Numero
11 marzo 2017
275
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ÂŤLa prima volta a Bruxelles avevo solo 26 anni, non conoscevo nessuno e avevo bisogno di una persona di fiducia. Ero giovane e avevo bisogno di mia madre. Poi ho imparato a muovermi da sola e ho assunto persone normaliÂť Lara Comi, europarlamentare FI
Con la cultura non si mangia
Mammassunta
Giulio Tremonti (apocrifo)
Maschietto Editore
NY City, Agosto 1969
La prima
immagine Stessa spiaggia, stesso mare! Siamo sempre all’interno di uno dei tanti «projects», spazi quasi abbandonati al loro destino di emarginazione da parte degli abitanti degli altri quartieri. Molto spesso si scopre che nelle estati afose e canicolari della «grande mela» queste aree sono animate dalla gioia di vivere di molti gruppi di ragazzi che sembrano scoppiare di salute e di allegria e che mostrano a tutti, costi quel che costi, energia e desiderio di sopravvivere ad una condizione di vita decisamente molto difficile.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
11 marzo 2017
275
208
Riunione di famiglia Professor Bomba Le Sorelle Marx
Testa senza Speranza Lo Zio di Trotzky
AirGanzo non vola più I Cugini Engels
In questo numero L’evitabile crollo di Giuseppe Centauro di Simone Siliani Ali spiegate racconto di Carlo Cuppini Esuli a metà di Alessandro Michelucci Le molte cose di Ozpetek di Mariangela Arvanas Biscotti per cuccioli di Cristina Pucci Sotto l’ala di Yves Klein di Laura Monaldi Il fotografo e la pittrice di Danilo Cecchi
Direttore Simone Siliani
Dislessico nelle gambe di Giovanni Zorn L’arte senza capo né coda di Claudio Cosma Mata Hari La spia della Belle Epoque di Simonetta Zanuccoli Vacanze exotiche di Ruggero Stanga La fuga di Paolo di Simone Siliani Fuga in Siberia (a termine) di Paolo Marini e Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Paolo della Bella, Vera Linder, Melia Seth, Michele Morrocchi....
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111 redazione@maschiettoeditore.com www.maschiettoeditore.com Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Venghino signori, venghino premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Mandate i vostri racconti
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Progetto Grafico Emiliano Bacci
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L’evitabile crollo di Giuseppe Centauro Questa volta è capitato alle secolari mura bastionate della Villa Medicea di Poggio a Caiano. Il terrapieno del giardino, gonfio d’acqua, ha spinto giù le mura fino a farle cadere. Questa è la meccanica, fin troppo semplice da intuire, di un nuovo, pesante danneggiamento che riguarda il patrimonio culturale. Ancora una volta non è stato un evento straordinario a causare il disastro, a far rovinare a terra, per fortuna senza conseguenze per la gente di Poggio, la scarpa di pietra e laterizio che da sempre contiene una larga parte del giardino pensile sovrastante via Lorenzo il Magnifico. Un altro ordinario episodio, l’ennesima fatalità, che segna inesorabilmente un monumento di primaria importanza della nostra storia. Un bene di grande risonanza artistica ed ambientale, Patrimonio Mondiale dell’Umanità appartenendo alla Villa Ambra, fiore all’occhiello dell’architettura rinascimentale che rappresenta nel mondo la nostra cultura. Pietre che si sgretolano, mura che crollano, beni culturali che cadono a pezzi sempre più frequentemente. Non c’è limite alla degradazione che colpisce area archeologiche, monumenti insigni, opere d’arte ed tanto altro ancora. Non è però un destino ineluttabile quello al quale vanno incontro i monumenti del passato perché prevenire, fare manutenzione, monitorare sono azioni che possono e devono entrare a far parte del nostro agire. Domani quale altra struttura cadrà? Più che le esondazioni e i terremoti colpiscono la nostra indifferenza e quella strana apatia collettiva che fa sì che si guardi sempre da un’altra parte, o non vuol vedere neppure laddove i segni del dissesto sono inequivocabili. Di fronte a questo ennesimo sfregio non possiamo fare a meno di guardare quanto sta accadendo sotto i nostri occhi: non molto distante da qui la Fattoria di Lorenzo, da anni miseramente abbandonata al suo destino, è il più serio j’accuse. Non possiamo voltare ancora una volta le spalle, negare questa cruda realtà che ci condanna senza attenuanti alla vergogna dell’oggi e del domani. Il muro crollato al Poggio è esso stesso una metafora di questa emergenza che evidenza il risultato non del caso bensì di un atteggiamento, solo in apparenza incolpevole, se persino le coscienze latitano di fronte all’ingombrante eredità dell’arte, mura che «non rendono» e senza alcun pudore rottamiamo come anticaglie prima ancora che sia il tempo a disgregarle.
4 11 MARZO 2017
di Simone SIliani Il crollo di un tratto del muro di cinta della Villa Medicea di Poggio a Caiano ha riaperto l’annoso tema degli interventi di restauro e prima ancora di quelli manutentivi e di monitoraggio sul patrimonio architettonico storico. Ne ha scritto in modo convincente Tomaso Montanari su «la Repubblica – Firenze» di mercoledì 8 marzo con un titolo che è tutto un programma: «Quel lavoro umile che non interessa». La nuda e triste verità è che è saltato quel continuo, meticoloso, programmato e oscuro lavoro di monitoraggio e manutenzione ordinaria del nostro patrimonio che solo può garantire una migliore conservazione dello stesso (fatto salvi, ovviamente, gli eventi naturali straordinari imprevedibili, ma se non viene fatta la manutenzione ordinaria anche la soglia di ciò che è «straordinario» tende ad abbassarsi sempre più). Perché questo è avvenuto? Tutti lamentano, non senza qualche buon motivo, la progressiva carenza di risorse finanziarie ed umane dedicate a questa attività: le Soprintendenze e gli uffici tecnici dei Comuni o degli altri enti proprietari del patrimonio hanno visto nel corso degli anni erodersi il personale specializzato (grazie al blocco del turn-over negli enti pubblici) e delle risorse economiche. Questo è senz’altro vero, ma dobbiamo chiederci perché è avvenuto. È sufficiente richiamare la crisi della finanza pubblica e le varie leggi di stabilità per spiegare questo verticale crollo di risorse? Io non credo. Si potrebbe fare soltanto un esempio, il più vicino temporalmente a noi. La Legge di Stabilità 2016 ha portato un aumento di risorse al bilancio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo di circa il 27% rispetto al 2015, superando i 2 miliardi di €. Il Ministro Franceschini dichiarava entusiasticamente che «la Legge di Stabilità contiene interventi straordinari e di grande portata per la cultura e il turismo. Si torna a investire e assumere e lo si fa con una misura che, in deroga alla normativa vigente, autorizza un concorso per l’assunzione a tempo indeterminato di 500 professionisti del patrimonio culturale.». I bandi di concorso sono stati autorizzati e avviati nel giugno 2016 e ad oggi in corso e questa è comunque una buona notizia. Ma, se poi andiamo a vedere, dove vengono dirottate le risorse aggiuntive all’interno del bilancio, ci rendiamo conto che sono soltanto 30 i
Foto di Andrea Bacci
milioni stanziati per ciascuno degli anni dal 2016 al 2019 per interventi di conservazione, manutenzione, restauro e valorizzazione dei beni culturali. Se andiamo sul sito web del Mibact, ad esempio, troviamo in tutta evidenza la sezione «Grandi Restauri» ma non si trova la programmazione ordinaria degli interventi di monitoraggio e manutenzione sul patrimonio (un po’ come il progetto Grandi Stazioni delle Ferrovie dello Stato che, però ha lasciato a se stesse le piccole e medie stazioni). Esagero un po’: il circo mediatico che si muove attorno ad un Grande Restauro e la predisposizione di normative per promuovere le sponsorizzazioni private hanno spinto a mettere l’accento sul restauro dell’Anfiteatro Flavio da parte del gruppo Tod’s, piuttosto che sulla «Grande Brera» o sul «Grande Progetto Pompei» o sui «Grandi Uffizi». Solo ciò che è Grande, fa audience, garantisce un ritorno d’immagine al privato che investe o anche all’architetto della Soprintendenza o del Comune che restaura, fora lo schermo e conquista le pagine dei giornali è degno di attenzione e quindi di risorse. Talvolta si arriva ad inventare la necessità di un restauro eclatante, che magari restauro non è ma solo pulitura, per conquistare i favori e le risorse del magico sponsor. Accadde così un po’ di anni fa per un «restauro» del David di Michelangelo che, alla
Beni culturali che cadono a pezzi, ovvero della manutenzione programmata
fine, era poco più di una pulitura, ma lo sponsor forse non avrebbe dato i soldi per un intervento di monitoraggio e pulitura del David (certamente non lo avrebbe fatto per un’altra opera minore o per le mura di Poggio a Caiano o di Volterra). Oggi paghiamo questo caro tributo alla civiltà dell’immagine, all’arretramento del pubblico rispetto all’ingresso del privato, ad un’idea sbagliata del restauro come grande fatto di promozione del territorio. Per carità non vi è nessuna nostalgia ideologica per un pubblico perfetto, perché sappiamo bene delle inefficienze nella spesa di Ministeri e amministrazioni pubbliche; ma l’idea che si sarebbe potuto sostituire il protagonismo del pubblico nella manutenzione e gestione del patrimonio attraverso un più moderno ed efficace intervento privato ha mostrato tragicamente la corda. Abbandonata progressivamente il monitoraggio costante e la cura minuziosa del patrimonio storico, questo è diventato altrettanto progressivamente più fragile di fronte agli eventi naturali ordinariamente straordinari che si abbattono su di esso e al trascorrere del tempo. Non a caso le normative internazionali definiscono il restauro «un intervento, o una serie di interventi integrati,compiuto da uno o più operatori specializzati che intendono frenare – per quanto è possibile – il naturale invecchiamento di un
manufatto architettonico, artistico, di un libro o di un documento, al fine di conservarlo e trasmetterlo ai posteri». Giovanni Urbani, storico direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, nel 1976 chiariva i termini della questione: «In ogni caso, anche con la migliore delle tecniche, il restauro rimane pur sempre un intervento post factum, cioè capace tutt’al più di riparare un danno, ma non certo d’impedire che si produca né tanto meno di prevenirlo. Perché questo sia possibile occorre che prenda corpo di azione tecnica quel rovesciamento del restauro tradizionale finora postulato solo in sede teorica come ‘restauro preventivo’. Una simile tecnica, alla quale diamo il nome di conservazione programmata, è di necessità rivolta prima che verso singoli beni, verso l’ambiente che li contiene e dal quale provengono tutte le possibili cause del loro deterioramento. Il suo obiettivo è pertanto il controllo di tali cause, per rallentare quanto più possibile la velocità dei processi di deterioramento, intervenendo, in pari tempo e se necessario, con trattamenti manutentivi appropriati ai vari tipi di materiali» . La conservazione programmata è stato l’agnello sacrificale sull’altare della comunicazione (che poi è la banalizzazione del più ampio e serio «valorizzazione) e delle varie spending review dei beni culturali degli ultimi anni: venendo a mancare
questa, il ricorso all’intervento post factum di restauro si è reso sempre (più o meno) necessario, con un aumento complessivo dei costi e una minore efficacia, talché ai nostri posteri trasmettiamo opere molto meno integre e sempre più fragili. Ma, soprattutto, la manutenzione programmata è un intervento completamente diverso e più ricco del restauro puntuale: sempre citando Urbani esso «si rivolge, prima ancora che al singolo bene, alle condizioni dell’ambiente che lo contiene e dal quale provengono le possibili cause del suo deterioramento». Quindi si tratta di una cura del territorio e dell’ambiente nel quale è inserito il manufatto, esattamente ciò che a Poggio a Caiano è mancato e ha causato anche il danneggiamento del manufatto. Ma queste cose si sanno da tempo; almeno da quando Cesare Brandi negli anni ‘50 teorizzava il concetto del «restauro preventivo», come «L’insieme di azioni che consentono di evitare, o almeno di rimandare, interventi di urgenza conseguenti a danni ingenti e difficilmente riparabili, tutelando il manufatto, rimovendo i pericoli e assicurando condizioni favorevoli alla sua trasmissione al futuro». Ma, se la fine è nota, perché si continua ad insistere sui «Grandi Attrattori» e non sulla piccola, continua ed oscura opera di manutenzione programmata? Perché non si trova un ministro, un sindaco che si prendano il coraggio a due mani e piazzino risorse del proprio bilancio su questa oscura attività, togliendole da eventi pirotecnici di ogni genere e fattura che pure continuano a popolare la penisola? Avrebbero da presenziare a qualche inaugurazione in meno, ma forse eviterebbero di dover fare qualche sopralluogo su frane e crolli durante i quali, costernati, dichiarano immancabilmente che immediatamente troveranno le risorse per restaurare e ripristinare il manufatto come era prima in pochi mesi. Sanno di dire delle bugie? Ci vorrà molto più tempo, ma intanto l’attenzione dei media sarà diminuita e magari il loro mandato sarà finito. Non potranno ripristinare il bene nel suo stato originario: in ogni danno e dopo ogni restauro niente è più come prima. Ma, soprattutto, se davvero si troveranno le risorse per il restauro immediato, significa che quelle risorse c’erano e potevano, forse, essere meglio impegnate per la manutenzione programmata. Che, però, non paga come un bel Grande Restauro, post factum.
5 11 MARZO 2017
Le Sorelle Marx
Professor Bomba
«Quindi lei è disoccupato?» ha chiesto l’ineffabile Vespa. «Non scherziamo, sto scrivendo un libro e faccio il professore universitario, i disoccupati sono quelli che non arrivano a fine mese». Questa la risposta di Matteo Renzi ex premier, ex segretario del partito democratico ma tornato autentico bomba. Già perché Renzi non ha ottenuto una cattedra in qualche ateneo ma ha semplicemente accettato di tenere un corso agli studenti della sede fiorentina della Stanford University. Corso che temiamo, per gli studenti, l’ex premier voglia tenere nel suo inglese non proprio perfetto. Ci è ignota però la materia del corso:
I Cugini Engels
AirGanzo non vola più
Come avemmo modo di scrivere, solitari ed inascoltati, qualche anno fa, l’acquisto dell’AirGanzo One, l’Airbus 340 voluto da Renzi per essere all’altezza dei Capi di Stato delle superpotenze mondiali non ha detto molto bene all’ex premier di Rignano. Fermo da mesi a Ciampino, dopo aver fatto 13 missioni, se ne discute il destino. È costato 23 milioni nel 2017, versati a Ethiad da cui il governo l’ha preso in leasing. Si sa che Gentiloni non lo gradisce: troppo appariscente per uno schivo come lui. Qualche tentativo negli ultimi mesi l’ha fatto Angelino Alfano, grande utilizzatore di voli di Stato, data la sua funzione di Ministro degli Esteri, ma la richiesta del suo segretario di farsi prestare le chiavi dell’AirGanzo One alla segreteria del Presidente per «imprevedibili e urgenti esigenze di trasferimento connesse all’esercizio delle funzioni», è stata rimbalzata. Angelino ha insistito direttamente con Gentiloni: «Scusa Paolo, ma avrei proprio urgente e imprevedibile bisogno che tu mi prestassi l’AirGanzo One, altrimenti non so come fare...» «A far cosa, Angelino? Dov’è che dovresti
6 11 MARZO 2017
viste le competenze acquisite possiamo immaginare un corso di powerpoint su come realizzare slides sempre più belle. Insomma l’idea di Renzi del proprio rilancio passa da un tratto di continuità con il suo passato, spararle sempre più grosse. Ma si sa per Renzi, Matteo sa far tutto, come quando si fa ritrarre sulle piste da sci col completo della nazionale italiana di sci. Lui pensa di esser Tomba, mentre agli italiani ricorda il secondo tragico Fantozzi, quello che per vantarsi con la signorina Silvani, afferma appollaiato su una spider di essere stato azzurro di sci. Il bomba, pardon, il professor Bomba è tornato.
recarti con sì tanta urgenza da non poter provvedere al trasferimento con voli di linea?», risponde con tono tutt’altro che renziano il presidente. «Ma Paolo, mi hanno appena comunicato che devo assolutamente recarmi a Vigata per apparire in una puntata dello sceneggiato di Montalbano, con Luca Zingaretti...» «Senti Angelino, ma mi prendi per le terga? Intanto Vigata non esiste e poi figurati se Zingaretti prende te nello sceneggiato! Ma poi a far che? A fare Angelino Catarella? Ma fammi il piacere...», prosegue Gentiloni, con tono certamente più renziano. «Dai Paolo, è una cosa importante per la mia terra e anche per il governo: ci darebbe un’immagine più moderna, meno dimessa...» «Meno dimessa? Ma che ti riferisci a me? Guarda, che se non la smetti di essere così pedante, ti dimetto io! E poi è già passata stamani Santa Elena da Cascia che con i suoi occhioni blu e un gran sbattere di ciglia, mi ha chiesto le chiavi, ma anche a lei ho dovuto dire di no: quindi, caro Angiolino mio, in sostanza... ti attacchi al tram... e vedi se arrivi con quello a Vigata!»
Lo Zio di Trotzky Testa senza Speranza
Il sedicente imprenditore Chicco Testa, già ambientalista della prima ora poi folgorato sulla via dell’Enel tanto da diventarne presidente del CdA, poi «Expert Advisory Committee dello European Carbon Fund» (per dire, le rinnovabili), autore del libro «Tornare al nucleare? L’Italia, l’energia, l’ambiente» e infine Presidente del Forum Nucleare Italiano, associazione fondata da Enel ed EDF per promuovere un ritorno all’impiego dell’energia nucleare in Itali, si candida a riscrivere la storia del PCI in nome della coerenza e dell’obbedienza al centralismo democratico. Infatti, ha maltrattato il povero Roberto Speranza da Facebook, con la seguente fatwa laica: «Speranza: eccone un altro che spera nell’aiutino dei magistrati. Togliatti a calci nel culo li avrebbe presi». Siamo in grado di anticipare qui alcuni estratti del suo prossimo libro, «Il Pci dal di dentro». Descrivendo i non facili rapporti fra il Migliore e Pietro Secchia, così Chicco Testa descrive il loro ultimo colloquio: «Pietro, cos’ha fatto ieri la Juve?» «Palmiro, nen so mia mi» «E tu pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juve?» «Ma Palmiro, i compagni sovietici hanno detto che lo sport, come la religione, è l’oppio dei popoli, salvo quando concorrono gli atleti dell’URSS, naturalmente: l’ho letto nelle tesi del XVII congresso del PCUS» «Caro Pietrino, le cose davvero serie e gravi i compagni sovietici non le mettono mai per iscritto. Quindi, questa che tu dici è certamente una stupidaggine che hanno divulgato i mescevichi per dirottarci dalla giusta via, che è quella segnata dai grandi allenatori Bigatto I, Monti, Cesarini, s’intende» «Ma sei uscito di senno? Osi discutere il verbo dei compagni sovietici? Guarda che io faccio la scissione?» «Ah sì? Stai fermo lì, che vengo e ti prendo a calci in culo, così ci pensi due volte a dire La Parola scissione senza citare Gramsci, Boniperti, Sivori e Parola!» E così, forte di questi suoi studi storici, il buon Testa di Chicco ha liquidato Bersani, Speranza e Pietro Secchia in un sol colpo.
Nel migliore dei Lidi possibili
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Della Bella gente Cercasi Mary disperatamente
La Compagnia di bandiera bianca
di Paolo della Bella
Segnali di fumo di Remo Fattorini «Culle vuote. Tracollo delle nascite. Sempre meno figli»: sono solo alcuni titoli che i giornali ci hanno riproposto qualche giorno fa. Dopo che l’Istat, come ogni anno, ha reso noto i dati sulla popolazione 2016. Riepilogo: siamo 60 milioni e 579mila abitanti, 86mila in meno rispetto al 2015. Nel 2016 abbiamo registrato il livello più basso di bebè: 474mila nati contro i 486mila del 2015. Sempre l’Istat ci dice che ormai sono una vera rarità le mamme sotto i 30 anni. La tendenza è generalizzata, interessa l’I-
talia (escluso Bolzano), l’Europa e tutto l’Occidente. Ma da noi il fenomeno è più rilevante che altrove. È la prima volta, nel corso degli ultimi 90 anni, che perdiamo popolazione. Anche in Toscana si nasce di meno. Siamo quasi in fondo alla classifica della natalità, dopo di noi solo Basilicata, Friuli, Molise e Liguria. Il fatto che nascono meno bambini non è una scoperta. Lo sapevamo già. Sarebbe di gran lunga più interessante capirne le ragioni, e, magari, trovare qualche rimedio. Di certo è l’effetto delle difficoltà, serie, in cui da oltre un decennio vivono le famiglie. Ancor più, il fatto che sono proprio i giovani i più penalizzati. Più del 40% di loro sono senza lavoro. Se privati della speranza verso il futuro di certo non fanno figli. E poi ancora: solo poco meno del 13% i bambini che frequentano un asilo nido, a causa dei pochi posti disponibili. Qualcuno aveva promesso mille nidi in mille giorni. Ma non si è visto granché. Fatto sta che sono ancora troppo pochi e, per una parte
della popolazione, anche troppo costosi. Per non parlare delle politiche di sostegno alle donne con figli, alla famiglia, alle coppie che decidono di diventare genitori: siamo la ruota del carro in Europa. Il problema è molto serio per la semplice ragione che un paese con tanti vecchi e pochi giovani non sta in piedi, poiché sulle spalle di una minoranza attiva pesa il fardello dei tanti inattivi. Potrebbero salvarci solo gli immigrati, se continueranno ad arrivare e se decideranno di restare in Italia, di lavorare e pagare le tasse qui. Cosa non scontata. Anche perché: è vero che ne abbiamo bisogno, ma è anche vero che gran parte di noi non li vogliono. L’Istat ci dà solo una buona notizia: da noi di vive sempre di più. Le aspettative di vita ci vedono al primo posto nel mondo: per gli uomini sono 80,6 anni e per le donne 85. Una ragione in più per affrontare il problema. Ma per farlo bisognerebbe smettere di stupirci, soprattutto se solo per un giorno all’anno.
7 11 MARZO 2017
di Laura Monaldi Nella ricerca artistica di Yves Klein v’è un’armonia ancestrale che domina l’atto della creazione e a cui autore e spettatore sono chiamati a confondersi e permearsi in quella particolare energia divina che domina l’universo. L’elemento agente della creazione e quello partecipante alla creazione concorrono a esaltare la percezione del colore contro i limiti della linea e del disegno, in nome di una totale libertà fisica e intellettuale. L’esaperazione dell’Io si sostituisce con l’aspirazione all’essere, abolendo i confini spazio-temporali dell’opera d’arte e facendo della monocromia un’unica risultante, in quanto forza vitale capace di richiamare alla mente l’infinità del nulla e la profondità psichica che l’analogia del colore blu oltremare permette di evocare. Non a caso proprio il blu induce lo spettatore a immergersi in uno stato contemplativo estemporaneo che si avvicina all’immaterialità cosmica e pura: l’opera d’arte sembra quindi concretizzarsi in un viaggio realistico-immaginario che coglie l’attenzione dello spettatore oltre la fenomenologia del tempo, ponendolo al centro di una sintassi visiva universale priva di ogni soggettività. L’Arte si smaterializza e si estremizza in una visione totalizzante delle infinite possibilità interpretative del monocromo: quella di Yves Klein è una sensibilità pittorica che conduce la materia al suo stato primario, in cui la purezza diviene tangibile come un volo divino inaspettato. In tale costruzione mitica del colore si aggiungono anche l’oro e il magenta, costituendo una triade sacra: il blu oltremare richiama l’universo nelle sue infinite accezioni; l’oro si fa simbolo di sacralità e il rosa magenta diviene la metafora dell’invisibile che si fa visibile, poiché è l’unico colore che non appartenendo allo spettro cromatico rappresenta il punto di giuntura fra le opposizioni esistenziali del mondo.
8 11 MARZO 2017
Sotto l’ala di Yves Klein Victoire de Samothrace, 1962 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
La trilogia è l’espressione alchemica di una sintesi universale che tende all’Assoluto e in quel mistero che invade il Tutto ipnotizza, meraviglia ed emoziona come mai nessun colore è riuscito a fare.
Musica
Maestro di Alessandro Michelucci Negli anni della guerra fredda, se si escludono i comunisti ortodossi, erano molti coloro che solidarizzavano con i dissidenti dei paesi gravitanti nell’orbita sovietica. Molto più raro, invece, era trovare qualcuno che provasse lo stesso sentimento verso le vittime della dittatura franchista, sebbene questa venisse giustamente condannata da più parti. I motivi sono diversi. Anzitutto, il fatto che la Spagna non fosse stata coinvolta nel conflitto mondiale conferiva al franchismo un carattere particolare. Inoltre, nonostante molti la considerassero fascista, quella spagnola era in realtà una dittatura reazionaria e anticomunista che non aveva nulla a che fare con i regimi europei travolti dalla Seconda guerra mondiale. Le mancava un disegno globale, un programma politico che non fosse quello di garantire legge e ordine reprimendo il dissenso. Di conseguenza le mancava anche un’estetica. Lo dimostra chiaramente il comportamento che aveva nei confronti delle espressioni artistiche. Mentre nella Germania nazionalsocialista e nell’URSS gli artisti venivano valutati secondo la loro (supposta) adesione a certi principi estetici, nulla di tutto questo avvenne sotto la dittatura spagnola. Al contrario, molti musicisti continuarono a visitare il paese anche durante l’esilio. A partire dagli anni Cinquanta la loro musica cominciò ad essere eseguita regolarmente in pubblico. A esplorare questo contesto politico-culturale scarsamente noto ha provveduto Eva Moreda Rodriguez, autrice di Music and Exile in Francoist Spain (Ashgate, London 2016). Lettrice di Musica all’Università di Glasgow, la studiosa spagnola è una specialista del mondo musicale della Spagna franchista, alquale ha dedicato anche un libro appena uscito, Music Criticism and Music Critics in Early Francoist Spain (Oxford University Press, 2017). Tornando al libro nominato in precedenza, si tratta del primo studio in inglese dedicato alla materia. Qui l’autrice ricostruisce il fenomeno dell’esilio volontario dei musicisti spagnoli, mettendo in evidenza la sua eterogeneità. Questa è esemplificata dai tre capitoli che
Esuli a metà analizzano i casi particolari di altrettanti musicisti: Rodolfo Halffter, Salvador Bacarisse e Roberto Gerhard. Sebbene il regime non privasse gli esuli della cittadinanza spagnola, Halffter rinunciò volontariamente a questa per diventare cittadino messicano. Bacarisse, socialista emigrato a Parigi, riprese i rapporti epistolari con artisti che erano rimasti in patria alla fine degli anni Quaranta, in seguito alle relative aperture del
SCavez zacollo
regime. All’inizio del decennio successivo alcune delle sue composizioni vennero eseguite in Spagna. Un caso particolare è quello di Roberto Gerhard. Il musicista era nato in Catalogna ed aveva ricoperto un ruolo istituzionale nel governo repubblicano della sua regione. Il suo legame con la cultura catalana lo rese particolarmente inviso al regime, che combatteva le culture minoritarie (basca, catalana e gallega) nel nome del centralismo castigliano. Gerhard lasciò la Spagna e si stabilì a Cambridge, dove sarebbe morto nel 1970. Il musicista tornò varie volte in patria, ma al contrario di quanto accadde ad altri la sua musica fu oggetto di un ostracismo non dichiarato. Nonostante un certo controllo, peraltro inevitabile in una dittatura, la condotta particolare del regime franchista fu applicata a tutti i campi della cultura. Artisti di talento come i pittori Salvador Dalí e Joan Miró me Rodrigo fiorirono proprio nella Spagna franchista. Naturalmente questo non assolve la dittatura spagnola, ma la differenzia da altre esperienze totalitarie del Novecento. Bisogna comunque sottolineare che questo fu in parte imposto dai limiti della macchina repressiva statale, che non aveva i mezzi per esercitare un controllo paragonabile a quello dei paesi comunisti. Preciso e ben documentato, il libro di Eva Moreda Rodriguez offre un intreccio equilibrato di racconto storico e riflessione, con giudizi politici ed estetici che ci permettono di conoscere un mondo finora ignoto.
disegno di Massimo Cavezzali
9 11 MARZO 2017
Il mondo
senza
gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni
di Carlo Cuppini L’angelo ha un cazzo enorme e splendente. Sempre turgido, tutto d’oro, riluce sul bianco immacolato del vestito e delle ali spiegate. Le mine esplodono con fragore al suo passaggio, sotto la lieve pressione esercitata dai piedi. Il volto imperturbato, lo sguardo alto e lontano, rivolto a un presente futuro, rivelano che il boato continuo non sfiora le sue orecchie. L’angelo cammina lentamente, senza fretta, senza esitazione. Procede seguendo una linea diritta finché le bombe esplodono sotto la crosta del suolo. Poi si volta, fa un passo di lato, ricomincia a camminare nella direzione contraria. E la sequela di detonazioni riparte. Va avanti e indietro battendo tutta l’area, ara il terreno per dissodare la morte in agguato. Quando ogni ordigno è giunto al termine della sua attesa e ha
Foto di
Pasquale Comegna
10 11 MARZO 2017
Ali spiegate pronunciato la sola parola affidatagli dagli umani, l’angelo spalanca le ali come un airone sull’argine del fiume, poi alza le braccia fino ad averle parallele al terreno e lentamente ruota su se stesso, secondo la direzione verso cui il cazzo dorato sembra tirare. Come la bacchetta di un rabdomante, il cazzo indovina la prossima zona dove la morte dal volto di uomo è stata innescata; dove i semi se ne stanno acquattati a sognare il breve istante di una gloria metallica, sanguinaria e lucente, sepolta un palmo sotto la superficie di quel suolo che ci è dato, unico pavimento di casa.
Il sole basso all’orizzonte
di Mariangela Arnavas Intrigante la trama, affascinante la città associata al colore ma non convincente l’ultimo film di Ferzan Ozpetek, che racconta il ritorno ad Istanbul di uno scrittore devastato da una tragedia familiare ed emotivamente bloccato come un insetto nell’ambra. Gli attori danno ottima prova di sé; in particolare il protagonista, nei cui occhi si leggono gli eventi, si riflettono le immagini e si può seguire lo svolgersi lentissimo della trama, come in un riflesso interiore. Ma sono le frasi chiave del dialogo che smontano il fascino delle immagini, le atmosfere incerte ed enigmatiche, colmandole di fastidiose banalità, talora perfino tali da determinare involontari risvolti umoristici. Asserzione chiave di tutta la storia, più volte ripetuta è: «Chi vive troppo nel passato non riesce a vedere il presente», non una grande pensata, a dire il vero, per di più in contraddizione con lo sviluppo del film dove lo scrittore protagonista Orhan ritroverà la forza creativa e la capacità di sentimento proprio tuffandosi nelle pieghe della sua città natale, quindi ritrovando le sue radici, che non possono che essere passato, anche se passato vivente. Riaffiorando Orhan piano alla vita, si scoprirà attratto di nuovo da una donna, la bellissima amica dello scrittore Denise, suo ospite misteriosamente scomparso subito all’inizio del film, e questa donna gli dirà che potrebbe essere l’uomo della sua vita. Dopo momenti di silenzio e dopo essere uscito da casa di lei Orhan tornerà emozionato per esprimere il suo sentire, peraltro non si capisce perché non a lei ma al marito di lei, a sua volta quello, guardandolo, dirà che non si stupisce ma che non ha nessuna chance e a quel punto, dopo una pausa di suspence nella quale si aspettano rivelazioni degne della complessa e drammatica trama del film, il marito farà la sua rivelazione decisiva: «Perché io sono arrivato per primo». Se a quel punto gli occhi profondi di Orhan ci sembrano più che altro imbambolati forse non è proprio un caso. Anche la sparizione del regista ospite, che dà origine a tutta la storia e alla rinascita del protagonista e che è una citazione dall’Avventura di Antonioni, non ha l’analoga caratteristica portante del film d’origine, dove il senso della scomparsa di una donna ( interpretata da Lea Massari) affiora lentamente dal disvelarsi anche delle caratteristiche del contesto sociale e degli altri personaggi, in particolare del futuro marito, Gabriele Ferzetti. Qui l’assenza del regista, amico di Orhan, risulta più che misteriosa semplicemente senza spiegazione né risoluzione. E la città, vista molto dall’alto e da interni
Le molte cose di Ozpetek sofisticatamente decadenti, che pure dispiega il suo fascino, appare inspiegabilmente appena sfiorata dalle vicende tragiche e pericolose degli ultimi tempi. Mentre Erdogan cerca di far approvare un referendum che concentrerebbe nelle sue mani tutto il potere almeno per i prossimi 10 anni destituendo il Parlamento, e contemporaneamente arresta e fa scomparire gli oppositori, in questo film ci sono solo un paio di accenni alla difficilissima situazione presente, alle madri che reclamano i figli scomparsi
in piazza, ad un gruppo di profughi, aiutati dai protagonisti a spostarsi; piccoli incidenti di percorso, che non impediranno al protagonista di tuffarsi fiducioso per attraversare le pericolose acque del Bosforo, metafora della vita. Altra frase centrale:»il dolore separa le persone o le unisce per sempre», fa venire voglia di dire con Shakespeare, che ci sono tante ma tante più cose in cielo e in terra e anche in Turchia oggi di quante non ne preveda la filosofia di Ozpetek.
11 11 MARZO 2017
Bizzarria degli
oggetti
Dalla collezione di Rossano
di Cristina Pucci Questa grossa scatola, anni ‘20/’30 del ‘900, è bellissima e anche se non ho trovato niente di niente riguardo al Biscotto della «Industria Dolciaria Prodotti Cucciolo», sita a Roma in v. Prenestina, come scritto sul retro, ve la propongo lo stesso. L’immagine del bambino che scappa con il «malloppo» biscottoso, la sua espressione di sorpesa irritazione per l’essere fermato da quel dolcissimo e furbastro canaccino con fiocco rosa, è davvero deliziosa e sicuramente in grado di far nascere in ognuno la voglia di assaggiare almeno un pezzetto di quei contesi biscotti! Ho trovato, pensate, l’elenco dei nomi delle Ditte che producevano farina a Roma all’inizio del ‘900, di quelle che producevano dolciumi e si avvalevano di scatole di latta e l’elenco di quelle che producevano quest’ultime! Ma della Cucciolo nulla. Con la parola latta o tolla si intende un sottile lamierino di ferro la cui superfice sia rivestita di uno strato di stagno, materiale resistente e non ossidabile, in grado di aiutare nella conservazione degli alimenti. Pare che in Germania, grazie a giacimenti di ferro e stagno, la «banda stagnata» sia stata usata per produrre posate, pentole, attrezzi da cucina e contenitori per alimenti fin dal XIII secolo. In Italia produzione ed uso si sviluppano all’inizio dell’800 nei dintorni di Genova, grazie alla presenza in zona di una acciaieria e ai ricchi e cospicui commerci favoriti dal porto, rapidamente si passa dagli stagnini alle piccole industrie metallurgiche che poi fioriscono in tutta Italia. Verso l’inizio del ‘900 si afferma la tendenza alla decorazione delle scatole con disegni litografati. Artisti ed artigiani della carta stampata e della neonata grafica pubblicitaria compresero subito le potenzialità dello scatolame e fiorirono i bozzetti ad esso dedicati. La industrializzazione, il diffondersi di mezzi di trasporto più rapidi, la possibilità per molti di avere un salario sicuro furono fra gli elementi che aumentarono il benessere ed i consumi, il che favorì nascita e diffusione di Fabbriche di biscotti, cioccolata e dolciumi vari, prima nel Nord Italia, a Torino soprattutto, poi un
12 11 MARZO 2017
Sapore di cucciolo
po’ ovunque. Le scatole per biscotti, nostro tema odierno, erano grandi e belle, spesso, come questa di Rossano, avevano una parte rotonda trasparente da cui si vedeva il contenuto, stavano appoggiate in bella vista sui banchi delle pasticcerie o delle «drogherie» e, una volta vuote, venivano nuovamente riempite. Questo sistema, detto del «vuoto a rendere», faceva sì che disegni e decori durassero abbastanza prima di essere rinnovati, uno soltanto, i due vecchietti della Talmone, è sopravvissuto fino ai nostri giorni, icona di se stesso oltre la originaria Ditta. Le scatole più costose, ed ora pregiate per i tanti collezionisti, erano quelle per cui era stato crea-
to un bozzetto originale e che mostravano il nome della ditta in bella evidenza. Esiste un Museo, «La Casa delle Scatole di Latta», unico del suo genere, si trova a Gerano, vicino Roma. Marina Durand de la Penne, sua anima e curatrice, racconta di come l’essere stata folgorata dalla bellezza di una antica scatola Saiwa, vista a casa della nonna di un amico ed averla ricevuta in dono da lei, che si era accorta del colpo di fulmine, sia stato l’evento che ha determinato il suo cammino e la sua storia: cercare scatole di latta, metterne insieme quante più possibile, esporle in un Museo, provare a raccontare con le immagini che esse propongono la Storia d’Italia, dalla fine dell’800 agli anni 50, promuovere mostre tematiche ovunque la invitino.Vi mostro infine «L’Uomo di Latta» bellissimo disegno di W.W. Denslow, illustratore della prima edizione (1900) del «Il meraviglioso Mondo del Mago di Oz «, racconto di Frank Baum, da cui il ben più noto film con Judy Garland.
di Giovanni Zorn E adesso sono già circa 32 chilometri che corro; sono partito a ritmo piuttosto elevato, forse troppo, ma ogni fatica era allontanata dall’ebbrezza agonistica e dalle emozioni intense, dai sensi aperti su ciò che mi avvolge. Rispetto alla tabella di marcia che mi sono preparato studiando i dislivelli, i chilometri ed i passaggi del precedente record, sono in anticipo di circa 2 minuti e questo mi fa sentire più forte, ma non necessariamente è un bene, so che devo usare l’intelligenza più che l’irruenza. Tra poco inizierà la parte difficile della traversata; da qui il percorso sale dritto verso il Monte Perone e poi verso i graniti del Capanne con strappi molto ripidi su pendii sconnessi e inospitali; il mio corpo è sotto stress e la mente fatica ad accettare altra fatica. Come mi aspettavo bastano i primi cambi di pendenza ad appesantirmi il passo e farmi scordare il piacere della corsa. Adesso che la stanchezza si fa avvertire intensamente, chi sa per quale meccanismo mentale, mi si accende un ricordo. «Sudo, le mani si appiccicano un po’ alla fòrmica azzurra del banco; l’ antologia è aperta, le pagine semilucide piene di righe troppo vicine tra loro; la maestra ci sta facendo leggere a turno un periodo; sono in ansia. Mi giro rapidamente, conto i compagni che mi precedono e ricerco col dito la fine di ogni periodo per trovare quello che toccherà a me. Mi immergo in quelle parole concentrandomi sillaba per sillaba per ricomporle, uno sforzo intenso, con il timore di sbagliare ancora e di arrossire di fronte a tutti; concentrato sul particolare, non riesco assolutamente ad afferrare il senso di ciò che leggo e tantomeno quello che stanno leggendo i compagni di cui sento la voce in lontananza. Sono a metà del periodo quando mi giunge nitida la voce della maestra che dice il mio nome. Oh cavolo! Ma come hanno fatto a fare così veloce! Qualche attimo di lunghissimo silenzio. Dove eri con la testa? Perché non segui la lettura te che ne hai più bisogno degli altri?» Corro dove la pendenza lo permette e cammino, spingendo con le mani sulle ginocchia, dove la salita è più impegnativa; ci ripenso e mi domando se con quelle frasi la maestra credeva davvero di spingermi a migliorare o era solo lo sfogo delle sue frustrazioni. Sicuramente mi ha aiutato a chiudere le porte ai libri. Sto affrontando la salita più impegnativa, i muscoli si stanno induren-
Dislessico nelle gambe do, rapidamente; temo l’arrivo dei crampi e per questo bevo e prendo sali minerali, la mente continua a vagare e a farsi attrarre dal disagio fisico, cerco di riportarla all’odore del bosco, del pino, del terreno umido, alla bellezza del golfo là sotto dove il mare è disegnato dalle scie del vento, ma è sempre più difficile staccarsi dei segnali violenti del corpo. «Qualche altro istante di silenzio, ancora sudore e guance paonazze, sento nuovamente la voce della maestra. Te lo dico io, eravamo a «strage», ma la prossima volta non te lo dico più. Altri secondi che non passano mai scorrendo col dito all’indietro il testo, troppo tempo evidentemente per
frenare il borbottio e le battutine dei compagni sostenuti dallo sguardo compiaciuto della maestra. Finalmente trovo il punto; comincio a leggere con passo quasi sicuro concentrato sulle parole che già conosco; cerco di farle scorrere nel modo più fluido possibile ma sempre senza afferrarne il significato.» Come coltellate profonde a cosce e polpacci arrivano i crampi, sono qualcosa che mi cade addosso dall’esterno e che non riesco controllare, per questo li temo. Mi concentro e mi ripeto che non devo assolutamente fermarmi, so che altrimenti aumenteranno; è una lotta, perché il corpo direbbe esattamente il contrario. «Quando arrivo alla fine del pezzo che mi ero preparato, per tentare di mantenere un ritmo, provo con lettura ad impressione: mi scordo delle singole lettere e, guardando la parola nel suo insieme, cerco di riconoscerla. Per le prime righe funziona, ma poi mi trovo davanti «uscita». Ero in seconda, era l’autunno del 1980 e da diversi mesi alla televisione si parlava di una tragedia successa ad un aereo. Per me la parola è «ustica» e la pronuncio sicuro. È un attimo, ed è come un’esplosione, prima delle risate dei compagni, poi dei capillari del mio viso. Non ricordo più nulla fino a quando sono sceso dal pulmino ed ho percorso a corsa quei duecento metri di strada sterrata in salita tra i campi per arriva re a casa.» Alla prossima la conclusione della traversata dell’Elba.
13 11 MARZO 2017
di Simone Siliani All’uscita dall’ultimo spettacolo di Paolo Hendel, In fuga da via Pigafetta (regia di Gioele Dix), ti prende una strana sensazione: di solito esci dai suoi spettacoli con le mascelle indolenzite, sganasciate dalle risate compulsive e violente, ma questa volta invece pensi e ti prende una leggera malinconia. Certo, si ride nello spettacolo di Hendel, ma ogni battuta sembra volersi equilibrare con un’altra amara e con lo sguardo basso, da cane bagnato di Paolo (chi lo conosce sa che ai due estremi della vasta gamma nella sua mimica facciale ci sono il sorriso gioioso, la faccia rubizza e gli occhietti sprizzanti felicità e, dall’altra, appunto, questo sguardo triste con gli occhi bassi). Non saprei se definirlo di genere comico questo spettacolo come dichiara il tamburino; opterei piuttosto per la commedia. Siamo negli anni ‘80 di questo secolo; la tecnologia ha sostituito emozioni e programmato le nostre vite, ma le ha rese anche possibili in un ambiente talmente devastato da non offrire più alcuna speranza all’homo sapiens. Già qui, in questo futuro non poi così distante e improbabile, c’è il primo momento di malinconia: non stiamo parlando di Asimov o di Guerre Stellari con scenari talmente lontani nel tempo da non preoccuparci poi più di tanto; è il nostro futuro, quello che toccherà ai nostri figli e nipoti nati in questo secolo; qualcosa con cui ci misuriamo giorno per giorno, con l’incoscienza di chi sta andando a velocità folle verso un muro. Siamo tutti soli in questa assurda corsa: Paolo vive in questa sua casa tecnologica e asettica, in cui tutto è programmato e gestito da un computer, in una solitudine assoluta e l’unico «dialogo» è appunto con il computer. Potrà vivere fino a 130 anni, anche grazie alla coltivazione di organi di riserva che conserva in frigo e cura con distaccata preoccupazione, ma che vita è questa? Perché dovrebbe valer la pena viverla? Ma irrompe in questa solitudine Carlotta sua figlia, prima in videochiamata e poi in vivo. Come tutti i figli di oggi, è più responsabile del padre; è preoccupata delle sue idiosincrasie, delle sue piccole manie, della sua malcelata solitaria tristezza. Ma poi, di persona, propone al padre l’unica lucida follia possibile, necessaria per una ventenne, assurda per un cinquantenne: cambiare vita, trasferirsi su Marte, emigrare, ricominciare daccapo in un altro mondo. Alla solitudine Hendel si è adeguato e assuefatto: con i suoi ritmi noti, le sue comode ritualità, la sua musica piatta senza sbalzi e improvvise variazioni. Come tutti noi? Carlotta gli chiede di ritrovare il se stesso di un tempo: è stato un grande biologo, come può non ricordarsene? Come può rassegnarsi alla sopravvivenza grigia e non rimpiangere i tempi avventurosi ed
14 11 MARZO 2017
La fuga di Paolo esaltanti della ricerca delle fonti e dei meccanismi della vita? Scuotiti e riprendi la strada che ti aveva fatto grande! Non è il futuro, questo; è il nostro presente. «Dai, babbo, scendi in piazza. Io L’8 lotto! Bisogna cambiare il mondo... la rivoluzione … o almeno la socialità antagonista in questo mondo squallido e normale! Il capitalismo deve essere combattuto. Ci stanno rubando il futuro e non possiamo stare fermi qui a farcelo sottrarre! Ma come, non ricordi, sei stato anche tu rivoluzionario di professione; non dicevi tu che la politica serve per capire e trasformare questo mondo ingiusto e difficile? Allora, ritrova te stesso; scendi in piazza con noi!». Siamo stati grandi biologi, studiosi della vita e suoi rivoluzionari, Paolo; abbiamo creduto in un mondo diverso per il nostro semplice esserci e per il nostro impegno collettivo; pensavamo che noi, tutti insieme, avremmo fatto la differenza; si poteva cambiare, sovvertire il corso ordinario delle cose; noi credevamo che l’ingiustizia dovesse essere combattuta e vinta e che la vita avrebbe avuto di nuovo una sua dignità. Quando è che abbiamo rinunciato? Quando è successo che il realismo ha soffocato l’utopia e la realtà si è imposta come l’unico realismo possibile? In fuga da via Pigafetta, in fondo, si interroga su questo: sul destino di questa nostra generazione di mezzo, disillusa, sconfitta, incapace di ritrovare l’entusiasmo della ricerca e dell’utopia, smarrita e assuefatta, rassegnata e incapace di utopia, di partire per Marte. Forse è la storia solita del passaggio generazionale? Sì, in parte. Ma per la nostra generazione c’è l’aggravante di aver immaginato l’inimmaginabile, di aver urlato la necessità di cambiare il sistema, ma poi il sistema ha cambiato noi; ci ha risucchiati come carta assorbente, ma lo ha fatto illudendoci di aver conquistato un benessere mai raggiunto da nessuna generazione prima. E, in più, abbiamo mangiato il futuro dei nostri figli. Ma loro sanno sorprenderci: invece di odiarci e di serbarci rancore, hanno la forza di rompere la cappa plumbea (anche quella reale che avvelena l’atmosfera che non possiamo più respirare) che li opprime, cercare una nuova strada e di offrirci di farla insieme,
Foto di Fabrizio Fenucci
scuotendoci dal nostro rassegnato torpore. Tutto lo spettacolo è attraversato da questo doppio registro: la rassegnazione e l’autocommiserazione del padre da un lato e la consapevole e adulta speranza della figlia dall’altro. Hendel-padre ha oblubinato il suo passato e vive in un inconsapevole presente, senza alcuna aspettativa se non quella di vedere crescere i suoi organi artificiali per poterli sostituire alla bisogna; Matilde Pietrangeli-figlia è pienamente consapevole del presente, e con sguardo lucido e disincantato, comprende che bisogna sparigliare le carte per vivere, non le basta sopravvivere a se stessa come ha scelto di fare il padre. È uno spettacolo binario, come il bivio che abbiamo di fronte. Come, in fondo, evoca la figura di Antonio Pigafetta, navigatore e geografo: c’è il Pigafetta che parte con Magellano per la circumnavigazione del globo fra il 1519 e il 1522 e che porta a compimento l’impresa dopo l’uccisione di Magellano, e c’è il Pigafetta astronomo e matematico, minuzioso compilatore di dati e osservazioni che poi confluiranno nella sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo, perduta e poi ritrovata da Carlo Amoretti nel 1797. Si sa che durante il viaggio, il 27 aprile 1521 nella battaglia di Mactan (Filippine) un folto numero di indigeni capitanati dal re Lapu-Lapu uccise Magellano; anche Pigafetta rimase ferito. Morto l’ammiraglio, Pigafetta assunse ruoli di maggiore responsabilità nella flotta e fu uno dei protagonisti della rocambolesca conclusione della circumnavigazione, in particolare gestendo le relazioni con le popolazioni autoctone. Un uomo doppio, Pigafetta: compilatore quasi ossessivo del reale che osservava intorno a lui, ma anche capace di immaginare un futuro diverso da quello noto e fideisticamente dato per sicuro. Abbiamo anche noi due possibilità, Paolo: crogiolarci in una rassicurante ma triste esistenza in attesa di concludere in un anonimo finale di partita, oppure accettare la sfida e partire per Marte. Cosa faremo, Paolo? Cosa avremo il coraggio di fare? E ce ne vuole per entrambe le strade. «Sì, aspettami, L’8 lotto anch’io. Stiamo a vedere com’è... è tanto che non scendo in piazza... sai, ai miei tempi.... beh, però... quanti colori e musica! Oh, c’è gente viva qui, mica stanchi riti politici. Divertente. Ah, ma ci sono anche quelli di sinistra. Beh, non proprio tutti, perché sai, il riformismo... dobbiamo definire la piattaforma delle cose possibili... non basta tirare cazzotti in cielo... Dici che se si sta troppo a rimuginare tattiche e strategie, alla fine ci si dimentica che c’è l’urgenza di essere vivi? Sì, forse hai ragione: mi stavano crescendo le ragnatele e il muschio addosso. Va beh, dammi codesta bandiera arcobaleno, la sciarpa fucsia e partiamo per Marte!»
di Danilo Cecchi Che la pittura e la fotografia abbiano sempre avuto molto in comune, è cosa più che nota. Che fra i fotografi ed i pittori siano sempre esistiti rapporti strettissimi, fino ad arrivare ad uno scambio di ruoli, con la nascita di figure ibride, come i pittori-fotografi ed i fotografi-pittori, è cosa altrettanto nota. Che poi si siano talvolta intrecciati dei rapporti sentimentali e delle storie d’amore fra fotografi e pittrici, è forse cosa meno nota, ma piena di conseguenze, sia sul piano strettamente individuale, e di interesse limitato, che su quello, di interesse più generale, di carattere linguistico. La storia si svolge fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del Novecento. Il fotografo in questione è il famoso ritrattista newyorkese Nickolas Muray, nato in Ungheria nel 1892 come Miklos Mandi o Murai, emigrato negli USA nel 1913, diventato fotografo nel 1920 e collaboratore di riviste come Harper’s Bazaar, Vanity Fair, Vogue ed il Ladie’s Home Journal, uno dei primi fotografi di moda ad utilizzare fino dai primissimi anni Trenta le pellicole a colori per impiego professionale, realizzando con questi nuovi materiali sensibili dei ritratti che le riviste dell’epoca acquistavano pagando anche cifre elevatissime. La pittrice, che non richiede invece nessuna presentazione, è Frida Kahlo. Il primo incontro fra i due personaggi avviene nel 1931 in Messico, dove Muray si reca a visitare il poliedrico amico, pittore, caricaturista, storico dell’arte ed etnologo, Miguel Covarrubias. Lui è appena uscito dal divorzio dalla seconda moglie, lei è da una paio di anni la moglie infelice di Diego Rivera, ed i due si conoscono e si capiscono immediatamente, ma lei decide comunque di rimanere, almeno per il momento, a fianco del marito. I due si incontrano di nuovo durante il soggiorno newyorkese di Frida e di Diego, poi di nuovo ogni volta che Muray torna in Messico, e la loro storia continua, a singhiozzo, per dieci anni, intrecciandosi con il divorzio di Frida e con il suo secondo matrimonio con Diego, celebrato nel 1940 a San Francisco. Nonostante Muray, rinomato e ricercato fotografo, frequenti, e non solo professionalmente, le più belle donne americane, attrici e modelle, l’infatuazione per Frida non viene mai meno, ed una volta finito l’amore, i due rimangono in ottimi rapporti fino alla morte di lei nel 1954. Lui muore invece dieci anni più tardi, nel 1965, per infarto. Da fotografo ritrattista, Muray non può esimersi dal ritrarre la donna che ama più di tutte le altre, ma diversamente da come ritrae le altre donne, con eleganza, buon gusto, e soprattutto con uno spirito squisitamente professionale e commerciale,
Il fotografo e la pittrice nel ritrarre Frida egli dimostra di subire tutto il fascino della forte personalità della pittrice, realizzando fotograficamente delle opere che sono, in pratica, degli autoritratti della stessa Frida. Il linguaggio pittorico e fortemente autobiografico di Frida si sovrappone al linguaggio un poco distaccato del fotografo, condizionandolo e coinvolgendolo al punto di vedere Frida più con gli occhi di lei che con i propri occhi. Nelle immagini che Muray realizza non vi è
dubbio che sia stata Frida a scegliere i costumi, i colori, le ambientazioni e gli atteggiamenti. Non vi è dubbio che sia la personalità di Frida, un’artista che ha sempre fatto della sua vita un’opera d’arte, ad imporsi sulla professionalità di Muray. Per una volta, almeno, si realizza la profezia di Baudelaire. La fotografia deve accontentarsi, in questo caso, di giocare il ruolo di una docile e sottomessa ancella della pittura, o ancora di più, della pittrice.
15 11 MARZO 2017
di Melia Seth Si arriva con la tramvia nei pressi di via Pisana. Qui Firenze sembra quasi moderna. Si risale la collina fra un verde classico di alloro e boschetto all’inglese e si giunge in pochi tornanti a Villa Strozzi. La città si è allontanata in fretta. Qui solo canto degli uccellini e profumo degli alberi. Accanto c’è la Limonaia, ultimo lavoro di Giovanni Michelucci per trasformare lo storico edificio annesso alla villa in una trasparente sala per concerti e spettacoli. Il cupolone è lontano. Zero turisti. Siamo in una semiperiferia prossima alla parte più rinnovata di Firenze di cui la tanto contestata e ora tanto amata tramvia di superficie fa parte a pieno titolo. Ci accoglie Francesco Giomi, direttore dal 2008 del centro di ricerca produzione e didattica musicale Tempo Reale. Saliamo all’ultimo piano. Se conta non solo che cosa si fa ma come e dove, non è secondario dove è collocata questa istituzione ormai storica. Una realtà fuori centro, in un luogo arcaico e di grande bellezza dove si produce e si fa arrivare da tutto il mondo la musica più interessante che oggi è in circolazione. Forse è così che dovrebbe essere un centro di ricerca all’avanguardia: con il necessario distacco e la continua partecipazione. Il lavoro di questi residenti ospiti, collaboratori a progetto e dipendenti è orizzontale. Il volto però è indiscutibilmente quello di Giomi. Pour cause. È lui che nel 2008 introduce il termine «musica di ricerca» mutuandolo dall’espressione «teatro di ricerca». È nota la definizione di Cage: «È sperimentale la musica che non si può prevedere in anticipo». Qui invece c’è l’idea di misurare gli estremi di un territorio, al modo dei geografi. È lui che preferisce alla musica contemporanea - che è scritta sul pentagramma - un percorso di scoperta, anche sorprendente. È lui che a metà degli anni 90 conosce e collabora con Luciano Berio. Nei suoi progetti dal vivo suona di solito (con) un doppio set, uno analogico e uno digitale: un sintetizzatore analogico e un computer. Queste alcune delle mie domande e delle sue risposte. Suoni il computer o con il computer? Con il computer. Io uso dispositivi tattili. Il computer mi serve se è comandato da una serie di controller: non lo faccio suonare da solo, mi interessa l’intervento umano. Che cosa accade quando suoni? La gestualità tipica della musica c’è. Faccio un gesto e si produce un suono. Questo cambia le cose rispetto al suonare algoritmi:
16 11 MARZO 2017
Libera tutti Dalla musica di ricerca al pop andata e ritorno è una modalità che contiene la possibilità della variazione. Che cosa ascolti? Di tutto: musica sperimentale, jazz di avanguardia, pop, leggera. Giorgia e Uri Caine. Varèse e Sciarrino. I Genesis e Goebbels. Ci sono momenti diversi nella vita: a volte si ha bisogno di rock, a volte delle avanguar-
die storiche. È come nel cinema: mi piacciono Ridley Scott e Tarantino, o Fincher, ma anche Kieslowski. Per me quello che conta è la qualità, in un campo e nell’altro. C’è musica ben fatta e musica fatta male. Punto. Esempi. Beh, da fine anni Sessanta ai primi anni Ottanta per me è stata l’epoca d’oro del rock. Negli ultimi venti anni ho percepito una crisi espressiva, ma spezzata da personaggi come Bjork, davvero rivoluzionaria, o come i Radiohead. Un esempio italiano. C’è stato un gruppo, i Matia Bazar, che negli anni Ottanta per qualche tempo ha fatto un pop eccellente, rinnovato, proprio grazie all’elettronica. Oggi ci sono fermenti in tante direzioni, alcune giovani voci molto interessanti... La musica di ricerca dice qualcosa al pop, al pubblico del pop? È la nostra sfida: perché se ti piacciono i Kraftwerk sei a un passo da Stockhausen. In un certo senso la musica di ricerca libera tutti: fa interagire musica alta e musica pop, generi musicali diversi, cerca senza rispettare gli steccati, prova, mischia, sperimenta, insegna ad ascoltare rumori, suoni, la melodia del mondo.
di Claudio Cosma L‘arte è senza capo né coda? O ha due code o due teste? La scultura dell’artista malese Tan Ruyi ha per titolo: «The short bench (Double Head)» che tradotto suonerebbe Panchina corta (Doppia Testa). Il rimando ad una panchina corta, piccola, breve ci suggerisce una sosta veloce, includendo così l’elemento tempo e il secondo titolo fa venire alla mente il dio bifronte Giano, che governa il tempo guardando contemporaneamente al passato e al futuro. Tuttavia questa associazione con l’antica divinità romana non doveva essere presente nella mente dell’artista con una preparazione culturale molto lontana da quella italiana. In realtà «Doppia Testa» è un grande animale, forse un ariete, realizzato con mollette colorate di giallo, verde, rosa e celeste, di diverse grandezze che si compattano, guardando la scultura da lontano o distrattamente in una forma composta da un unico materiale, ma avvicinandosi se ne comprende la costituzione fatta di una miriade di piccole cose. Naturalmente non sono fatte, queste mollette, come le nostre europee, quelle della scultura sono giapponesi, infatti la nostra artista vive da tempo a Shizuoka in Giappone, e sono delle piccole pinze o tenaglie di materiale plastico, tenute insieme da due cerchietti paralleli di metallo cromato e sono terribilmente attraenti. L’effetto divisionista, a secondo della distanza dalle quale si guarda la scultura, contribuisce ad aumentarne i chiaroscuri e in qualche modo ha renderne difficoltosa la lettura unitaria. Una volta capito di cosa è costruita, ci si tranquillizza e se ne studiano i contorni, che rimandano in effetti ad un animale, in questo siamo aiutati dal fatto che questo si regge su quattro gambette di legno grezzo e rettangolari a mo’ di corti trampoli che non sembrerebbero a tutta prima della vere e proprie zampe. Dunque l’arte è un animale acefalo o bicefalo con quattro zampe sul quale ci si può sedere, brevemente? Realmente questo abbinamento con l’arte mi piace molto, anche l’arte è composta da numerosi elementi che si legano l’uno con l’altro, proprio come una sequenza di mollette che oltre a legarsi fra loro come fanno i simili con i propri compagni omogenei, hanno la proprietà di trattenere elementi diversi, come appunto una molletta di plastica con un lenzuolo di cotone o altra biancheria. La scultura diventa, allora, una metafora della contemporaneità con la capacità delle
L’arte senza
sue componenti di stare, quando in stato di riposo (nel sacchetto porta mollette) fra loro medesime e quando sono all’opera (sui fili tesi dove si appendono gli abiti ad asciugare al sole), a trattenere elementi di genere diversi con funzione coesiva. Non oso associare le mollette al bucato come pratica femminile al pari dello stirare, rammendare, in quanto sopravvivenze anacronistiche e desuete. Il nostro fiero animale che al suo busto, sia davanti, sia di dietro ha al posto della testa e della coda due grosse mollette che lo rendono in qualche modo circolare, un animale mitologico e fantastico che si può interrogare da entrambi i lati per averne un responso o un vaticinio. Doppia Testa è una scultura in trazione, le cui singole componenti si stringono esercitando una pressione che le permettono di sostenersi, con la pressione delle sue innumerevoli molle perpetuamente all’opera. Similmente all’atomo con le orbite dei suoi neuroni e protoni, mantiene uno spazio fatto di vuoto come un enorme formicaio cavo dei suoi cunicoli, ma con la propria architettura compatta, governata da una forza invisibile. L’artista nata a Kuala Lumpur seppur evoca, nel mio immaginario di lettore di Salgari, pirati, kriss malesi e Perle di Labuan, è in realtà esponente di una cultura globalizzata che si
esprime in termini universalisti e il vernacolo delle particolari mollette è ininfluente al contenuto del suo racconto artistico e sarebbe ugualmente espressivo se avesse usato le nostre comuni mollettte. Il suo linguaggio particolare e quello di usare molti «media», dall’acquerello al collage, ma queste clips di plastica, con le quali costruisce animali e immense installazioni ambientali, rimangono per me fra le sue creazioni preferite. L’ariete di mollette giapponesi ha viaggiato dal Giappone all’Italia, senza scomporsi minimamente nel lungo percorso e pur arrivando integro in tutte le sue parti, da qualsiasi parte gli rivolga la mia domanda iniziale: «L’arte è senza capo né coda?», lui, ormai collocato su di un piedistallo museale,mi ignora, superiore.
capo né coda
17 11 MARZO 2017
Dragon Boat in Canada/3 di Andrea Caneschi Siamo alloggiati presso il Campus della Brock University a Saint Catharines a due ore di macchina da Toronto, scendendo a sud intorno al margine occidentale del lago Ontario, e ad una manciata di chilometri dalle cascate del Niagara e dal confine con gli Stati Uniti. Il campo di gara, che è allestito sul vecchio canale Welland, oggi in disuso, dista poco più di mezz’ora di macchina. Questo ci permette, il martedì mattina mentre ci spostiamo al campo, di cogliere una nuova impressione del territorio, attraversato la sera precedente ad ora tarda lungo comode autostrade. Questa volta viaggiamo su strade «normali», che uniscono le numerose cittadine dell’area intorno a Welland, ma rimane l’impressione di una scala dimensionale grandiosa rispetto ai nostri territori, con ampie strade, circondate da prati e parchi curatissimi, su cui circola un traffico modesto costituito per la gran parte da Suv e da grosse berline. Si attraversano frazioncine costruite lungo la strada, anonime e bruttine, a volte misere, senza storia, a volte con estese zone residenziali annegate in mezzo al verde, con teorie di singole abitazioni ad uno o due piani, con verande, prati curatissimi e macchinoni parcheggiati, proprio come vediamo nei film nord americani. Apprezziamo la curiosa sistemazione dei semafori, di là dall’incrocio, ben leggibili a patto che ci si ricordi di fermarsi dalla nostra parte del crocevia. La toponomastica è anch’essa annunciata in modo razionale da cartelli che, ben leggibili frontalmente, ci anticipano il nome delle traverse che incrociamo quasi sempre ad angolo retto, in una programmazione urbanistica assolutamente geometrica. Ci colpi-
L’alfabeto analogico di Andrea Ponsi In questo suo ultimo libro, Andrea Ponsi, (Disegnare analogie – Manuale grafico di architettura, LetteraVentidue Edizioni, 2016) architetto e docente in varie università statunitensi, sviluppa il tema affrontato dal punto di vista esclusivamente teorico nel precedente «L’Architettura dell’Analogia» : il ruolo che il pensiero analogico riveste nella ideazione di un progetto architettonico. «Disegnare Analogie» propone un innovativo metodo grafico mediante il quale è possibile passare dall’osservazione di un modello architettonico preesistente a un’idea progettuale
18 11 MARZO 2017
Il campo di gara
sce la vista di un cimitero lungo la strada, con le sue tombe ordinatamente disposte accanto ad un incrocio, fin sul vertice dell’angolo che le due strade definiscono: manca qualsiasi limitazione tra la strada e le tombe, così che se ti coglie la stanchezza mentre attendi il verde per attraversare, ti puoi sedere su una lapide a riposare un momento. La parte del canale in cui si terranno le gare è stata attrezzata per permettere lo svolgimento di sport acquatici, diffusissimi in Canada per la grande disponibilità di laghi e fiumi. A destra della tribuna principale un cuneo di vetro e metallo alto quattro piani protende sulla linea dell’arrivo i giudici di gara, i tecnici e le attrezzature per le riprese televisive. A sinistra, più lontano dalla tribuna, è collocato l’imbarco per gli equipaggi dei dragoni; più indietro, sistemate in lunghe file parallele, sono disposte le tende che ospiteranno le numerose rappresentative internazionali, in un affollamento di colori offerto dalle stesse tende, dalle bandiere nazionali e dei team, dalle variopinte divise di gara indossate dagli atleti, che animano il campo che a poco a poco si va riempiendo. È il primo giorno dei giochi ed è riservato alla
prova delle barche e dei percorsi: manca ancora la tensione della competizione e l’affollarsi agli imbarchi delle squadre chiamate dai giudici di gara per l’identificazione degli equipaggi. Sperimenteremo tutto questo nei giorni successivi, quando le gare si succederanno una dopo l’altra, i pontili saranno costantemente affollati di equipaggi in attesa della autorizzazione all’imbarco e lungo i sentieri di accesso si mischieranno gruppi di atleti in uscita, mesti o trionfanti per i loro risultati, squadre ben cariche, pronte alla gara, ritardatari affannati che corrono al pontile sperando di essere ancora in tempo per l’imbarco. Una confusione dovunque, sapientemente regolata, che al prezzo di pazienti attese sotto le tende degli imbarchi ad ogni turno, permetterà a tutti gli equipaggi di alternarsi sulle imbarcazioni, senza che mai un momento l’acqua non risuoni dell’ossessivo ritmo dei tamburi in gara e dell’incitamento del pubblico appassionato dalle tribune e dalle sponde del canale. Ancora non lo sappiamo, ma torneremo con qualche medaglia d’oro e d’argento a testimonianza di una prova sportiva all’altezza delle nostre attese.
ispirata dal modello stesso. Utilizzando esclusivamente i suoi disegni a mano libera l’autore riporta una serie di casi studio riferiti a contesti urbani, architetture storiche e contemporanee e paesaggi naturali. Il metodo prevede quattro fasi: osservazione, analisi, astrazione e analogia. Mentre è prassi comune per gli architetti servirsi di disegni di osservazione e analisi , meno esplorati sono il disegno di astrazione e di analogia; per astrazione si intende l’interpretazione soggettiva in forma grafica di elementi architettonici appartenenti al modello di riferimento, per analogia un’originale proposta progettuale ispirata dal modello e applicata ad un nuovo e ipotetico contesto. A dimostrazione dell’impiego pratico del metodo delle quattro fasi sono infine
presentati alcuni progetti dell’autore analizzati in relazione alle fonti analogiche da cui hanno tratto ispirazione.
di Ines Romitti L’obiettivo è stato centrato e superato, la sfida è stata vinta, in molti hanno creduto e supportato il progetto di valorizzazione e trasformazione del Giardino Michelucci in uno spazio di arte, cultura e condivisione, un intervento di grande impatto sociale, ambientale e culturale sul territorio. La formula del social crowdfunding supportato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze sulla Piattaforma Eppela ha innescato un coinvolgimento partecipativo innovativo già presente in molte realtà europee, una dimensione articolata tra enti, cittadini e associazioni. All’interno dello sky-line delle colline fiesolane, aperta sul panorama mozzafiato di Firenze, villa Il Roseto, sede della Fondazione Michelucci, custodisce la storia e la cultura del grande architetto legato alla natura e al giardino fin dalle origini del suo percorso professionale. Il suo interesse documentato per il giardino risale all’aprile del 1931 quando vince il Concorso per un giardino privato nell’ambito della Mostra del Giardino Italiano a Firenze. È un giardino formale abbastanza tradizionale ispirato ai giardini rinascimentali, pensato due anni prima del progetto assieme al Gruppo Toscano per la Stazione di S. Maria Novella, leggera e solida insieme nel macigno e nella cascata d’acqua. Se poi guardiamo ad un disegno del periodo della guerra (1944 Luglio 17) troviamo i tipici terrazzamenti toscani così commentati: «Il giardino deve essere «spettacolo», deve essere a
Il medioevo italiano in tv di Michele Morrocchi Mettete la Sicilia, il medioevo normanno, gli arabi, gli amori, i cavalieri. Metteteli insieme e potreste ottenere una serie che il Trono di Spade scansati. Un sogno? Potrebbe essere molto di più. Potrebbe diventare la prima web serie medievale pensata, girata e ambientata nel nostro medioevo, nella Sicilia dell’anno mille per la precisione. L’idea è di Francesco Dinolfo, giovane regista che ha già l’avallo della Sicilia Film Commission ma che sta proponendo l’idea al crowdfunding, cioè alla raccolta tramite internet di possibili produttori che contribuiscano con una cifra, anche piccola, alla realizzazione della serie. Ma qual è l’idea di partenza della storia? «Tutto ebbe inizio con una leggenda, -
Obiettivo centrato per il Giardino di Michelucci si legge sul sito www.indictus.it – la Leggenda dei 46 soldati normanni che con l’aiuto di San Giorgio sconfissero 3000 arabi in una sola notte. Dopo quella notte fatidica la Sicilia divenne facile conquista per le forze militari francesi. Una lotta tra due grandi religioni che riportano il conflitto al presente. Da questa leggenda, queste nuove Termopili, nacque un nuovo eroe a Cerami: Serlon Il Condottiero! Non ci volle troppo tempo che gli infedeli venissero banditi dall’isola. I francesi festeggiavano felici, alla corte di Jerax, nel cuore della Sicilia, fu allora che Benavert, emiro di Siracusa, l’ultimo a cadere, tesse un complotto contro i normanni inviando il Principe Ibrahim con una richiesta di armistizio». Da questo muove una serie che nelle intenzioni della produzione sarà composta da 7 episodi di 10 minuti ciascuno girati tra le montagne delle Madonie, una Sicilia praticamente sconosciuta al grande pubblico turistico, in cui la sceneggiatura ci mostrerà il non detto, l’indictus appunto, mostrandoci sia il punto di vista dei vincenti che degli sconfitti. Un proget-
vari piani, a «gradoni» o naturalmente naturali o artificialmente costruiti.» Questa idea di giardino la concretizza nel 1958 quando con la moglie andrà ad abitare nella casa a Fiesole, una sorta di balcone spettacolare con la struttura a gradoni e la vegetazione tipica delle colline toscane con olivi, cipressi, macchia mediterranea, la recinzione «verde» in Citrus triptera (Poncirus trifoliata), tipica dei confini poderali. Verso la fine della sua vita, Michelucci viene coinvolto nel progetto per il Giardino degli incontri a Sollicciano, che lega il suo guardare alla natura ai suoi interessi sociali e alla relazione tra l’uomo e l’ambiente. Uno spazio della città sostanzialmente «chiuso», in cui mettere in scena i rapporti tra le persone e aprire gli spazi interni verso l’esterno in senso simbolico, perché intrinsecamente rappresenta il cambiamento continuo, un’opera d’arte, in cui elementi naturali si intrecciano con quelli artificiali. Questo progetto si può leggere come la chiusura del cerchio iniziato nel 1931: il paesaggio e il giardino, che aprono e chiudono la parabola della vita di Giovanni Michelucci, hanno costituito una sorta di palinsesto di memorie sedimentate nel tempo a cui fare riferimento fino alla fine così come la storia e l’arte, con cui il rapporto è tale da fargli affermare «Tutta la natura in cui viviamo è Giotto». Giotto che «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno» (C. Cennini). to ambizioso a cui chiunque può contribuire attraverso la piattaforma https://www.indiegogo. com/projects/inwdictus-the-land-is-no-one-shistory#/ e far si che il non detto, sia da tutti noi visto.
19 11 MARZO 2017
L’andata e il ritorno
Spiriti di
materia
di Vera Linder
Vera Linder nasce nel marzo 1992 e vive a Milano fino all’età di 5 anni. Frequenta le scuole elementari in Austria e si diploma al liceo classico a Venezia. Nell’estate 2015 partecipa a un corso di scrittura creativa presso la Naropa University, in Colorado. Una brezza invade l’incrocio delle possibilità. D’improvviso quello scrivere di persone solo perché non scivolino nell’oblio, quel diario di memoria, quella ricerca infinita nelle lettere riacquistano il loro Vero senso insensato. Nell’estate 2016 torna alla Naropa University. Attualmente sta terminando i suoi studi di Giurisprudenza a Trento. Ancora non è chiaro se dovrà accantonare il suo progetto di una tesi giuridica scritta in versi. Certo è che a giugno tornerà alla Naropa.
Sono partita ho lasciato un braccio in stazione. Dieci unghie si sono confuse invisibili tra i fiori mentre ritiravo la carta da viaggio. Una gamba si è rifiutata di uscire di casa, mezzo torso è rimasto incastrato tra le porte del treno e metà volto non l’ho mai conosciuto. Il cuore convive con sé stesso separato in casa. Sono partita dovevo andare in una via di ville -alla fine ho dormito nell’armadio di Harry Potter. è stato piacevole. Le scale mobili si sposano bene con Beethoven. Per un momento sono distratta. Stupita dei brevi oblii lungo la giornata. Sono cavità surreali grotte per finta. Non sto bene e sono partita. Restituitemi il braccio restituitemi le mie unghie, la gamba agorafobica, mezzo torso. Presentatemi metà del volto, stracciate le carte di divorzio del cuore. Sono partita ma un solo mignolo non è sufficiente per un buon equilibrio.
20 11 MARZO 2017
Sono ritornata ci sono di nuovo parole che non conosco e ci sono nuove parole che riconosco la eco, ritorna indietro, questo schiaffo di realtà. una voce vellutata rauca si alterna ad accenti incomprensibili. Sono ritornata e con me le voci. Ricominciano nella testa le abbraccio, le odio le amo e ogni tanto non le riconosco. Trottiamo a braccetto lungo i viali impeccabili della sezione aurea. Voglio trovare il centro del cervello, la fonte delle voci. Sono ritornata per estrarre spine deluse per cercare i petali del fiore di cui conosco solo lo stelo. pensate saranno viola? Beethoven ritorna di nuovo questa volta è più triste rimbalza sotto forma di pioggia su una giacca che non dovrebbe bagnarsi. Beethoven è tornato di nuovo e sono ritornata anch’io speranzosa di trovare in questo groviglio di parole -irriconoscibili mentre si insinuano familiari sottopelleancora di nuovo ancora poesia.
La primavera si avvicina sempre di più e chissà in quanti sono lì ad aspettare di vedere il sole scaldare le giornate più lunghe. Al piazzale Michelangelo c’è un irrefrenabile fermento per questa imminente primavera/estate 2017 e La Loggia sta pensando in grande per regalare ai suoi ospiti esperienze sempre più indimenticabili all’insegna del buon cibo, di ottimi Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy cocktail e di novità stuzzicanti. +39 055 2342832 Esatto, La Loggia è un work in progress, www.ristorantelaloggia.it adesso, e sta progettando come animare reservation@ristorantelaloggia.it al meglio le proprie giornate e serate al chiaro di luna. È ancora troppo presto per svelarvi tutti i segreti, ma i cambiamenti sono dietro l’angolo! Nuovi arredi, nuove idee e nuove emozioni da godere dall’alto di una Firenze mozzafiato. Vi annunciamo solo che potrete sorseggiare il vostro cocktail e gustarvi un piatto sfizioso seduti e rilassati nella vostra cornice storica preferita, scaldati dai raggi di un sole estivo e dalla novità delle nostre proposte, magari in compagnia di amici. Forse questo lo sapevate già. Ma riuscite a immaginare qualcosa di meglio? Grandi progetti stanno per sbarcare su piazzale Michelangelo e La Loggia vuole essere sempre in prima linea per la qualità dei suoi servizi. Lasciatevi coccolare.
Ristorante caffetteria
La Loggia
premio letterario
Maschietto Editore
PRIMA EDIZIONE 2017 È bandita la prima edizione del concorso «Racconti Commestibili», la sfida letteraria lanciata da Cultura Commestibile e Maschietto Editore, in collaborazione con il Ristorante Caffetteria La Loggia. Il concorso è dedicato al tema del cibo, inteso in tutti i sensi letterali e figurati. Può partecipare chiunque, senza limiti di nazionalità e di età, inviando un solo racconto della lunghezza massima di 5000 battute entro il 15 aprile 2017 all’indirizzo email redazione@maschiettoeditore.com. La partecipazione è gratuita. La valutazione e selezione degli elaborati sarà affidata a due giurie: la prima, formata da redattori interni alla casa editrice e della rivista, individuerà la rosa dei 10 testi finalisti, La giuria tecnica, composta da Marco Vichi (scrittore), Francesco Mencacci (direttore della scuola Carver di scrittura creativa), Sandra Salvato (giornalista), selezionerà i tre racconti vincitori che saranno pubblicati sulle pagine di Cultura Commestibile. Al primo classificato sarà offerta una cena per due persone al Ristorante Caffetteria La Loggia. Il regolamento completo è scaricabile dal sito www.maschiettoeditore.com.
21 11 MARZO 2017
di Simonetta Zanuccoli Disse di lei Colette: «non sapeva ballare ma sapeva spogliarsi». Questa è la fantastica storia di uno dei più famosi miti del XX secolo. Margaretha Geertruida Zelle nacque in Olanda nel 1876 in una famiglia agiata. Il padre, commerciante di cappelli, era proprietario di una fattoria, di un mulino e di un antico palazzo. Ma la felicità per Margaretha durò poco. Il padre fallì, la famiglia si sfasciò, la madre morì quando lei era ancora piccola. Crebbe da uno zio e appena possibile rispose a un’inserzione matrimoniale e nel 1895 sposò un ufficiale di ritorno dalle colonie indonesiane per malattia. Una volta guarito, la coppia, che intanto aveva avuto due figli, si trasferì prima a Giava poi a Sumatra. La vita familiare non era però felice. Lui beveva e era ossessivamente geloso. Dopo la tragedia di un figlio morto, forse avvelenato da un servitore per vendetta, Margaretha e il marito ritornarono in Olanda. Nel 1902 la coppia si divise e il marito ottenne l’affidamento della figlia. Lei si trovò sola e senza un soldo. Affidandosi alla sua eccezionale bellezza tentò la fortuna andando a Parigi (1903) dove si mantenne facendo la modella per i pittori e forse la prostituta finché non ebbe un colpo di fortuna incontrando il ricco barone de Marguéri del quale divenne l’amante. Una sera frequentando il salotto di un amico di questi, dopo troppo champagne, si esibì tra la lussuriosa ammirazione dei presenti in una danza spogliarello, a suo dire ispirata a quelle che aveva visto a Giava, che mimava un approccio amoroso. Il successo fu clamoroso e tutti i migliori salotti di Parigi volevano alle loro feste la «danzatrice orientale», come ormai lei si definiva, rivestita di soli veli. È in una di queste feste nel 1905, a casa di madame Kirèersky, che Emile Guimet, ricco industriale lionese, collezionista di arte orientale che conservava e esponeva nel museo da lui fondato che porta il suo nome, uno dei più belli di Parigi, in place d’Ièna 6, sedotto dalle storie fantasiose sulla sua origine e dal suo char-
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me, ebbe l’idea di proporre a Margaretha di esibirsi nella bellissima biblioteca del museo davanti a un pubblico selezionato di diplomatici e artisti famosi. Guimet la voleva presentare come una danzatrice sacra di Giava e per questo scelse per lei un nome più esotico che in malese vuol dire sole: Mata Hari. Dopo lo spettacolo in un ambiente così eccezionale, sotto l’egida di un orientalista stimato come Guimet, la bella olandese ebbe la sua definitiva legittimazione e, preceduta da fantastici episodi della sua immaginaria vita avventurosa, cominciò a esibirsi nei locali famosi a Parigi come il Moulin Rouge, les Folies Bergeres, l’Olympia e all’estero. Il suo erotismo attirava sciami di ammiratori. Ma il 1914 portò un’altra svolta nella sua vita. L’inizio della prima Guerra Mondiale impedì infatti a Mata Hari, a Berlino per preparare un suo spettacolo, di ritornare a Parigi e l’obbligò a rifugiarsi in Olanda dove, di nuovo in crisi economica, diventò l’amante di un banchiere, poi di un colonnello, poi di un maggiore...e poi del console tedesco in Olanda che nel 1916 le propose di diventare una spia per la Germania sfruttando le confidenze dei suoi tanti «conoscenti». Ma scoperta da uno di questi che la denunciò al controspionaggio francese, Matha Hari si trovò, in cambio di moltissimi soldi, a essere anche spia di quel paese. Così tra una lussuosa vita mondana e i facoltosi amanti cominciò a fare un pericolosissimo doppio gioco che purtroppo durò poco. Arrestata dai francesi, nei tre giorni del brevissimo processo a porte chiuse, testimoniarono a favore o contro tanti ufficiali dei quali lei era stata amante e confidente. Condannata a morte nel 1917, ormai cent’anni fa, si presentò elegantissima come al solito davanti al plotone d’esecuzione, che salutò con un gesto gentile della mano. Senza benda sugli occhi e con un colpo al cuore così morì Matha Hari, femme fatale, cortigiana, icona della Belle Epoque, spia e soprattutto danzatrice orientale. Il suo corpo, così ammirato in vita e non richiesto da nessuno da morto, venne dato alla facoltà di medicina per essere sezionato.
Mata Hari La spia della Belle Epoque
di Ruggero Stanga Il Jet Propulsion Laboratory sta cominciando a fare pubblicità a viaggi-vacanza in un (non!) prossimo futuro sui pianeti del Sistema Solare e dei pianeti extrasolari. Anche alla NASA sono spiritosi e autoironici: pare che il suggerimento sia venuto dal Direttore di JPL, sulla base di una serie di poster degli anni 30 dei Parchi Nazionali americani. Nove artisti hanno preparato 14 poster, dopo una serie di conversazioni e discussioni con gli esperti del ramo. E qui sta un po’ la chiave di lettura: informare anche i non esperti della ricerca di frontiera su temi affascinanti; un Grand Tour nel Sistema Solare insieme alla sonda Voyager, o nel sistema Trappist-1, diventa un’avventura, rende partecipi dell’interesse della ricerca, dà uno slancio verso gli sviluppi futuri, invita a cercare altre informazioni sul catalogo dell’agenzia di viaggio… Disegni, non fotografie artefatte: ora, perché fotografie dei paesaggi con personaggi umani non esistono proprio, e, soprattutto per i pianeti extrasolari, non esisteranno per un bel po’; allora, negli anni ’30, perché la foto a colori non era molto diffusa. Il libero gioco della fantasia degli artisti è comunque guidato da quello che effettivamente si è imparato dalla ricerca. Le aurore boreali di Giove, ad esempio, osservate dal telescopio spaziale Hubble; i geiser di Encelado, osservati dalla sonda Cassini. Per i pianeti extrasolari, le cose sono più complicate. I pianeti extrasolari sono stati quasi tutti scoperti non direttamente, ma grazie alle influenze che hanno sulla stella intorno a cui orbitano: variazioni periodiche di velocità o diminuzioni periodiche di luminosità. Strumenti capaci di osservarli direttamente vicini come sono a una stella che è infinitamente più brillante cominciano a entrare in funzione solo ora; e comunque, vedranno i pianeti solo come puntolini nel cielo: dobbiamo dimenticare le immagini di Giove o Saturno anche attraverso un semplice telescopio da principianti: le figure che appaiono sui giornali sono appunto frutto di fantasia guidata. E quando si legge che su Kepler 7b sono state viste le nuvole, beh, in realtà si è osservato (grazie a due telescopi spaziali, Hubble e Spitzer) che è più luminoso nella luce visibile di quanto farebbe pensare la luminosità infrarossa, legata alla temperatura del pianeta. La deduzione è che è possibile che il pianeta sia più brillante del dovuto, perché nuvole nell’atmosfera riflettono la luce visibile che riceve dalla sua stella. Più preciso, ma anche un tantino meno coinvolgente.
Vacanze exotiche
Le informazioni che ora si riescono a ottenere sui pianeti extrasolari sono dunque scarse: temperatura, che si può valutare a partire dalla distanza dalla stella intorno a cui orbitano; massa e densità, dalle misure che si riescono a fare sull’orbita. Però, sono già sufficienti a dire se il pianeta è caldo, se ci può essere acqua liquida, se è roccioso, o se è gassoso. E, come per Kepler 16b («Dove la vostra ombra ha sempre compagnia», come dice lo slogan) quante stelle ci sono nel sistema planetario. Perciò, sapremo come immaginare di preparare la valigia, con il costume da bagno o con gli sci…
23 11 MARZO 2017
di Paolo Marini La storia di un uomo che decide di lasciare la vita ordinaria per raggiungere un posto selvaggio non è certo nuova, tanto meno lo è se il soggiorno è stabilito a termine. Bisogna dunque scoprire se, riportatone il resoconto in una sorta di diario, il protagonista/ scrittore abbia comunque di che sollecitare e incuriosire il lettore. Sotto questo profilo «Nelle foreste siberiane», di Sylvain Tesson, è una risposta convincente - ove depurata di qualche ovvietà e del verosimile fondo di autocompiacimento. Tesson ha vissuto sei mesi (febbraio-luglio 2010) in una regione sperduta della Siberia, sulle rive del lago Bajkal, là dove «l’inverno trasforma ogni cosa in un dipinto fiammingo, nitido e smaltato», a più di cento chilometri di distanza da un villaggio abitato. Il mio interesse è attirato dalla scelta, in esergo, di citazioni assai asciutte («Perché io appartengo alle foreste e alla solitudine» di Knut Hamsun e «La libertà esiste sempre. Basta pagarne il prezzo» di Henry de Montherlant), dalla rarefazione estrema dei rapporti umani, che avvolge le persone di una luce inedita («I guardiani sono Serghej e Nataša, belli come divinità greche (…) vivono qui da vent’anni dando la caccia a i bracconieri. La mia capanna è a cinquanta chilometri dalla loro (…). Sono contento di averli come vicini. Mi farà piacere pensare a loro. Il loro amore è un’isola nell’inverno siberiano.») e dal necessario (vista la condizione), continuo riferimento ad una delle attività più importanti e superflue dell’esistenza, la lettura («Chi non ha troppa fiducia nella ricchezza della propria vita interiore deve portarsi dietro dei buoni autori»), il cui nutrimento è assicurato dalla pila di libri portata dalla Francia (l’elenco è nelle prime pagine del diario). Il Nostro non ha evidentemente (come quasi chiunque tra noi) l’anima di un Padre del deserto ma un poco la conosce («Il lusso dell’eremita è la bellezza»/»Gli anacoreti formano una élite»), comprende la sensibilità dell’eremita (che «capta l’intero universo» ed è «estremamente attento alla minima sfaccettatura») e non nasconde le verità meno edificanti («Gli anacoreti volevano sfuggire alle tentazioni mondane. Alcuni peccarono per orgoglio e confusero la diffidenza nei confronti del loro tempo con il disprezzo per i
24 11 MARZO 2017
Fuga in Siberia
(a termine)
loro simili»), quasi ad ammonire sé stesso. Nel ‘viaggio’ portato sulla carta non mancano passi che profumano, altrimenti, di improvvise rivelazioni («Gli uomini dei boschi sono delle centrali che emanano forza vitale. Quando entrano in una stanza, il loro irraggiamento satura lo spazio») e così una vita spesa in solitudine (definita, con l’immensità, «ingrediente necessario» di una vita libera) può diventare ricca, ricchissima: nella piccola capanna il tempo si accuccia «come un vecchio cane ubbidiente» e finisce che non ci si accorge della sua presenza. Si potenziano sensi e intelletto, capacità di introspezione ma anche di osservazione; si può constatare che «vicino a un lago si vive bene: offre uno spettacolo di simmetria (le rive e il loro riflesso) e una lezione di misura (l’equilibrio tra l’acqua immessa dagli affluenti e quella sottratta dagli emissari)» e i piccoli eventi che contrassegnano lo sbocciare della primavera diventano oggetto di annotazione. La natura muove i suoi passi, comunque e a prescindere dall’uomo, e se «l’uomo non sopporta l’indifferenza della natura nei suoi confronti», allora - si domanda Sylvain (tipico nomen-omen) - «chi ama la natura per il suo valore intrinseco e non per i suoi doni benefici?» Il racconto esce alla distanza come una sequenza quasi cadenzata di affermazioni solenni, come scolpite, che qualche volta diventano perle. Non sapevate che «abitare il silenzio è una fonte di eterna giovinezza»? Il diario/racconto di Tesson nasce da un’esigenza profonda, che lo costringe - esattamente come la solitudine di quelle vastità - a fare i conti con sé stesso. D’altronde, «se non si tiene un registro dei fatti e dei gesti, a che serve vivere? Le ore scorrono via, i giorni si cancellano e il nulla trionfa». L’insorgere di questo nichilismo potrebbe generare un senso di eccessivo smarrimento nel Nostro eroe? Ecco che subito interviene a tranquillizzarsi: «perché credere in un Dio esterno alla sua creazione? Gli schianti del ghiaccio, la dolcezza delle cince e la potenza delle montagne mi esaltano molto di più dell’idea di qualcuno che sia all’origine di tutto.» Un modo sbrigativo di accantonare – forse, più che risolvere - il problema: difficile pensare che un uomo capace di sondare il proprio abisso non sappia o non voglia scrutare più a fondo; o sopra i ghiacci, le cince, le montagne...
di Giacomo Aloigi Lungo il marciapiede di via de’Neri, decine di fan stanno pazientemente in fila in attesa di entrare da Contempo per accaparrarsi il triplo album dal vivo di Gianni Maroccolo, appena messo in vendita: «Niente è andato perso». Sono appena le 10 di sabato 4 marzo e la giornata è piena di appuntamenti. Sarà una full immersion nel mondo del musicista che è stato una delle anime creative dei due più significativi gruppi rock italiani degli ultimi trent’anni, Litfiba e CSI. Mi accaparro la mia copia del «balenottero», con un art work sobrio e accattivante, saluto dietro al bancone l’amico Giampiero Barlotti che sembra non invecchiare mai, e m’incammino lungo Via Verdi. Poco distante, alle 12, è in programma l’incontro con la stampa allo Spazio Alfieri, dove nel pomeriggio si terrà il concerto. Arrivo e incontro Bruno Casini che fa da gran cerimoniere. Gianni rilascia una breve intervista per il TG regionale e poi ci sediamo attorno a un tavolo, dove iniziamo una lunga chiacchierata. Maroccolo parla volentieri, a dispetto di una sorta di apparente timidezza che non frena la sua voglia e disponibilità a raccontarsi. «Questo disco è il sunto di un anno bellissimo passato con gli amici a suonare in giro per l’Italia. Non ci sono sovra incisioni o interventi ex post sulle canzoni. Ho ascoltato tutti i nastri dei concerti e ho selezionato il materiale che mi sembrava migliore». Il suo tono è sempre pacato, disteso. «Stiamo vivendo un momento storico di passaggio» spiega ravviandosi i capelli ancora lunghi e folti «anche nella musica. Non ho dubbi che torneremo a sentire qualcosa di davvero originale e innovativo». Ci racconta di come sia stata importante, negli ultimi anni, l’amicizia e il sodalizio artistico con Claudio Rocchi, scomparso nel 2013. Inevitabile che il discorso cada poi sui Litfiba, sui loro esordi. «Suonavamo fino a sera, in cantina. Poi andavamo a mangiare qualcosa e spesso io e Antonio (Aiazzi, n.d.r.) tornavamo a provare fino alle sei del mattino. È così che sono nate tante cose dei Beau Geste ma anche brani che poi proponevamo agli altri e diventavano canzoni della band.» Poi, com’è noto, alla fine degli anni ottanta, le strade si sono divise e non senza ruggini. Si sono però riuniti, per pochi mesi, nel 2013. «In un primo momento dovevano essere solo due concerti, poi sono diventati ben diciassette. Quando ci siamo ritrovati sono stato attento a non riaprire vecchi cassetti che potevano far venir fuori antichi contrasti. Ho parlato poco e ho cominciato subito a suonare. Ma non c’è voluto molto perché si ricreasse l’alchimia di un tempo e tutto è filato alla grande. Ci siamo divertiti davvero». Al punto che proprio Ma-
Niente è andato perso roccolo sarebbe stato disposto a continuare, a fare un disco d’inediti. «Il suono c’era e io ero pronto a provare a comporre di nuovo insieme. Magari lasciando da parte il marchio Litfiba e usando solo i nostri nomi, Aiazzi, Maroccolo, Pelù e Renzulli. Ma l’idea è rimasta lì…» Gli chiedo se dopo trentacinque anni da protagonista della musica italiana, abbia ancora un sogno, un progetto da inseguire. «Alla mia età, e ormai vedo i sessanta, il mio unico progetto è quello di non avere progetti.» Lo dice sorridendo, ha un’aria appagata, sembra gratificato dalla vita. «Cinque anni fa ho avuto un infarto» racconta «è stata l’esperienza più bella e psichedelica della mia vita. Ho riscoperto il mare, faccio venti chilometri di bicicletta al giorno, seguo una dieta stretta.» Il sigaro toscano però è rimasto, osservo. Fa spallucce e continua: «Se qualcosa deve venire, lo farà da sola. Come con i Litfiba. In quel periodo avevo quasi deciso di smettere con la musica, poi arrivò la telefonata per la reunion. Magari aprirò una piccola osteria per chi deve stare attento all’alimentazione come me…». Il tempo è passato alla svelta, è ora di andare a provare. Alle 15 inizierà il concerto. Possono accedervi solo coloro che hanno acquistato il disco e coloro che hanno aderito al crowdfunding lanciato sulla rete per acquistare lo storico basso di Gianni, battezzato Attilio, che
oggi andrà per sempre in pensione (verrà esposto da Contempo). La sala dell’Alfieri è gremita, i posti a sedere sono insufficienti, molti si accalcano lungo le pareti laterali. Tra il pubblico anche Ghigo Renzulli e Alberto Pirelli, lo storico manager della IRA Records, con cui Gianni ebbe più di un contrasto («Ma fa tutto parte del passato, adesso gli voglio bene»). Il live comincia in perfetto orario. Accompagnano Maroccolo, l’amico di sempre Antonio Aiazzi alle tastiere, Antonio Chimenti alla voce e tastiere, Simone Filippi alla batteria e Beppe Brotto alle chitarre (nonché sitar, banjo e molto altro!). Viene proposta la scaletta che in gran parte si ritrova nel disco. Spiccano Nights and storms(composta con Battiato) e la struggente Les derniéres sept minutes de mon père, che racconta degli ultimi minuti di vita del padre di Gianni. Il testo è di Claudio Rocchi. I Litfiba sono omaggiati con una versione lenta e intensa di Versante Est e con Peste, mentre dal repertorio dei CSI viene scelta Inquieto. Colpisce l’ottima performance di Andrea Chimenti, anche lui, ai tempi, nella scuderia IRA con i Moda. Un artista che ha ricevuto meno di quanto avrebbe meritato. Si chiude con Maroccolo che imbraccia per l’ultima volta Attilio ed esegue da solo alcuni storici riff di basso. Il pubblico applaude, quasi commosso. Il concerto è finito ma la giornata ancora no. È prevista una cena con tutti i fan accorsi. Per stare ancora un po’ insieme a parlare e condividere racconti. Niente andrà perduto. Anche se dovessimo ritrovarci, tra qualche tempo, in una piccola osteria vegana.
25 11 MARZO 2017
Maschietto editore
Architettura
Percorsi di architettura e arte nel mediterraneo Dopo Albania. Architettura e città e The Presence of Italian Architects in Mediterranean Countries, continua con questo volume fotografico di Marco Mazzi l’esplorazione dell’architettura e della storia urbanistica dei Balcani. Uninspired ArchitectUre è un viaggio fotografico atttraverso i luoghi irrisolti, i cantieri, le macerie, i non-luoghi, gli interstizi di Tirana. Un paesaggio sconnesso che rivela una vitalità del divenire e del rinnovarsi della città, ma anche l’aspetto inumano delle trasformazioni dettate dalla brusca imposizione del capitalismo in un paese impostato su diversi parametri sociali ed economici. Spesso ciò che è in costruzione si confonde con ciò che è definitivamente distrutto, nella continuità di un sentimento postumano che emerge ancor più esplicitamente nel racconto, scritto sempre da Mazzi, che ripercorre la carrellata fotografica e ne descrive la sequenza e lo svolgimento, raggiungendo un effetto quasi allucinatorio. Marco Mazzi è ricercatore, curatore, fotografo e artista.
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Parole di Elisa Storia vera di una ragazza dell’Europa dell’Est, tra violenza, prostituzione e voglia di riscatto, raccontata in prima persona.