211 1 aprile 2017
278
Numero
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Un calcio alla crisi
«Il lavoro si ottiene più giocando a calcetto che mandando in giro curriculum» Giuliano Poletti, ministro del Lavoro
Maschietto Editore
NY City, Agosto 1969
La prima
immagine Con gli occhi di oggi potrebbe sembrare la foto di copertina di una delle tante riviste di moda che si vedono dal giornalaio. Una bella ragazza, ben vestita e nella posa classica appunto, di questo tipo di pubblicazioni! La realtà era molto diversa, e ferme restando le caratteristiche visibili di questa bella giovane newyorkese, quello che risalta sullo sfondo non è il background per una ripresa di moda (come spesso si usa fare ai giorni nostri) ma semplicemente la realtà dell’ambiente in cui questa giovane era costretta a vivere la sua quotidianità.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
1 aprile 2017
278
211
Riunione di famiglia Il ritorno di Rocco Le Sorelle Marx
Eugenio Jones Lo Zio di Trotzky
Nardella abbraccia tutti I Cugini Engels
In questo numero G7 La comune matrice del genere umano di Sara Chiarello
I giudici e la politica di Gianni Biagi
Sangue c’è stato racconto di Carlo Cuppini
Il giardino di Adone di Claudio Cosma
Pittori di suoni di Alessandro Michelucci
Una dinastia di boia di Simonetta Zanuccoli
Le regole della savana di Mariangela Arvanas
Descrittivismo, antitesi della buona letteratura di Paolo Marini
Contro le pieghe del Rinascimento di Cristina Pucci an-architetto di Laura Monaldi Atget, il grande ritorno di Danilo Cecchi
Direttore Simone Siliani
La cura del benessere di Francesco Cusa e Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Ruggero Stanga, Abner Rossi....
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Venghino signori, venghino premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Mandate i vostri racconti
redazione@maschiettoeditore.com
Progetto Grafico Emiliano Bacci
redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
di Sara Chiarello «L’importanza del G7 della cultura a livello sociale è dato dalla necessità di alzare la nostra consapevolezza critica nei confronti di ciò che riteniamo essere la nostra cultura, la nostra identità». A parlare è Vincenzo Matera, antropologo culturale e professore all’Università di Milano – Bicocca, a Firenze per intervenire all’incontro si è tenuto a Villa Schifanoia «Cos’è il dialogo delle culture?», organizzato da LaRivistaCulturale. com nell’ambito del G7 della Cultura. Matera parla di come dialogo significhi letteralmente ‘parlare attraverso’, la capacità di cogliere ciò che dicono gli interlocutori, in contrapposizione al monologo, una modalità senza replica, una trasmissione a senso unico. Ricordando che le culture non sono entità animate ma astrazioni: chi comunica sono le persone. «Il dialogo delle culture potremmo definirlo come tentativo di costruire un linguaggio che superi i confini specifici delle appartenenze e consenta di trovare punti in comune e di contatto, riconoscere le interconnessioni che a prescindere dalla appartenenze che ognuno si propone di rivendicare ci riconducono tutti a una comune matrice che è quella del genere umano». Parliamo, quindi, un linguaggio universale? «Parliamo di un linguaggio che più che essere universale sia fondato sull’approfondimento delle logiche specifiche che governano ciascun sistema culturale e a partire da quella conoscenza, dal punto di vista degli altri, possa agganciarsi alla propria logica e ai proprio significati. Universale nel senso di agganciato alle logiche locali specifiche attraverso un approfondimento e una maggiore conoscenza dei punti di vista altrui. Tra vecchi e nuovi populismi non trovo grandi differenze – sottolinea - se non in una sorta di un abbandono di ideologie razziste basate su presunti patrimoni genetici che diventano lo strumento in base al quale rivendicare la propria identità, i propri diritti ad avere accesso a determinate risorse a scapito di altri. Oggi questo tipo ideologia lascia posto a ideologie che centrano il settore culturale: la cultura viene strumentalizzata per scopi
4 1 APRILE 2017
G7 La comune matrice del genere umano
politici. È un abuso del concetto di cultura che gli antropologi cercano di smascherare, ma fa molta presa sulla società». Le diverse culture dove trovano maggiore difficoltà nel dialogare, dottor Matera? «Le diverse culture trovano difficoltà nel dialogare ogni volta che un’identità culturale viene strumentalizzata da un sistema politico, e viene utilizzata come armi per costruire appartenenze e identità rigide e poco aperte al dialogo con gli altri, se si potesse evitare l’abuso della strumentalizzazione politica sarebbe molto più semplice; le persone libere da questi ingabbiamenti culturali sono più disponibili a dialogare a trovar punti di contatto. Il problema sussiste ogni volta che un’identità culturale viene usata strumentalmente per costruire barriere, gerarchie per legittimare domini, sfruttamenti disuguaglianze, purtroppo una costante della storia dell’umanità. Migliorare attraverso un lavoro di approfondimento
dei modi di vita, dei valori, aumenterebbe la consapevolezza delle persone rispetto a riferimenti culturali consentendo di assumerli non in assoluto, ma come dei riferimenti che danno un senso all’esistenza delle persone in un certo posto ma non escludono di confrontarsi con persone che arrivano da luoghi diversi e riferimenti culturali diversi». L’incontro si è aperto con l’intervento del Presidente dell’Istituto Universitario Europeo Renaud Dehousse. «Se un anno fa fosse stato chiesto alla popolazione britannica di tagliare tutti i ponti con la Comunità europea non penso che ci sarebbe stato il risultato che c’è stato. Il referendum è uno strumento pericoloso perché dà l’impressione di essere semplice ma crea un meccanismo di radicalizzazione del sistema politico. E in un sistema come quello dell’Unione Europea la radicalizzazione non giova a nessuno». «La strada che dobbiamo perseguire –
ha aggiunto Dehousse - è cercare un dialogo più ampio e più semplice tra gli studiosi e il pubblico in generale. La Brexit, che ha preso il via ufficialmente, testimonia il fatto che il dialogo in Europa è rimasto molto complicato. La via della Brexit non è per niente scontata, la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori non ci credeva più di tanto, pensava di poter fare un bel referendum senza conseguenze. Quel che vediamo è esattamente il contrario: nessuno pensava che il risultato sarebbe stato così drammatico, ad ogni passo le cose diventano un po’ più serie, stiamo assistendo a un processo di radicalizzazione». Ha poi aggiunto Melissa PIgnatelli, antropologa culturale e fondatrice de LaRivistaCulturale.com: «Ognuno cerca di costruirsi un senso, un’identità. In questo ambiente globale costruito di flussi, idee, film (che veicolano strutture di significato, le serie tv ad esempio sono universi di senso prodotti in un luogo e consumati
in un altro), in questo viaggio si generano idee e si produce cultura. Il dialogo crea curiosità. Se si storicizzassero movimenti, migrazioni, raccontando le partenze, si potrebbe andare oltre al primo sentimento di sfiducia, che proviamo verso l’ignoto. Il dialogo delle culture è proprio un modo in cui l’altro perde la valenza della paura e si instaura un dialogo. Credo che sia fondamentale recuperare un rapporto umano: i social media hanno messo uno schermo, e bisogna invece costruire uno spazio insieme. Credo che i media abbiano un ruolo fondamentale, e possano favorire il dialogo tra culture storicizzando le posizioni differenti che si incontrano da una parte all’altra del mondo. Un approccio più aperto riduce la paura del diverso e l’ansia verso l’ignoto, è solo attraverso la conoscenza che i cittadini possono comprendere i grandi fenomeni migratori che agitano il nostro tempo e imparare a non temerli».
5 1 APRILE 2017
Le Sorelle Marx
Il ritorno di Rocco
Per la felicità di noi, pur anziane, signore, dobbiamo annunciare a tutte un evento storico: Rocco Siffredi torna sul set! Non potevamo rassegnarci all’idea di non vedere più Roccuccio nostro al cinema. Dopo la sua partecipazione all’Isola dei Famosi, lo scorso anno, aveva annunciato con non poca enfasi che avrebbe detto addio alla sua carriera di attore e noi eravamo crollate in un abisso di dolore, versando lacrime inconsolabili e disperando nel futuro. Ma Rocco è un «artista» del genere e non riesce proprio a stare lontano da quello che dice essere «metà del suo mondo». Ma è stata la sua (altra) metà a
I Cugini Engels
Nardella abbraccia tutti
Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, sta per aderire ad un nuovo movimento (politico?), forse abbandonando il PD. Non è un nostro scoop, ma lo deduciamo dalla voracità compulsiva con cui il sindaco si dedica all’abbraccio. È una vera ossessione: accoglie in Palazzo Vecchio le coppie che festeggiano le nozze d’oro, e le abbraccia tutte; inaugura l’aiuola al Piazzale Michelangelo, e abbraccia la città; inaugura il finto arco di Palmira in Piazza della Signoria, e abbraccia il mondo; inaugura l’ennesima statua di Talani in piazza S.Jacopino, e l’abbraccia e la bacia (come ricorda Marguerite Yourcenar, «ogni uomo senza saperlo, cerca nella donna soprattutto il ricordo del tempo in cui lo abbracciava sua madre»). Giulivo e gaio come una pasqua, Nardella si profonde in un tripudio di abbracci. Sisa che l’abbraccio favorisce la produzione di ossitocina, l’ormone della felicità che allontana stress e favorisce la memoria (anche se di quest’ultima Nardella pare non averne molta visti i continui ribaltamenti di fronte e posizioni che caratterizzano la sua sindacatura). Ma, in realtà, secondo alcune
6 1 APRILE 2017
sollevarci da questo incubo. Infatti, ospite di Barbara D’Urso a «Domenica Live» insieme alla moglie Rosza, Rocco ha ammesso di essere tornato sul set e di aver avuto la «benedizione» della moglie. Che donna! Rocco ha spiegato di essere stato spinto dalla moglie stessa: «È stata Rosza a dirmi che se io stavo male dovevo tornare a fare il mio lavoro e che lei non mi aveva mai chiesto di smettere». In realtà sappiamo che Rosza non ne poteva più di averlo sempre in giro per casa, sempre sul chi va là, lancia in resta (letteralmente), a proporle salti e capriole di ogni genere. Così la Rosza gli ha detto: «Senti Rocco, se proprio
non puoi darti una calmata, torna pure a girare, che qui abbiamo finito la scorta di camomilla!» Rocco ha ammesso davanti ad una D’Urso ringalluzzita per l’occasione: «Non so come dirlo diversamente, ho ricominciato a novembre. Quando io sono uscito dall’Isola mia moglie è rimasta molto sorpresa, chiedendomi se fossi sicuro. Ero certo, credevo fosse importante per lei. Ma ho trascorso un anno e mezzo nel quale io non ero più la stessa persona. Cambiare la propria natura è difficile. Rosza ha capito e mi ha detto che se volevo riprendere lei non aveva nulla in contrario». Così è tornata l’armonia in casa Siffredi: la Rosza è tornata alle sue tranquille occupazioni casalinghe e i figli Lorenzo e Leonardo in un video messaggio hanno spiegato: «Ora che siamo diventati grandi e stiamo cominciato le nostre vite fuori casa ricordatevi che resterete sempre il nostro riferimento. Grazie per essere stati i nostri genitori». E vissero tutti felici e contenti. Anche noi, ora.
fonti che non possiamo rivelare, Nardella sta meditando di lasciare il PD e candidarsi per il secondo mandato amministrativo alla guida della lista del movimento dei «Free Hughs» (Abbracci gratuiti), ideato da un ragazzo australiano, che abbraccia gli sconosciuti regalando loro affetto e calore umano! La campagna elettorale: abbracci a più non posso! Forse la scienza non è ancora in grado di provarlo, ma gli abbracci allungano la vita. Ne sono certo. (Alessandro D’Avenia)
Nel migliore dei Lidi possibili
Lo Zio di Trotzky
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
La Fata Turchina: «Pinocchio non andare in America con la Vespa. Molto meglio se dai gli zecchini d’oro al Gatto e alla Volpe che a Trump»
Eugenio Jones
Non fu, come si dice, un vecchio poster di un vecchio film degli anni ‘30 che suggerì a George Lucas la figura dell’archeologo dal doppio ruolo, quello di preciso e impeccabile professore universitario e quello di avventuriero con la barba incolta, in giro per il mondo alla ricerca di antichi reperti e civiltà perdute, che poi chiamò Indiana Jones. Il vero ispiratore fu Eugenio Jones che ha rivelato così la sua vera identità d’intrepido avventuriero, sprezzante del pericolo e alla ricerca di tesori e reperti di antiche civiltà. Eccolo qui mentre sprezzante del pericolo attraversa un canyon su una corda tesa a 300 metri di altezza, per passare «da spinda a dpinda» del fiume Lima. Nel suo profilo di Facebook Eugenio
Giani (in arte Eugenio Jones) ci dà conto del fatto che «Insieme al Sindaco Massimo Betti abbiamo consapevolezza del grande richiamo che può offrire questa iniziativa», ma anche delle infinite possibilità cinematografiche offerte da questa sua nuova trovata. Ha già programmato la serie di pellicole: «Eugenio Jones e il buffet maledetto», «Eugenio Jones e l’ultima preferenza», «Eugenio Jones e il destino di Tuscania», «Eugenio Jones e la tomba del Presidente della Regione», «Eugenio Jones e il Bastone dei Re(nzi)», «Eugenio Jones: L’elezione continua». «Ogni giorno la Toscana mi regala perle di bellezza nuove e magnifiche!!!!». Pregevole iniziativa
7 1 APRILE 2017
di Laura Monaldi Alla fine degli anni Sessanta l’Architettura Radicale segnò un progressivo passo in avanti nella progettazione urbanistica e nel modo di intendere e concepire le risultanze architettoniche, attraverso una presa di coscienza maggiore sulle possibilità offerte dalla disciplina e dal processo creativo. Il ripensamento interpretativo pose la possibilità di rinnegare le ideologie accademiche e i canoni tradizionali per operare in vista della sperimentazione e del rinnovamento. Gianni Pettena, dialogando con i gruppi e i nuclei originari dell’Architettura Radicale e senza dimenticare la propria formazione di architetto, fruì gli strumenti e i linguaggi delle arti visive, per fare della ricerca radicale un’inedita concettualità critico-progettuale e operativa. Mettere in luce i conflitti esistenti fra l’architettura e il paesaggio – urbano e non – nonché fra l’architettura e l’oggetto quotidiano, divenne un elemento necessario alla rifondazione della cultura oltre lo scenario storico e sociale, capace di dare alla disciplina e alla materia architettonica una forza espressiva pari a quella dell’Arte, unendo alla progettazione la creatività e l’impensabilità delle soluzioni estetiche. Una tendenza anarchica che liberava il mondo e l’uomo dalla pesantezza urbanistica fino ad allora conosciuta: con Gianni Pettena l’attività professionale si fece critica e venne liberata da ogni limite costrittivo e costruttivo. L’an-architetto fu capace di unire alla geometria descrittiva, al rilievo architettonico e al disegno tecnico anche le rilevanze concettuali della land-art e dell’happening, tendendo a una visione più ampia della trasformazione ambientale in virtù dell’innovazione, della conoscenza, delle relazioni e delle emozioni. L’architettura divenne energia evolutiva non solo dell’edificio ma anche del territorio e della società, poiché progettare altro non è che un insieme di coordinate linguistiche e di logiche artistiche in grado di esplorare l’operatività fisica del concetto in relazione all’azione sulla e oltre la materia. Quella di Gianni Pettena è una ricerca polifonica e narrativa, eclettica e interdisciplinare che procede oltre le strutture formali per vertere nella direzione di una visione utopica della percezione ambientale, contro il rigore moderno e facendo del punto di vista, della lettura, della rappresentazione architettonica un incontro/confronto che fa della sovversione un inno al progresso e al nuovo. Sopra Clay House – modello, 1971, Legno e stucco dipinto. Sotto About non conscious architecture, 2012 Composizione di 9 fotografie in b/n cucite tra loro Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
8 1 APRILE 2017
an-architetto
Gianni Pettena
Musica
Lo spettacolo verrà poi replicato in alcuni teatri francesi. Questa esperienza segna l’ingresso del gruppo in una dimensione che trascende quella puramente musicale. Il nuovo orizzonte trova espressione compiuta in un proprio studio musicale che non si limita alla registrazione, ma include la creazione di spettacoli e la didattica. In pochi anni gli Art Zoyd acquisiscono un rilievo europeo che viene attestato dalla partecipazione alle manifestazioni più diverse: festival, iniziative organizzate da centri culturali, eventi di
Maestro di Alessandro Michelucci In passato abbiamo parlato più volte dell’etichetta statunitense Cuneiform, per la quale nutriamo la massima stima. Oggi torniamo a farlo, ma stavolta per un motivo particolare. La casa discografica fondata e diretta da Steve Feigenbaum ha pubblicato un cofanetto intitolato 44 1/2: Live & Unreleased Works. La confezione comprende 12 CD e due DVD che raccolgono una messe di materiale prezioso ma ancora inedito, realizzato dai francesi Art Zoyd fra il 1972 e il 2015: 44 anni e mezzo, come dice il titolo (calcolati a partire dal 1971, anno di rifondazione del gruppo). I CD offrono oltre 15 ore di musica: circa dieci di registrazioni dal vivo (1972-2004) e cinque di materiale registrato in studio, apparizioni televisive e brani inediti. Attenzione però: non si tratta di una compilation messa insieme con materiale di scarto, ma di una pubblicazione che rende piena giustizia al gruppo francese sottolineando la sua importanza e la sua varietà espressiva. Frutto di un notevole sforzo tecnico ed economico, ma anche di una passione sincera, quest’opera è necessaria a chi vuole conoscere gli Art Zoyd come a chi li apprezza già. La storia del gruppo, articolata e complessa, spazia dal cinema al balletto, dal teatro ad opere multimediali innovative e stimolanti. Il gruppo nasce nel 1969: fondato da Rocco Fernandez, inizialmente è orientato verso il rock progressivo. Nel 1971, con l’ingresso dei polistrumentisti Gerard Hourbette e Thierry Zaboitzeff, subisce una svolta radicale. I due nuovi arrivati operano una rifondazione che determina la fuoriuscita dei membri originari. A partire dal 1975 la formazione si orienta decisamente verso un rock d’avanguardia che l’avvicina ai Magma. L’influenza del gruppo di Christian Vander (insieme a quella zappiana) traspare dal primo LP, Symphonie pour le jour où brûleront les cités (1976), e dal successivo Musique pour l’Odyssée (1979). Quest’ultimo segna l’arrivo del batterista Daniel Denis, leader dei belgi Univers Zéro. In questi
Pittori di suoni primi lavori una strumentazione ricca (archi, fiati, tastiere, chitarre, ritmica), insieme alle acrobazie vocali di Zaboitzeff, mette già in mostra lo stoffa del gruppo. Il brano «Cérémonie», tratto da Les espaces inquiets (1983) esemplifica l’avvicinamento all’universo elettroacustico. Introdotto da suoni cupi a arcani, il pezzo sfocia in una tensione ritmica che poi si stempera nella quiete finale. Allo stesso anno risale L’étrangleur est derrière vous (1983), scritto per l’omonimo spettacolo teatrale, all’epoca pubblicato su cassetta. Firmata da Hourbette, la composizione è eseguita da Jean-Pierre Soarez (tromba), Thierry Willems (piano) e Thierry Zaboitzeff (basso e violoncello). Nello stesso anno il coreografo Roland Petit commissiona al gruppo la musica per il balletto Le mariage du ciel et de l’enfer, che viene rappresentato alla Scala di Milano.
grande respiro come l’anno europeo della cultura (Copenaghen, 1996). La versatilità del gruppo si espande poi anche verso il cinema. Nosferatu (1988) è la prima colonna sonora che realizza per un film muto. Nel 1997, dopo la dipartita di Thierry Zaboitzeff, Hourbette e gli altri iniziano a collaborare con l’Orchestre Nationale de Lille. Il frutto è Dangereuses Visions, una creazione dove l’orchestra si fonde con un vasto apparato visivo. Nel frattempo prosegue il fruttuoso legame col cinema. Dopo le musiche per Faust (1993), il classico di Murnau, e per Häxan (1995), diretto da Benjamin Christensen, è la volta di Metropolis (2002). La musica composta per il classico di Fritz Lang è una suite in 33 movimenti dove il gruppo dà libero sfogo alla propria creatività, spingendola talvolta ai confini della cacofonia. Il secondo DVD include la registrazione integrale del concerto che si è tenuto il 19 settembre 2015 al Festival Rock in Opposition. La manifestazione, (ri)nata nel 2007 grazie a Michel Besset e a Roger Trigaux, si tiene ogni anno a Carmaux, una cittadina della Francia meridionale. Per l’occasione la formazione comprendeva 10 elementi vecchi e attuali, compreso lo storico Thierry Zaboitzeff. In questo modo il gruppo di Gerard Hourbette si è ricongiunto idealmente alle proprie origini, rivendicando la continuità fra lo spirito del Rock in Opposition e le creazioni più recenti della formazione transalpina. Questa è davvero musica europea, musica diversa, una delle esperienze più luminose e originali che il nostro continente abbia espresso nel ventesimo secolo.
9 1 APRILE 2017
Il mondo
senza
gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni
di Carlo Cuppini Si trattava di leoni, dunque, e non di gattini, come tutti all’inizio avevamo pensato: le bestiole che riempivano i corridoi e i salotti, accomodati sui divani e sulle decine di sedie, sdraiati sui tappeti persiani ancora mezzi arrotolati, sparsi per tutta la casa: casa abitata da un ampio manipolo di cugini, cognati, da schiere di amiche di prozie, da parenti lontani giunti in visita da tutta Europa, da combriccole di giovani donne bionde eppure more, comunque appena uscite dal parrucchiere, imbellettate e impomatate a puntino, da congerie di compagni di giochi di nipoti di zie (alcune delle quali calve, o rasate, impossibile stabilirlo con certezza), da adunate di donne simpatiche, molto loquaci e disponibili, tutte toniche e di piacevole aspetto, tutte comunque molto più grandi di me: per non parlare degli uomini, tutti o quasi nerboruti e compulsivamente concentrati sulle proprie personali manie. Così ognuno di noi ha pensato a gattini, e non certo a leoni: tanto che tu li prendevi per la collottola e te li stringevi al petto dicendo: «Che dolci i gattini!» E anch’io li abbracciavo e li accarezzavo. E anche lui, se non sbaglio, se li strisciava sulla faccia, ripetutamente, quel certo cognato, i gattini. E tutti guardavamo e toccavamo i gattini, i molti gattini, i cari gattini, i grossi gattini. E noi tutti in coro gridavamo: «Guardate gli enormi gattini, i gattini arancioni, come riluce il pelame sui tappeti persiani ancora mezzi arrotolati; e come paiono ambrati; e come brillano i loro occhietti furbi e sornioni!» Che poi si trattasse di leoni, nessuno lo immaginava. E non c’è da stupirsi se alla fine sangue c’è stato; tutto quel sangue versato sui tappeti persiani, sui pavimenti, sui divani, schizzato sui muri; sangue di zia, di cognato, di procugina, di amica cara di parente lontano. Non sangue mio, in ogni caso, né tuo, questo è chiaro – e neanche suo se non sbaglio – e questo ha il suo peso nel valuta-
10 1 APRILE 2017
Sangue c’è stato re la storia. Ma sangue di certo c’è stato – va detto, va affermato, ribadito – e per fortuna non dà un gran fastidio, così immerso nell’ombra com’è, non dà scandalo, quasi non lo si nota: ci si può abituare, adesso lo dicono tutti, non dà affatto nell’occhio. Poi, trattandosi di leoni, poteva andare anche peggio. Non sono cattivi, ma non sono gattini. E d’altra parte sono sempre felini, e in famiglia, tra parenti, tra amiche di amici, tra tutte quelle stanze, i corridoi, i piani rialzati, le scale, è facile prendere un abbaglio, scambiare leoni e gattini, ci si accorge sempre quando è troppo tardi.
Foto di
Pasquale Comegna
Il sole basso all’orizzonte
di Mariangela Arnavas «Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che, nel corso del ventesimo secolo, hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con le sanzioni o il premio ai suoi difetti o qualità». Sono parole dell’ex ministro dell’economia Padoa Schioppa, che non è più tra noi e quindi ha sicuramente avuto il suo contatto con la durezza della vita; sono parole terribili ma, a mio avviso,una buona sintesi delle filosofie economiche di governo degli ultimi dieci anni, perfettamente capaci di togliere quel velo di apparente razionalità con il quale la parola « riforme» copre senza troppa eleganza le manovre economiche dei recenti governi sia di centro sinistra che di centrodestra. Evidentemente si è ritenuto e si ritiene ancora da parte dei propugnatori e gestori di questo tipo di «riforme», che consentire a tutti i cittadini di difendere la propria salute, percepire uno stipendio capace di mantenere se stessi e la famiglia lavorando ed essere in grado di far studiare i figli e mantenerli in salute senza rovinarsi significhi avere vita facile, spassarsela e che, in definitiva , almeno in qualche parte del mondo, Europa Occidentale, (chissà perchè si escludono Malta, Gran Bretagna e forse
Segnali di fumo di Remo Fattorini C’era una volta una legge, la numero 10 del 2013. Obbligava i Comuni sopra i 15mila abitanti a piantare, entro sei mesi, un albero per ogni neonato. Una legge lungimirante e sensibile verso una delle emergenze più acute dei nostri tempi, quella della lotta all’inquinamento dell’aria, in particolare proprio nelle aree urbane. Ma anche una legge – ahimè - dimenticata, visto che nessuno, o quasi, l’ha rispettata. Colpa della crisi. Certo la ristrettezza di risorse si è fatta sentire e gli alberi, a quanto
Le regole della savana
anche Sardegna, Corsica, Sicilia ed Isole della Danimarca), a partire dal ventesimo secolo, gli individui in generale abbiano goduto troppo, a causa di quell’inutile, anzi dannoso diaframma chiamato welfare state che allontanava da loro ogni difficoltà e preoccupazione. E così i governi che si succedono elaborano decaloghi e protocolli sempre più stringenti per i medici di famiglia, finalizzati a ridurre le cure pubbliche (anche dietro pagamento di ticket) per i cittadini e i loro familiari, sostituendosi impropriamente e arbitrariamente alla competenza specifica e al dovere/diritto degli operatori sanitari di individuare le migliori scelte preventive e terapeutiche per i propri pazienti; la giustificazione è che ci sono e ci sono stati abusi, così i governanti si autoassolvono anche dalla capacità di prevenirli e reprimerli . Succede inoltre che invece non ci sia nessun decalogo stringente, per esempio, per chi, come il più grosso gestore della telefonia nazionale che utilizza la rete strutturale italiana pagata con soldi pubblici, decide di delocalizzare il proprio call center in Romania per risparmiare sui salari dei lavoratori dipendenti, in media già non superiori ai 400€ mensili; altrimenti questi
ex dipendenti già sottopagati non potrebbero sperimentare a pieno il contatto con la durezza della vita . Così, per discutere di un guasto telefonico a Sesto Fiorentino, a Cascina o a San Donà del Piave, si parla direttamente con Bucarest (naturalmente mai con un responsabile, ma solo con qualche altro lavoratore peggio pagato di quello italiano precedente) , per rendere più snello e favorevole il rapporto con i clienti, naturalmente paganti. E nello stesso modo, mentre si costringono le famiglie a pagare a caro prezzo chili e chili di libri di testo che i ragazzi devono trascinarsi ogni giorno faticosamente a scuola, rovinandosi la schiena, senza fornire i tablet che sarebbero previsti per legge, anche qui forse per far sperimentare prima possibile la durezza della vita alle giovani generazioni, si finanziano le scuole dell’infanzia private, anche di bassa qualità, quasi mai controllate dagli organi competenti, in ogni caso e senza alcun criterio, anche quando ci sono posti più che sufficienti nelle scuole pubbliche statali . Allora, per favore, non chiamatele più «riforme», parlate di un ritorno progressivo al capitalismo precedente al ventesimo secolo dove uomini, donne e bambini lavoravano in media dodici ore al giorno per salari da fame , senza nessuna tutela della salute e senza istruzione; parlate di regole della savana , perché ,insomma , non è possibile che tutte queste gazzelle e zebre pretendano di vivere a lungo e in pace con i propri piccoli, senza sperimentare a pieno la durezza della vita.
pare, non sono una priorità. Costa piantarli e costa mantenerli. Meglio allora farne a meno. Il verde nelle aree urbane è un lusso che non ci possiamo permettere. E così in Italia perdiamo suolo verde alla velocità di 8 metri quadrati al secondo (dati Ispra). Un ritmo che negli ultimi 5 anni ha superato abbondantemente il trend registrato nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Eppure gli alberi possono salvare le nostre città dall’inquinamento, renderle più vivibili e più a misura d’uomo. Gli alberi sono preziosi, fanno bene alla nostra salute. Le persone che vivono in aree alberate stanno meglio e si mantengono 7 anni più giovani rispetto agli altri. Tanti i benefici che producono: ogni singolo albero può fornire ossigeno per 10 persone, riducono la temperatura dell’aria tra 2 e 8 gradi (a seconda delle dimensioni), ci fanno risparmiare fino al 30% dei consumi di aria condizionata e tra il 20 e il 50% dell’energia necessaria per il riscaldamento; ogni albero assorbe fino a 150 kg di CO2 all’anno e sequestra il carbonio
dall’atmosfera, contribuendo così a contrastare inquinamento dell’aria e i cambiamenti climatici; gli alberi filtrano l’inquinamento urbano e le polveri sottili, riducono l’inquinamento acustico e incrementano il valore degli immobili. Insomma gli alberi sono una risorsa, ma noi facciamo finta di nulla e quando lo smog supera i limiti si preferisce ricorrere agli inutili blocchi del traffico. C’è, a tutti i livelli, una scarsa considerazione verso la loro utilità. Del resto la stessa legge (approvata dal Parlamento) non fissa scadenze, né indica responsabilità, né stabilisce sanzioni, poteri sostitutivi e soprattutto non prevede alcun finanziamento. Sembra essere fatta apposta per non essere applicata. E così una scelta lungimirante e in linea con gli impegni internazionali per contrastare i cambiamenti climatici e i suoi effetti sulle persone e l’ambiente (protocollo di Kyoto sottoscritto anche dal nostro Paese) di fatto è fallita. Nel disinteresse generalizzato. E poi ci si stupisce se crolla la fiducia verso le istituzioni.
11 1 APRILE 2017
Bizzarria degli
oggetti
Dalla collezione di Rossano
di Cristina Pucci Questo più che bizzarro è un oggetto splendido, ammaccato, forse, un pò, ma pieno di anni e gloria. Ferro da stiro «a bateau», risalente alla fine del XVI secolo. Di ferro, ovvio, dall’aspetto pesante e «grossier» anche se ingentilito dall’ampia apertura tutto intorno e dalle colonnine che la punteggiano sorreggendo la parte superiore che si apre per permettere di inserirvi la brace, il semplice manico, di legno, sicuramente molto più recente, impediva alla stiratrice di bruciarsi quando il ferro accumulava calore. Il gancio che ferma il coperchio sembra piuttosto rudimentale, ma è perfettamente sicuro e funzionale alla bisogna. L’apertura laterale serviva sia per aereare che per attizzare la brace, sventolandola, con qualche apposito ventaglino, per farla restare ardente il più possibile. Pare che le pieghe degli abiti dei Faraoni venissero ottenute immergendo la stoffa in una soluzione un pò gommosa e passando loro sopra degli oggetti appiattiti e pesanti, non si sa se di ferro, pietra o altro, che rendevano più efficcace l’opera plissettante delle mani. Si direbbe siano questi i primi ferri da stiro...però è un cinese, guarda un po’, il primo ad avere scoperto che, se si passava sulle stoffe con uno strumento caldo, si ottenevano risultati migliori, pare abbia usato un contenitore, fino ad allora destinato a bruciare profumi, riempiendolo di brace bollente per i tessuti più ruvidi e pesanti e di fine sabbia, scaldata in forno, per spianare le lievi e delicate sete della loro tradizione, queste, talvolta, venivano «ripassate» mentre dei servitori ad hoc le tenevano sospese per impedirne ogni ammaccatura o piega morta inopportuna. Il primo reperto del genere ritrovato è un recipiente in bronzo risalente alla Dinastia Han, (200 A.C-200 D.C) ed ha un lunghissimo manico in legno. I manici di tutti i ferri, di tutti i tempi, erano tanto biù belli quanto più ricca la famiglia che ne disponeva. Mi ha sorpreso scoprire che in Italia non esiste un Museo del ferro da stiro, qualche vecchio ferro è esposto che so nel Museo del Gas, in quello del ferro, esistono
12 1 APRILE 2017
Contro le pieghe del Rinascimento
però molti grandi collezionisti privati che ne posseggono di bellissimi e che a volte li espongono in qualche Mostra. Vi racconto ora di due particolari collezionisti. Il pittore Jean Louis Henri Le Secq Des Tournelles, uno dei primi fotografi della storia, fu incaricato di immortalare Monumenti, Ville e Chiese della Francia e si rese conto, in que-
sto percorso, di quanti lavori in ferro contribuissero alla loro bellezza. Si appassionò a questo materiale ed iniziò a raccogliere manufatti ferrosi di tutti i tipi. Suo figlio, Henri e basta, proseguì questa sua passione e mise insieme qualcosa come 15.000 oggetti, di altissima qualità, che vanno dal IV al XX secolo, li donò alla citta di Rouen, esposti all’interno della Chiesa di Saint Laurent, costituiscono il «Musée de la Ferronnerie», unico del suo genere. In esso, fatte salve le armi, sono rappresentate tutte le categorie di oggetti in cui si sia espresso estro e genio di talentuosi fabbri: chiavi, lucchetti, serrature, insegne, grate,strumenti chirurgici e pure ferri da stiro, questi ultimi occupano un’unica vetrina, ma sono tutti eccezionalmente belli e rari. Cito, fra tutti, quello che Enrico Ferrario, autore di una esauriente e documentatissima pubblicazione, avente per titolo «Dieci secoli di stiratura» ,definì «l’esemplare più bello che io conosca, una piccola opera d’arte.» È un ferro a carbone con coperchio iscritto e scene di caccia incise a bulino sulle pareti ed ha il manico in avorio intarsiato. Come dargli torto?
di Gianni Biagi Un passaporto per le opere d’arte che consenta di semplificare le complesse procedure che oggi «ostacolano» la libera circolazione delle opere. È in sintesi questa la richiesta che è emersa da parte di Fabrizio Moretti presidente della Biennale dell’Antiquariato e moderatore del Simposio Internazionale sulla circolazione delle opere d’arte che si è tenuto nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio il 29 marzo, nell’ambito delle iniziative propedeutiche al G7 della Cultura. Un simposio che ha messo in evidenza da un lato la complessità del sistema italiano ma anche le garanzie che questo sistema offre all’immenso patrimonio storico artistico del nostro paese. Un simposio che ha anche messo in luce le diverse modalità che caratterizzano i paesi presenti al Simposio rappresentati da Taco Dibbits (Rijksmusem di Amsterdam), Gabriele Finaldi (National Gallery di Londra), Carl Brandon Strehlke (Philadelphia Museum of Art), anche in considerazione che essi (Stati Uniti, Regno Unito e Olanda) si caratterizzano come paesi «importatori di opere d’arte» mentre l’Italia (rappresentata da Eike Schimdt della galleria degli Uffizi) si caratterizza come paese «esportatore di opere d’arte». È stato Tomaso Montanari, storico dell’arte e docente della Federico II di Napoli, a evidenziare come nonostante la complessità (sulla quale sicuramente occorre intervenire anche per rendere omogenee le valutazioni dei diversi uffici territoriali preposti alla verifica di esportabilità) il nostro sistema garantisca una valutazione caso per caso, e non automatica, delle condizioni che rendono possibile la esportabilità del bene. E questa verifica caso per caso è l’unica che consente di apprezzare realmente il valore e le condizioni di frui-
Opere d’arte con il passaporto bilità dell’opera, sia in relazione al contesto sia in relazione al tempo.Il passaporto può andare bene ma deve essere con scadenza, come quello delle persone, poichè le condizioni di lettura e di conoscenza di un’opera d’arte variano nel tempo in funzione dello sviluppo degli studi e delle conoscenze.Tutti concordi i presenti, compreso il Sindaco e Assessore alla Cultura di Firenze Dario Nardella (che oltre a fare gli onori di casa ha partecipato al Simposio) sulla opportunità che i musei pubblici acquisiscano sul mercato opere d’arte. Il direttore degli Uffizi ha confermato come nella sua gestione il museo abbia acquisito opere d’arte dal mercato utilizzando i proventi degli incassi ( dei
quali il 20% viene incassato dal Ministero, il 20% dal Comune di Firenze e il restante 60% dal museo). Lo stesso hanno detto gli altri direttori e il direttore del Philadelphia Museum of Art ha informato che i musei americani stanno acquisendo opere di artisti italiani viventi per implementare le loro collezioni. Infine dal Simposio è venuto un appello perchè lo stato acquisisca il museo della Ginori a Sesto, pur facendo notare, come ha fatto Montanari, che il privato (tanto invocato durante il Simposio come partner naturale e obbligato del pubblico in questo settore) non abbia certamente, in questo caso, brillato per iniziativa e capacità imprenditoriale.
SCavez zacollo
disegno di Massimo Cavezzali
13 1 APRILE 2017
di Elisa Zuri Perché facciamo così fatica a commuoverci? Al Teatro Cantiere Florida di Firenze è andato in scena l’ultimo lavoro di Lucia Calamaro, «La vita ferma». Uno spettacolo sulla morte, che il pensiero non sa e non vuole gestire. L’oggetto del dramma non è la morte in sé, ma la difficoltà dei vivi di accogliere il dolore e di consentirne una trasformazione. Quando qualcuno muore, cerchiamo di dimenticare, di anestetizzarci, oppure finiamo per idealizzare. In entrambi i casi, il tentativo è quello di ricucire lo strappo che la morte apre sulla complessità delle relazioni, che restano aperte, senza risposta. I personaggi della pièce sono padre, madre e figlia, portati in scena dai bravissimi Riccardo Goretti, Alice Redini e Simona Senzacqua, di cui colpisce la verità, restituita in 3 atti non brevi con grande bravura e naturalezza. A portarci dentro la storia è una straordinaria ironia, che ci permette di seguire con leggerezza un tema terribile. Un uomo sta traslocando dopo la morte della moglie e con lei, presente in scena, discute quali libri tenere e quali buttare. Lei è una ballerina di danza contemporanea, che incanta come una coloratissima farfalla, ma ha un bisogno costante della luce del sole, dei riflettori, per non soffrire l’impatto con la realtà di essere anche moglie e madre, che la «disattiva». Vive in un’assenza di confine tra interiore ed esteriore, tra sogno e realtà, vuole essere un’opera d’arte che lascia il segno, come il coc-
14 1 APRILE 2017
La vita ferma
codrillo di Mimmo Palladino che tiene sul terrazzo. Lui è uno storico razionalista, che contrappone ai voli di lei continue citazioni. Come l’angelo di Benjamin ha lo sguardo sempre rivolto al passato, è aggrappato al pensiero, razionalizza tutto e non è mai pronto, rimanda senza fermarsi mai. Quando non ce la fa più, va sul terrazzo a fumare e, disorientato, si chiede perché gli uomini si sporgono dalle ringhiere, se per ricordarsi che possono cadere, o perché sperano di poter volare. Entrambi non riescono a vivere il presente
e si incontrano, come spesso accade, con un gioco, che diventa il loro rituale. Lei gli chiede: «dai, facciamo una presa, vediamo quanto riesci a tenermi in aria». La malattia li svela nei loro bisogni. Rannicchiati su una poltrona a vedere la televisione, lei cerca il sentimento, la commozione condivisa nel guardare una storia triste – «restarne distaccati è immorale!», lui cerca di fuggire le sensazioni, di dimenticare il dolore, di preservare la stabilità, vuole disperatamente una soluzione. Nessuno trova le parole per parlare della malattia alla figlia undicenne, che per paura riempie i quaderni con disegni di mostri. La bambina non viene neanche portata al funerale, per non essere impressionata. Così lei della madre non ha elementi, non riesce a ricordarla e se ne fabbrica una «statale», come le fa piacere che sia. Si tiene quell’immagine, da lontano, finché non resta incinta e non le basta più, ha bisogno di cercarla. È sulla tomba che padre e figlia si rincontrano dopo molti anni. Anche lui, che pur è andato al cimitero ogni giorno, ha dimenticato. «Io ero a malapena qualcosa, sono dovuto diventare tutto». E non ce l’ha fatta. Ha dovuto scordare, abituarsi al brutto, come ad una tovaglia di plastica a quadri che si mette sul tavolo ogni giorno. Non siamo in grado di reggere l’ambivalenza della verità, che è vita e dolore insieme . E alla morte, che ci conduce esattamente in quel punto, non riusciamo a pensare, se non per pochi istanti. Più facile bloccare tutto, dolore e vita. « O ci pensi e ti sfaceli, o non ci pensi più».
di Danilo Cecchi Sulla vita e sull’opera di Atget - Jean Eugéne Auguste Atget (1857-1927) - non ci sarebbe bisogno di scrivere niente. La sua figura sta alla storia della fotografia come quella di Garibaldi sta alla storia dell’unità d’Italia, e perfino gli storici americani, da sempre inclini ad esaltare la figura dei fotografi americani (o americanizzati) nei confronti dei fotografi europei, lo inseriscono nel ristretto elenco dei «Maestri della Fotografia». Forse perché attribuiscono la «scoperta» di questo autore a due americani, rispettivamente Man Ray e Berenice Abbott, ambedue presenti a Parigi negli ultimi due anni della vita di Atget, fra il 1925 ed il 1927, cercando così in qualche modo di appropriarsene. Descritto, a torto, come un «fotografo-clochard», data la sua abitudine di trascinarsi nelle strade, nelle piazze, nei vicoli e nei cortili di Parigi con la sua pesante ed ingombrante attrezzatura fotografica, e data la sua proverbiale modestia nell’offrire le sue stampe ed i suoi album ad un pubblico variegato, fatto di artisti e collezionisti, ma anche di istituzioni, biblioteche e musei, Atget è piuttosto un intellettuale borghese, un raffinato conoscitore della sua città, dei suoi monumenti minori, degli angoli più caratteristici, degli edifici più pittoreschi, dei locali più insoliti, degli isolati destinati alla demolizione, ma anche delle vetrine, degli interni, delle corti, dei giardini, dei parchi, dei mercati e della vita di strada. Soprattutto è innamorato della sua città, che vede trasformarsi sotto i propri occhi, e di cui vuole conservare a tutti i costi il ricordo e l’immagine. Dopo avere tentato la carriera teatrale e la pittura, si converte alla fotografia nel 1890, ma la sua attività sistematica di documentazione inizia a quarant’anni, nel 1897, e prosegue fino al 1926, anno in cui muore la sua donna, l’attrice Valentine Compagnon. Nell’arco di ventotto anni realizza un corpus di circa diecimila lastre, attualmente suddivise fra diverse collezioni, presenti in parte in Francia ed in parte negli USA. L’opera di Atget viene fatta conoscere attraverso numerose pubblicazioni, a partire dalle prime quattro immagini pubblicate nel 1926 da Man Ray in «La Révolution Surréaliste», che arruola il fotografo, suo malgrado (ed anche un poco a sua insaputa) nelle file dei surrealisti, lui, così aderente alla poetica realista e così innamorato della realtà tangibile della sua città. Le sue immagini vengono diffuse e pubblicate soprattutto a partire dagli anni Sessanta e Settanta, ma si tratta sempre di selezioni molto parziali, che raggruppano poche decine di immagini, quasi sempre le stesse, superando raramente il centinaio. Oggi, a cento e sessanta anni dalla sua
Atget, il grande ritorno
nascita, la casa editrice Taschen (alla quale la cultura fotografica deve molto) manda in libreria un pregevole volume in cui sono raccolte quasi seicento delle sue fotografie, raggruppate non per singoli temi, come in altre pubblicazioni meno esaustive della stessa casa editrice, ma organizzate in base agli «arrondissements» in cui sono state scattate, da quelli più centrali, più ricchi di storia e di popolazione, e meglio rappresentati, soprattutto il Quinto, fino a
quelli più periferici, all’epoca delle zone semi urbanizzate e meno densamente abitate, regno di zingari e di straccivendoli. Ancora lontano dall’impresa impossibile di presentare la totalità della produzione di Atget, il nuovo volume della Taschen permette di estendere notevolmente la conoscenza dell’opera di questo «grande» e di rilevare quanto il suo lavoro abbia aperto la strada ai fotografi «parigini» delle generazioni successive, nessuno escluso.
15 1 APRILE 2017
di Gianni Biagi Ahi ahi questi giudici che applicano le leggi e sconfessano la politica cittadina. Ma come si permettono... Applicare le leggi va bene ma solo se non si ostacolano le idee al potere. Le vicende che vedono contrapposti il Tar della Toscana e il governo di Firenze stanno assumendo i toni di una «querelle» di altri tempi. Era dalla prima repubblica che non si sentivano parole come quelle pronunciate dal sindaco di Firenze Nardella contro i giudici del Tar che avevano testè annullato un’ordinanza, a dire il vero alquanto singolare, sugli orari dei tabaccai e degli altri esercenti che hanno all’interno dei locali delle slot machine. L’intento del Sindaco (limitare al massimo l’uso delle slot machine) è certamente condivisibile ma, come spesso accade in questi ultimi tempi e non solo a Firenze, per raggiungere l’obbiettivo non si sceglie la strada maestra di intervenire sulle norme; si sceglie la strada più appagante di scriverle direttamente le leggi, anche se non se ne ha il potere. Con la conseguenza poi che chi la legge la deve applicare non può fare altro che annullare... Lo stesso dicasi riguardo alla vicenda dell’aeroporto fiorentino dove il Tar (fra le altre cose) ha fatto semplicemente notare come non sia corretto inserire fra gli interventi di mitigazione ambientale dell’inquinamento prodotto dall’ampliamento del sistema aereoportuale la realizzazione delle linee tranviarie fiorentine non ancora progettate esecutivamente e finanziate, in quanto non è certa la loro entrata in esercizio in coerendi Francesco Cusa Mi è piaciuto molto «La Cura del Benessere» di Gore Verbinski; a dispetto delle tiepide recensioni che lo hanno accolto, l’ho trovato un film affascinante e al contempo strano. Purtroppo siamo sempre alle solite; i »tools» di chi recensisce sono troppo spesso confinati alla storia del cinema e pochi riescono a cogliere i riferimenti ad altri microcosmi estetici paralleli. A me le ambientazioni del film hanno ricordato, ad es., quelle di «Bioshock», un inquietante videogame uscito qualche anno fa in più episodi. È un viaggio indistinto nei generi, un film che rimanda al Mann delle letture di uno dei personaggi, ma anche all’iniziazione solitaria verso l’incubo di «Shutter Island», un intreccio tra il thriller psicologico, l’horror e il racconto gotico, con lo spettro della follia nazista e del fantasma della creatura ultraumana a far da sfondo. Verbinski trova intelligentemente il contesto giusto ove collocare le vicende dell’indomabile rampante
16 1 APRILE 2017
I giudici e la politica
za con i tempi di entrata in esercizio dell’aeroporto ampliato. Sembrano ragionamenti semplici da capire ma anche in questo caso la politica ha gridato contro i giudici che bloccano le idee di sviluppo. Purtroppo questo atteggiamento della politica fa il pari con un atteggiamento sempre più frequente della magistratura inquirente che laddove non sussistono i reati si trovano le strade per innovare il codice penale con improbabili capi di imputazione. La cronaca giudiziaria di questi ultimi anni ne è piena. Un caso emblematico fu l’accusa rivolta a tutti i sindaci dell’area fiorentina , e al presidente della regione, di non aver adempiuto all’obbligo di «ulteriori azioni» (oltre a quelle già attuate) atte ad impedire la circolazione dei veicoli durante i periodi di sforamento del pm10. Tale ipotesi di reato si è basata in gran parte sul reato di
cui all’art.674 del cp cioè di non aver impedito il «getto di cose o emissioni di gas, vapori e fumi atti ad offendere, imbrattare o molestare le persone». Ora il giudice ha, anche con una certa ironia, fatto constatare che «la condotta (di cui al reato previsto dall’art 674 del cp) è punità solo se l’emissione medesima avviene in casi non consentiti dalla legge»..... «E siccome nel caso in esame le emissioni di fumo dallo scappamento dei veicoli a motore ( che avrebbe provocato l’eccessiva, secondo l’accusa, concentrazione di inquinanti in atmosfera) non sono in nessun modo vietate dalla legge, la configurabiltà dell’art.674 in esame ai fatti contestati sembra doversi escludere in via di principio». Che dire? Forse serve più umiltà e lavoro duro per cercare le strade che portano ad una migliore vivibilità della città.
La cura del benessere
del vivere, ove possente si fa la surreale dimensione favolistica di Verbinski al confronto con l’affettata dialettica «giovinezza/vecchiaia» affrontata dal regista partenopeo. La dimensione che governa «La Cura del Benessere» è quella d’una Mary Shelley in moncherini intenta a scrivere col proprio stesso sangue, così come tutto il maniacale campionario di fiale e boccette pare rimandare ad ossessioni che non trovano soluzione che nella ripetuta focalizzazione degli obiettivi, in una sorta di perenne riadattamento alchemico della trama. Tutto, dalle suppellettili, ai macchinari, alle attrezzature mediche, sembra essere congelato in un tempo prebellico, e le melodia infinita a far da carnascialesco carillon, fornisce il perfetto suggello all’eccellente sapienza registica di Verbinski. Le citazioni si sprecano, come numerose sono le falle nella trama, a dispetto delle quasi tre ore di lunghezza del film. Ma è un prodotto coraggioso e visionario che merita più d’una visione.
Lockhart: quello di una clinica maestosa situata nel bel mezzo delle Alpi svizzere. E qui scatta impietoso il confronto con «Youth», il poco riuscito film di Sorrentino; non ci si faccia ingannare dalla apparente distanza dei generi: qui siamo di fronte ad una grandissima metafora, classica oserei dire, del rapporto con la caducità
di Claudio Cosma Questa opera consiste in tre cassoni costruiti con assi di legno da cantiere edile, divise a metà per la loro lunghezza per ridurne il peso. I cassoni, il cui fondo a doghe è reso areato con un pezzo di tessuto non tessuto ha, inoltre, la funzione di trattenere il terriccio, ma lasciare defluire l’acqua in eccesso. Ogni vasca è di 2 mt per 1 per 30 cm e contiene 400 chili di terra da giardino, così, insieme hanno una superficie di 6 metri quadrati, rappresentando un giardino in miniatura, molto comodo da curare essendo i contenitori posti su dei cavalletti che li sollevano da terra ad un altezza di un metro. Naturalmente tutto questo è molto di più della descrizione che ne ho fatto, possiede un anima vivente e allo stesso tempo è una metafora degli aspetti positivi dell’attività umana, raccogliendo tre tipologie essenziali, quella della cura del corpo, della conservazione dei cibi e della mitologia collegata alle spezie e alle piante aromatiche. L’agricoltura e il sostentamento con gli orti stagionali e per ultimo nello spazio lasciato libero da ogni intervento, la natura che prende il sopravvento sull’antropizzazione recuperando se stessa e attirando, per ora, una coppia di merli stanziali, una coppia di colombacci, farfalle, bombi, api e insettini d’ogni tipo. L’artista ha pensato e realizzato questa opera ambientale per l’esterno della Fondazione Sensus ed è quindi una grande scultura permanente. La permanenza è comunque sottoposta, per volere esplicito e contrattuale alla base dell’acquisizione, alla sua stessa manutenzione. Per il Pettini è un termometro del buon andamento della Fondazione stessa ed è posizionata dove si può vedere attualmente dal giorno della inaugurazione dello spazio espositivo. Potrebbe succedere infatti che se i giardini avvizzissero o deperissero, l’opera da essi rappresentata tornerebbe nelle sue mani, con mio grande dispiacere. Gode attualmente di ottima e rigogliosa salute e secondo quanto stabilito dalla profezia dell’artista, insieme alla sua fortuna si unisce quella della Fondazione Sensus che seguendo lo sviluppo delle radici e la ramificazione delle piante, sta consolidando la sua fama e si va affermando con la sua attività di collezione privata aperta al pubblico e quella di promozione degli artisti creando eventi espositivi, come occasioni di apertura alla città. Il secondo titolo di questa particolare scultura vivente è «La cura», intendendo che il rigoglio e la salute dei giardini fa parte del lavoro stesso. Spesso nei luoghi pubblici, nei condomini,
I giardini di Adone negli uffici, nelle case, sui balconi e terrazzi e anche nei giardini si vedono piante malandate, infestate di parassiti, polverose, abbandonate, neglette e agonizzanti, ecco questo non deve succedere ai Giardini di Adone, come riscatto e silente polemica contro l’incuria umana nei confronti delle piante. Come si possa vivere con le piante mal tenute è per me un mistero, se entro in un negozio e vedo una povera Kentia non innaffiata e con una cicca di sigaretta nella terra del vaso me la do a gambe immediatamente e rivedo i parametri di amicizia con chi maltratta le piante. Esiste anche un’altra motivazione di tipo filologico in relazione alla posizione della fondazione, questa si trova a ridosso dei viali di circolazione, nati nell’ottocento dall’abbattimento delle mura cittadine. Storicamente le mura difensive avevano una zona di comporto libera da costruzioni, all’interno e all’esterno e destinate ad orti, è quindi assai probabile che nel preciso punto dove sono stati posizionati i giardini, un tempo esistessero dei campi coltivati di proprietà quasi sempre pubblica o di conventi e monasteri. Io come un alacre monacello mi occupo del
benessere di questi orti, precettato dall’artista e dal piacere che provo nel dedicarmi alle piante. I tre giardini sono destinati a contenere, il primo delle piante aromatiche, il secondo, tenuto ad orto, con varietà di ortaggi che seguono le stagioni e il terzo che rappresenta il caos, un piccolo spazio incolto lasciato alla casualità della natura, ai semi portati dal vento, alle cacche degli uccellini, alla volontà delle piante di sfuggire al sempre più determinato assalto dell’uomo che in città mira all’inorganico, all’asfalto, alle piastrelle fino alle sottili siepi di edera di plastica in voga oggidì. Questo ultimo giardino è il più interessante, chi conosce il paesaggista francese Gilles Clément e il suo libro «Manifesto del terzo paesaggio» potrebbe trovare dei punti in comune fra gli spazi abbandonati, oggetto delle sue ricerche e questo mio piccolo spazio che insieme agli altri due sta ricostruendo un ecosistema di piante e di animali nel resede di Sensus, costruito, insieme al palazzo che lo ospita, nella fine degli anni ‘60 al posto di una di quelle ville con giardino che succedettero all’intervento dell’architetto Giuseppe Poggi, collegando i giardini interni esistenti.
17 1 APRILE 2017
La pastiera di Pasqua di Michele Rescio La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o che avete superato una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria». Pellegrino Artusi Preparazione: Prima di tutto procuratevi del grano a chicchi, preferibilmente tenero, va bene anche quello duro. Lasciatelo in una terrina per 3 giorni e ricordatevi di cambiare l’acqua al mattino e alla sera. Poi scolatelo e sciacquatelo con acqua corrente e, quando è ben pulito, mettetelo a cuocere. Per 500 g di grano è sufficiente una pentola con 5 litri d’acqua, a fiamma alta fino alla bollitura. Abbassate quindi la fiamma e continuate la cottura per circa un’ora e mezza senza mai girarlo. A cottura ultimata salarlo a piacere e scolarlo. Per preparare i dolci di grano, ovviamente, il sale non va aggiunto. Questa cottura è valida per la preparazione di tutte le ricette a base di grano. Il grano cotto può essere conservato in frigorifero per una settimana circa. Al momento di utilizzarlo, per preparare la ricetta desiderata, portate l’acqua in ebollizione, immergetevi il grano e fatelo bollire per circa 5 minuti. Preparate la pasta frolla mescolando tutti gli ingredienti , formate una palletta e lasciatela riposare. Versate in una casseruola il grano cotto, il latte, il burro e la scorza grattugiata di 1 limone; lasciate cuocere per 10 minuti mescolando spesso finché diventi crema. Frullate a parte la ricotta, lo zucchero, 5 uova intere più 2 tuorli, una bustina di vaniglia, un cucchiaio di
acqua di fiori d’arancio e un pizzico di cannella. Lavorate il tutto fino a rendere l’impasto molto sottile. Aggiungete una grattata di buccia di un limone e i canditi tagliati a dadi. Amalgamate il tutto con il grano. Prendete la pasta frolla e distendete l’impasto allo spessore di circa 1/2 cm con il mattarello e rivestite la teglia (c.a. 30 cm. di diametro) precedentemente imburrata, ritagliate la parte eccedente, ristendetela e ricavatene delle strisce. Versate il composto di ricotta nella teglia, Ingredienti: Per la pasta frolla: 3 uova intere 500 g di farina 200 g di zucchero 200 g di strutto Per il ripieno: 700 g di ricotta di capra- g 600 di zucchero 400 g di grano cotto 80 g di cedro candito - g 80 di arancia candita 50 g di zucca candita, oppure altri canditi misti Un pizzico di cannella 100 g di latte 30 g di burro o strutto 7 uova intere 1 bustina di vaniglia 1 cucchiaio d’acqua di mille fiori 1 limone Livellatelo, e decorate con strisce formando una grata che pennellerete con un tuorlo sbattuto. Infornate a 180 gradi per un’ora e mezzo finché la pastiera non avrà preso un colore ambrato.
Spiriti di
materia
di Abner Rossi
Abner Rossi nasce a Firenze il 24 novembre del 1946. Autore e regista teatrale da circa quarant’anni ha al suo attivo diverse sceneggiature cinematografiche, opere teatrali e monologhi adottati da molte scuole di teatro come testi di studio e di esame nonché per le audizioni. Ha pubblicato tre libri di poesie e non ha mai partecipato, per scelta, a concorsi poetici. Ha scritto, collaborato e poi diretto G. Albertazzi, Omero Antonutti. Come dirigente dell’Arci di Firenze ha partecipato alla grande stagione della nascita della comicità toscana. Recentemente alcune sue poesie sono state pubblicate sulla Enciclopedia della Fondazione Mario Luzi,
Dovrebbe l’amore Nel dondolare incerto di un vino notturno, al vento di ciò che dovrebbe, che ostinazione vorrebbe e non è. Su un angolo di variabili probabilmente confuse, intimo alla casualità, stanco di ogni affermazione e perciò gridando i miei ultimi no senza indirizzo. Osservando le scomparse, le apparenze fasulle, le virgole di un discorso dal grido giovane all’anziano sussurro, per scriverlo domani al fuoco di un giorno nuovo già visto e trascorso. Dovrebbe l’amore, mi dico! Ma anche questo è già stato.
18 1 APRILE 2017
di Ruggero Stanga Come si fa a vedere un buco nero? E, soprattutto, perché investire tempo e fatica per vederlo? Un buco nero è una regione dello spazio che racchiude in un volume relativamente piccolo una massa così grande, che la velocità che deve avere un corpo per sfuggire è maggiore della velocità della luce. Poiché, come è noto, la velocità della luce è un limite, e non è possibile andare più veloci, nulla può uscire da un buco nero. Nemmeno la luce: per questo si chiama nero. Per fare un esempio, il Sole sarebbe un buco nero se avesse un raggio di 3 km; in realtà ha un diametro di circa 1.400.000 km. E allora, se il buco nero nulla emette, come si fa vedere? C’è un intermediario, un messaggero, quello che si chiama disco di accrescimento. Molte strutture compatte nell’Universo sono circondate da dischi di materiale: stelle in formazione, o stelle giovani sulle quali cade il gas della nube da cui si stanno formando o si sono formate; stelle binarie, in cui una stella cede parte del gas della sua atmosfera all’altra. In tutti questi casi, il gas prima di arrivare alla destinazione finale si organizza in un disco sul piano equatoriale, e cade verso la meta seguendo un percorso a spirale. In questo viaggio, gli urti fra le particelle che accelerano nella caduta scaldano il gas, che comincia a emettere luce. La temperatura del disco è tanto maggiore quanto più grande è la accelerazione, che a sua volta cresce quanto più grande è la massa e quanto più piccolo è il raggio dell’oggetto su cui cade. Se questo oggetto è un buco nero, la temperatura del disco è particolarmente alta e, di conseguenza, anche la luminosità è molto alta. Quindi, vedere un buco nero vuole dire studiare il disco di accrescimento del materiale interstellare che gli cade addosso. Vuole dire avere indicazioni sui meccanismi di produzione dei getti di gas ad alta velocità che si manifestano in direzione perpendicolare al disco. E vuole dire andare a studiare la regione al limite del buco nero, che non abbiamo ancora visto: il cosiddetto orizzonte degli eventi, in cui potrebbero (condizionale d’obbligo!) emergere indizi sul raccordo fra meccanica quantistica e relatività generale, due teorie che hanno nei rispettivi ambiti di applicazione un grande successo, ma che non sono ancora arrivate a una sintesi, se mai ci arriveranno. Ma allora, dato che sappiamo che cosa cercare, e che vale la pena di farlo, dov’è il problema?
Ecco, il fatto è che l’orizzonte degli eventi di un buco nero è molto piccolo, e non ne abbiamo ancora visti (nel senso del disco di accrescimento) nessuno. Il buco nero al centro della Via Lattea, in corrispondenza della sorgente di emissione radio Sagittario A* (con una massa di circa 4 milioni di masse solari) e il buco nero di circa sei miliardi di masse solari al centro di una galassia che si chiama M87, lontana circa 55 milioni di anni luce, e quindi circa 20000 volte più lontano di Sagittario A*, sono i due buchi neri che pensiamo ci possano apparire più grandi: ci sembrerebbero grandi quanto un piattino di tazzina da caffè che sta alla distanza della Luna. Per confronto, un telescopio con il diametro di 2.5 metri riesce a
Orizzonte degli eventi
distinguere sulla Luna oggetti che sono più grandi di un campo di calcio. Per di più, i buchi neri al centro di galassie sono avvolti da una nebbia di gas e polvere, impenetrabile alla luce visibile. Senza speranza? No. Intanto la coltre di gas e polvere è trasparente alle onde radio. Basta osservare con un radio telescopio. La capacità di distinguere oggetti così minuti, come si è detto, quello che viene chiamato potere risolutivo, dipende sia dalla lunghezza d’onda della radiazione che si osserva, sia dal diametro del telescopio, ed è migliore se la radiazione ha una piccola lunghezza d’onda e il radiotelescopio è molto grande. La combinazione migliore di trasparenza del mezzo interstellare e di dimensioni del radiotelescopio, e sufficiente allo scopo, la troviamo per una lunghezza d’onda di circa un millimetro e per un diametro del radiotelescopio pari al diametro della Terra. Ridicolo! No. Se riusciamo a correlare i segnali che arrivano a due radiotelescopi separati, possiamo ottenere un potere risolutivo pari a quello che avrebbe un radiotelescopio con il diametro pari alla distanza fra quelli separati. E questo grazie al fatto che la radiazione radio è un’onda e le si possono applicare tutte le considerazioni che riguardano il fenomeno della interferenza fra le onde. Basta dunque avere a disposizione (almeno) due radiotelescopi alla distanza pari a un diametro terrestre. Questo è appunto il progetto dell’Event Horizon Telescope, EHT. In sostanza, fare l’immagine alla lunghezza d’onda di 1.3 mm dell’orizzonte degli eventi del buco nero al centro della Via Lattea, e al centro di M87, usando radiotelescopi già esistenti, e normalmente utilizzati per altri progetti astronomici. C’è molta tecnologia dietro. Correlare i segnali vuole dire raccoglierli in ciascun punto di osservazione (saranno otto in tutto), con una temporizzazione precisa al decimo di miliardesimo di secondo, in modo da potere combinare segnali ricevuti nello stesso istante da tutti i radiotelescopi. I dati saranno raccolti per due notti in aprile per sorgente (sperando che il cielo sia sereno…) e saranno elaborati in un unico sito, ci vorranno mesi prima di avere il risultato: l’immagine di pochi pixel di un oggetto sostanzialmente semplice (i buchi neri sono caratterizzati solo da massa, rotazione e carica; non hanno una superficie variegata e mossa come la Terra o la Luna; non hanno una struttura interna come la Terra) ma ancora pieno di ignoto. Difficile sovrastimare l’emozione degli astronomi!
19 1 APRILE 2017
Le
di Simonetta Zanuccoli La visita ai bellissimi cimiteri parigini è d’obbligo per quei turisti che vogliono cogliere un aspetto particolare della città immergendosi nel silenzio dei viali alberati che ombreggiano le tombe dalla maestosità a volte inaspettata di personaggi illustri che lì hanno trovato rifugio per il loro riposo eterno. Se vi aggirate per quello di Montmatre, tra le tombe di Dumas, Stendhal, Dalida che su quella collina ha vissuto, non lontano da quella di Hector Berlioz vi è quella della famiglia Sanson. La particolarità di questa famiglia di origine normanna è che per sei generazioni il capofamiglia è stato il boia di Parigi. Questa «professione», della quale troviamo le prime tracce nella Francia mediovale, era tramandata da padre in figlio. Il boia e la sua famiglia erano messi al bando e emarginati dalla comunità dove operavano. La loro casa si trovava sempre fuori le mura della città ed era contraddistinta con la porta di colore rosso, lo stesso colore portato nelle vesti dal carnefice per ricordare il sangue che faceva scorrere. I loro figli non potevano frequentare le scuole e una volta diventati adulti erano costretti a sposarsi nel proprio ambiente e a ripetere la professione del padre creando così nelle varie città delle vere e proprie dinastie. A Parigi c’era quella dei Sanson. Tutto iniziò per caso. Charles Sanson, ufficiale normanno, si invaghì di una giovane donna, Margherita, e ne diventò l’amante senza sapere che era la figlia del boia di Ruen. Scoperto, per salvarsi la vita, fu costretto a sposare la ragazza e ad assumere il terrificante ruolo conferito agli uomini di famiglia, quello di boia. Charles comunque dimostrò serietà e talento e, una volta trasferito a Parigi nel 1687, ottenne così tanto successo da essere insignito del prestigioso titolo ereditario di Executeur des Hautes Oeuvres che lo faceva il boia ufficiale della città. Cominciò così una florida attività che da padre a figlio arrivò fino a Charles-Henri (17391806), che diventerà il più noto della famiglia Sanson anche perchè, con già trent’anni di onorata carriera, quando cominciò nella primavera del 1789 la necessità di esecuzioni seriali, la sua esperienza fu determinante per la creazione della ghigliottina. Fino ad allora la morte era inflitta dal boia con modalità diverse secondo la natura del crimine e lo status sociale del condannato. Solo i nobili avevano il privilegio di essere decapitati con l’ascia (l’operazione non sempre però riusciva al primo colpo). Per il popolo c’era la forca, per i nemici della chiesa il rogo e
20 1 APRILE 2017
Una dinastia di boia per i pochi che attentavano la vita del Re lo spettacolare squartamento con il condannato ridotto in brandelli. Quando l’Assemblea dei Rivoluzionari nel 1791, in pieno spirito democratico, decise che tutti i condannati a morte, senza distinzione di ceto, dovevano essere decapitati, Charles-Henri Sanson, interpellato come esperto, fece giustamente notare che tagliare tante teste come si prevedeva, se usata l’ascia, sarebbe stato un procedimento lento, dal successo non sempre assicurato e poi troppo faticoso per il boia. Sollecitato quindi dai Rivoluzionari, si mise subito all’opera per progettare insieme a Guillotin, medico e uomo politico, una macchina in grado di eseguire decapitazioni a catena senza sforzo. Era costituita da una struttura in legno e da una lama a mezzaluna che procurava una morte istantanea e indolore, un’impressione di freschezza al collo come disse Guillottin a Luigi XVI mostrandogli il progetto. Al Re piacque ma, appassionato di meccanica, sollevò qualche dubbio che la lama così concepita si prestasse a tutti i colli e dopo una breve riflessione corresse con un tratto di penna il disegno
sostituendo la forma a mezzaluna con una linea obliqua. Il progetto fu così realizzato e la lama funzionò benissimo sul suo collo neanche un anno dopo, alla presenza naturalmente del boia di Parigi. Data la fama ormai raggiunta, Charles-Henri si presentava sul patibolo elegantissimo, in parrucca incipriata, jabot di pizzo e redingote attillata. Noto per la sua umanità (portava conforto personalmente a ogni condannato a morte in galera), si era ormai ritagliato il ruolo di accompagnare i malcapitati al supplizio, affidando la mansione di manovrare la ghigliottina ai suoi assistenti mentre lui, in ginocchio, pregava. La rivoluzione, a volte con il ritmo di 13 teste mozzate in mezz’ora con quello che veniva anche chiamato le rasoir national, aveva permesso a Charles-Henri di accumulare un cospicuo patrimonio, e quindi dopo circa 2700 esecuzioni, stanco di una professione che, lui, di raffinata cultura e virtuoso del violino, in fondo non amava, decise di ritirarsi. Il figlio Henri-Clement sarà l’ultimo della generazione dei boia. Carico di debiti fu licenziato nel 1847 e il posto venne subito occupato dalla dinastia dei Heidenrech.
Ristorante caffetteria
La Loggia
Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy www.ristorantelaloggia.it reservation@ristorantelaloggia.it +39 055 2342832
Avete visto? Non era uno scherzo, la primavera è arrivata davvero. E con la bella stagione, oltre al sole, splendono anche i tanti momenti da vivere in compagnia nel terrazzo della Loggia. Quale modo migliore, per godersi i profumi della primavera, di un aperitivo: deliziosi finger food di stagione e il vostro cocktail preferito! Se ci aggiungete la cornice spettacolare la serata sarà perfetta! Anche i pranzi saranno all’altezza dei vostri sogni e delle vostre esigenze quotidiane. Se avete tempo e voglia di rilassarvi, potete accomodarvi nel nostro ristorante. Ma se avete appena il tempo di un panino... chi ha detto che i pranzi veloci devono per forza essere mediocri? Alla caffetteria della Loggia potrete sfruttare l’attimo con un pasto sfizioso e già pronto per voi, da gustare all’ombra del nostro storico loggiato. Ogni momento della giornata merita un trattamento speciale e noi ci impegniamo a fondo perché possiate averlo davvero. Che sia per lavoro o per svago, per un’intera serata o per qualche minuto appena, qui da noi non potrà mancarvi niente. Venite a vivere la magia del gusto!
Maschietto Editore
premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017 È bandita la prima edizione del concorso «Racconti Commestibili», la sfida letteraria lanciata da Cultura Commestibile e Maschietto Editore, in collaborazione con il Ristorante Caffetteria La Loggia. Il concorso è dedicato al tema del cibo, inteso in tutti i sensi letterali e figurati. Può partecipare chiunque, senza limiti di nazionalità e di età, inviando un solo racconto della lunghezza massima di 5000 battute entro il 15 aprile 2017 all’indirizzo email . La partecipazione è gratuita. La valutazione e selezione degli elaborati sarà affidata a due giurie: la prima, formata da redattori interni alla casa editrice e della rivista, individuerà la rosa dei 10 testi finalisti, La giuria tecnica, composta da Marco Vichi (scrittore), Francesco Mencacci (direttore della scuola Carver di scrittura creativa), Sandra Salvato (giornalista), selezionerà i tre racconti vincitori che saranno pubblicati sulle pagine di Cultura Commestibile. Al primo classificato sarà offerta una cena per due persone al Ristorante Caffetteria La Loggia. Il regolamento completo è scaricabile dal sito .
21 1 APRILE 2017
di Paolo Marini Il descrittivismo è insostenibile nella letteratura. Nel capitolo «Contro l’assoluto» (Nicola Gardini, «Lacuna») leggo, con riferimento a Henry James, che il metodo da lui usato nei romanzi, è «rappresentare il mondo non attraverso la totalità (che sarebbe irrappresentabile), ma attraverso la selezione di certi dati significativi». L’argomento è sconfinato. Però si può ipotizzare che le scelte fondamentali della scrittura creativa, dopo il ‘soggetto’, siano la misura e la qualità della descrizione: il quanto e il come, inestricabilmente. ‘Descrittivismo’, intanto, non è ‘descrizione’. Convengo con Paola Mastrocola («Questione di occhio», «Il Sole 24 Ore-Domenicale», 26 giugno 2016) che di descrizioni sia sempre più povero il mondo contemporaneo, imperando la condivisione di immagini, senza un filtro, una decantazione, un commento di chi le propone: «Penso a tutti gli scrittori del passato che hanno descritto luoghi senza averli mai visti... ieri era descrivere senza vedere. Oggi è vedere senza descrivere.» Sono così rimandato alle magistrali descrizioni de «I promessi sposi», composizioni assurte a paradigma di una letteratura lontana, non più congeniale. Eppure Manzoni è anche insospettabilmente moderno, come ha mostrato con il famoso espediente al capitolo X («La sventurata rispose.»), esempio dell’arte di tacere interrompendosi (aposiopesi). Brevità e lunghezza (di una descrizione) possono convivere in un testo, nessuna ha valore in sé, bisogna sempre frugare oltre le apparenze. Anzitutto, ricorda Gardini citando Seneca, ciò che conta è l’autenticità della scrittura, la sua coerenza con il temperamento di chi scrive; per me chiamasi ‘onestà’, ‘moralità’ dello scrivere e, più latamente, del vivere. che impongono la preliminare verifica che sussista effettivamente qualcosa da raccontare, perché il lettore si accorgerà, oltre che della inautenticità, della infondatezza di una narrazione. Ma una volta confermata la vena, scrittura è setaccio di ciò che sarà sulla pagina e di quanto verrà omesso o cancellato, un vaglio sapiente delle parole, che genera significati proprio grazie alle lacune, al suo limite. Ancora Seneca scriveva a tal Lucilio: «Il tuo linguaggio è conciso e appropriato; tu esprimi chiaramente il tuo pensiero e fai capire più di quanto le tue parole non dicano». L’idea narrativa va sviluppata con una ‘téchne’, la spontaneità è una virtù fasulla e la fluidità non nasce sotto il cavolo. Le decisioni sui pieni e sui vuoti faranno la diffe-
22 1 APRILE 2017
Descrittivismo
antitesi della buona letteratura
renza e possono richiedere un lungo travaglio. Se Sartre chiamava «silence» la produzione di senso, il pieno si ottiene dal vuoto, sottraendo materia, come lo scultore incide un blocco di marmo per conferire una forma all’idea. Allora descrittivismo è introdurre (o lasciare) qualcosa ch’è eccessivo, estraneo, disturbante, superfluo, dentro un tessuto narrativo che poi non ‘funziona’; per una sottrazione mal riuscita o neppure tentata, per una malintesa necessità di tradurre in parole tutto ciò che si immagina (debolezza diffusa) o anche per l’eccessiva confidenza dello scrittore nella propria (pur collaudata) téchne. Il testo si fa pieno di colesterolo verbale, di superfetazioni - siano pure virtuosismi: il lettore percepisce che la trama, l’idea non regge il peso dell’impalcatura, le pagine risultano artificiose, suscitano noia. La cattiva letteratura è quella di chi a suo modo si è perduto, ha perso il controllo o non l’ha mai avuto: per un obiettivo confuso,
uno spunto narrativo che non regge e un progetto insufficientemente lavorato. Un tempo amavo, in particolare, i romanzi di Ernest Hemingway, per l’asciuttezza dei racconti unita al forte ‘appeal’ narrativo. Destinati a giganteggiare in eterno, adesso nondimeno vi percepisco quel po’ di machismo, di (auto) compiacimento che li ha staccati dal podio. Vi ho collocato testi limpidamente anti-descrittivisti, essenziali, cinici, efficacissimi. Affreschi fondati/autentici di esistenze, la cui ‘vis’ risiede in definitiva nell’essere preoccupati, affamati esclusivamente di sé stessi: «Sender Prager» di Israel Joshua Singer, fiancheggiato da altri due piccoli capolavori: «Il ballo» di Irene Nemirovsky e «Questa vita tuttavia mi pesa molto» di Edgardo Franzosini. Tutti già singolarmente trattati, su queste pagine, ma il trittico assume un rilievo inedito e quest’oggi mi piace radunarli in un ideale cofanetto, e suggerigli in blocco.
di Laura Ghedina Non sono una critica letteraria, ma sono una lettrice appassionata e curiosa. Per questo ero alla Fortezza da Basso in occasione della prima edizione di «Firenze libro aperto 2017», evento che la nostra città ha dedicato, nel febbraio scorso, ai libri, con l’intento di promuovere soprattutto le piccole case editrici, spesso coraggiose e innovative, ma di solito così neglette. In queste occasioni si possono trovare libri che difficilmente arrivano nelle librerie ed è così che ho scoperto, attratta dalla delicata immagine di copertina, «Lo sguardo e il riso», opera prima di Caterina Perrone. L’autrice fino ad ora si è dilettata di pittura, iniziando giovanissima e quasi per scherzo a dipingere «falsi d’autore», copie di quadri contemporanei molto famosi, spesso riprodotti solo in parte, oppure con dimensione modificata perché fosse immediatamente evidente che si trattava di un furto innocente e celebrativo. Con il tempo ha elaborato un suo stile e qualche anno fa, sempre a Firenze in una mostra collettiva, ha esposto dipinti interamente suoi: «I tondi di Caterina». Questa esperienza artistica in un certo senso affiora nel libro – una favola per adulti, leggera e scorrevole – che ho letto in un fiato. I personaggi descritti sembrano in realtà dipinti, ogni frase è una pennellata, che permette ai protagonisti di uscire nitidi dall’affresco. Viola è una giovanetta quasi impensabile se rapportata al tempo in cui vive; istintiva e determinata, rifiuta il ruolo tradizionale imposto alle donne, non è in attesa di un matrimonio conveniente. Ama il suo lavoro. Ricerca e studia piante, fiori, cortecce per ricavarne essenze che, oltre al corpo, curino l’animo e al suo lavoro non intende rinunciare.
Spettri del visibile
Ma Viola è anche attratta da Matteo che casualmente vede dalla sua finestra, così bello e affascinante, del quale si innamorerà senza riserve, ma che mai penserà o accetterà di sposare. È caparbia, con determinazione porta avanti le sue decisioni, pronta a pagarne il prezzo. Matteo, un giovane e ricco mercante che sembra uscito da un quadro del Giorgione, è un seduttore, ma onesto e talmente disarmante da farsi immediatamente perdonare questo lato predominante del suo carattere, per altri versi
impulsivo e generoso. Egli rimane dapprima spiazzato dalla spontaneità e freschezza di Viola, che è sì giovane e molto graziosa, ma non raggiunge la raffinata bellezza di alcune donne che ha conosciuto; poi, in successivi e casuali incontri, viene progressivamente coinvolto e suo malgrado si innamora di lei. Popolano l’affresco altre figure così ben delineate da non potersi definire secondarie. La madre superiora del convento, nel quale Viola troverà rifugio per sfuggire alle imposizioni paterne, è intelligente, comprensiva e discreta, così slegata dalle convenzioni alle quali dovrebbe sottostare in quanto religiosa di rango. Pietro, il padre adottivo – nel senso che Viola lo sente come tale – è persona di grande valore, capace di ascoltare, capire, ispirare fiducia e trovare soluzioni. Non così il padre di Viola, uomo colto, ma taciturno e duro, reso ancora più cupo da una lunga vedovanza, assolutamente aderente al ruolo che i tempi gli hanno assegnato, senza riuscire a scostarsene per permettere all’affetto di affiorare. La madre di Matteo è invece sensibile, intuitiva, raffinata; a lei il giovane potrà rivolgersi quando, confuso e frastornato, non riuscirà a trovare una via d’uscita, certo che con delicatezza e amore gli indicherà la strada giusta da imboccare. Inoltre, ci sono la balia, una sanguigna donna del popolo, un porto sicuro in cui rifugiarsi, e il gatto Puff, dispettoso e complice. Della trama dirò soltanto che si snoda in ondate di accadimenti, improbabili e necessari insieme, da cui io, abituata a letture diverse e più impegnative, mi sono lasciata cullare. Viviamo in tempi grami. Anche per questo sono grata a Caterina Perrone di avermi regalato una piccola vacanza, raccontandomi una favola.
Oggi Enrico Bertelli, Andrea Lunardi, Pietro Manzo, Luca Matti, Giuseppe Restano e Andrew Smaldone saranno ospiti dello studio MDT per la mostra Spettri del visibile Il titolo della mostra richiama le prime sperimentazioni di Isaac Newton legate all’ottica e alla percezione della luce, da un punto di vista fisico infatti con «spettro del visibile» si descrive lo spettro elettromagnetico che include tutti i colori percepibili dall’occhio umano. Una suggestione questa che diviene il pretesto per un dialogo e un confronto sul tema della pittura a partire da un suo elemento qualificante, il colore, la sua percezione, la sua assenza. Ormai da alcuni anni, lo studio MDT è solito dare vita a progetti dove
la costruzione di una mostra si fa percorso condiviso e partecipato: gli artisti prendono parte in prima persona alla scrittura del progetto espositivo, interrogandosi sulla propria pratica creativa, mettendo in discussione le dinamiche sottese al processo curatoriale, inventando nuove modalità di riflessione, dialogo e sperimentazione. In Spettri del visibile il concetto stesso di pittura costituisce il materiale vivo di un’indagine che coinvolge sia gli artisti chiamati a esporre, che hanno nella pratica pittorica il proprio medium d’elezione, sia Menicagli, Di Vaia e Tondo, che pur lontani dall’uso esclusivo di questo linguaggio ne sono comunque inevitabilmente affascinati.
Una favola per adulti
23 1 APRILE 2017
Maschietto editore
Firenze
Il mondo della cultura si riunisce a Firenze per il G7 Dentro Firenze propone una lettura inedita della città John Stammer, esploratore del contemporaneo e narratore di architetture, presenta una Firenze sconosciuta – anche se sotto gli occhi di tutti – e lontana dallo stereotipo di città fuori dal tempo. Attraverso 43 schede di progetti e interventi architettonici e urbanistici realizzati negli ultimi vent’anni si delinea uno scenario completamente diverso: un tessuto urbanistico vivo e sensibile in continuo mutamento. Nella seconda parte del libro sono raccolte interviste e saggi di architetti, progettisti, amministratori, intellettuali che hanno contribuito a rinnovare le forme della città e il senso della vivibilità. Un viaggio nella Firenze che cambia, dal Palazzo di Giustizia al Nuovo Teatro dell’Opera, dal Centro Rogers di Scandicci ai centri commerciali ‘d’autore’, dal complesso delle Murate, alla Biblioteca delle Oblate, dal nuovo quartiere Leopolda alla risistemazione di Novoli.
DENTRO FIRENZE Architettura, architetti, progetti e percorsi del tempo presente di John Stammer / a cura di Aldo Frangioni, Michele Morrocchi, Simone Siliani
Con interviste e interventi di Richard Rogers, Adolfo Natalini, Paolo Desideri, Andrea Maffei partner italiano di Arata Isozaki, Gerard Evenden (Studio Foster and Partners), Paolo Zermani, Elio Di Franco, Carlo Terpolilli, Aimaro Oreglia d’Isola, Marco Casamonti, Andrea Branzi, Gaetano Di Benedetto, Francesco Gurrieri, Vittorio Maschietto, Antonio Natali, Gianni Pettena.
www.maschiettoeditore.com