Cultura commestibile 209

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Numero

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«La democrazia, cara signora, significa che se quest’uomo, lei e io ci trovassimo in un’isola deserta, noi uomini avendo la maggioranza assoluta decideremmo che lei signora si coricasse con noi. Questa è la Democrazia. E con i 2/3 dei voti noi potremmo anche decidere di mettere questa decisione in Costituzione» Janusz Korwin-Mikke, europarlamentare

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Questa è la democrazia, bellezza Maschietto Editore


NY City, Agosto 1969

La prima

immagine

dall’archivio di Maurizio Berlincioni

Siamo ancora dentro i Projects, i ragazzi festeggiano la fine della scuola e l’arrivo delle vacanze, come se si potesse parlare di vacanze per chi è costretto a vivere il queste parti della città! Passare il tempo per la strada è il solo modo di socializzare in queste aree ed anche la presenza della polizia è una costante quotidiana per questi ragazzi costretti a crescere troppo in fretta. Il loro tempo migliore scorre in mezzo alle difficoltà sociali e familiari che fin dalla nascita li accompagnano in una vita quotidiana davvero difficile.


Numero

18 marzo 2017

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Riunione di famiglia Lory strikes again Le Sorelle Marx

Mucche Lo Zio di Trotzky

I woman I Cugini Engels

In questo numero Da Centro Storico a Paesaggio Urbano Storico di Carlo Francini I licantropi di Urbino racconto di Carlo Cuppini Diabolus helveticus di Alessandro Michelucci Torto marcio di Mariangela Arvanas Collezionista per fini artistici di Cristina Pucci Il radicale Alessandro Poli di Laura Monaldi Un fotografo nelle favelas di Danilo Cecchi

Direttore Simone Siliani

Dislessico nelle gambe di Giovanni Zorn Una Donna Cavallo alla moda di Elene Usdin di Claudio Cosma Luoghi dell’arte di oggi a Parigi di Simonetta Zanuccoli Cerere di Ruggero Stanga Cosa sarebbe Dylan, senza la notte? di Serena Cenni Dei limoni e del loro giallo di Paolo Marini e Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Paolo della Bella, Vera Linder, Andrea Caneschi, Barbara Palla...

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111 redazione@maschiettoeditore.com www.maschiettoeditore.com Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Venghino signori, venghino premio letterario

PRIMA EDIZIONE 2017

Mandate i vostri racconti

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Progetto Grafico Emiliano Bacci

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di Carlo Francini Il dibattito intorno al tema della città storiche risale alla prima metà del XX secolo e la sua evoluzione, sempre più internazionale, la si deve alla creazione dell’UNESCO nel 1945 e delle organizzazioni internazionali a supporto come ICOMOS, ICOM e ICCROM in grado di organizzare momenti salienti intorno alla tutela del patrimonio culturale sia con campagne internazionali, si pensi a Abu Simbel nel 1959 o al 1966 per Firenze e Venezia, ma anche alle raccomandazione e alle convenzioni per la protezione del patrimonio come la Convenzione per la Protezione del Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale del 1972. Siamo passati da una nozione di salvaguardia di singoli monumenti o gruppo di monumenti, all’idea di paesaggio urbano sempre legato ad un insieme di edifici. Negli anni settanta del secolo scorso si avrà un deciso salto di qualità sull’estensione di valore patrimoniale, non soltanto a edifici isolati di eccezionale qualità e al loro ambiente, ma estendendo il valore a quartieri di città e villaggi di interesse storico o culturale. La raccomandazione di Nairobi del 1976 integrerà nel concetto patrimoniale le aree storiche intese, non solo come edifici costruiti, ma anche come spazi aperti evidenziando la necessità di governarne la trasformazione; e ancora nel 1979 con la Carta di Burra prenderà spazio la definizione di «luogo di rilevanza culturale» aprendo al tema dei valori immateriali. Grazie alla Carta di Washington del 1987 si passerà a definire in maniera puntuale le relazioni esistenti tra la città e l’ambiente circostante e gli aspetti immateriali legati allo spazio pubblico, fino al riconoscimento, nel 1992, della categoria del «paesaggio culturale» arrivando poi nel 2000, con la Carta ICOMOS di Machinami, a evidenziare la necessità di tutelare, non solo gli aspetti materiali della città storica, ma anche quelli immateriali in grado di dare il senso profondo della quotidianità e del legame tra la città e i suoi abitanti. Finalmente nel 2005 per la prima volta troviamo la definizione di «paesaggio urbano storico» nel documento UNESCO denominato «Memorandum di Vienna» che può essere sinteticamente rappresentata come l’insieme dei valori formati dal tessuto costruito, dagli spazi aperti e dalle percezioni e relazioni visive; su questa idea portante lavorerà un gruppo di esperti per arrivare nel 2011 alla Raccomandazione sul paesaggio urbano storico approvata dalla Conferenza generale dell’UNESCO. Nella raccomandazione UNESCO si vuole

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Da Centro Storico a Paesaggio Urbano Storico

rafforzare un approccio in grado di tenere in massima considerazione la «qualità dell’ambiente umano» e volto a potenziare «l’uso produttivo e sostenibile degli spazi urbani...in una relazione equilibrata e sostenibile tra ambiente urbano e naturale». Il paesaggio urbano storico è una visione che vuole consolidare la presenza della cultura e del patrimonio nelle politiche urbane, con l’ambizione di mettere al centro della città la sua identità storica, culturale, ambientale e sociale in un contesto dinamico, valoriale e non solo prescrittivo e di mera conservazione, esaltandone l’unicità e al tempo stesso l’universalità. Ritengo opportuno, a questo punto, citare per esteso la definizione di paesaggio urbano storico così come specificata nella raccomandazione del 2011: «Il paesaggio storico urbano è l’area urbana intesa come risultato di una stratificazione storica di valori e caratteri culturali e naturali che vanno al di là della nozione di «centro storico»


o «insieme» sino a includere il più ampio contesto urbano e la sua posizione geografica. Questo più ampio contesto include in particolare la topografia, la geomorfologia, l’idrologia e le caratteristiche naturali del sito; il suo ambiente costruito, sia storico che contemporaneo; le sue infrastrutture sopra e sotto terra; i suoi spazi aperti e giardini, i suoi modelli di utilizzo del suolo ed organizzazione spaziale; percezioni e relazioni visive, così come tutti gli altri elementi della struttura urbana. Esso include anche le pratiche e i valori sociali e culturali, i processi economici e le dimensioni intangibili del patrimonio così come collegate a diversità e identità. Questa definizione fornisce la base per un approccio comprensivo ed integrato all’identificazione, accertamento, conservazione e gestione del paesaggio storico urbano nel quadro di un generale sviluppo sostenibile. L’approccio al paesaggio storico urbano ha lo scopo di preservare la qualità dell’ambiente umano, migliorando l’uso produttivo e sostenibile degli spazi ur-

bani riconoscendone il loro carattere dinamico e promuovendo la diversità sociale e funzionale. Esso integra gli obiettivi della conservazione del patrimonio urbano e quelli dello sviluppo sociale ed economico. È radicato in una relazione equilibrata e sostenibile tra ambiente urbano e naturale, tra le necessità delle generazioni presenti e future e l’eredità del passato. L’approccio al paesaggio storico urbano considera la diversità e la creatività culturale come risorse chiave per lo sviluppo umano, sociale ed economico e fornisce gli strumenti per gestire le trasformazioni fisiche e sociali ed assicurare che gli interventi contemporanei siano integrati armoniosamente con il patrimonio in un ambiente storico e tengano in considerazione i contesti regionali. L’approccio al paesaggio storico urbano apprende dalle tradizioni e percezioni delle comunità locali nel rispetto dei valori delle comunità nazionali ed internazionali.» Siamo ancora agli inizi di questo percorso di consapevolezza sul paesaggio urbano storico,

che è bene ripetere non riguarda soltanto i centri storici Patrimonio Mondiale ma tutti i centri storici, ma sono certo che su questa concezione si potrà costituire il fondamento per un approccio dinamico e reale, non solo per gli strumenti classici della pianificazione e regolamentazione della città storica, ma una fonte di ispirazione per nuovi e più innovativi dispositivi come, ad esempio, i piani di gestione per i siti Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Nel nuovo Piano di Gestione del Centro Storico di Firenze si è iniziato questo percorso attraverso la definizione della Buffer Zone che è stata approvata nel 2015 dall’UNESCO: tutto il suo impianto è centrato sul valore del paesaggio storico urbano ma ancora rimane molto cammino da fare. Per rafforzare questa visione forse si dovrà sostituire nel linguaggio comune il termine «centro storico»? Da Centro Storico di Firenze a Paesaggio Urbano Storico di Firenze? Il suono non è un gran che, ma chissà…

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Le Sorelle Marx

Lory strikes again

Lory strikes again! Come i nostri lettori sanno, siamo dei fan incondizionati di Lory Del Santo, però va detto che la Lory in fatto di riproduzione ha le idee un po’ confuse. Nel gennaio scorso dichiarò alla trasmissione della Barbara D’Urso che Silvio Sardi «è il padre di mio figlio solo per caso». Qualche giorno fa ha dichiarato che, con il fidanzato per caso Marco Cucuolo avrebbe deciso di avere un figlio: «Io e Marco avremo un figlio. Marco ha fatto gli esami ed è tutto Ok. L’intenzione c’è da parte di entrambi, non solo in teoria. Ora dipende solo da me, non basta il coraggio. Devo trovare un sistema che mi aiuti, dato che rimanere incinta naturalmente alla mia età è molto difficile, se non impossibile». Dunque, ora c’è da trovare questo «sistema». E poi bisogna che sia un sistema buono davvero perché la Lory mica si accontenta di una prole qualunque, la pretende femmina: « Sarà una femminuccia. … mi manca la femmina, la desidero

I Cugini Engels

Mucche

È finita in vacca, ormai, fra Turchia e Olanda. Letteralmente. Bulent Tunc, presidente dell’Unione dei produttori della Turchia ha dichiarato guerra alle mucche olandesi, per il solo fatto che il suo presidente Erdogan se l’è presa con il governo olandese che non ha consentito ai suoi ministri di andare a fare comizi alla comunità turca nella terra dei tulipani per il prossimo referendum che lo incoronerà monarca assoluto del suo paese. Per questo Tunc ha minacciato di estradare 40 mucche olandesi tuonando che se Amsterdam non se le riprenderà, « le macelleremo e distribuiremo la carne gratuitamente». Insomma è un po’ come se l’Argentina avesse impedito alla ministra Boschi, durante la recente campagna per il referendum costituzionale, di andare a fare proselitismo nella grande comunità di italiani a Buenos Aires e la casa musicale

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tanto, e non da oggi. È un rimpianto molto forte quello che provo e voglio recuperare. Al tempo stesso mi rimprovero perché, pur avendo avuto spesso questo pensiero, non ho fatto in modo che si concretizzasse. Ora però le cose stanno cambiando. Voglio una figlia perché so che con lei avrei un rapporto speciale, molto empatico. E sono certa che tutto può succedere.». Addirittura la Lory è disponibile anche a partire perché le hanno detto che in Spagna ci sono delle cliniche che fanno questi miracoli e lancia, quindi, un appello: «Se trovassi chi mi dice che ha avuto un’esperienza positiva e mi desse l’indirizzo del luogo dove realizzare questo sogno partirei entro aprile» Se, dunque, vi fossero altre svitate sessantenni come la Lory che si son trovate bene e vogliono segnalare l’indirizzo, noi - per solidarietà femminile e anagrafica – raccogliamo le segnalazioni. Basta scrivere a nonèmaitroppotardi@marcoèpronto.com.

Ricordi decidesse di rimandare in patria 40 scatoloni di nacchere argentine. Succede sempre nei regimi che vi siano sempre i più realisti del re. Ma il buon Tunc ha, purtroppo per lui, toppato. Infatti, la mucca olandese, definita comunemente «Frisona», è conosciuta come Holstein-Friesian, dalle origini ritenute dell’Olanda settentrionale e Frisia, dove le antiche tribù dei batavi le coltivavano già 2000 anni fa. Ma ricerche storiche più recenti fanno risalire l’origine di questa razza in verità dall’Asia centrale; certamente più vicina alla Turchia che all’Olanda. Insomma, per una mucca Frisona si rischia una guerra nucleare; come già ebbe ad intuire il grafico Storm Thorgerson che ne mise una, bellissima ed enorme, sulla copertina del disco dei Pink Floyd nel 1970, Atom Heart Mother. Nick Mason ha confermato recentemente che la copertina si riferiva ad una simbologia classica che vede la mucca come rappresentazione della Madre Terra e quindi un riferimento indiretto alla «madre dal cuore atomico». Il cuore pulsante di Bulent Tunc, che Erdogan eleverà a rango di ministro dell’agricoltura.

Lo Zio di Trotzky

I woman

Segnatevi questo nome: Sara Manfuso. Fra qualche anno la troveremo ministra di un governo a guida PD (ma all’occorrenza anche di altra coalizione); di cosa non si sa, ma in fondo che importa, son dettagli. Il fatto è che Sara Manfuso ha il physique du rôle adatto. La Sara, dalle colonne della Repubblica, tiene a farci sapere che ha preso la tessera del PD. E ‘sti cazzi! direte voi. E qui vi sbagliate perché la Manfuso non fa mai niente a caso. Si capisce subito, fin dalle sue proditorie dichiarazioni, che punta in alto. Esse hanno la profondità di un Bobbio e l’oratoria di un Winston Churchill: «Non sono di destra. Sono per una sinistra di governo». Renzi? «A livello comparativo è il meno peggio». «Di cosa vorrei occuparmi nel PD? Ho un’associazione, I woman: vorrei occuparmi dei diritti delle donne». «Una bella donna... è un valore aggiunto». Dunque, la Manfuso (moglie di Alfredo D’Attorre) ha un radioso futuro davanti a sé, ci potete scommettere. Infatti, fin dal referendum aveva, argutamente, scelto la parte giusta, quella di Renzi, perché come ebbe a dichiarare alla Stampa: «Noi ci vogliamo porre in discontinuità con le figure del passato e le cariatidi politiche«. Poi si è buttata in una frenetica attività politico culturale: sua l’idea di organizzare un dibattito con #drink dal titolo «Dalla #minigonna al #burkini, la #libertà delle donne a partire dal loro armadio» per l’8 marzo, perché «il lavorio del #pensiero non esclude il #divertimento». Ci darà tante gioie e soddisfazioni.

Della Bella gente

di Paolo della Bella


di Lido Contemori Nel migliore disegno Il massagdidascalia di Aldo Frangioni dei Lidi giatore L’umano e liberale controllo di Jashin possibili

alle frontiere ungheresi

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Questa mattina sono passato da Novoli, dentro la Mercafir, per seguire l’allenamento della Fiorentina. Dopo aver letto la newsletter del sindaco Nardella in cui perentoriamente si affermava che «non si torna più indietro», e dopo aver riletto le newsletter del sindaco Renzi, che diceva che lo stadio lo avrebbe fatto lui da sindaco, ho detto che dovevo vedere questa meraviglia architettonica che – pensate la fantasia – vuole ricordare nel design un fiore. Dunque dopo essermi sorbito 7 ore di coda per i cantieri della tramvia e cambi di sensi di marcia in tempo reale come nemmeno in un livello di tetris, sono arrivato ai cancelli della Mercafir dove, per mia somma disdetta, ho trovato solo camion e facchini. Non che contassi di trovare un terzino destro, né che molti dell’attuale rosa della Fiorentina meritino molto di più che spostare cassette di frutta, ma dello stadio nessuna traccia. Allora sul mio smartphone mi sono riletto per bene la newsletter di Nardella e ho letto che il sindaco ha presentato il progetto dello stadio. Come prima lo avevano presentato Domenici e poi Renzi. Lui lo ha presentato elettrizzato, ci dice, ma ha ripassato il cerino ai Della Valle: «Il comune ha fatto tutto il possibile per far sì che questo sogno possa diventare realtà». Come a dire: ora tocca alla proprietà tirare fuori i soldi. Come per il terzino destro… A proposito ora chiamo Corvino ci sono un paio di facchini che secondo me sulla fascia… uno è pure Serbo…

Segnali di fumo di Remo Fattorini Si chiama sfiducia. È questa la malattia che affligge l’Italia, diventata in questi anni sempre più aggressiva e contagiosa. Ce lo dice il crollo della partecipazione alle ultime elezioni regionali: dall’Emila Romagna dove solo il 37% degli elettori si presentarono alle urne, alla Calabria con il 43,8 fino al preoccupante 48% nella nostra Toscana. Sintomi di una malattia grave. Da ricovero immediato in rianimazione, ma di cui

invece nessuno si è allarmato. Nessuna raffinata e approfondita analisi diagnostica, né tantomeno terapie e correttivi appropriati. Altra autorevole conferma ci arriva dai recenti dati dell’Osservatorio Ipsos-Comieco 2017. Impietosa la diagnosi: gli italiani si rifugiano sempre più in sé stessi, negli affetti e in famiglia; si rafforza l’appartenenza al territorio; mentre cresce, in maniera significativa, la sfiducia nella classe dirigente e nelle istituzioni. Ecco il dato: per il 90% degli italiani la classe dirigente è sempre meno credibile e non rappresenta più un esempio positivo. Insomma ci fidiamo poco o per nulla di chi abbiamo eletto a rappresentarci. Da qui la progressiva caduta del senso civico e dello spirito di coesione. È il trionfo dell’individualismo. Del resto la stessa vicenda Consip, proprio di questi giorni, dimostra l’indifferenza verso questa malattia. Tutti ci ricordiamo le vicende di Josefa Idem, Nunzia De Girolamo, Maurizio Lupi e di Federica Guidi. Per opportu-

nità politica si dimisero dal loro incarico. Fecero un passo indietro - e qualcuno non era neppure indagato – pur di evitare ombre di sospetto che potessero creare difficoltà ai partiti che sostenevano il governo. Argomenti allora molto sbandierati. Fatto sta che a soli pochi anni di distanza, quando si tratta di affrontare la vicenda che ha coinvolto il ministro Lotti, queste motivazioni vengono rovesciate. Non c’è più nessuna opportunità politica da tutelare, né ombre da cancellare, né nebbie da diradare. Si sorvola persino sulle due versioni dei fatti contrastanti: quella del ministro e quella di Marroni-Vannoni. Lotti appartiene ad un certo sistema di potere che deve essere tutelato, necessario per la sopravvivenza del governo. Coerenza e buon esempio vanno in soffitta. E cosi la fiducia verso gli altri scende ad un modesto 37% e quella verso la classe dirigente ad un fragile 10%. Mia nonna me lo diceva spesso: il male voluto non è mai troppo.

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di Laura Monaldi Intorno agli anni Sessanta e Settanta anche l’architettura – insieme alla musica, alla letteratura e alle arti visive – subì lo scarto dalla norma tradizionale, operando un vero e proprio cambio di direzione: la normale visione delle strutture architettoniche venne radicalmente messa in crisi dalla presa di coscienza di un mondo in completa e continua evoluzione e da un senso di oppressione storico-culturale che andava sviscerato e trasformato, in nome del progresso e della rinascita culturale che gli intellettuali avvertirono inesorabilmente. La tendenza alla sperimentazione interdisciplinare e linguistica, propria di questi anni accomunata alle diverse linee neoavanguardiste, si unì alla nascente concezione di un’effimera estetica urbana del contemporaneo, percepita come in discontinuità con il nuovo senso sociale che si stava pian piano formando. Ironia e denuncia divennero i diktat di una rinascita architettonica, dove il capitalismo, la società borghese e la consueta pratica edilizia incontrarono la parodia, la ribellione, la creatività e un diverso modo di concepire lo spazio pubblico e privato. Nel 1966, con la mostra Superachitettura presso la Galleria d’arte Jolly 2 di Pistoia, Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Roberto Magris, Piero Frassinelli e Alessandro Magris fondarono il gruppo Superstudio, a cui qualche anno più tardi prese parte anche Alessandro Poli, il quale analizzò sapientemente le modalità attraverso cui doveva rinnovarsi l’architettura, procedendo oltre la dimensione urbana verso un utopico ampliamento delle prospettive e delle coscienze contemporanee ormai del tutto alienate e alienanti. In linea con la nascente poetica dell’Architettura radicale a cui aderirono molti gruppi operativi proprio in quegl’anni, come il gruppo Archizoom fondato a Firenze nel 1966 da Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi, il gruppo UFO fondato a Firenze nel 1967 da Lapo Binazzi, Carlo Bachi, Patrizia Cammeo, Riccardo Foresi, Titti Maschietto e inizialmente Sandro Gioli, le sperimentazioni di Gianni Pettena, nonché i successivi 9999 e Zzigurath, Alessandro Poli seppe coniugare le istanze del gruppo Superstudio con una propria personalissima ricerca architettonica fondata su una visione futuristica delle possibilità tecniche e progettuali della disciplina, donando al tempo stesso all’architetto, portavoce di una nuova interpretazione sociale, un ruolo culturale e intellettuale più aulico rispetto al passato.

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Il radicale Alessandro Poli

Dall’alto in senso orario Architettura Interplanetaria, 1971, Riproduzione fotografica del fotomontaggio originale, cm 100x70; Zeno, 1974, Foto, collage e tecnica mista su cartone, cm 100,5x70; Piper, 1966, Matite colorate e pastelli su carta, cm 38x106 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


Musica

Maestro di Alessandro Michelucci Il termine diabolus in musica indica un accordo formato da due note, che viene comunemente chiamato tritono. È uno degli intervalli più difficili da intonare, tanto che un coro rischia di stonare se lo utilizza. Il nome sinistro risale al Medioevo, quando lo studio della musica era monopolizzato dal clero cattolico. Il suo effetto dissonante indusse i monaci a considerarlo opera del diavolo: questo spiega il nome. Lo stesso Guido d’Arezzo (992 circa – 1050), inventore della nostra notazione musicale, lo definì «intervallo dannoso». Non solo, ma fu a lungo proibito utilizzarlo, pena la scomunica. Da allora sono passati molti secoli, ma il diabolus in musica continua ogni tanto a scatenare la furia repressiva degli intolleranti: nel 2016 Ted Cruz, senatore repubblicano del Texas, è arrivato a proporre che fosse dichiarato fuorilegge… Al di là di questi risvolti balzani, nella storia della musica si incontrano diversi musicisti che hanno utilizzato il tritono, fra i quali Giuseppe Tartini («Il trillo del diavolo»), Hector Berlioz («Symphonie fantastique») e i Beatles («Blue Jay Way», «The Inner Light»). Un esempio più recente arriva dalla Svizzera. Parliamo di Sonar, un quartetto con una formazione tipicamente rock: due chitarre, basso e batteria. Attenzione però. Oggi, dopo tanti anni di intrecci fra jazz, classica e world music, siamo abituati a strumentazioni piuttosto ricche. Diversamente da quanto accadeva negli anni Sessanta e Settanta, sono rare le formazioni basate sul trio chitarra-basso-batteria, che rimane generalmente associato al rock duro. Ma il gruppo svizzero che ci interessa non ha niente a che vedere con tutto questo. Nonostante la scarsità degli strumenti utilizzati, infatti, Sonar si dimostra capace di una ricchezza timbrica e ritmica che lo allontana di molti anni luce da gruppi come Deep Purple e Led Zeppelin. Il terzo CD del quartetto guidato dai chitarristi Stephan Thelen e Bernhard Wagner si intitola Black Light (Cuneiform, 2015). In genere l’etichetta fondata da Steve Feigenbaum propone nomi ignoti al grande pubblico, ma dotati di un curriculum prestigioso. I quattro membri del gruppo in questione, per esempio, hanno collaborato con pianisti elvetici come Irene Schwei-

Diabolus helveticus zer, jazzista sperimentale, e Nik Bärtsch, che ha inciso vari dischi per l’etichetta ECM. In Black Light, come nel precedente Static Motion (Cuneiform, 2013), non ci sono episodi pirotecnici né magniloquenti. Robusta ma mai dura, la musica trova nell’uso del tritono un punto di forza che la caratterizza nettamente. Cosa piuttosto insolita, le influenze musicali del gruppo vengono apertamente dichiarate sul sito (www.sonar-band.ch): si spazia da Bartók a Reich, da Branca ai King Crimson. Per quanto riguarda il gruppo di Fripp, si tratta in particolare della seconda formazione, quella che include Larks’ Tongues in Aspic (1973) e Starless and Bible Black (1974). Non a caso Thelen e

Foto di

Pasquale Comegna

Wagner hanno seguito i corsi del grande chitarrista inglese. Tale influenza appare chiaramente in brani come il conclusivo «Critical Mass» e quello che intitola il CD. Recentemente il gruppo ha registrato un altro lavoro, Vortex, che dovrebbe uscire entro la fine dell’anno. Chi non ha ancora accantonato gli stereotipi consunti a base di cioccolata, formaggi e orologi è caldamente consigliato di ascoltare la musica di questo quartetto elvetico. Oggi seguiamo giustamente le espressioni musicali che ci arrivano dalle zone più remote del pianeta, ma non dimentichiamo quelle che vengono concepite a poche centinaia di chilometri da noi.

Il sole basso all’orizzonte

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Il mondo

senza

gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni

di Carlo Cuppini I licantropi di Urbino sono soliti sbranare la gente, come del resto i loro simili. Vanno in giro per le strade e i vicoli tra il primo pomeriggio e la tarda sera (raramente li si incontra di mattina o a notte fonda) e vestono generalmente in modo dozzinale: sono piuttosto trasandati, portano vecchi giacconi a vento e berretti di plastica imbottita acquistati in qualche bancarella dell’usato. Quando la fame li punge si avventano sul primo passante e lo divorano sul posto, senza tanti riguardi. Per questo la gente non li vede di buon occhio; ma bisogna dire che nessuno ha mai avuto il coraggio di contestare un licantropo in pubblico. Perlomeno in Urbino. Stasera entriamo in un locale, io e te, il solito bar stretto e lungo con qualche tavolino sul fondo. La ragazza che sta dietro il bancone, affascinante sebbene rozza nei modi, macella un grosso agnello spellato a colpi di mannaia. Mentre ordiniamo una birra e un succo di mirtillo la porta si apre e un licantropo infila la testa nello spiraglio. Con una zampata afferra un tizio alla sua portata, un ragazzo col cappello e gli occhiali da sole (portati senza alcuna ragione) e lo sorbisce in pochi bocconi. Osserviamo la scena cruenta con una certa apprensione. Domando ad alta voce alla ragazza del bar se non ci siano per caso dei rischi per la salute. Lei, assestando un colpo poderoso con la mannaia, mi rivolge un sorriso sarcastico come se fossi un ingenuo, un fifone. Dice con una marcata cadenza locale che i licantropi non si spingono mai fin dentro il locale: fanno capolino dalla porta e sbranano il primo che capita. Tutto qui. I licantropi sono piuttosto indolenti, aggiunge con tono saccente, quando si sono saziati non danno più alcun fastidio, sono anzi adorabili. Nonostante queste rassicurazioni ci alziamo e andiamo a sederci al tavolo più lontano dall’ingresso, con le spalle contro

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I licantropi di Urbino

il muro, lanciando continue occhiate alla porta. Un vecchio seduto al tavolino accanto al nostro, aggrappato con le due mani al suo bicchiere di vino, ci dà da dire come se continuasse un discorso già iniziato. Ci racconta che i licantropi di Urbino a volte vanno a visitare il Palazzo Ducale, pagando regolarmente il biglietto, e fingono di interessarsi alle sale, agli arredi, alle opere d’arte. Ma in realtà, afferma il vecchio col tono di chi la sa lunga, il loro unico interesse è verificare se in un famoso dipinto di Piero della Francesca ci sia ritratto, fosse anche nello sfondo, un loro simile. Puntualmente rimangono delusi e scoppiano a piangere. Chi li vede in queste circostanze pensa che si tratti di commozione davanti all’altissimo prodotto dell’arte. Invece è solo invidia per l’umano: senso di inferiorità e di esclusione. Quindi affrettano il passo verso l’uscita, il muso inondato di lacrime, incapaci di continuare a recitare un falso interesse culturale con il cuore a tal punto ferito.

SCavez zacollo

disegno di Massimo Cavezzali


di Mariangela Arnavas Torto marcio è il quarto romanzo di Alessandro Robecchi pubblicato da Sellerio; giallo per caso, ma molto ben costruito nel contesto di una narrazione seriale con alcuni personaggi fissi che vanno assumendo spessore tridimensionale, man mano che la serie va avanti: Carlo Monterossi, sceneggiatore televisivo di trasmissioni spazzatura, del tipo lacrime e sangue, grande appassionato di Bob Dylan, intellettuale disconnesso ma vigile e la sua collaboratrice domestica moldava, Kathrina, vera chef casalinga, in stretto contatto mistico con la madonna di Metjiugorie e Ghezzi, eterno vice sovrintendente di polizia, acuto e vagamente anarchico, solo per citarne alcuni. La frase chiave di questo romanzo sembra essere, ovviamente tratta da Bob Dylan , Baby stop crying, «Go get me my pistol, babe / Honey, I can’t tell right from wrong». Infatti, sembra davvero difficile capire cosa è corretto e cosa no nello spaccato di società, la nostra, ben descritto da Robecchi e la trionfante ingiustizia più dell’intreccio noir, pur ottimamente delineato, è il corpo centrale della narrazione. Protagonista Milano: «È una città cattiva, sapete? Se venite qui, portatevi dei soldi», ma soprattutto Via Gigante, quartiere popolare, venuto su tra il ‘35 e il ‘47, una specie di città che si chiamava D’Annunzio, ma senza enfasi e senza futurismo: scatole per italiani poveri; un quadrilatero, anzi un rombo di case intorno ad una piazza e in mezzo, tra i giardinetti stenti, una specie di mostruosa ciminiera, monumento al teleriscaldamento per gli alloggi; case popolari, de-

di Sergio Favilli C’erano una volta tre porcellini, Orly, Renzy e Emily; dopo anni di zuffe erano riusciti a scacciare dalla fattoria il lupo Baffino e da tre anni vivevano tutti sotto lo stesso tetto d’amore e d’accordo. Il Gatto Bersano e la Volpe Gelona, vecchi sodali del lupo Baffino, visto che non potevano più incantare Pinocchio perché fuggito a Cuba con quella gran gnocca della fata Turchina, avevano deciso di cambiar novella e di occuparsi della fattoria adesso gestita dai tre porcellini. La speranza segreta del Gatto Bersano e di Volpe Gelona era quella di poter comandare sulla vecchia fattoria, ma i tre porcelli non avevano la benché minima intenzione di cedere il passo ai vecchi amici di lupo Baffino. Nel frattempo

Torto marcio cine e decine; più di seimila appartamenti di piccole e medie metrature, ormai abitate soprattutto da vecchi, con la pensione minima che va quasi tutta in spese per medicine e poi immigrati, principalmente dal Nord Africa. In zone come queste non c’è più lo Stato, né il Comune o l’Aler. Il meccanismo è uguale ovunque in Italia: gli alloggi che si liberano necessitano di manutenzione, ma mancano le risorse e i tempi sono lunghi, mentre i bisogni sono urgenti; così ci si organizza per sfondare e occupare e a Via Gigante sono diversi i capi dell’organizzazione: Mafuz, libanese, commerciante fallito con la sua banda di piccoli spacciatori, i Csalabresi, detti bronzi di Riace che, per circa 3000€ ti sfondano e consegna-

no un appartamento, il Comitato per il diritto alla casa, che protegge i più poveri e infine gli africani, gli ultimi arrivati, che offrono security in cambio di qualche alloggio per la loro gente. La polizia sa ma non interviene «si lascia correre per non peggiorare le cose» ma « il mondo è pazzo di giustizia» (Dylan, Tarantula) e una serie di omicidi si mette in moto per un detenuto morto di malattia in carcere, come altri duecento nello stesso anno, di cui nessuno parla, mentre sugli assassinati, agiati middle class si scatena il circo mediatico, subito lanciato alla ricerca del fantomatico terrorista islamico, già perché sopra ogni cadavere si trova posata una pietra e si sa che gli islamici nei cimiteri... Qui è l’equilibrio della narrazione, tra giustizia e vendetta, tra dignitosa miseria e privilegi incongrui; ...» do uno strattone alla vostra ragnatela, perché la vostra rabbia vi induce a venire fuori dal vostro antro di menzogne e la vostra vendetta balzi fuori dietro la vostra parola ‘giustizia’ ....» ( Nietzsche, «Così parlò Zarathustra»). Alessandro Robecchi , Torto marcio, Sellerio 2017, una buona lettura.

La Vecchia Fattoria era venuto il momento di rinnovare le cariche di comando ed i tre porcellini Orly, Renzy e Emily si stavano azzuffando perché tutti e tre volevano dire la loro su come dovesse essere ristrutturata la vecchia colonica che da tempo dava cenni di decadenza. Il Gatto Bersano, sobillato sotto sotto dal vecchio lupo Baffino , alzò un gran polverone, tentò di convincere il maialino Emily, il più paffuto, ad andare via dalla fattoria per traslocare in un’altra casa in compagnia! Che bel bocconcino sarebbe stato Emily per il vecchio lupastro!! Il Gatto Bersano e la Volpe Gelona se ne andarono comunque via dalla vecchia fattoria nella speranza di essere seguiti da altri colleghi dell’aia e del cortile ma, a parte qualche

strano animale, nessuno li seguì. Poiché non trovavano una intesa, i tre porcellini decisero di convocare un referendum fra tutti gli animali che abitavano nella vecchia fattoria per stabilire democraticamente chi sarebbe stato il comandante per i prossimi tre anni. Ma avevano fatto male i loro conti!!!!! Nella penombra, di soppiatto, aiutato dalla Fata Turchina che nel frattempo aveva lasciato il buon Pinocchio con il naso consumato, giunse alla fattoria quel gran rompiscatole saccente del Grillo parlante il quale, dopo un gran comizio sull’aia, convinse gli animali della fattoria a mandare in esilio i tre porcellini. Ma è solo un incubo, condizionati da quel menagramo di Orwell.

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di Cristina Pucci Alessandro Goggioli che è innanzitutto un pittore, puntinista per la precisione, è stato per anni Insegnante di Educazione Visiva e Disegno dal Vero alla Scuola d’Arte e possiede una bella e ricca collezione di giocattoli di latta, circa 260, originali ovviamente, dei tempi in cui erano in uso, anni ‘50/60 del ‘900, non le approssimative copie cinesi che si trovano oggi. Un grande quadro ci accoglie nella sua casa, un bel volto di donna, qua e là un po’ di filo spinato ricorda le spine del tempo e della vita. Un dialogo fra una figura e qualcosa di metallico. Tutti i suoi quadri sono belli e tutti propongono un concetto, una parola, una osservazione ironica proprio grazie alla dialogante interazione fra figure, paesaggi, nature morte e qualche coloratissimo giocattolo di latta litografata della collezione. Alessandro dice che li ha raccolti proprio ed anche per usarli per dipingere e che spesso ha scelto quelli che gli sembravano più in grado di sostenere un dialogo artistico. In una natura morta con pere c’è un aereoplanino, titolo Peretola, due galline si infilano fra due uova affrittellate, «doppia ovulazione».... Dice che questa raccolta nasce quasi un po’ per caso, quando aveva le figlie piccole comprava loro, oltre le solite bambole, anche questi giocattoli, il primo, fu un carrettino russo a molla del 1960. L’alluvione fornì, a lui come ad altri collezionisti, grande impulso alle acquisizioni, molti giocattoli infangati venivano messi in vendita o buttati via. I meccanismi che li muovono, sia pur semplici, sono efficaci ed ingegnosi, le figlie ci hanno molto giocato e quasi mai li hanno rotti. Mi mostra una tazzina che gira su se stessa, un bislacco ippototamo salvadanaio, si mette il soldo su una levetta che si pigia quando si apre la boccona dell’animale che, se si fa centro, ingloba la monetina. Una grossa gallina, cinese, canta con voce da chioccia e camminando fa 5 uova. Alcune pistoline fanno il botto ed il fumo grazie a dei rotolini di carta al fulmicotone che vi si inseriscono e che Alessandro ancora possiede. Nelle vetrine questi piccoli capolavori sono raggruppati per lo più per tipologia: moto e macchine, animali, carrettini, giostre, trottole, aerei e missili, trenini, avveniristici robot. Un grosso caccia americano, più recente, staziona sopra un mobile, un aereo della TWA usato come pubblicità nelle agenzie di viaggio, alcuni dei paesi in via di sviluppo sono costruiti con lattine usate. Una minilinea tramviaria indiana ci mo-

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Collezionista per fini artistici stra una vettura che corre, batte in un muro, cambia rotaia e torna indietro. Una littorina di epoca fascista INGAP, trattasi del marchio di una fabbrica di giocattoli italiana molto importante, nata a Padova nel 1919 è stata attiva fino al 1972, era specializzata in giocattoli automatici, suo il primo trenino a molla e , nel ‘52 ,la prima macchinina telecomandata. La diffusione dei giocattoli in Italia avviene intorno alla fine del 1800, in ritardo rispetto ad altri paesi Europei in cui inizia con quel secolo. Nel 1914 la Metal-

graf di Milano, specializzata in litografie su latta, costruì i primi giocattoli con materiali di scarto, carini ma molto delicati, la Cardini di Novara pubblicizzava i suoi prodotti nel»Corrierino dei piccoli» e si avvalse, per decorazioni e disegni, di valentissimi artisti, poi altre via via, l’avvento della plastica mise in secondo piano qualsivoglia altro materiale ed infine, addirittura, nel 1990 una legge proibì la costruzione di giocattoli in lamiera stagnata in quanto tagliente e tale quindi da attentare alla incolumità dei bambini!!!!


di Giovanni Zorn Adesso anche il tibiale si contrae in modo violento e di fatto il piede destro è bloccato in posizione contratta; il quadricipite femorale sinistro invece non mi permette di stendere la gamba; procedo con una paletta al posto della scarpa e una stampella al posto della gamba. Cazzo anche la gambe dislessiche c’ho adesso! Mentre mi passa questa frase in testa riesco a sorriderci sopra dimenticando il dolore, ma è questione di poco, ci ripiombo dentro più di prima. Ad ogni passo mi ripeto che il dolore è solo una percezione, in se non esiste…ma la percezione è davvero forte e non riesco ad arginarla. Trovo la lucidità per tornare al cronometro, ho perso il piccolo vantaggio che avevo, sto accumulando ritardo, ho dolori ovunque; non ce la farò! A tratti è una certezza, a tratti solo un timore. Mi sono detto, infinite volte, prima di partire che la mente deve stare sul positivo; mi convinco che il non ce la farò che mi dice il cervello è una scusa per non affrontare la sofferenza; l’unico modo certo per non farcela è smettere di provarci. Bevo ancora e prendo sali, mangio; in modo scoordinato procedo come posso in salita. Molto lentamente durante la mezzora successiva sento allentare le tensioni e gradualmente ritrovo il movimento naturale. Mancano solo 200 metri di dislivello; ormai sono sul tratto più bello del sentiero; mi accorgo che la crisi è passata quando di nuovo, sul crinale

di Francesco Cusa Non basta una splendida regia, una meravigliosa attrice ed una sontuosa colonna sonora per realizzare un altrettanto magnifico film (lo stesso dicasi per un prodotto fin troppo osannato dalla critica come è «Manchester by the sea»). Larrain è sicuramente regista intelligente, ma pecca d’eccesso di ricerca di fascinazione proprio a causa del suo spacciare la maniacale cura del particolare per scandaglio psicologico dei personaggi (del personaggio, in questo caso). Ne risulta una sorta di dramma estetizzante, abbastanza noioso ad onor del vero, costellato da rari momenti di preziosa bellezza, come nel caso dei crudi flash dell’attentato, o della disperante solitudine di Jackie allo specchio. Certamente Natalie Portman ci regala una prova attoriale fuori dal comune, che tuttavia non riesce a smuovere le regioni carsiche del

Dislessico nelle gambe roccioso, sento la felicità entrare; di nuovo riesco e far spazio agli odori, alle sfumature cromatiche, al fresco del vento sulla pelle. Sono quasi al Malpasso, la fine dell’ultima salita; la mia tabella segnava 4 ore e 50 ed era il limite che pensavo necessario per avere ancora la possibilità di farcela. Guardo il cronometro: 4 ore 49 minuti 55 secondi. Non ci credo! Ma come ho fatto a recuperare? Sento energia che arriva. Bevo, mangio un gel e mi concentro su quello che devo fare: qualche minuto tranquillo per recuperare e poi giù al massimo. Il versante che scende è ripido ed impervio, non è semplice trovare appoggi

e la pioggia ha reso scivolosissimi i graniti. Inizialmente subisco ogni balzo, ogni gradino roccioso, poi gradualmente la forza torna e riesco a dare coerenza ai movimenti; la discesa torna ed essere quello che mi piace, un gesto creativo nell’assecondare la morfologia del terreno e la forza di gravità. Il percorso scende seguendo il crinale della Grottaccia con numerosi piccoli saliscendi; quando trovo i primi piccoli tratti di salita ho la conferma che ho recuperato perché riesco a spingere come facevo molte ore prima. Non ho più punti di riferimento e non posso sapere se ce la farò. Vado al massimo e basta. Quando inizia la discesa finale vedo da lontano dei rovi che attraversano il sentiero a circa sessanta cm da terra, da una parte all’altra; non mi fermo a spostarli, sono le mie cosce a farsi spazio; mentre accolgo l’ovvio dolore penso a quanto sia ridicolo rispetto a ciò che ho passato poco più di un’ora prima. Mi concentro ancora sugli appoggi, molto difficili tra sassi, radici sporgenti e terra bagnata; aspetto l’incrocio con il sentiero di fondovalle perché so che da qual punto manca davvero poco, tre, forse quattro minuti. Eccolo, riesco a lanciare uno sguardo al cronometro e sorrido! Adesso devo solo andare a chiudere il viaggio. Sento le voci degli amici che mi aspettano, mi hanno visto e stanno festeggiando. Il Ponticino di Pomonte, non è bello per la verità, ma è un simbolo, quello che aspettavo da stamattina. 5 ore 37 minuti 30 secondi. Ce l’ho fatta! E dagli occhi lucidi di chi mi ha aspettato capisco che un po’ ce l’hanno fatta con me.

Alla ricerca dell’eccesso di fascinazione pathos dello spettatore, rimanendo messa in scena d’una sublimazione di atti estetici, in sintonia con gli impeccabili abiti di «Chanel»

che «vestono» freddamente lo straziante singhiozzare di Jackie che si libera nell’intimo di toilette seriali. E difatti il film si chiude con la protagonista che osserva le vetrine popolate del ready made del suo manichino, quasi a sancire una sorta di «tirannia del tailleur», dell’Imago di una nazione-continente, della ri-scrittura di una mitopoiesi necessaria. «Jackie» è insomma un non-film, è una specie di prodotto vintage della memoria di Larrain, ben distante dalle grazie narrative del precedente «Neruda». E’ un pregevole «fake» che miscela narrazione e finzione a colpi di «handcam», che non riesce ad emozionare più di tanto. Bella comunque la scena del dialogo «spirituale» tra Jackie e padre McSorley (il grande John Hurt recentemente scomparso). Ma sta lì come un lampo isolato nella bonaccia del Mar della Noia.

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di Mariachiara Pozzana Garden design progettiamo piccoli giardini: questo è l’obbiettivo dei nostri, un obbiettivo che è maturato nel tempo, con la volontà di fornire uno strumento agile e amichevole a chi è interessato al giardino, ma anche di offrire un’opportunità di miglioramento agli spazi piccoli delle case, villini, condomini, terrazzi, orti che sono nella maggior parte abbandonati e negletti. Mi ha sempre incuriosito vedere come si compra una casa «che ha il giardino» ma poi il giardino resta l’ultima cosa da sistemare e comunque non è oggetto di una progettazione. I villini fiorentini a schiera o non a schiera, hanno piccoli giardini che sono stati spesso in origine progettati e oggi sono abbandonati: vorrei fare un censimento fotografico per trovarne uno che sia tenuto bene e progettato bene e non sia o lasciato alle erbacce o pavimentato in cotto o cemento solo per pulirlo meglio. Nella professione che faccio da 21 anni (dopo la prima parte della mia carriera in Soprintendenza a curare i monumenti) ho progettato giardini di tutte le scale. Quando ho cominciato nel 1996 aprendo il mio studio ho fatto piccoli giardini di case private, poi il lavoro è diventato pubblico e di grande scala, e la mia specializzazione sono i giardini storici. Però i piccoli giardini che non vengono considerati degni di grandi progettazioni per me sono importanti come quelli grandissimi o storici: ci vuole lo stesso impegno e la stessa sensibilità, la stessa creatività, la stessa attenzione . Nei corsi vogliamo insegnare a guardare lo spazio del giardino in maniera creativa, seguendo un criterio che sia funzionale nell’organizzazione degli spazi, ma anche che segua un’idea, una volontà di bellezza , un desiderio di natura. Il progetto del giardino ha delle regole, una tecnica di progettazione e realizzazione quindi non è solo estro creativo. Non ci possiamo lasciare andare solo a quello che ci piace (certo è un errore che i principianti fanno), quindi dopo qualche esperienza abbiamo capito che dobbiamo insegnare a progettare con un numero limitato di piante altrimenti i nostri corsisti si sbizzarriscono scegliendo dai cataloghi le piante più strane senza conoscerle . Nel corso di 20 ore diamo le basi della progettazione: non fare errori nella esposizione, nel terreno, nella scelta delle piante, dei materiali e delle misure, ma anche esercita-

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Progettando piccoli giardini re il nostro gusto, la nostra predilezione per un colore invece che un altro (colori caldi, freddi, un mix di colori ), i nostri desideri di vita all’aperto. Il giardino è un quadro, il giardino è una ricetta ha a che fare col gusto l’olfatto insomma con i cinque sensi. La struttura del corso è quella del laboratorio di progettazione: qualche ora di lezione introduttiva analizzando esempi di piccoli giardini e semplici composizioni di piante, poi il rilievo sul campo e quindi il progetto. Anche chi non ha mai disegnato può farlo superando un blocco che taluni hanno dalla scuola. I nostri corsisti sono spesso proprietari di piccoli giardini che vogliono im-

parare anche solo a giudicare il lavoro di un professionista che magari chiameranno per fare un progetto, ma che vogliono saper dirigere nella maniera giusta. Molti sono studenti o neo architetti, ma anche arredatori agronomi e giardinieri. Il garden design, il progetto del giardino è aperto a tutti senza frontiere. Insegniamo a guardare e a ragionare su questi piccoli spazi che non sono affatto facili: se piccolo è bello si può anche aggiungere che piccolo è difficile, ma la progettazione dei piccoli spazi è stimolante. I nostri laboratori si concludono con la presentazione dei progetti: ogni corsista deve presentare agli altri il suo progetto e spiegarlo in sintesi, questo approccio è utile professionalmente, ma anche psicologicamente perché aiuta a superare la dimensione ‘privata’ della nostra creatura: il giardino va condiviso con tutti quelli che lo useranno. Lavoriamo in Toscana, in Italia, intorno a noi ci sono i più begli esempi dei giardini e lo stesso giardino Bardini dove teniamo i nostri corsi è una magnifica risorsa per la progettazione.


di Danilo Cecchi Sebastian Liste (1985 - ) è un giovane fotografo, spagnolo di nascita, la cui formazione è maturata attraverso studi di sociologia, antropologia, scienze politiche, fotografia e poesia, ed attraverso l’appartenenza a due famiglie, quella dei genitori in Spagna e quella dei nonni in Paraguay, situate sui due versanti opposti dell’oceano. L’ampio ventaglio dei suoi studi ed i continui spostamenti fra ambienti e culture diverse influenzano in maniera determinante il suo modo di vedere il mondo e le sue scelte di vita e professionali. A poco più di vent’anni decide di dedicarsi alla narrazione ed alla raffigurazione visiva (lui parla di «mappa visiva», come se si trattasse di una sorta di mosaico in cui ogni immagine è una piccola componente di un quadro generale) della società, di quella parte della società in cui sono maggiormente presenti i contrasti dovuti a due diversi tipi di violenza, quella della piccola o grande criminalità, e quella delle istituzioni, ed in cui sono presenti forme di aggregazione e di resistenza finalizzate alla sopravvivenza fisica ed alla costruzione e conservazione di strutture culturali in opposizione alla disgregazione sociale e culturale imposta dai processi della macroeconomia. Il suo è un progetto a lungo termine, che si articola in più fasi e procede parallelamente all’evolversi delle situazioni, in uno stato di continuo cambiamento, con un ipotetico completamento del lavoro che si sposta sempre più in avanti. Per realizzare i suoi progetti Sebastian si trasferisce in Brasile, dove incontra tutta una serie di situazioni limite, come quelle delle «favelas», in cui si immerge completamente. Una delle sue prime esperienze si realizza all’interno del così detto «Quilombo Urbano», da un termine brasiliano, mutuato dalla cultura africana, che indica un luogo recintato, posto all’interno delle piantagioni, in cui gli schiavi si riuniscono per mantenere vive le loro tradizioni religiose e magiche. Il «quilombo urbano» in cui penetra Sebastian è una vecchia fabbrica di cioccolato dismessa di Salvador de Bahia in cui trovano rifugio decine di famiglie, che finiscono per costituire una vera e propria struttura sociale, con ritmi, regole e modi di vita del tutto peculiari, ed in cui fenomeni come droga, prostituzione e piccola criminalità fanno parte della quotidianità e della normalità. Il suo primo lavoro gli merita numerosi premi e riconoscimenti, e gli fa ottenere i finanziamenti e gli incentivi per allargare la sua indagine ad altre zone del Brasile, dalle favelas di Rio alla regione amazzonica, fino ad altre regioni dell’America Latina ed alle regioni del Mediterraneo. Ovunque si rechi, egli

Un fotografo nelle favelas trova il comune denominatore della violenza, declinata in diverse forme e molto spesso elevata a metodo per risolvere o tentare di risolvere gli squilibri economici e sociali, oppure imposta come ultima chance per uscire da uno stato di perenne subalternità ed indigenza. Le immagini di Sebastian Liste, realizzate in uno splendido quanto essenziale e disadorno bianco e nero, alternano visioni altamente drammatiche ad altre decisamente serene o perfino

giocose, mostrando quanto sia complessa e contraddittoria quella «mappa visiva» che egli vuole tratteggiare, disegnare e completare, con lo scopo di concludere il progetto in forma di un libro, da sottoporre all’attenzione dei leader politici e dei media, per «avvisarli» di questo che lui definisce un «importante tema». Nella speranza, o piuttosto nell’illusione, che dall’osservazione del suo «mosaico» possa derivare un qualche tipo di cambiamento.

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di Barbara Palla Sono le 17.30 del 14 marzo quando il Sindaco Nardella arriva in bicicletta, si toglie le scarpe e, per la prima volta in assoluto, entra nella Sala di Preghiera, nonché sede della Comunità Islamica Firenze – Toscana, in Borgo Allegri, per l’incontro con i membri della Comunità e delle associazioni islamiche fiorentine. L’incontro è stato deciso qualche giorno dopo la firma del Patto Nazionale per un Islam Italiano, avvenuta tra il Ministro dell’Interno Minniti e i rappresentanti di tutte le associazioni islamiche italiane. Il Patto Nazionale nasce dalle esperienze dei Comuni italiani e si ispira in particolare al Patto di Cittadinanza di Firenze stipulato un anno fa dal Sindaco Nardella e da Izzedin Elzir, Imam e presidente dell’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia). A spingere il Sindaco fin dentro la Sala di preghiera è la volontà di mettere effettivamente in pratica gli accordi presi all’interno della cornice istituzionale. Per l’occasione è stata organizzata una tavola rotonda sul ruolo della libertà di religione nella Costituzione italiana. Il Sindaco, che, come lui stesso ricorda, ha insegnato per anni Diritto pubblico e Diritto costituzionale all’Università, si trova perfettamente a suo agio nella spiegazione della libertà di religione e dei suoi limiti, ma i nervi scoperti sono altri. Dopo l’intervento di Nardella e di Elzir, l’attenzione si sposta su altre questioni, in primis il velo, facendo riferimento alla sentenza della Corte Europea di Giustizia, resa proprio il 14 mattina, in cui si permette alle aziende di impedire l’uso del velo alle proprie dipendenti. Si affronta, poi, la questione sulla quale casca l’asino: la moschea. Tutta la questione della moschea nasce dalla crescita della comunità dei fedeli fiorentini troopo numerosi per essere accolti nelle piccole Sale di preghiera di Borgo Allegri, Sorgane, dell’Isolotto e del Poderaccio. Sono inadeguate e, spesso, alcuni fedeli si trovano a pregare sul marciapiede fuori dalle sale. L’individuazione di un’area adatta è però molto complessa dato che la moschea dovrà avere, oltre a un luogo per la preghiera capace di accogliere il numero più ampio possibile di fedeli, anche altri ambienti dedicati all’insegnamento della religione, all’organizzazione di eventi e conferenze, una sala dedicata alle abluzioni rituali (obbligatorie prima della preghiera) e, infine,

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Il Sindaco, un minareto. Un edificio vasto facilmente raggiungibile anche da chi non possiede mezzi propri. La Comunità vorrebbe che fosse nei pressi del centro storico, se non addirittura dentro, mentre il Comune la vedrebbe meglio in un’area più periferica. Una prima ipotesi si era concretizzata, l’anno scorso, nell’ex-deposito ATAF in via di Varlungo, un edificio in disuso messo all’asta pubblica dal Comune, per il quale la Comunità aveva fatto un’offerta. Ovviamente l’acquisto del terreno e i costi di costruzione non possono essere sostenuti dal Comune (come ricorda Nardella ai giornalisti appena prima di entrare nella moschea) altrimenti dovrebbe farsi carico del finanziamento di tutti gli altri luoghi di culto presenti a Firenze. L’offerta proveniva dunque dai fedeli e dalle loro associazioni, ma purtroppo è stata battuta da un privato. Dopo quella prima sconfitta, sono state valutate, in stretta collaborazione con il Comune, altre aree nelle zone di Careggi,

l’Imam

Scandicci e Firenze Sud, in particolare in Viale Europa. L’ipotesi di Viale Europa era molto più concreta delle altre, tanto che la Comunità aveva fatto una seconda offerta. Purtroppo, anche in questo caso è stata battuta, ma l’episodio, da un lato ha deluso le aspettative dei fedeli, dall’altro ha fatto sospettare che ci fossero questioni politiche nascoste. Nel caso di Viale Europa i problemi tecnici e di viabilità erano minimi e l’offerta copriva ampiamente l’acquisto. Il problema a detta di alcuni era politico, l’offerta vincente è stata di gran lunga più generosa, talmente generosa da far pensare che fosse un modo per interrompere o allungare i tempi della realizzazione della moschea fiorentina. Le ultime alternative passate al vaglio degli uffici tecnici sono Villa Basilewski, poco adatta per ragioni di viabilità, Villa Fabbricotti, sulla quale sono contrari i gruppi politici di minoranza, e il Mercafir. Il Corriere Fiorentino ha rivelato il 15 marzo che sarebbe stata presa in considerazione anche l’ex-Caserma Gonzaga «Lupi di Toscana», situata tra Firenze e Scandicci, distante dal centro ma ben servita dai mezzi pubblici. Dall’impegno del Sindaco si evince che l’abbandono del progetto della moschea è fuori discussione. Firenze è città aperta, città di dialogo inter-religioso, come dimostrano la Sinagoga o la Chiesa russa-ortodossa e le virtuose collaborazioni con le loro comunità di fedeli. La comunità dei musulmani è cresciuta, sono ormai quasi quarantamila i fedeli fiorentini, la moschea è quindi un’esigenza in un periodo così delicato in cui qualsiasi chiusura può dar luogo a fenomeni di incomprensione o discriminazione. La moschea deve essere dunque un percorso di reale integrazione, di crescita e conoscenza reciproca, un momento condiviso e compartecipato. La moschea non sarà dunque imposta ma costruita insieme. Nell’immediato, il compromesso prevede l’individuazione di una soluzione temporanea per permettere il raccoglimento in occasione del mese di Ramdan che inizierà il prossimo 27 maggio e terminerà il 24 giugno.

e la Moschea


di Claudio Cosma La Centaura o Donna cavallo di Elene Usdin si manifesta in molteplici versioni, varianti e opere connesse. L’idea del centauro come pure dell’unicorno ricorre nella nostra cultura affondata com’è nella mitologia greca, ma la Usdin nel sistemare la sua scultura, va ancora indietro nel tempo e l’atteggia a sfinge, con le zampe anteriori composte come quelle dei felini e come questi imperturbabile. La scultura è da indossare e una fanciulla si infila nel suo busto e con le sue gambe prende possesso delle zampe anteriori e dalla vita in su è umana e dalla vita in giù è cavallo, anzi, puledra. E’ questa figura fantastica addormentata nella foto che la ritrae coricata su di un divano di design moderno, ma la scultura di stoffa servita per realizzare tale scatto, vive in autonomia e si realizza ogni volta che decide di mostrarsi, come ha fatto nell’ottobre del 2015 nello spazio della Fondazione Sensus, galleria/museo a Firenze, della quale sono curatore e come fa adesso mostrandosi nell’articolo. Questa di costruire quello che le è funzionale per dare corpo alla sua fantasia è pratica consueta nel lavoro dell’artista che necessitava di una centaura. Ho scritto costruire e non farsi costruire, in quanto è lei personalmente che progetta e realizza cucendole le sue creature. Per la mostra fra le foto scelte ce n’era una con una grande pera gialla e succosa che mi sarebbe piaciuto esporre vicine, ma la foto era di qualche anno prima e la pera era andata persa, forse mangiata da un Pantagruel. Visto che la divertiva l’idea di mostrare foto e soggetto, non ha battuto ciglio, e mandatomi a comprare i tessuti necessari, nel periodo che è rimasta a Firenze ne ha costruita un’altra identica, che è tuttora da Sensus. La «femme Centaure» è molto elegante e nella parte animale indossa o forse è la sua vera pelle, un tessuto principe di Galles con fondo tortora ed una linea marrone per delimitare il disegno dei riquadri più grandi, con rifiniture di passamaneria gialla a mo di galloni da ufficiale d’operetta, bottoni d’oro e l’interno delle tasche che le ornano la vita sono di seta rosa, come pure di seta, ma rossa è la fodera all’interno dei fianchi, che quando è aperta e senza modella da’ l’effetto di essere state, le due parti, dimezzate in modo cruento, tagliate di netto come capitava alle sante primitive nella iconografia del martirio. Gli zoccoli delle zampe posteriori, graziosissimi, sono di raso rosa, quelle anteriori sono invece della modella i cui piedi hanno le unghie dipinte di rosso.

Una Donna Cavallo

alla moda di Elene Usdin

La coda, lunghissima, è castana e sembra eternamente fluttuate come una capigliatura preraffaellita, mettendo in dubbio la sua domesticità. A dispetto del tessuto principe di Galles, generalmente destinato a seri gentiluomini, la centaura è assolutamente femminile, col vitino di vespa e abbigliata alla moda parigina, città natale di Elene Usdin. Si pone la cavalla umana di stoffa con grande naturalezza, quasi non facesse parte di un bestiario immaginario, quasi fosse convinta di essere naturalmente accettata per la sua araldica bellezza e non fonte di stupore per la sua eccentricità. Durante l’inaugurazione della mostra la scultura ha preso vita e grazie ad una modella che la indossava, si è esibita da vera centaura in una

«performance» coordinata dall’artista. Sdraiata su di una pila di vecchi materassi di lana ai quali, fra l’uno e l’altro, l’artista aveva inserito una serie di piselli, appunto Petit Pois, e grazie a questi la donna cavallo si è trasformata in una impossibile e anacronistica principessa del pisello della fiaba. I materassi sono stati scelti come piedistallo in quanto le foto esposte alla mostra avevano per tema il sonno e il sognare. I petit pois, in numero di 30, realizzati in creta dipinta di verde veronese, sono rimasti a ricordo della serata e costituiscono una serie di piccole sculture autonome che contrariamente a quanto si pensa circa la sacralità dell’arte, uso abitualmente sia come fermacarte sia sistemate in una alzata come centro tavola. Le fiabe, le creature di tappezzeria, il «glamour» di cui sono pervasi i suoi lavori, un femminismo garbato, ma ferreo, il «nonsense» il ribaltamento dei ruoli, accompagnato da un umorismo inquieto e leggermente fantastico, accompagnano e compenetrano le sue forme espressive e in particolare il toy di stoffa riempito di minuta gomma piuma, che come un sofisticato costume da ballo in maschera d’altri tempi, si anima quando una femmina umana ne prende possesso, tanto da temerne la fuga a passo di danza e che costituisce la più fantastica delle mie sculture, se la convincerò a restare.

17 Grafica Emiliano Bacci

18 MARZO 2017


Dragon Boat in Canada/4 di Andrea Caneschi Oggi giornata di riposo, niente gare, niente allenamenti. Ne approfittiamo per una gita alle cascate del Niagara, che distano una trentina di chilometri da Saint Catharines, dove siamo alloggiati. Siamo curiosi di scoprire dal vivo la bellezza di uno spettacolo naturale grandioso e tanto celebrato. La giornata si presta magnificamente, il cielo è sgombro di nuvole, la temperatura è quella di una nostra estate settembrina, calda e piacevole. In mezz’ora di viaggio arriviamo alla nostra destinazione, dopo aver percorso chilometri lungo un intreccio di nodi autostradali intorno ai quali, qua e là, si sono addensate file di case e casette, quasi villaggi, spesso poco più che miseri. Come al solito la civiltà scorre veloce su grandi strade con comode automobili, e lascia un po’ di scorie disseminate intorno. Alla fine individuiamo il parcheggio giusto dove lasciare la macchina in un ampio spazio ben organizzato, circondato da una vera foresta che rianima le nostre aspettative naturalistiche. Ma è questione di poco, basta uscire dal parcheggio e ci ritroviamo in una specie di lussureggiante Luna Park, dove le insegne, l’architettura degli edifici, l’offerta dei servizi è tutta in chiave divertimento! divertimento! divertimento! consumo! consumo! consumo! Un bazar mordi e fuggi cresciuto sotto una pressione turistica talmente sovrabbondante che la sola vista dello spettacolo della natura non riesce a soddisfare e lascia ampio spazio alla aggressiva civiltà dei consumi, american style. Le strade sono piene di gente che, come noi, si incolonna nelle due direzioni fondamentali, verso le cascate o di ritorno dalle cascate verso la macchina o per andare a consumare un pasto veloce nelle mille offerte diverse, dalle bottegucce di cibo di strada ai sofisticati ristoranti con vista panoramica dei grandi alberghi. Il flusso è disciplinato a partire dalla biglietteria, con una lenta fila per acquistare il biglietto e per arrivare agli ascensori che ci porteranno alle piattaforme di imbarco. Non abbiamo visto ancora nulla, se non i fumi creati dal ribollire delle acque che precipitano, ma già siamo lontani dall’idea di goderci quello spettacolo naturale per il quale ci eravamo preparati. Ci rassegniamo piuttosto a iscriverei al circo che da quelle parti organizza il divertimento. Non una sosta rispettosa, affascinati dalla enorme potenza delle acque che si distendono amplissime, prima di precipitare lungo

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La cascata

un fronte di centinaia di metri, sollevando vapori che riflettono e filtrano la luce del sole, ma una inaspettata, affollata immersione in questo turbinio di acqua e persone. Dagli ascensori che ci portano al livello del lago formato ai piedi delle cascate usciamo in fila, lungo camminamenti circondati di botteghe di souvenir e di punti di ristoro, per arrivare fino ai pontili che di permetteranno di salire su speciali traghetti, noi tutti muniti di cappe di plastica colorata, rossa o blu o gialla, così che già dagli ascensori possiamo vedere il serpentone a blocchi colorati che lentissimo discende verso il lago, coperto, qui vicino a riva, da una solida schiuma di rifiuti da sovraffollamento urbano che le eliche dei traghetti continuano a montare in una panna giallastra e repellente. Pigiati sulle imbarcazioni ci avviamo alla fine verso il fronte delle cascate. Lo spettacolo è indubbiamente emozionante, di quelli che ciascuno vorrebbe godersi in piccola compagnia, con tranquillità e tempi comodi per lasciarsi riempire dalla sensazione di inarrestabile e vitale potenza che le acque esibiscono con grande natura-

lezza. Via via che ci avviciniamo al fronte delle cascate ci rendiamo conto che c’è più acqua in cielo, sopra di noi e addosso a noi, che nel lago stesso. Un rollio discreto ci consiglia di fotografare con una sola mano, usando l’altra per reggersi saldamente ai corrimano. La luce solare filtra a fatica attraverso la nube d’acqua polverizzata, così che le torri e i grattacieli che fronteggiano le cascate sul costone roccioso opposto a quelle appaiono confusi, poco più che ombre sulla linea scura delle rocce. Siamo bagnati fradici. confusi dal rombo continuo dell’acqua che precipita con impressionanti quantità, pressati da chi in terza e quarta fila aspira a trovare spazio per vedere meglio. Sembriamo tanti fiori appassiti che il bagno d’acqua non riesce a vivificare, anzi. Torniamo indietro senza nessun rimpianto. Ci attende una salita più agevole, mentre molti della compagnia si disperdono a fare acquisti intorno ai pontili, negli spazi creati apposta - ora possiamo intuirlo - per aiutare a riprender fiato dopo lo strapazzo. Molto meglio il nostro sport d’acqua a cui domani torneremo.


di Susanna Cressati Andare al Gabinetto Vieusseux per sentire parlare di un’autrice che un po’ conosci, Natalia Ginzburg, e scoprire un’autrice che non conosci, una persona che è possibile chiamare «geniale», Chiara Valerio. E con lei scoprire altre donne straordinarie che l’Italia ha condannato all’oblio come Dolores Prato e Marina Jarre, straordinarie figure di scrittrici e docenti. Il primo passo necessario da fare è stato comunque un altro: quello di capire e in qualche modo «accettare» Chiara Valerio. Perché la scrittrice, editor e oggi impegnata ad organizzare la fiera milanese dell’editoria «Tempo di libri», è veramente un po’ «schizzata», come avrebbero forse detto i suoi più giovani ascoltatori. Forte di una vastissima conoscenza letteraria, che ha iniziato a coltivare saccheggiando la biblioteca di casa, Valerio ha trasformato la sua lezione in un flusso convulso di citazioni, trame, riferimenti. Come dalla tasca scucita di un cappotto di bambina ha fatto tracimare i suoi tesori: terra di Transilvania, schegge del legno della casa-botte sul pero, fotogrammi di Trainspotting, Twilights e Indiana Jones, trucioli di carta di vecchie copertine di libri, la foto con la sagoma della vecchia zia, un maialino rosa simbolo del mestiere di nonno Michele. Intelligenza bruciante, affilata in anni di frequentazioni matematiche («L’istruzione è orizzontale, la cultura verticale, l’interpretazione è la diagonale» ha spiegato cartesianamente) ha trasformato la sua esposizione in una raffica di emozioni, in una furibonda rivendicazione di passione per i libri e la letteratura. E quando è arrivata al culmine, il parossimo si è sciolto in un breve singhiozzo, come se il vento da lei stessa evocato avesse scosso i rami della sua anima, facendone cadere lacrime. Ma che cos’hanno in comune la lunga digressione iniziale di Valerio sul «Dracula» di Bram Stoker e due tra le più note opere di Natalia Ginzburg? Un filo esile, almeno in apparenza: essere posti o ritrovarsi, noi lettori, alla stessa altezza, allo stesso livello dei personaggi. In «Dracula» per via del carattere di fatto documentario delle lettere e dei materiali che costituiscono il libro stesso. Nel caso di «Lessico Familiare» perché ad un certo punto il lessico della famiglia Levi, le parole e le espressioni per cui ogni membro della famiglia Levi avrebbe potuto riconoscere gli altri anche nel buio di una caverna, pervadono con la loro forza il lettore stesso, diventano il lessico del lettore.

C’è una lettera per Natalia Firmato: Dracula

In «Caro Michele» perché l’incertezza che attanaglia il lettore è proprio quella dei personaggi di cui nulla sappiamo, ma in fondo anche di cui nulla sanno i protagonisti stessi. E che cos’hanno in comune Natalia Ginzburg e Dolores Prato, la cui corrispondenza è conservata al Vieusseux? Il contrario del precedente. Una vicenda dai tratti brutali, un vero tradimento. Nel 1977 Dolores Prato consegna alla potente editor di Einaudi il primo tomo della sua trilogia autobiografica, intitolato «Giù la piazza non c’è nessuno». Compie una sfacciataggine, dice Valerio. Dolores ha più di novant’anni, ma «se uno scrive per una volta nella vita punta all’eternità. È atto ambizioso e vanaglorioso». Letteralmente, Natalia Ginzburg «si prende cura» del testo, e lo riduce da 1200 a 370 pagine! Taglia spietatamente. Lei che i suoi libri li scrive con lo stile della paratassi, evitando ogni subordinata, sottopone alla sua drastica cura una prosa ipotattica, ricca di subordinate, indifferente all’accumularsi spropositato delle pagine, trionfalmente padrona della storia e del tempo, ancella di una memoria prodigiosa, inesauribile come i recessi del celebre palazzo di Leibnitz. Uno spazio opulento, senza tramezzi, in cui si aggirano lucciole e moscerini, come un film di Miazaki. Ma allora Natalia Ginzbur, la parattattica, «era» Einaudi. Natalia voleva educare il popolo, sentiva la responsabilità politica di decidere che cos’era la narrativa italiana per una casa editrice come Einaudi. E decise. Il libro, volente o nolente una sbigottita ma impotente Dolores, vide la luce mutilato. Dal canto suo la stampa decretò che la cosa più significativa di «Giù la piazza non c’è nessuno» era la veneranda età dell’autrice, aggiungendo così la sua violenza a quella editoriale. Il libro fu pubblicato integralmente nel 2007 dalla casa editrice Le lettere. Lo stesso trattamento fu riservato a Marina Jarre e al suo «Monumento al parallelo», del 1968. Vicende, conclude Valerio, che oggi non sarebbero ripetibili: «Leggere i libri degli altri – dice con evidente riferimento alla sua stessa esperienza professionale – significa intonarsi a una voce che non è la tua. Ma non si tocca una parola, piuttosto sì decide se il libro si fa o no». Eppure, verrebbe da replicare, Chiara Valerio cura le riduzioni delle opere del ciclo «Ad alta voce» di Radio 3. O forse proprio per questo? Ma questa è un’altra storia, e la domanda per un’altra occasione.

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Spiriti di

materia Non si ritroveranno Mi sono dissolta rifiutando una colazione tra i gabbiani, in un ronzio di ali metalliche. Mi sono dissolta ma stavolta in parole dette. Avevo previsto una fuga, ma non così solitaria. Converso con pagine mute. Scrivo frasi brevi, spezzate. Mi sono nascosta nello stomaco rassicurante di un leone bianco accanto a un letto vuoto, straripante di pagine volti eccitanti appena conosciuti già schiudono labbra cartacee sussurrano versi, velate verità. Mi sono nascosta nello stomaco rassicurante di un leone bianco ma la realtà è ancora troppo plausibile. Cerco un posto buio dove diventare snodabile arrotolare le ginocchia incastrarmi come una noce nell’occhio di radici. Dalla tana alla base del salice piangente voglio contare

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di Vera Linder

Vera Linder nasce nel marzo 1992 e vive a Milano fino all’età di 5 anni. Frequenta le scuole elementari in Austria e si diploma al liceo classico a Venezia. Nell’estate 2015 partecipa a un corso di scrittura creativa presso la Naropa University, in Colorado. Una brezza invade l’incrocio delle possibilità. D’improvviso quello scrivere di persone solo perché non scivolino nell’oblio, quel diario di memoria, quella ricerca infinita nelle lettere riacquistano il loro Vero senso insensato. Nell’estate 2016 torna alla Naropa University. Attualmente sta terminando i suoi studi di Giurisprudenza a Trento. Ancora non è chiaro se dovrà accantonare il suo progetto di una tesi giuridica scritta in versi. Certo è che a giugno tornerà alla Naropa.

grappoli di luce quindici sedici diciassette, venticinque ventisei ventisette e rendere persino i numeri -logica personificatauna cantilena incoerente. Vorrei raccontarti di un viaggio ubriacato per poterlo compiere del mio giurare «non sono un pericolo» alla polizia sospettosa verso avvocati in cerca di poesia dei draghi riconosciuti nel giardino di pietra della routine che ha altri nomi in questa parte del mondo. Routine poetica, confusa americana fritta fumosa surreale si riversa in sé stessa, riemerge notturna nelle sue malinconiche forme. Vorrei raccontarti tutte le inclinazioni delle lettere che ho incontrato il significato degli occhi pietre preziose incastonate nei crani. Vorrei descriverti il loro essere neri, blu talvolta verdi. Vorrei svelarti nuovi trucchi per sfogliare le notti marchingegni più avventurosi del contare le rughe del soffitto. Nulla accade. Ti ho perso con la stupidità di un mazzo di chiavi.

Il viaggio ritorna sobrio io sono muta alla frontiera i draghi non sono più ciò che cercavo e la routine è solo routine. Le lettere sono state spezzate gli occhi pezzi di vetro senza valore. Di notte invecchio insieme al soffitto. Mi rimangono riposte in buste e bustine parti del tuo corpo. La mia testa lavora instancabile cuce i pezzi di te Alle storie che conosco. I fantocci di ricordi pendono dal soffitto della caverna più recondita del mio cervello. L’aria del mio respiro diventa vento nella caverna scuote i fantocci li proietta sullo schermo convesso del mio cervello. Anche il mondo piange in questa giornata di sole. Lacrime sfilano lungo i gradini si insinuano tra le viole. Lacrime viscerali

atterranno sulle lingue sprigionano aromi di incomprensioni. Lacrime negli angoli bui lacrime appostate lungo i tavolini dei caffè, acquattate dietro le tese dei cappelli. Lacrime si arrampicano sui tergicristalli, lacrime nelle tombe scoperte sulle scale antincendio degli ospedali. Il mondo ribolle in questa schiuma salata. Siamo racchiusi in una scatola di schiuma salata. Nella scatola I cuori Galleggiano. Talvolta uno di loro sparisce, esplode si spezza. Il ventricolo sinistro si scontra con il destro l’impatto li spedisce in angoli opposti. Anche gli atrii nonostante la conoscenza di lunga data scelgono lati opposti. Se le mura della scatola d’improvviso crollassero le pile di atrii e ventricoli accatastate ai quattro angoli cadrebbero per sempre in direzioni opposte. Non si ritroveranno più.


Ristorante caffetteria

La Loggia

Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy +39 055 2342832 www.ristorantelaloggia.it reservation@ristorantelaloggia.it

La bella stagione è alle porte e noi siamo pronti ad accoglierla con grandi novità e piatti sempre più indimenticabili!

premio letterario

Maschietto Editore

PRIMA EDIZIONE 2017 È bandita la prima edizione del concorso «Racconti Commestibili», la sfida letteraria lanciata da Cultura Commestibile e Maschietto Editore, in collaborazione con il Ristorante Caffetteria La Loggia. Il concorso è dedicato al tema del cibo, inteso in tutti i sensi letterali e figurati. Può partecipare chiunque, senza limiti di nazionalità e di età, inviando un solo racconto della lunghezza massima di 5000 battute entro il 15 aprile 2017 all’indirizzo email redazione@maschiettoeditore.com. La partecipazione è gratuita. La valutazione e selezione degli elaborati sarà affidata a due giurie: la prima, formata da redattori interni alla casa editrice e della rivista, individuerà la rosa dei 10 testi finalisti, La giuria tecnica, composta da Marco Vichi (scrittore), Francesco Mencacci (direttore della scuola Carver di scrittura creativa), Sandra Salvato (giornalista), selezionerà i tre racconti vincitori che saranno pubblicati sulle pagine di Cultura Commestibile. Al primo classificato sarà offerta una cena per due persone al Ristorante Caffetteria La Loggia. Il regolamento completo è scaricabile dal sito www.maschiettoeditore.com.

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Luoghi dell’arte di oggi a Parigi di Simonetta Zanuccoli

La Fondation Cartier nel 1994 è stata la prima a dedicare i suoi 1200 mq. di vetro e ferro progettati da Jean Nouvel in boulevard Raspail all’arte contemporanea. Oggi Parigi brulica di istituzioni e spazi pubblici e privati riservati alle creazioni di questi ultimi decenni. Anche nelle zone periferiche, raggiungibili con la metro o le linee della RER, molte gallerie competono per audacia e qualità con quelle del centro, ormai completamente emancipate dalla sua influenza. Di alcuni di questi spazi, né gallerie né musei, che hanno trasfigurato il paesaggio culturale parigino spingendo in primo piano l’arte contemporanea per un pubblico sempre più numeroso e attento, ho già scritto in precedenti articoli, come per la stessa Fondation Cartier, la Maison Rouge, in boulevard de la Bastille, che espone collezioni private di artisti emergenti e il 104, in rue d’Aubervilliers, ex sede delle Pompe Funebri, 39.000 mq. dedicati alle creazioni artistiche e culturali d’avanguardia. Ma chi ama questo periodo più recente dell’arte, andando a Parigi, non può non lasciarsi stupire dalle mostre e dagli spazi espositivi del Palais de Tokyo, o immergersi nell’atmosfera delle creazioni digitali e musica contemporanea del Gaite Lyrique, in rue Papini, antico teatro alle spalle del Marais o spingersi fino a Vitry-sur-Seine per visitare il Mac/Val, il museo di arte contemporanea simbolo di questo nuovo dinamismo culturale delle periferie. Ma l’offerta non si ferma alle porte di musei e spazi pubblici. Parigi ha centinaia di gallerie private che offrono un’enorme selezione di mostre spesso di ottima qualità. Il divertente per gli appassionati è camminare per Parigi alla scoperta delle più prestigiose o delle più curiose. Tra quest’ultime c’è senz’altro il Loft 34, in rue Dragon, uno spazio nel cuore di Saint Germain specializzato in street art che as-

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somiglia più a un appartamento che a una galleria con il fascino dei muri in pietra, le travi in vista e l’accoglienza calorosa dei proprietari. Da non dimenticare di salire anche al terzo piano dove in un appartamento di proprietà della galleria e aperto al pubblico spesso i migliori artisti di questa corrente liberano la loro creatività sulle pareti, sul pavimento e perfino sul soffitto. Più tranquilla l’atmosfera proposta dalla galleria Slow, in rue Jean-Pierre Timbaut, che invita a sedersi al grande tavolo centrale con una tazza di the e una fetta di torta circondati di buona musica e di circa 300 opere tra serigrafie, incisioni, collages di giovani artisti appese ai muri. In un angolo un armadio traboccante di litografie per bambini. C’è poi il Bal, in impasse de la Défense, famosa sala da ballo dei ruggenti anni 20, oggi un vasto spazio polifunzionale dove si propone l’analisi di differenti realtà attraverso tutti i loro aspetti e complessità con una molteplicità di approcci visivi come mostre, spettacoli, dibattiti, proiezione....Per chi invece non si vuole spingere fino alla Défense ma preferisce passeggiare nella Parigi più classica come nella bella rue Saint -Luis che attraversa l’isola con lo stesso nome consiglierei di fermarsi da Arludix. Aperta nel 2004 è la prima galleria al mondo che espone solo gli schizzi, le tavole e le strisce originali disegnati da artisti come Tim Burton, Moebius, Satrapi... per i più famosi film d’animazione e videogiochi.


di Ruggero Stanga Fra Marte e Giove, in una regione a una distanza dal Sole compresa fra circa due volte e circa 3.3 volte la distanza Terra-Sole, navigano un paio di milioni di corpi celesti con un diametro di almeno 1 km, oltre a un numero difficilmente calcolabile di oggetti più piccoli, giù fino ai macigni e ai grani di polvere interplanetaria: è la fascia degli asteroidi, che si è formata all’inizio del Sistema Solare, in un centinaio di milioni di anni, un tempo molto breve rispetto ai circa 4.8-5 miliardi di anni della età attuale del nostro sistema planetario. Nonostante l’abbondante spazio a disposizione, le collisioni sono numerose: si valuta che avvenga una collisione ogni 10 milioni di anni per asteroidi di una decina di km di diametro; se la collisione avviene a bassa velocità, è possibile una fusione dei due, e il risultato ha una forma casuale, determinata dagli urti del processo di formazione. Quando raggiungono le dimensioni di qualche centinaio di chilometri, la loro stessa forza di gravità diventa sufficiente a rendere plastico il materiale di cui sono composti, e allora assumono la forma di una sfera. La presenza di Giove nei dintorni, però, favorisce con il suo campo gravitazionale gli urti ad alta velocità, che portano alla frammentazione degli oggetti, e per questo non sono mai riusciti a formare corpi più grandi di qualche centinaio di chilometri di diametro; dopo oltre 4 miliardi di anni di questa vita, l’attuale popolazione degli asteroidi non ha molta somiglianza con quella d’origine. Se ne distinguono tre tipi: quelli ricchi di Carbonio (il 75% del totale), quelli ricchi di Silicio e quelli ricchi di metalli, circa il 10% del totale. Il primo di gennaio del 1801, Giuseppe Piazzi, astronomo a Palermo, direttore dell’Osservatorio e sacerdote, chierico regolare dell’Ordine dei Teatini, misurando la posizione relativa di alcune stelle in cielo, inciampò in un astro fuori lista, che non rientrava in nessun catalogo di stelle. Tornò nelle notti seguenti a osservarlo e si rese conto che si spostava rispetto alle altre stelle. Non aveva l’aspetto tipico delle comete, gli mancava la chioma, e Padre Piazzi si rese conto di avere scoperto un nuovo pianeta. Lo chiamò Cerere. Ora, classifichiamo Cerere come un pianeta nano, l’oggetto più grande della fascia degli asteroidi, con un diametro di circa 950 km; appartiene alla categoria degli asteroidi ricchi di Carbonio. La sua struttura è stata determinata dal calore sviluppato dagli urti durante la formazione e dalla disponibilità di elementi radioattivi come l’isotopo dell’Alluminio 26Al; questo calore è stato sufficiente per consen-

tire la differenziazione, con la formazione di un nucleo roccioso al centro e un mantello di ghiaccio. Il ghiaccio superficiale è comunque sublimato rapidamente, lasciando dietro di sé minerali come le argille. Dalla primavera del 2015 intorno a Cerere orbita Dawn, un veicolo spaziale lanciato nel 2007 da NASA, con l’obiettivo di studiare due asteroidi, Vesta prima e Cerere poi, per raccogliere dati utili per lo studio della formazione del Sistema Solare. Degli strumenti che ha a bordo, ci interessa VIR. VIR è capace di fare immagini a colori, come il nostro occhio; ma, a differenza del nostro occhio, è capace di distinguere molti più colori nella luce visibile dei sette colori dell’iride: si dice tecnicamente che ha una alta risoluzione spettrale; per di più, estende questa capacità anche alla radiazione infrarossa, che è invisibile a noi. Ora, atomi e molecole non emettono o assorbono luce distribuita con regolarità in tutti i colori, ma in piccole porzioni distinte di colori ben definite e specifiche di ciascun atomo o molecola (tecnicamente, si dice che hanno uno spettro di righe a lunghezze d’onda diverse). Con uno spettrometro come VIR è possibile identificare le righe e fare una

analisi chimica remota della materia che si sta osservando. Sarà bene ricordare a questo punto che VIR è stato progettato e costruito in Italia, sulla base dell’esperienza accumulata con strumenti analoghi per altre missioni come Rosetta e Cassini: quando le risorse ci sono, si dimostra che si ottengono ottimi risultati anche da noi; e alla NASA e all’ESA lo sanno. VIR su Cerere ha identificato la presenza di molecole organiche in un cratere che si chiama Ernutet. Si tratta di composti alifatici, catene di atomi di Carbonio e Idrogeno che sono poco resistenti alla radiazione ultravioletta e al calore, il che rende improbabile che siano arrivati su Cerere con l’impatto di meteoriti: non sarebbero sopravvissuti. È più probabile che si siano prodotti localmente e, vista la presenza di argille, in processi chimici in acque calde, come sulla Terra avviene nelle sorgenti idrotermali. Acque calde, molecole organiche, azoto nelle argille: tutte cose che servono per la fabbricazione degli ingredienti che sulla Terra hanno portato alla origine della vita. Ed è divertente notare che forse una delle culle della vita fuori della Terra è Cerere, il pianeta nano che ha il nome della divinità romana delle messi e della fertilità.

Cerere

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di Paolo Marini Ci è mai successo che «da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte» ci si mostrassero «i gialli dei limoni»? Che il gelo del nostro cuore si (di)sfacesse e nel petto ci scrosciassero «le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità»? «I limoni» di Eugenio Montale aiutano a riandare nella memoria a quella volta (perché c’è stata sicuramente) in cui la vista inattesa di questi frutti ci ha come abbagliato, al punto che quel velo dentro di noi - di pensosità, o di tedio - è stato squarciato da una improvvisa eccitazione, come infantile, irragionevole. Forse perché – come spiega Vassily Kandinsky («Lo spirituale nell’arte») - il giallo (che è il loro colore) è «caldo» e obbedisce ad un moto centrifugo. Decisamente estro-verso, tende verso di noi, ci coinvolge, ci punge quasi lasciandoci senza parola. Per l’artista russo si tratta del «colore tipico della terra», che in ambito psicologico si presta a raffigurare la follia (la mente è subito accompagnata al cospetto dei girasoli di Vincent Van Gogh), intesa nell’accezione forse più comune di «accesso di furore, di irrazionalità cieca, di delirio». Ma è anche accostato all’»estate morente» che, nell’«incendio» delle foglie autunnali, «dilapida assurdamente le proprie energie». Un sussulto di vita, una ‘festa’ prima della morte. Colore folle, dunque, e per giunta incapace di profondità. Si può comprendere perché il limone non poteva che essere giallo: la ‘giallità’ è ‘conditio sine qua non’ – per quanto insufficiente della sua ontologia. A completare il disegno sopraggiunge la grande poesia, che grande è quando e nella misura in cui sa ordinare in parole/versi ciò che è umanamente intraducibile. Ciò avviene, peraltro, sempre più ricorrendo ad un linguaggio piano, ordinario, ad un tono minore, più consono alla sensibilità moderna. Anche in tal modo si ottiene quel nascondimento dell’arte che Paolo D’Angelo ha doviziosamente trattato nel suo «Ars est celare artem». Così, quell’’ordine’ insito nell’alto poetare ci appare un incantesimo e, più che parlarci, evoca percezioni, ci suggestiona, rendendo inopportuno - anziché superfluo - ogni tentativo di aggiungere qualcosa, poiché fatalmente destinato ad immiserire il verso. Pablo Neruda nella sua «Ode al limone» ha celebrato l’«agra, segreta simmetria» dei limoni, quell’»effluvio di un amore / esasperato», quell’»acido congelato» che ne scaturisce. Qui la parola è ancora solenne - come

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Dei limoni e del loro giallo

appunto esige l’ode -, e allora il limone è «universo d’oro / (…) / raggio di luce convertito in frutto, / il minuscolo fuoco di un pianeta»; quasi un ente (che ci pare) sospeso tra una sostanza sensuale e misterica, una apparenza di «tenera mercanzia» e quella personalità anti-esotica la cui peculiare rotondità riempie da sempre piatti e cesti di casa. Né s’inganni, a questo punto, l’aspirante e sciagurato cacciatore di limoni, presumendoli vili e di indifesa natura. Intanto, quando ancora in albero - ovvero non ancora scesi «dal loro planetario» -, vi sono forti, acutissime spine a difenderli da uno spoglio non amorevole e indiscriminato. Poi quell’«acido congelato», la tipica asprezza del loro succo, sono misura del loro temperamento. Bisogna che si sappia: il limone è anzitutto profumo e come tale tutt’altro che

ostile all’incontro, ma non per questo vuole piacere a tutti. E’ appunto un po’ folle, come il suo eccellente pigmento naturale. A ben pensarci, nondimeno, c’è una qualità superiore da amare nel limone: la sua risaputa umiltà, l’attitudine a tenersi lontano dall’arte ‘sapiente’ e compiaciuta, dalle mire dei «poeti laureati», che – è di nuovo Montale - «si muovono soltanto tra le piante / dai nomi poco usati (...)». Se, dunque, «tocca anche a noi la nostra parte di ricchezza», ciò è grazie a «l’odore dei limoni». Una scelta di vita, prima che d’arte: amiamo il limone in ogni sua offerta e declinazione perché ci somiglia, con quella sua anima un po’ scontrosa, non facile; epperò di una acidità trasparente, di una pienezza senza fronzoli, buona di quel buono che ha la gente che non esibisce miseria o ricchezza ma dignità.


di Serena Cenni Come suonerebbe il suo immenso canzoniere se, per qualche assurdo motivo, fosse improvvisamente privato delle sue svariate scorribande in quel regno governato da Selene, Mercurio e Dioniso? Con queste due domande, molto suggestive, si apre il bel libro di Alex Roger Falzon, Bob Dylan: Tu sei quel che sogni (Melville, Siena 2016) che, fin dall’inizio, cattura il lettore trasportandolo all’interno del complesso universo delle dream-song dell’artista americano. E proprio al famosissimo, quanto visionario, Mr Tambourine Man, del 1965, Alex Falzon ha dedicato, in novembre, la sua ultima lezione alla Facoltà di Lettere dell’Università di Siena circondato da amici, colleghi e studenti che hanno voluto essere presenti per festeggiarlo. La sua confidenza con i testi poetici di molti autori britannici e le sue competenze teoriche e linguistiche affinate da tanti anni trascorsi nell’accademia come docente di Letteratura Inglese, gli hanno permesso di scrivere e pubblicare questo libro a cui pensava da molto tempo, offrendo una lettura preziosa, molto densa e innovativa. Appassionato di Bob Dylan fin dai primi anni Settanta quando studiava a Londra, Alex Falzon è diventato, molto presto, un ‘dylaniato’ convinto, raccogliendo tutto il materiale possibile esistente sul mercato internazionale, e (in)seguendo il suo mito, in Italia e in Europa, per assistere a molti concerti. «Diventi ‘dylaniato’» – mi spiega, accogliendomi nel suo bello studio nella campagna aretina traboccante di libri e di poster – «quando ti rendi conto che la discografia ufficiale è solo la punta dell’iceberg della produzione dell’artista e quindi devi, a qualunque costo, venire in possesso anche dei ‘bootlegs’: di quelle canzoni, cioè (in vinile, cassetta o CD), che fanno parte del materiale scartato dall’autore, ma che sono valide tanto quanto quelle della discografia ufficiale». Spesso sono gli stessi musicisti che hanno suonato con lui a far apparire (un po’ piratescamente!), pezzi inediti, alimentando così il commercio e i contatti tra ‘dylaniati’, che si scambiano incessantemente notizie sul cantante, sui suoi ultimi brani, o sui futuri concerti… Ovviamente il Nobel, e il riconoscimento della severa Accademia svedese, non ha che confermato la loro infinita stima per quel solitario, introverso, diffidente, talvolta arrogante, folksinger del Minnesota che, pur di non rinun-

Cosa sarebbe Dylan, senza la notte? ciare (almeno ufficialmente), ai concerti già fissati, non ha esitato a inviare a Stoccolma l’amica e cantante Patti Smith per ritirare il premio. Ma, per tornare ad Alex Falzon, qual è il contributo del suo libro nel panorama delle pubblicazioni dylaniane? Da profondo conoscitore dell’intera produzione dell’artista, Falzon ha deciso di affrontare solo quei testi poetici (lyrics) che, più di altri, si immergono nella potenza dell’immaginario onirico. Ha perciò selezionato 14 dream-song (che, temporalmente, spaziano dal 1963 al 2012), le ha suddivise in tre distinte fasi «dove l’approccio verso il mondo onirico varia radicalmente a seconda del periodo implicato» e, di ciascuna fase, ha offerto la contestualizzazione socio-politica-culturale con cui il ribelle Dylan ha dovuto interagire, e le tematiche più ricorrenti, per poi rivolgersi a una dettagliata analisi testuale degli scenari inquietanti e fantasmatici che, di volta in volta, si configurano nelle sue strofe. Dopo una presentazione dell’incipit di ogni dream-song, il lettore viene guidato

nel labirinto immaginifico di Dylan imparando, grazie all’analisi accurata di Falzon, a riconoscerne la ‘logica’ straniata e lo scompiglio apparente dei nessi consequenziali e delle coordinate spazio-temporali, giungendo a percepire i ‘salti di soglia’, le condensazioni e le dislocazioni, le molteplici maschere del narratore-sognatore e quelle dei suoi interlocutori, mentre le formule iterative da antica ballata come, ad esempio, in Percy’s Song («turn, turn, turn again/ turn, turn to the rain and the wind»), contribuiscono ad accrescere lo stato ipnotico del sogno o, talvolta, ad aumentare la sostanza dell’incubo. Un viaggio affascinante, dunque, attraverso quattordici canzoni che, evocando l’universo più intimo del cantante, ne svelano i sentimenti e le emozioni più segrete, i desideri e le proiezioni più nascoste, ma anche le proteste più viscerali, in una fluente corrente psichica che, dalla situazione esistenziale singola, si allarga ad abbracciare le esperienze collettive di un genere umano sempre più smarrito in una landa fatalisticamente desolata.

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Maschietto editore

Paesaggio 14 marzo 2017 - Prima Giornata Nazionale del Paesaggio

PASSEGGIATE LUNGO MOLTI MARI “A Viareggio c’è un viale una volta chiamato Margherita – oggi della Libertà – detto popolarmente La Passeggiata. Questo viale dalla parte che guarda i monti è delimitato da palme, lecci, aiuole e giardini; dalla parte del mare vi sono le costruzioni, i cinematografi, le botteghe, i negozi di moda, di articoli da spiaggia, i ristoranti. Il mare, benché a pochi metri, non si vede, è lì al di là delle costruzioni; all’improvviso appare negli intervalli tra un gruppo di stabili e un altro.” Mario Tobino, Sulla spiaggia al di là del Molo

Il volume Passeggiate lungo molti mari, a cura di Marco Massa, propone un percorso testuale e iconografico che dà vita a una serie di variazioni sul tema della passeggiata. Al centro della riflessione si trovano il concetto di paesaggio, inteso come memoria del territorio e degli individui che lo hanno abitato, le storie dei litorali toscano e ligure, e di altri in Italia e oltre, le modaliità dell’intervento umano tra mare e città, le politiche territoriali relative alle coste, il rapporto tra paesaggio e letteratura, quello tra identità locale e utopia. Trattano questi temi autorevoli paesaggisti, urbanisti, architetti, progettisti, studiosi: Marces Smet, Francesco Pardi, Susanna Caccia, Franco Maria Allegretti, Alessandro Rizzo, Francesca Petrolini, Massimo Ceragioli, Stefano Renzoni, Donatella Donatini, Franco Lorenzani, Corinna Artom, Giovanni Gaggero, Alessandra Bobbe, Ricard Pié i Ninot, Manuel Nòvoa, Carlos Pena Martinez, Anna Marson, Fabio Isman, Francesco Zucchini, Elisa Palazzo, Elena Vincenzi, Grazia Gobbi Sica. Passeggiate lungo molti mari, a cura di Marco Massa, Maschietto Editore, 2005 Pagine 312 – 48 € – ISBN 9788888967431

www.maschiettoeditore.com


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