. Nell’estate 2016 torna alla Naropa University. Attualmente sta terminando i suoi studi di Giurisprudenza a Trento. Ancora non è chiaro se dovrà accantonare il suo progetto di una tesi giuridica scritta in versi. Certo è che a giugno tornerà alla Naropa.
di Sara Nocentini Si è tenuto lunedì 20 febbraio, presso la sede della Giunta regionale, un evento organizzato dall’Irpet per proseguire la riflessione sulla propria storia e l’attualità della sua funzione quale strumento prezioso per l’analisi e la conoscenza della società toscana. L’iniziativa è stata dedicata alla presentazione di un volume molto originale, Storia illustrata dell’economia toscana dall’Ottocento ad oggi (Pacini editore, 2016). Il volume, scritto a più mani da noti studiosi dell’economia e della storia economica toscana, e curato dal direttore dell’Istituto Stefano Casini Benvenuti con la storica Monica Poettinger ha due grandi pregi: il primo è quello di essere stato pensato per un pubblico vasto, al quale si rivolge con una sintesi di qualità e un corredo fotografico sicuramente interessante; l’altro, più scientifico, all’interno di in una pubblicazione più divulgativa, è proprio quello di mettere a confronto, nel dialogo sull’economia toscana negli ultimi due secoli, storici dell’economica ed economisti. L’approccio è tutt’altro che scontato, al punto che lo stesso direttore dell’Irpet ha dedicato un passaggio della sua
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Loro sono funerali senza spiegazioni, reincarnazioni al contrario: migrazioni di anime diverse in uno stesso corpo. Io, invece, una conservatrice d’anima. Con alcuni mi sono ripresentata ogni giorno, mesi interi. I corpi, il mio nome, lo conoscevano già. Sapevano anche che sono nata a Milano, 9 marzo 1992, che cerco sempre orecchini in tinta. Informazioni inutili, quelle in possesso del corpo. Con alcuni mi sono ripresentata tanto da consumarmi i palmi, i muscoli guanciali, che poi ogni notte ricucivo sul cuscino. Il filo penetrava rapido dentro e fuori il cuscino dentro e fuori la guancia,
Storia illustrata dell’economia toscana introduzione per giustificare una scelta senza dubbio interessante. D’altra parte, sebbene nel volume non se ne faccia riferimento esplicito, non si può tacere che la scrupolosa attenzione dell’economia nei confronti della storia economica e della storia in generale sia stato proprio uno dei tratti distintivi del metodo di ricerca di Giacomo Becattini, il quale in una intervista di qualche anno fa riconosceva apertamente a Giorgio Mori, noto storico dell’economia toscana, e ai suoi collaboratori, il merito di aver stimolato, attraverso i loro studi sull’industria «vera», il suo interesse per i fenomeni industriali. Da questi «industrialisti ad oltranza» Becattini si era poi differenziato, seguendo l’insegnamento del suo maestro Alfred Marshall, che lo ha portato ad una «lunga osservazione, diciamo disinibita, della industrializzazione della Toscana» e arrivando a concludere che «se la Toscana ha
il gomitolo nel cervelletto perdeva spessore nelle mani dell’investigatore. Lui cercava di render norma cogente la mia armonia, sfogliava foto segnaletiche identiche, inesistenti. Ma se anche ritrovate, quelle anime originarie, avrebbero potuto invocare lo stato di necessità, il cambio d’opinione, per sfrattare gli inquilini dai loro vecchi corpi? Coppie di bulbi oculari sbrodolano dalle orbite. Le ciglia, sfiorandosi, scrivono il ritmo del susseguirsi delle vostre parvenze. Non faccio in tempo a piantare il successivo: le cavità, in rivolta scioperano, si rinchiudono chiedono un occhio immune alle novità.
un bernoccolo produttivo, questo è l’industria manifatturiera maritata al turismo storico-artistico». Con queste semplici parole, affidate ad Alessandro Cavalieri, in un’intervista del 2009, Becattini rappresentava il senso profondo della sua ricerca e del suo metodo, e di quel dialogo tra diversi che fu il confronto sempre vivace con Giorgio Mori e la sua scuola. Fu proprio su questo tema che Becattini aveva incentrato il suo contributo alla raccolta di scritti in onore di Mori, curata dai suoi allievi nel 2003, con un saggio intitolato «Alfred Marshall. Fra storia e analisi economica». Dalla lettura di questi due testi così diversi emerge un’altra grande capacità dell’economista toscano, quella di saper combinare con grande agilità il rigore scientifico con la divulgazione di una visione del mondo capace di parlare al quotidiano di uomini e donne in carne ed ossa.
Ristorante caffetteria
La Loggia
Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy +39 055 2342832 www.ristorantelaloggia.it reservation@ristorantelaloggia.it
premio letterario
Maschietto Editore
PRIMA EDIZIONE 2017 È bandita la prima edizione del concorso «Racconti Commestibili», la sfida letteraria lanciata da Cultura Commestibile e Maschietto Editore, in collaborazione con il Ristorante Caffetteria La Loggia. Il concorso è dedicato al tema del cibo, inteso in tutti i sensi letterali e figurati. Può partecipare chiunque, senza limiti di nazionalità e di età, inviando un solo racconto della lunghezza massima di 5000 battute entro il 15 aprile 2017 all’indirizzo email redazione@maschiettoeditore.com. La partecipazione è gratuita. La valutazione e selezione degli elaborati sarà affidata a due giurie: la prima, formata da redattori interni alla casa editrice e della rivista, individuerà la rosa dei 10 testi finalisti, La giuria tecnica, composta da Marco Vichi (scrittore), Francesco Mencacci (direttore della scuola Carver di scrittura creativa), Sandra Salvato (giornalista), selezionerà i tre racconti vincitori che saranno pubblicati sulle pagine di Cultura Commestibile. Al primo classificato sarà offerta una cena per due persone al Ristorante Caffetteria La Loggia. Il regolamento completo è scaricabile dal sito www.maschiettoeditore.com.
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di Simonetta Zanuccoli Nel contesto attuale dove le politiche dell’accoglienza riducono la sofferenza di chi arriva e la paura di chi accoglie a quote, muri, lasciapassare, centri d’identificazione, libertà coatte e respingimenti e l’immigrazione pare stia diventando il cavallo di Troia dei paesi economicamente più avanzati, penso sia utile fare un breve accenno, sia pure con un certo anticipo, a una mostra che si terrà dal 28 marzo al 10 settembre al museo National de l’histoire de l’immigration a Parigi e che penso farà molto discutere. Il titolo Ciao Italia può sembrare gioioso. Il sottotitolo spiega però meglio il signi-
ficato dell’esposizione Un siècle d’immigration et de culture italiennes en France. 1860-1960. Attraverso 400 tra documenti d’archivio, foto d’epoca, oggetti della memoria, spezzoni di film, in un percorso che coinvolgerà anche religione, arte, sport e gastronomia, la mostra tenterà per la prima volta a livello nazionale di ripercorrere la storia di quella che a tutt’oggi è stata la più grande ondata d’immigrazione in Francia. A partire dalla metà dell’800, migliaia di italiani, per lo più contadini in condizioni di estrema povertà e privi di qualunque qualifica personale varcarono le Alpi attratti dall’impetuosa crescita economica e industriale della Francia. Trovavano lavoro nei settori dell’edilizia, nelle
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costruzioni ferroviarie, nelle industrie siderurgiche e nelle miniere soprattutto nella regione della Lorena, accettando occupazioni saltuarie con bassissime retribuzioni a cottimo e senza alcuna tutela. Condizioni di vita durissime tra i pregiudizi, diffidenza e episodi di xenofobia anche molto violenti della popolazione francese che li chiamava invasori e li accusava con i loro miseri salari di fare concorrenza sleale e rubare posti di lavoro a chi lì era nato. Ho letto che l’intento della mostra Ciao Italia è quello di farci fare un tuffo nel passato per meglio capire il presente e dare una speranza per il futuro. La storia dell’immigrazione italiana, pur con residue tracce contemporanee di benevola superiorità da parte di molti francesi, è infatti a lieto fine. Gli italiani con il tempo e molte sofferenze riuscirono a migliorare la loro condizione integrandosi nel paese che li ospitava. Alcuni di loro, nomi che vengono ricordati nella mostra, hanno dato alla Francia un importante contributo soprattutto nel campo artistico e della moda non rinunciando ma anzi esaltando la propria italianità. Certo l’inserimento da parte dei nostri emigrati nelle norme e nei costumi della società francese, nonostante lo scoglio della lingua, la povertà e spesso la grande ignoranza, è comunque stato più «semplice» dato la vicinanza geografica e culturale dei due paesi rispetto a chi fugge da mondi lontani e diversi. Scrive Marino Viola l’incontro con lo straniero è un fatto etico ma anche pratico da governare con lungimiranza. I Romani che di senso pratico ne avevano da vendere, avevano inventato la Tessera Hospitalis, un contrassegno che veniva spezzato in due parti quale pegno di amicizia e promessa di reciprocità fra una famiglia romana e una straniera. Era la contromarca concreta del patto di ospitalità e delle condizioni che lo regolano che, se non lo tradivano, valeva anche per i discendenti. Altri tempi!
di Paolo Marini Il Rapporto n. 16/34 dell’Istituto Superiore di Sanità, dal titolo «Piante geneticamente modificate: queste sconosciute?» (accessibile dal sito www.iss.it), del dicembre 2016 e redatto a dieci mani (quelle di Laura Nicolini, Roberta Onori, Norberto Pogna, Elena Sturchio, Giuliano D’Agnolo), è un documento di analisi delle conoscenze scientifiche sui detti organismi, corposo per pagine e ragguardevole per bibliografia. Percorre l’argomento dagli aspetti generali della valutazione della sicurezza dell’uso dei PGM (piante geneticamente modificate) nell’alimentazione umana e animale, al loro rapporto con l’ambiente, fino al tema della coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche. In apertura v’è una premessa storica, che una volta di più sfata qualche mito, in primis quello di una agricoltura ‘naturale’: «l’intervento dell’uomo ha modificato, nel corso del tempo, le piante coltivate» per cui ognuna di esse, oggi, è (solo) una lontana discendente di una o più specie selvatiche. Agli albori della storia umana, i nostri antenati avevano a disposizione un assortimento di circa 250 mila piante; esso è stato gradualmente selezionato e ridotto, con molti tentativi ed errori (di cui non pochi, c’è da presumerlo, esiziali), per giungere all’epoca odierna in cui «il numero di specie coltivate nel mondo è di circa un migliaio, ma le più importanti sotto il profilo economico/alimentare sono poco più di 100, di cui solamente quattro specie (frumento, mais, riso e patata) costituiscono il 50% della produzione agricola totale.» L’agricoltura ha così modificato la direzione della selezione naturale, «rendendo vitali e adatte alle esigenze dell’uomo mutazioni sfavorevoli per le piante selvatiche.» Per quanto riguarda l’applicazione delle biotecnologie, «le considerazioni sulla sicurezza d’uso in alimentazione umana e animale di una PGM sono fondamentalmente le stesse che si possono fare per un organismo il cui genoma sia stato modificato con tecniche convenzionali come la selezione e l’incrocio.« Semmai, «l’uso dell’ingegneria genetica nella produzione di PGM dovrebbe essere considerato come un miglioramento rispetto alle tecniche di selezione utilizzate fino ad oggi: l’introduzione diretta di uno o più geni, scelti per le loro caratteristiche, permette, infatti, modifiche meno grossolane e più prevedibili di quelle ottenute ibridando tra loro specie diverse o utilizzando metodiche di mutagenesi.» Non è finita qui: i prodotti PGM risultano irragionevolmente ‘discriminati’ rispetto agli altri nella fase di valutazione circa la sicurezza
Piante ogm: queste sconosciute di alimenti tipici e di qualità e coltivazione di PGM. La scienza può dare un contributo addirittura decisivo «per salvare alcune varietà vegetali tipiche a rischio di estinzione come il pomodoro San Marzano, la vite che produce il nero d’Avola, il riso Carnaroli.» Infine, due paroline anche per la politica, che in Italia ha bellamente ignorato i dati scientifici, cosicché «il principio di precauzione, invece di essere proporzionato alla domanda sociale di protezione», è stato invocato, «anche in assenza di rischi certi», per assecondare lobbies e sfruttare l’allarme sociale per ragioni di consenso. Sui PGM è ora di abbandonare l’isteria collettiva che li ha trasformati in una sorta di peste della modernità. Questo studio, al di là di tutti i pregi e di eventuali limiti (che solo gli esperti possono correttamente apprezzare), in quanto provienente da un soggetto istituzionale, ha il pregio di posizionare il confronto al riparo da oscurantismi e pregiudizi, cioè dove deve stare.
dell’utilizzo: se un selezionatore produce un mais tollerante l’erbicida con metodi biotecnologici, ovvero con quelli tradizionali, mentre «l’evento GM prevede una valutazione approfondita del rischio», peraltro con costi elevati, «l’evento non GM, con impatto ambientale, compreso il flusso genico, simile alla PGM», è sottoposto a verifiche minime. Né, oltre a ciò, risulta regolamentata «la produzione di nuove cultivars ottenute con l’uso di radiazioni o con la mutagenesi chimica», due metodiche che pure coinvolgono migliaia di geni. Il Rapporto approda a queste conclusioni: «a) le PGM vanno valutate caso per caso con una comparazione sperimentale sulle stesse cultivar ottenute con l’agricoltura convenzionale e l’agricoltura biologica; b) non vi sono rischi direttamente connessi all’uso di PGM in alimentazione umana e animale; c) i rischi connessi all’uso delle PGM resistenti all’erbicida ne sconsigliano l’uso nell’agricoltura italiana.» Ancora, il Rapporto denuncia la non correttezza della pretesa incompatibilità tra produzione
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Maschietto Editore
Architettura
Percorsi di architettura e storia dell’arte nel Mediterraneo
Dopo Albania. Architettura e Città, Maschietto Editore continua il percorso di esplorazione attraverso architettura, storia e cultura dei Balcani, dei Paesi del Levante e del Magreb affacciati sul Mediterraneo: un nuovo capitolo della serie dedicata a tematiche di architettura, urbanistica, arte, paesaggio, scambi culturali internazionali tra l’Italia e il resto del Mediterraneo. The Presence of Italian Architects in Mediterranean Countries documenta la presenza di architetti italiani sui territori distribuiti tra Dalmazia e Marocco. Anche qui un’attenzione particolare è rivolta all’Albania e alla città di Tirana. Lo sviluppo industriale, l’affermarsi del capitalismo, l’evoluzione e la crescita delle aree periferiche, la diffusione infrastrutturale, il rapporto tra percezione estetica e intervento politico e sociale.
Il percorso: storIa e archItettura medIterranee
www.maschiettoeditore.com