Cultura commestibile 212

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Numero

8 aprile 2017

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Con la cultura non si mangia

PiĂš Rinascimento per tutti

Giulio Tremonti (apocrifo)

Maschietto Editore


NY City, Agosto 1969

La prima

immagine I giovani e i ragazzi continuano a mostrare i loro cartelli pieni di messaggi sempre rtivolti a mettere in risalto la loro condizione e i loro problemi. Sono tutti in attesa che altre persone arrivino alla spicciolata e si radunino di fronte al palco su cui salirà quel gruppo tanto atteso che sta per mettere «in onda» uno spettacolo che mostrerà le condizioni di vita dei neri e dei portoricani, quasi tutti concentrati in questa parte semi abbandonata della città. L’energia e la vitalità positiva che si percepiva stando in mezzo a loro era davvero evidente e creava un senso di empatia e desiderio di partecipazione.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

8 aprile 2017

279

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Riunione di famiglia Tiramolla Le Sorelle Marx

Braccia rubate all’agricoltura Lo Zio di Trotzky

La diplomazia del tresssette I Cugini Engels

In questo numero

Venghino signori, venghino

Il primato della luce di Antonio Natali

Il paradosso del nullafacente di Elisa Zuri

Di fronte alle scarpe racconto di Carlo Cuppini

Città aromatica di Claudio Cosma

L’impero invisibile di Alessandro Michelucci

Eduardo e Pino, argonauti a Napoli di Susanna Cressati

Elle di Mariangela Arvanas

Oh mio Chianti, così addomesticato di Paolo Marini

Per chi suona la campana di Cristina Pucci

1, nessuno e 4 di Melia Seth

Viva l’Italia di Laura Monaldi

e Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Barbara Palla, Roberto Giacinti Abner Rossi, Sara Nocentini...

Patella al Miart di Danilo Cecchi

Direttore Simone Siliani

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

premio letterario

PRIMA EDIZIONE 2017

Mandate i vostri racconti

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Progetto Grafico Emiliano Bacci

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Il primato della luce di Antonio Natali La fotografia non è mai, o quasi mai, mera documentazione. Può esser dozzinale o, al contrario, di pregio; ma difficilmente sarà solo una certificazione, almeno finché dietro la macchina che registra le immagini ci sia l’occhio d’un uomo pensante; che sceglie il soggetto, il taglio, il punto di vista, la distanza, l’ambientazione e via discorrendo. La fotografia è sempre, insomma, l’esito di un’operazione critica; banale o geniale che sia. Sempre – dunque – una creazione; che può essere poetica o, per converso, rozza; ma creazione. Questa premessa – che può suonare financo scontata – sarà comunque utile a inquadrare l’intenzione sottesa agli scatti d’Aurelio Amendola al cospetto di marmi celebrati di Michelangelo. Da storico dell’arte confesso d’amare molto quelle foto di sculture che non enfatizzino le ombre e gli sbattimenti luminosi. Ma confesso ch’è un’esigenza di studio più che una predilezione estetica. Voglio dire che, dovendo tenere davanti agli occhi la fotografia d’un’opera sulla quale m’occorra d’esercitare il giudizio, m’è più comodo ch’essa sia stata scattata con una luce diffusa, giacché non rischio d’incappare in quei condizionamenti che un chiaroscuro risentito indubbiamente provoca. Semmai sono io, dopo essermi fatto un’idea della disposizione intellettuale e culturale dello scultore cui mi sono accostato, a chiedere al fotografo che aiuti con le sue virtù a mettere in risalto quei dettagli che siano capaci d’indirizzare a una lettura consona all’esegesi di cui mi son convinto. Porto un esempio del procedimento del quale si va ragionando. Da giovane ho studiato l’umanesimo d’uno scultore altissimo che la critica ha sacrificato sottoponendolo a poco meditati accostamenti. Parlo di Michelozzo; artefice che, per aver lavorato a stretto contatto di gomito con Ghiberti prima, con Donatello poi, e infine con Luca della Robbia (tenendo con loro ‘chompagnie’ triennali, cioè essendo con ognuno di loro in società per tre anni), è stato sempre reputato un artista che se n’andava a diporto dei grandi. Chi volesse darsi ragione dell’infondatezza di questa convinzione sbrigativa basterebbe che – cronologia alla mano – osservasse le sculture di quei tre maestri nella stagione in cui appunto erano, di volta in volta, ‘chompagni’ di Michelozzo. S’avvedrebbe allora – quest’ipotetico osservatore attento – che furono piuttosto proprio loro a sen-

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tire il fascino dell’espressione di lui, ch’era cantore lirico di sentimenti prolungati, uomo vòlto al nuovo senza rinnegare la tradizione, amante di marmi antichi segnati da affetti languidi, ciceronianamente cultore d’una lingua austera e insieme evocativa. Per far intendere l’autonomia linguistica di Michelozzo e illustrare le sue qualità originali chiesi a Marcello Bertoni, grande fotografo prematuramente scomparso, di corredare le mie pagine con foto che delle opere michelozziane esaltassero quelle peculiarità a mio avviso connotative della poetica di lui. Ne venne un libro a due voci, dove le immagini facevano controcanto al testo scritto, confortandone la linea critica. Nella mostra di Pontassieve, (dal 9 aprile al 2 luglio, Sala delle colonne, Palazzo comunale – catalogo edito da Polistampa) dove d’Aurelio s’esibiscono gli scatti in bianco e nero dei marmi di Michelangelo, sarà facile intendere quale sia la sua interpretazione del maestro antico. L’esordio col David è eloquente. Il volto è segnato da ombre buie che affossano l’arcata oculare, incidono la pupilla, scavano la narice e gonfiano il turgore dei riccioli. E quel viso, di suo già fiero, si fa viepiù ardito. Aurelio, con l’eroismo che appunto dal volto promana, col vigore fisico esaltato dalla spiccata muscolatura delle spalle e dai glutei compatti a

Aurelio Amendola per Michelangelo sbalzo sulle cosce tornite, trasmette l’immagine d’un giovane possente. È una rappresentazione di David che dovrebbe indurre il riguardante a porsi davanti al colosso michelangiolesco quelle domande che viceversa neppure lo sfiorano, giacché ognuno si contenta di sbalordire alla vista della solare bellezza del campione d’Israele. E invece dovrebbe risultar naturale chiedersi perché il David del Buonarroti non sia quel fanciullino gracile, di bellezza soave e femminea che la tradizione ci ha consegnato nei modelli di Donatello e Verrocchio (per dire dei più celebri). Ci si dovrebbe domandare perché sia – al contrario – un gigante (come appunto lo chiamano le fonti coeve). Sono quesiti che dovrebbero venire spontanei stando ai piedi del colosso marmoreo nella Galleria dell’Accademia o sulla piazza dei Signoria (dov’è la sua copia più famosa). Invece no. Le foto d’Aurelio, d’icastica presenza e forti della stessa forza ch’esibisce la statua grandiosa di Michelangelo, reputo possano finalmente giovare a un approccio più maturo di chi s’appressi alla lettura del capo d’opera del Buonarroti. Foto dunque di liriche sembianze; ma anche foto in grado d’indurre chi guardi l’autografo del Buonarroti a far suo il concetto (invero perfino ovvio e tuttavia sovente nemmeno contemplato) che ogni opera d’arte


è un componimento poetico; anche se in figura, invece che di parola. E subito dopo risulterebbe logico che in un’opera d’arte non c’è niente che sia casuale. Nel caso del David non saranno allora da ritener casuali le dimensioni, ma nemmeno l’assenza della testa di Golia (attributo iconografico sempre presente), il nascondimento della pietra nell’incavo della mano destra e la visione parziale della fionda, il cui lungo lacciolo traversa la schiena dell’eroe d’Israele ed è dunque percettibile solo andando a guardare il marmo da dietro. Niente – si diceva – è casuale in un’opera d’arte. Non è detto si riesca sempre a darsi ragione d’ogni dettaglio figurato in una creazione del passato, specie quando sia remoto; ma la difficoltà di risalire alle motivazioni sottese a una scultura o a un dipinto non dà diritto a pensare che quel dettaglio non sia l’esito d’una volontà espressiva. Sarebbe un po’ come ritener casuali, in una poesia scritta, una o più parole di cui non si riesca a sbrogliare il senso. Mi chiedo – tornando alle immagini fermate da Aurelio – se i suoi ‘tagli’ della languorosa Pietà di San Pietro non siano, nella loro struggente avvenenza, anche ottimi spunti di riflessione pei riguardanti. Abituati – come tutti siamo – a godere astrattamente della bellezza (quasi che la bellezza fosse poi una qualità sempre facile da discernere…) saremo da quel marmo a tal segno stregati da disinteressarci ancora una volta delle questioni iconologiche che la sua stessa invenzione solleva. Aurelio nella sua veduta frontale della Pietà sceglie di dare al candore della pietra un levigato aspetto eburneo quando plasma il corpo esanime di Gesù e di conferire invece alla veste di Maria apparenza di cera che s’accaglia, come si fosse rappresa dopo un calore forte. Ma in quella stessa ripresa frontale, Aurelio sottolinea la grazia soave della Vergine, esibendone il volto giovanile che s’imparenta a una polita perla chiusa fra le valve del velo e della veste, che increspandosi l’abbraccino. Volto giovane, appunto; così giovane da costringere chi lo contempli a interrogarsi sulla relazione d’età fra madre e figlio; e per forza il figlio ne risulterà maggiore. Col che inevitabilmente si porranno quesiti iconologici a chi non voglia fermarsi alla lingua (pur sublime) di Michelangelo, ma pretenda d’andare oltre e indagarne i pensieri. Pensieri cólti; come potevano essere quelli d’un uomo di cui le fonti coeve tramandano la conoscenza non solo delle Scritture, ma anche delle pagine scritte dagli esegeti che su quelle stesse Scritture s’erano affaticati. Nel caso però della Pietà di San Pietro è la cultura per così dire laica del Buonarroti a prender campo. Quel rapporto d’età fra Maria e Gesù, che Aurelio con un pathos da scultura ellenistica invita a considerare, ha un fondamento nella conoscenza che Michelangelo aveva di Dante e

della sua Commedia; nella fattispecie del canto XXXIII del Paradiso, proprio all’esordio; là dove san Bernardo, per invocare la Madonna, si rivolge a lei coi due celebri ossimori: «Vergine Madre, figlia di tuo figlio». Ed è proprio quello cui gli scatti d’Aurelio danno risalto: il corpo di Cristo senza vita s’adagia sulle gambe di Maria, che se ne sta seduta col capo reclinato per via d’un dolore composto; la solida complessione fisica di lei può ben consentirle di sostenere quel peso morto, ma il volto è proprio quello d’una fanciulla: inammissibile per una donna che sia madre dell’uomo che sostiene. Plausibile soltanto se s’accetti il mistero di Maria come figlia e nel contempo madre di Dio: mistero che Michelangelo offre a noi tutti con la lirica altissima della Pietà, e che Aurelio porge ai lettori delle sue foto coi giochi d’una luce che magistralmente piega alle sue intenzioni, facendole teneramente trascorrere la nudità di Cristo per poi concentrarla sul viso arrovesciato all’indietro, lasciandola incuneare negl’intrichi delle pieghe dei panni di Maria e giovandosene per carezzare quel suo volto di bimba. Che, così, ancor più di bimba appare; ulteriormente ribadendo fra madre e figlio uno scarto d’età ch’è umanamente inconcepibile e che perciò esige nel riguardante una riflessione teologica. Nel caso di Michelangelo la scelta d’Aurelio di valersi d’una luce ch’enfatizzi l’escursioni della materia è come un invito – tacito ma tenace – a tornare a scorrere il ‘Proemio’ alla terza parte delle Vite di Vasari, quando l’aretino scrive che a determinare la nascita della ‘maniera moderna (vale a dire quella della sua stessa stagione; il Cinque-

cento, per intendersi) fu la scoperta di marmi antichi di gusto ellenistico, di sculture cioè capaci di sommuovere le corde del cuore dei riguardanti col loro attorcersi patetico, con le bocche dischiuse, con le teste mollemente inclinate sulle spalle, con gli occhi voltati in alto, con l’espressione – insomma – d’affetti estenuati. Affetti che le fotografie d’Aurelio fanno giustappunto viepiù germinare. La sua luce – ora così radente da esaltare anche il minimo incresparsi della materia, ora tanto diretta da far rifulgere la pelle del marmo, ora a tal punto obliqua da generare sbattimenti d’ombre e però insieme emergenze rilucenti – non consente al cuore di riposare. L’effetto delle foto d’Aurelio è alla fine lo stesso che i marmi ellenistici suscitavano negli artisti di primo Cinquecento e parimenti è il medesimo che le sculture di quegli artefici accendono nei riguardanti moderni. Il taglio della foto dell’Aurora, nella michelangiolesca Sagrestia Nuova di San Lorenzo, credo ne sia emblematico: Aurelio si mette ai piedi del massiccio nudo femminile, riprendendolo un poco da dietro, e lascia che lame di luce profilino il polpaccio e la coscia (davvero monumentali); e grande rotondeggia il gluteo in ombra. Godono invece d’una luce maggiore (ancorché quieta) il piede (sul primissimo piano), l’avambraccio (che ripiegato risale) e la testa (che androgina slontana in alto). È una foto davanti alla quale l’animo non può evitare il trasalimento. Ed è un trasalimento non troppo differente da quello che dovette scuotere Giuliano da Sangallo al riemergere da sottoterra d’un marmo maestoso che subito – alla vista d’alcuni dettagli – seppe riconoscere come il Laocoonte descritto da Plinio. E immediatamente chiamò Michelangelo, ch’era allora a Roma. Non a caso chiudo con l’evocazione del Laocoonte; che della lista vasariana di marmi ellenistici stilata da Vasari nel ‘Proemio’ può considerarsi perfino l’icona. Lo evoco proprio perché nelle foto che Aurelio ha scattato ai Prigioni michelangioleschi (che del gruppo del Laocoonte sono quasi emanazioni filiali) si cava con perspicui contorni la sua aspirazione a giostrare la luce (fin ai limiti del virtuosismo) per tener sempre desti i cuori e le menti di coloro che s’accostino alle sue immagini. Strategia che peraltro obbedisce a una delle norme fondamentali dell’arte oratoria di Cicerone e che fu applicata all’espressione loro da tanti artisti fiorentini del Quattrocento e degl’inizi del Cinquecento: se vuoi che l’uditorio ti segua e mai si distragga, catturane i sensi commuovendolo. Questo par voglia suggerire Giuliano de’ Medici, duca di Nemours, che Aurelio costringe a un affaccio – fra il timido e il melanconico – dalle lesene scanalate che riquadrano la nicchia dove lui siede; a sovrastare la sua sepoltura. Figura ch’è saluto d’accoglienza e insieme sensitivo paradigma dell’intero ciclo michelangiolesco.

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Le Sorelle Marx

Tiramolla

Renzi lo ha proclamato ai quattro venti: «non mollo!». Secondo i più, ha inteso così smentire il giornalista di «Panorama» cui aveva rilasciato un’intervista nella quale aveva detto che in caso di una nuova sconfitta se ne sarebbe andato davvero, mica come dopo il referendum quando aveva detto che sarebbe andato a casa e invece è prontamente ritornato. «Con tutta l’amicizia per Andrea Marcenaro, - ha detto Matteo - non ho mai detto ciò che Panorama ha riportato. Non l’ho detto e stavolta non l’ho nemmeno pensato. Gli ho spiegato a pranzo per

I Cugini Engels

La diplomazia del tressette

Downing Street, n°10, Londra, tardo pomeriggio. La linea diretta fra la premier Theresa May e la casa reale è calda. «Hello Theresa, good afternoon. Charles speaking, from Florence. Mission accomplished! Io e Camilla abbiamo conquistato Firenze, come mi avevi chiesto. Però è stato faticoso. Ci hanno portato ovunque, con tutta gente strana. Ho dovuto mangiare di tutto: una cosa chiamata finocchio... finocchieto... how they call it... something like big fennel. E poi wine!! Beatifull, hic...» «But Charles, are you a little drunk? Come on, raccontami i risultati della missione diplomatica che ti avevo affidato. Se non stabiliamo qualche alleanza strategica, con la Brexit ci siamo tagliati … le balls!» «Oh, my Goddnes, Theresa, cosa dici? Mi fai arrossire. Comunque, mi hanno dato un premio, il Renaissance Man of the Year e ho fatto un magnifico discorso, augurando un secondo Rinascimento a Firenze. Ma loro dicono di averne tanti... Mah, che persone strane. Ci hanno portato a mangiare da un pazzo scatenato, con i capelli lunghi bianchi, che urla dalla cucina e racconta

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un’ora perché non ho mollato e a questo punto non mollerò mai». Mollo, non mollo, tiro & mollo, mollo & tiro. No, cari rosiconi, Matteo sta in realtà riportando in auge un personaggio mitico dei fumetti, ideato nel 1952 dal suo antenato Roberto Renzi e apparso per la prima volta l’8 agosto del 1952 sul mensile Cucciolo delle Edizioni Alpe: Tiramolla. Renzi Roberto, come il giovane epigono, è stato sceneggiatore dalla poliedrica personalità e uomo assai vicino al potere (fu addetto stampa del finanziere Roberto Calvi). Renzi Matteo ha una vera adorazione per

quello strampalato di Tiramolla, tanto da volerlo emulare. Nel primo episodio, uscito nell’agosto 1952 su Cucciolo mensile, il brillante professor Nemus chiede l’aiuto di Cucciolo e Beppe per ritrovare la formula più importante del secolo, faticoso frutto di un decennio di studi e misteriosamente scomparsa. Durante il sopralluogo investigativo al laboratorio dello scienziato, alla ricerca di indizi e prove del furto, si verifica all’improvviso una tremenda esplosione, causata dal maldestro Beppe nel tentativo di esaminare chimicamente un capello. Quando la nuvola dell’esplosione si deposita, compare Tiramolla, «il figlio del caucciù e della colla». Anche Matteo si pensa supereroe e cerca la formula elettorale più importante del secolo, quella che gli consenta di avere la maggioranza in Parlamento pur perdendo le elezioni. Tiramolla degli anni 2000 riuscirà in questa impresa? Sì? No? Mollo, non mollo? Chi vivrà, vedrà.

sciocchezze di ogni genere. Poi, ovunque, ci seguiva un tipo strano con una fascia tricolore e che mi chiedeva di continuo se volevo ascoltarlo suonare il violino: mi ha scocciato, allora gli ho dato una sterlina e me lo sono levato di torno.»

«Charles, quello era il sindaco! Mah, speriamo che non si offenda. E Camilla che ha fatto» «Oh, un po’ di shopping e poi ha girato alcune scene del documentario commissionato da Independent Television. Ma anche lì, c’era un tipo singolare con una fascia bianca e rossa (che strana moda questa delle fasce...) che voleva a tutti i costi entrare nel documentario e farci da guida turistica. Anche a lui ho dato una sterlina per stare zitto». «Tutto qui, Charles? Vuoi dirmi che li hai conquistati con queste idiozie?! Guarda che abbiamo speso tanti soldi per mandarti un tourné! Voglio dei risultati!» «Oh, ma Theresa, ho messo a segno un colpo diplomatico straordinario e ho inventato una nuova strategia: diplomacy of three seven! È un gioco di cards, dove si deve sbattere le carte sul tavolo e urlare cose strane: struscio, cioè scratch! Busso, that is knock! Lungo, long! Ho giocato anche con un arcivescovo cattolico, ma l’ho distrutto... I cheated, for the sake of England! God save the Queen, and fuck Europeans!»


Nel migliore dei Lidi possibili

Quale di queste tre bombe contiene il sarin?

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Lo Zio di Trotzky illustrato

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di Laura Monaldi Dopo il successo della mostra «Viva Italia» dello scorso anno, esposta presso la Galleria Civica di Bratislava, le opere italiane della Collezione di Carlo Palli hanno fatto tappa alla Galleria Civica di Sofia. Una visione cronologica e diacronica dell’Arte contemporanea attraverso il gusto e la scelta critica di un collezionista che ha lavorato per cinquant’anni nel mondo dell’arte, assaporandola dall’interno e concretamente. I nomi in mostra, per la prima volta in Bulgaria, rappresentano il fior fiore dell’attività estetica italiana dagli anni Cinquanta a oggi colti con uno sguardo critico d’eccezione. Viva Italia mette in mostra l’autenticità dell’Arte italiana del secondo Novecento, attraverso visioni e teorie che troppo spesso sono state banalizzate e messe in secondo piano da un mercato forzato. Oggi come non mai le scelte collezionistiche – intese come conoscenza e promozione – si sostituiscono ai musei e alle gallerie, e la collezione di artisti italiani dell’Archivio di Carlo Palli ne è un esempio. Le opere in mostra offrono uno spaccato per immagini su quello che l’Arte italiana del XX e XXI secolo è stata e continuerà a essere, fra continuità e discontinuità, fra ricerche collettive e monologhi espressivi, fra Gruppi, Scuole e autonomie esistenziali, attraverso l’occhio critico e indagatore del collezionismo contemporaneo, dedito a scovare le peculiarità artistiche oltre il mercato dell’Arte e a tratti sostituendosi alle istituzioni museali nella selezione delle migliori esperienze nazionali. La mostra si è svolta sotto il patrocinio del Comune di Sofia, in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia in Bulgaria, l’Archivio di Carlo Palli, la Galleria Civica di Sofia e l’Istituto Italiano di Cultura di Sofia attirando un vastissimo pubblico e l’attenzione di molti media locali. Un percorso cronologico, generazionale e teoretico di sessant’anni di operatività artistica, fruibile in tutte le sfaccettature dell’estetica contemporanea: dalla tela, alla scultura; dalla fotografia alla musica; dalle installazioni alla multidisciplinarietà degli esiti espressivi di un mezzo secolo denso di complessità e di labirinti interpretativi, dove il godimento privato ha lasciato spazio alla polemica e alla dissacrazione, per poi rimettere l’accento sul carattere immaginifico della tecnica, della manualità e dell’idea originale e inedita, capace di suscitare nello spettatore il senso di una meraviglia senza tempo. Gli artisti Andrea Abati, Vincenzo Accame, Vincenzo Agnetti, Marcello Aitiani, Paolo Albani, Aurelio Amendola, Franco Angeli, Enrico

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Viva l’Italia

Baj, Nanni Balestrini, Roberto Barni, Vittore Baroni, Gianfranco Baruchello, Massimo Barzagli, Carlo Belloli, Mirella Bentivoglio, Maurizio Berlincioni, Lapo Binazzi, Alighiero Boetti, Achille Bonito Oliva, Alessandra Borsetti Venier, Antonino Bove, Umberto Buscioni, Sylvano Bussotti, Carlo Cantini, Myriam Cappelletti, Giancarlo Cardini, Ugo Carrega, Luciano Caruso, Roberto Casati, Antonio Catelani, Guglielmo Achille Cavellini, Sandro Chia, Giuseppe Chiari, Fabrizio Clerici, Claudio Costa, Roberto Crippa, Enzo Cucchi, Jakob De Chirico, Paolo Della Bella, Fabio De Poli, Fortunato Depero, Giuseppe Desiato, Corrado D’Ottavi, Giovanni Fontana, Kiki Franceschi, Claudio Francia, Aldo Frangioni, Fabrizio Garghetti, Carlo Gianni, Federica Gonnelli, Pietro Grossi, Carlo Guaita, Carlo Guarienti, Emilio Isgrò, Marilede Izzo, Mar-

co Lanza, Ketty La Rocca, Daniele Lombardi, Arrigo Lora-Totino, Roberto Malquori, Lucia Marcucci, Mario Mariotti, Gino Marotta, Stelio Maria Martini, Paolo Masi, Albert Mayr, Fernando Melani, Gianni Melotti, Alessandro Mencarelli, Manuela Menici, Eugenio Miccini, Enzo Minarelli, Alberto Moretti, Zoran Mušiĉ, Massimo Nannucci, Maurizio Nannucci, Martino Oberto, Athos Ongaro, Luciano Ori, Liviano Orologio, Mimmo Paladino, Virginia Panichi, Michele Perfetti, Gianni Pettena, Lamberto Pignotti, Michelangelo Pistoletto, Alessandro Poli, Renato Ranaldi, Mimmo Rotella, Gianni Ruffi, Sarenco, Mario Schifano, Gianna Scoino, Gianni Emilio Simonetti, Giuseppe Spagnulo, Adriano Spatola, Luigi Tola, Franco Vaccari, Adriano Veldorale, Piero Vignozzi, Emilio Villa, Rodolfo Vitone, William Xerra


di Alessandro Michelucci Premessa Prima di entrare nel vivo della questione è necessario un chiarimento. Alla fine del secolo scorso le tre federazioni comuniste europee (Cecoslovacchia, Jugo-slavia e Unione Sovietica) si sono frantumate in 24 stati. La Russia ha ereditato il ruolo di potenza mondiale che apparteneva all’URSS. L’Unione Europea naviga a vista, e come se questo non bastasse sta perdendo un pezzo importante come la Gran Bretagna. Altrove sono emersi nuovi attori: da una parte, i cosiddetti BRICS (Brasile, Indiana, Cina e Sudafrica), dall’altra il mondo islamico con tutte le sue espressioni, dalla linea autoritaria di Erdogan al terrorismo jihadista. In questo panorama geopolitico completamente ridisegnato anche il ruolo degli Stati Uniti è cambiato radicalmente. Naturalmente non abbiamo lo spazio per approfondire questi mutamenti, ma una cosa è chiara: dopo la caduta dell’URSS la politica statunitense può finalmente essere considerata per quello che è. La fine dell’Unione Sovietica ha eliminato un equivoco di fondo: sembrava che criticare Mosca presupponesse comunque una posizione più o meno filoamericana. Tanto è vero che anche i neofascisti, pur dicendosi equidistanti fra le due superpotenze, finivano spesso per essere risucchiati nel campo filoamericano nel nome dell’anticomunismo. I tempi in cui si tuonava contro l’imperialismo americano sono ormai lontani, ma questo non significa che una critica radicale della politica statunitense sia démodé. Al contrario, questa critica può essere sviluppata partendo dalla sostanza, anziché da posizioni sospette in quanto (considerate) più o meno filocomuniste. Attenzione però: non vogliamo parlare di Trump, né della NATO, né dei rapporti fra Washington e Mosca. Non solo, ma abbiamo la …presunzione di dare un significato nuovo, più ampio e più preciso, al termine Stati Uniti, che quasi tutti utilizzano almeno una volta al giorno. Quali sono gli Stati Uniti? Quando parliamo degli Stati Uniti facciamo riferimento alla federazione nordamericana composta da 50 stati, due dei quali (Alaska e Hawai’i) sono geograficamente separati dagli altri, e dal distretto federale di Washington. Eppure manca qualcosa. Ce lo conferma il Calendario Atlante De Agostini, dove lo spazio dedicato agli Stati Uniti occupa 18 pagine, ma soltanto 13 riportano dati relativi a quello che abbiamo descritto all’inizio. Le altre descrivono i «territori esterni degli USA». Si tratta di numerose isole sparse nel Pacifico e nei Caraibi: Guam, le Marianne settentrionali, Puerto Rico, le Samoa Americane e le Vergini Americane. Un tempo si chiamavano colonie, ma i pudori verbali imposti dalla decolonizzazione hanno mandato in pensione questo termine che richiamava un passato non certo edificante. ormai lontano. In altre parole, una sorta di politically correct ante litteram.

L’impero invisibile A questi territori «americani» ha dedicato particolare attenzione Douglas Mack (www.douglasmack. net), un giovane giornalista e scrittore di Minneapolis, autore del libro The Not-Quite States of America: Dispatches from the Territories and Other FarFlung Outposts of the USA (W. W. Norton). Mack ha percorso oltre 50.000 km per visitare le isole in questione. Grazie a questo lungo viaggio ha potuto conoscere luoghi dove i tatuatori vanno al bar con i militari americani; dove la cultura polinesiana si intreccia con le associazioni di veterani del Vietnam; dove gli indigeni samoani cercano di resistere all’americanizzazione; senza dimenticare il dibattito sull’indipendenza che anima la società portoricense I luoghi visitati dall’autore sono ignoti alla maggior parte dei lettori, ma riemergono qua e là particolari che riducono questa estraneità, come certi romanzi avventurosi o riferimenti alle battaglie della Seconda guerra mondiale. In queste terre remote vivono circa 4 milioni di persone, dimenticate perfino dalla maggior parte degli statunitensi. Nonostante questo, sono piene di bandiere a stelle e strisce, di uffici governativi che fanno capo a Washington e di squadre di baseball. La moneta corrente è il dollaro, ma gli accordi politici che definiscono il legame con Washington non sono uguali ovunque. La lingua ufficiale è l’inglese, seppure insieme alle lingue indigene, che comunque stanno cadendo in disuso. Ai territori suddetti devono aggiungersi i cosiddetti «stati liberamente associati» (altra manifestazione di pudore verbale): Belau (Palau), gli Stati federati della Micronesia e le isole Marshall. Queste ultime, fra

l’altro, sono tristemente note per i 67 esperimenti nucleari americani che le devastarono fra il 1946 e il 1958. Le conseguenze – dalle malformazioni di vario tipo al cancro – hanno già toccato la quinta generazione. Un altro pezzo di storia dimenticata che riaffiora in queste pagine. Emerge anche la questione delle Hawai’i. Annesso in seguito a un colpo di stato, l’arcipelago polinesiano venne poi trasformate in stato federato con un referendum illegale (1959) che non prevedeva il ritorno all’indipendenza. Tanto più che il Presidente dell’epoca, Eisenhower, aveva firmato l’atto che istituiva il cinquantesimo stato cinque mesi prima del referendum. L’ironia della sorte vuole che questo avvenga proprio mentre molte colonie asiatiche e africane conquistano l’indipendenza. In termini geografici e culturali le Hawai’i non fanno parte dell’America, ma dell’Oceania: la popolazione autoctona è polinesiana e lo stesso Calendario Atlante De Agostini calcola questo arcipelago fra i territori del continente blu. Il libro non è un noioso trattato per addetto ai lavori, ma un reportage vivo e stimolante. Mack ricostruisce con cura queste storie dimenticate, arricchendole di aneddoti e di curiosità. L’uso della prima persona e le opinioni degli abitanti le rendono ancora più interessanti. Ma questa leggerezza non scade mai nel disimpegno o nella superficialità: accanto a toni che ricordano vagamente quelli del National Geographic non mancano decise stoccate al colonialismo statunitense. Insomma, Mack evita i toni barricaderi, ma non ha peli sulla lingua. Chi scrive non si illude certo che questo libro possa scalfire la salda fede nella «più grande democrazia del mondo». Ma almeno qualche riflessione, chissà, potrebbe stimolarla. Conclusione Alla marginalità geografica di queste isole non corrisponde sempre una marginalità politica. Lo dimostra una scadenza ormai vicina. Fra poche settimane, per la precisione l’11 giugno, gli abitanti di Puerto Rico saranno chiamati a votare il referendum che deciderà il futuro assetto politico dell’isola caraibica. Poco più grande della Corsica, nel 1898 Puerto Rico fu ceduta dalla Spagna agli Stati Uniti dopo la guerra che aveva opposto i due paesi. Diversamente dal referendum del 1998, stavolta non è prevista l’ipotesi che l’isola rimanga un «territorio associato», sospeso in una sorta di limbo fra lo status di colonia e quello di cinquantunesimo stato non dichiarato. Il caso vuole che un referendum analogo si tenga l’anno prossimo in un’altra isola, la Nuova Caledonia, ex «territorio d’oltremare» francese che dal 1988 gode di uno status autonomo. Ma com’è possibile? La Francia è la «patria dei diritti dell’uomo»… Eppure esiste la «Polinesia Francese». Come anche le «Isole Vergini Britanniche». A quanto pare, la libertà non è ancora arrivata per tutti.

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Il mondo

senza

gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni

di Carlo Cuppini Di fronte alle scarpe spaiate nessuno ha fiatato. Per questo i cosacchi sono montati sui loro cavalli e li hanno spronati: al galoppo sono scesi dai monti innevati, come valanga ora stanno arrivando, a schiere compatte di mille e diecimila. Veloci come il vento, i cavalli percuotono il terreno e lo fanno tremare con possente boato. Tra non molto li vedremo sbucare sulle cime delle colline. La prima fila apparirà dall’orizzonte, seguita da innumerevoli altre. Piomberanno su di noi, che resteremo attoniti ad aspettare senza scappare. Non avranno esitazione o titubanza: invaderanno le strade, come frecce scoccate s’infileranno nei vicoli più stretti, sfonderanno di slancio le porte, entreranno nelle case, ci staneranno uno a uno. Porteranno fuori tutti quanti, e uccideranno, e sevizieranno. Lo faranno senza strepito, senza presunzione, con metodo e compostezza, piuttosto, quasi con stile. Oppure ci riuniranno nella piazza e senza parlare sceglieranno un bambino; gli legheranno le mani dietro la schiena, gli taglieranno i capelli e lo isseranno su un cavallo castano. Lo legheranno stretto alla sella. I cosacchi lo rapiranno. Veloci come il fulmine, in un istante, tutti insieme si volgeranno all’orizzonte e spariranno nella stessa direzione da cui sono venuti, lasciandosi dietro solo un gran polverone. Non sapremo più niente del bambino, nonostante le spedizioni dei ricercatori alle pendici dei monti e i tentativi di contatto con i rapitori. Probabilmente loro lo avranno venduto come schiavo alle carovane di passaggio in cambio di due o tre prese di tabacco; oppure, più probabilmente, ne avranno fatto il loro re. Poi il ragazzo tornò a piedi in paese, una mattina, e non aveva le scarpe. Erano passati molti anni, ma non sembrava cambiato; a parte la gran cesta di capelli, che tutti ricordavano biondi e che invece era-

10 8 APRILE 2017

Di fronte alle scarpe no neri, attorniati adesso da una nuvola di mosche minuscole e bianche. Il suo corpo proiettava a terra un’ombra che non sembrava la sua. Entrò nella sua capanna, rimasta vuota da allora, e non disse una sola parola. Il giorno dopo tutto era tornato come prima, nessuno voleva crederci, perfino le scarpe spaiate, tutto uguale a molti anni prima. Per questo i cosacchi sono montati sui loro cavalli e li hanno spronati: al galoppo sono scesi dai monti innevati, come valanga ora stanno arrivando, a schiere compatte di mille e diecimila.

Foto di

Pasquale Comegna

Il sole basso all’orizzonte


di Mariangela Arnavas Sicuramente è stata una vera fortuna che nessuna attrice americana abbia accettato di interpretare il ruolo della protagonista dell’ultimo film di Paul Verhoven, perché solo Isabelle Huppert poteva essere Elle. Il film di Verhoven è complesso, ricco, intricato, si sovrappongono con modalità del tutto armonica, livelli di lettura, generi e citazioni cinematografiche, umorismo e fredda analisi sociale. Ed Isabelle Huppert è perfettamente al centro della vicenda, a tratti davvero funambolica, senza mai una smagliatura, sempre in perfetto equilibrio, riuscendo a tenere il pubblico sospeso anche solo ad un movimento di sopracciglio. Il film comincia con uno stupro e la protagonista Michelle è una donna che ha molto sofferto da bambina per aver assistito alla strage che il padre, ancora in carcere, ha perpetrato nel suo quartiere. Queste le premesse, ma nel seguito, assolutamente niente è banale o scontato. Isabelle non è certo indifferente a quel che le accade, ma, come qualunque donna sia riuscita a sopravvivere all’inferno e lei lo ha fatto con caparbietà ritagliandosi un ruolo importante da manager di una società di produzione di videogames, costruendosi famiglia e amicizie, non accetta il ruolo di vittima, si difende e, a suo modo, contrattacca. Le sue armi di difesa, oltre all’intelligenza e al fascino, sono la capacità di resistere e la determinazione a non mentire; e la determinazione di Elle a non mentire è una delle forze

Segnali di fumo di Remo Fattorini Copenaghen, città fredda e piovosa, ha un problema: troppe bici. Mentre Firenze, città dal clima temperato, è invasa dal traffico privato, rumoroso, caotico e inquinante. Il confronto non può che stupire. Lassù, nonostante il meteo sempre instabile, la bici è il principale mezzo di locomozione. Ci si sposta sulle due ruote malgrado il clima più freddo (si oscilla tra i 22 gradi estivi e i meno 2,5 invernali) e la pioggia persistente (170 giorni di pioggia a Copenaghen contro i 92 di Firenze). Eppure lì il 41%

Elle

che conducono la narrazione attraverso la trama dei rapporti con il padre, la madre, il figlio, gli amici, tutti i numerosi personaggi che si muovono in un ambito di ovattata ipocrisia rispetto al quale la sincerità di Elle si staglia come una roccia sulla sabbia. Certo, per difendersi dalle avversità pesanti che hanno attraversato l’inizio della sua vita Michelle ha dovuto, in qualche modo estraniarsi dalle emozioni, prendere una certa

distanza dalla sua femminilità ed è anche questo che le consente di visualizzare, senza perdere la calma, il cartone animato del videogioco, diffuso su tutti i computer della sua azienda, realizzato da un suo dipendente frustrato, dove la sua caricatura viene posseduta dal mostro di turno. Sarà però lo stupro subito a mettere in moto un processo interno che, insieme alla chiusura del rapporto con i genitori, la costringerà ad affrontare in prima persona, di nuovo, la dialettica tra costruzione e distruzione e, facendo leva sulla sua forza interiore, riuscirà a restituirle uno sguardo più curioso e affettivo sulla sua vita e i suoi rapporti con gli altri. Forse val la pena di ricordare che c’è un altra storia di qualche anno fa in cui un tentativo di stupro dava origine ad una vicenda imprevedibile e complicata ed è il film di Almodovar «La pelle che abito», in qualche modo affine per l’intreccio avventuroso, ricco di colpi di scena e soprattutto per la negazione di una sessualità scontata. Come dice Isabelle Huppert, ci voleva un regista con una laurea in matematica e fisica per conquistare un senso della misura anche nei suoi eccessi mentali e immaginifici, anche nella piena affermazione di una sessualità perversa e polimorfa. La capacità di assetto da trapezista della protagonista nelle pulsioni e nell’intreccio violento e problematico della sua vita si rispecchia nel perfetto equilibrio della complessità di regia e montaggio, forte, senza smagliature. Certamente da vedere.

dei cittadini si sposta abitualmente in bike, e già lavorano per raggiungere il 50 entro il 2025. Basti pensare che nel corso degli ultimi 20 anni l’uso della bici è cresciuto del 68%. Un risultato frutto di precise scelte: solo negli ultimi 10 anni hanno investito 110 milioni di euro per rendere più sicuro, più veloce e più facile l’uso delle due ruote. La scelta di privilegiare la mobilità green viene dunque da lontano. Fatto sta che oggi a Copenaghen ci sono 375 km di piste ciclabili e moltissimi parcheggi attrezzati. Tanto che l’amministrazione cittadina continua a trasformare le aree di sosta delle auto in parcheggi sicuri per le bici. E i risultati si vedono: oggi nelle vie cittadine transitano più bike che auto. Solo nell’ultimo anno l’uso delle due ruote è cresciuto del 15% mentre quello delle auto diminuito dell’1. Se tutto questo accade in Danimarca, uno dei paesi con il tasso di motorizzazione tra i più alti al mondo, mi domando perché anche qui da noi non si possa perseguire un tale obiettivo.

I motivi per farlo certamente non mancano. Conviviamo, tutti i giorni, con un traffico costantemente paralizzato che avvelena la città (vedi i numerosi sforamenti delle polveri sottili). Tanto che la bici (recenti dati Ipsos) viene usata solo dal 4% della popolazione. Eppure, rispetto a Copenaghen, avremmo la fortuna di avere condizioni assai più favorevoli: la città è più piccola e il clima migliore. Quello che manca sono scelte da parte dell’amministrazione. Detto in poche parole, basterebbe ricucire gli spezzoni di piste ciclabili esistenti, unire le periferie al centro con percorsi protetti e scorrevoli, ridurre i tantissimi permessi di accesso delle auto nella ztl, realizzare una seria rete di parcheggi-bike ordinati e sicuri. Ciò che manca è il coraggio di fare scelte in favore dei cittadini, della loro salute, della vivibilità. E fare della bici il mezzo principale per spostarsi in città, insieme alle tramvie, bus e taxi. E finalmente smettere di dire: vengo in bici? No, a Firenze no. Perché? Perché no.

11 8 APRILE 2017


di Elisa Zuri I desideri accendono la vita o ci distraggono dal vivere il presente? Facciamo le cose per essere noi stessi o per riempire il tempo? A chiederselo è il protagonista dell’ultimo testo di Michele Santeramo, messo in scena da Roberto Bacci nella pièce «Il Nullafacente», che ha aperto la tournée al Teatro Era di Pontedera. Il Nullafacente, nei suoi comodi abiti grigi, capigliatura incolta e flemma esasperante è un uomo che non lavora, che si trascina ai mercati per recuperare la verdura che viene buttata via, che darebbe un bacio alla moglie se solo non dovesse alzarsi per farlo e che non manca di ricordarle che è una malata terminale e morirà come tutti, solo che lei ha la precedenza. La sua scelta di non fare non ha a che fare con una convinzione politica, non è pigrizia, né calcolo economico. Quello che lui cerca è di esistere e di essere libero e invita la moglie a fare altrettanto. Come un bonsai, che sta al vento e alla luce del sole e non si sforza di diventare altro. A che serve? Vivrebbe di più? Sembra che abbiano rinunciato a tutto, anche a curarsi dalla malattia e intorno a loro si agitano le persone che cercano di farli rinsavire: il

12 8 APRILE 2017

Il paradosso del nullafacente Fratello di lei che non è in grado di mantenersi, anche se la sua non è una scelta esistenziale; il Medico di lei, suo vecchio amante, che la invita ad andar via con lui, ma fa un passo indietro appena lei prova a dirgli di sì; il Proprietario di casa, che deve convincerli a curarsi e lavorare, altrimenti chi paga l’affitto? In un girotondo di interessi e bisogni personali è difficile capire da cosa siano realmente mossi i personaggi . Il medico accusa il Nullafacente che non cura la moglie di omicidio e lui risponde «non è omicidio, semmai rilassatezza». Solo che mentre ridiamo del suo apparente cinismo e lo osserviamo parlare col bonsai, ci si è instillato il dubbio. La vita ce l’avete già, ci dice, non serve guadagnarla, non dovreste sprecarla invece. Il bonsai è bonsai, ogni sforzo per diventare qualcos’altro è inutile. E da subito qualcosa che quest’uomo assurdo dice ci riguarda. Se ancora ne siamo rimasti fuori, a tirarci dentro è il Proprietario, che lo provoca: «Noi siamo simili. Abbiamo dei desideri e anche tu cederai, come me, come gli spettatori che comprano il biglietto in prima fila per guardare uno che non fa niente». Ognuno di noi ha un punto debole. Quello del Nullafacente è l’amore per la mo-

glie, ha bisogno di lei. Quello della moglie che ha paura di morire. Lei cede all’invito a curarsi, lui riprende a lavorare e guadagnare per assecondare il desiderio di lei. E in un attimo la nostra società normale appare in scena: iniziano a circolare i soldi che aprono i conflitti; l’aggirarsi premuroso di Fratello, Medico e Proprietario si trasforma in una assenza seduta di spalle; il Nullafacente è sempre stanco dal tanto lavoro, ma può comprare una torta con tante candeline che non rende davvero felice nessuno; la moglie si sente profondamente sola. Normalità e lontananza. Avevamo pensato che si giocasse su un paradosso per capire quanto sia pericoloso e disumano non fare niente o cosa comporti arrendersi di fronte alla malattia. E invece quest’uomo ci parla di felicità. La capacità di stare, ascoltare, di saper esistere. «Ho avuto paura, ho sbagliato» dice lei. «Non ti preoccupare c’è tempo, è tutto quello che abbiamo» le risponde lui, tornandole vicino a tenerle la mano mentre lei muore, distesa sul tavolo accanto al bonsai. «Se hai dieci secondi di vita, che fai? Stai seduto in poltrona a pensare o vai a pagare una bolletta?»


Bizzarria degli

oggetti

Dalla collezione di Rossano

di Cristina Pucci Il 1500 ha per Rossano un fascino irresistibile, dice «c’era Leonardo Da Vinci a quel tempo....» Come rinunciare ad una ulteriore campana se in alto le compare la scritta «Anno Domini MDXXXV» cioè 1535? Leonardo in realtà era morto da qualche anno, ma di sicuro la sua energia ed influenza aleggiavano ancora dalla Francia fin qui da noi, dai cui dintorni era partito. Oltre questa, stravecchia, ha una trentina di campane, due del ‘700, poi dell’800, sei grandi, le altre più piccole...Se qualcuno volesse dare vita ad un Museo lo può contattare! Questa l’ha acquistata da un signore di Fiesole la cui famiglia se la tramandava da generazioni e generazioni, è alta 25 cm ed ha il diametro maggiore di circa 20. Delle campane e di quando sono state inventate, in Cina ovvio, ho già parlato, mi rivolgo alle tante notizie curiose che ci sono intorno a loro. A Cracovia ne esiste una, più o meno coeva della nostra, ottenuta infatti dalla fusione delle armature dei soldati sconfitti nel 1520, così grande e pesante che per farla rintoccare servono 20 uomini. La si usa eccezionalmente. A Firenze tutti conoscono la Martinella, forgiata nel lontano Medio Evo, per secoli ha suonato per annunciare l’inizio di una qualche guerrra, è stata lei però che, dall’alto della Torre di Arnolfo, nell’agosto del ‘44, ha scampanato per far sapere ai Fiorentini che finalmente la città si era Liberata da tutti quegli orribili tedeschi. Non posso non raccontarvi le tristi peripezie della «Piagnona», la campana di stanza nel Campanile del Convento di SanMarco, dove viveva Frà Girolamo Savonarola, chiamata così da quelle linguaccie dei Fiorentni in quanto suonava ogni volta che il Frate si accingeva ad una delle sue prediche che inneggiavano a morigeratezza ed umiltà e tuonavano contro il «chi vuol essere lieto sia, del doman non v’è certezza», futile credo di Lorenzo dei Medici e di molti prelati. Piagnoni erano i seguaci del Frate. Essa suonò a martello il 5 Aprile 1498 nell’estremo tentativo di richiamarli al Convento per difenderlo dai nemici ivi radunatisi, ma, come egli stesso amava ripetere, «i

Per chi suona la campana La campana del Savonarola della La Piagnona

miei fiorentini hanno la fede come cera, che ogni caldo la strugge», fu abbandonato dalla maggior parte di loro e, dopo alcune ore, venne catturato. Imprigionato, torturato e, alla fine di un sommario processo, condannato, fu quindi impiccato e bruciato in Piazza Signoria, insieme ad altri due Frati malca-

pitati. Però non bastava, anche la Piagnona doveva passar le sue...fu quindi tirata giù dal Campanile, messa su un ciuco e fatta sfilare per le vie cittadine mentre il Boia la frustava, e poi, giudicata nemica della Patria e rea di alto tradimento, esiliata per cinquant’anni! Le proteste dei Domenicani ottennero di farla ritornare al suo posto nel 1509. Vi rimase fino al 1908, quando, per proteggerla dalle ferite del tempo e del batacchio, fu messa per sempre a riposo e sostituita da una copia. La si può ammirare nella sala del Capitolo del Museo di San Marco . È molto bella, ha, tutto intorno, in alto, un fregio con puttini di scuola Donatelliana, in uno dei due grandi tondi compare una Vergine con Bambino e Angeli, nell’altro S.Domenico in gloria e parole di preghiera, non manca uno stemma mediceo. Si racconta che, subito dopo il rogo, pie donne con secchi provassero a raccogliere le sacre ceneri, con la scusa di usarle per il bucato...per impedire beatificazioni e reliquie fu disposto che venissero disperse in Arno, e ancora, la mattina successiva un tappeto di fiori ricopriva la zona della esecuzione. Esiste una cerimonia, detta «la fiorita», in cui prima si spargevano fiori sulla lapide che si trova nell’Arengario di piazza Signoria, oggi, dopo un corteo storico con sbandieratori, si gettano fiori in Arno.

Campana del 1535 Collezione Rossano

13 8 APRILE 2017


di Melia Seth Sono uno e sono quattro. Sono Pulcinella: maschera nera e naso adunco. Sono la maschera. Elias Canetti in Massa e potere: «La maschera si distingue per la sua rigidità da tutti gli altri stati finali di metamorfosi. Essa sostituisce a un gioco di espressioni mai quieto, perennemente mobile, l’esatto opposto: una perfetta rigidità e costanza.» Ogni me esita sulla soglia: entra e subito esce. Un me è in piedi: non riesce a stare in piedi. Si sdraia: non riesce ad alzarsi. Qualunque cosa faccia, gli riesce con difficoltà. Gli riesce provando e riprovando. Ogni me esplora una posizione: in ginocchio, in piedi, sdraiato, chino, flesso. Esplora una locomozione: strisciare, camminare, zampettare. Ogni me visita ogni parte del suo corpo, prova come si muove ogni parte del suo corpo e come potrebbe muoversi. Tenta di capire come può muoversi chi non si muove, chi sta imparando a muoversi, chi sta disimparando. All’improvviso cade. Il corpo disarticola se stesso. Assaggia i modi di stare vicino agli altri: toccarsi appena, sorreggersi, incitarsi, raggiungersi, amalgamarsi. Che cosa mi muove verso gli altri: la pietà o il desiderio? La sete di conoscere o l’istinto? Canetti: «L’azione della maschera è principalmente verso l’esterno. La maschera crea una figura; è intangibile, stabilisce una distanza fra sé e l’osservatore. Essa può avvicinarsi maggiormente all’osservatore - forse durante una danza - , ma questi, per parte sua, deve restare là dove si trova.» Io. Io sono uomo-donna, donna-uomo, adolescente asessuato. Sono marionetta. Canetti: «Immediatamente dietro la maschera, comincia il mistero. La maschera manifesta molte cose, ma ancor più ne nasconde. La maschera minaccia con il segreto che si accumula dentro di lei. Nessuno sa cosa potrebbe sbucar fuori dalla maschera.» Sbatto le braccia sul corpo

SCavez zacollo

disegno di Massimo Cavezzali

14 8 APRILE 2017

1, nessuno e 4

Foto Ela Bialkowska OKNOstudiophotography

mentre ruoto il busto. Mi colpisco di qua e di là. Corro, galoppo, giro in tondo. Cado e mi rialzo. Danzo con tutti i me. Sono uomo-animale, donna-animale, animale adolescente. Sono trascinato, arrotolato, lasciato, mosso, portato, cado e vengo raccolto, mi abbandono e vengo sostenuto, sono gettato. Scappo, scalcio, salto. Mi accascio, giaccio fermo con la schiena inarcata e gli occhi al cielo. Mi sollevo. Canetti: «Chi porta la maschera, finché la esibisce, è sempre una creatura duplice: se stesso e la maschera. Il segreto che egli rappresenta per chi lo vede dall’esterno, deve agire anche su di lui che si trova all’interno e, come si può immaginare, non agisce al medesimo modo. Essi, all’esterno, temono ciò che non conoscono - egli, all’interno, teme d’essere smascherato.» Tolgo la maschera. Sono uno e sono quattro. Sono Pulcinella. Non sono che nessuno. Quando tolgo la maschera si vede che sotto non c’è faccia. C’è dipinto di nero. Un’altra maschera. Canetti: «E’ vero che dietro questa maschera può essercene un’altra. Qualunque cosa possa esservi in mezzo viene rimossa; non c’è nessun passaggio intermedio che esprima la transizione sul volto dell’uomo. Il nuovo, l’altra maschera, appare d’improvviso. E’ chiara e rigida esattamente quanto la prima.» In quel punto mi smarrisco. Persone sedute mi guardano fisso. A mia volta io le guardo.


di Danilo Cecchi Lo stand della galleria «Il Ponte» di Firenze, presente alla fiera milanese Miart dal 30 marzo al 2 aprile, ha dedicato il proprio spazio ad una selezione di opere fotografiche dell’artista romano Luca Maria Patella realizzate fra il 1965 ed il 1985. Come è noto Luca Patella è un artista (operatore estetico) concettuale e multimediale, uno fra i primi in Italia ad utilizzare, singolarmente o in combinazione fra di essi, una molteplicità di strumenti diversi, fra cui la fotografia, ma anche la grafica, il cinema, i video, la parola, il corpo e le performances, approfondendo il tema del rapporto fra le tecniche psicoanalitiche, le discipline scientifiche e le discipline artistiche, spaziando fra diverse «correnti» artistiche ma rimanendo una personalità singolare, non esattamente etichettabile, non incasellabile e non catalogabile. «Patella rassemble à Patella». In campo fotografico Luca Patella utilizza la fotocamera ed i materiali sensibili in maniera estremamente libera e disinvolta, suggerendo simbologie e significati ambigui, realizzando provocazioni e ponendo domande. Italo Zannier nella prima edizione della sua «Storia della Fotografia Italiana» (Einaudi 1986) scrive di Luca Patella che egli «utilizza la fotografia per ricerche di semiologie analitiche e interdisciplinari, cercando gli emblemi della sua filosofia negli oggetti reali, esasperati con un intervento ottico-fotografico che accende l’immagine di una spettacolare e magica ironia». Zannier sceglie addirittura di utilizzare (simbolicamente) una delle immagini di Luca Patella per illustrare la copertina (o sovracopertina) del libro, come se nell’opera fotografica di Luca Patella si potesse leggere all’epoca una sorta di «punto di arrivo» della intera «Storia» della fotografia in Italia. Le opere presentate al Miart rappresentano una sintesi di queste «ricerche» che spaziano dall’uso delle focali estreme (obiettivi macro e fish-eye) all’inserimento nelle immagini di oggetti fuori contesto o di brevi scritte, giocando anche sui riflessi e sulle doppie esposizioni, sul mosso esasperato, sul fuori fuoco dei primissimi piani o sull’uso dell’infrarosso. In breve, si esplora tutta la gamma delle possibilità «linguistiche» offerte dalla tecnologia e dai materiali dell’epoca, trasformando ogni scelta «tecnicistica» in un diverso approccio al problema del rapporto fra il reale e la sua raffigurazione ottica e/o mentale. Come ogni buon artista concettuale, Luca Patella riveste ogni immagine fotografica di signifi-

Patella al Miart

cati contrastanti, offrendo chiavi di lettura multiple, invitando l’osservatore a scegliere fra proposizioni opposte, secondo una logica che vede la tensione fra coppie di termini contrari. Come ad esempio le coppie nitido/sfuocato - grande/piccolo - rilevante/ irrilevante - vuoto/pieno - vicino/lontano luce/ombra - natura/artificio - fermo/mosso, fino alla sintesi finale vero/falso, in cui si manifesta forse la «magica ironia» a suo tempo raccolta e sottolineata da Italo Zannier.

15 8 APRILE 2017


di Susanna Cressati La voce di Pino Daniele rimbomba nel cortile di Palazzo Strozzi, mentre la gente fa la fila per la mostra di Bill Viola. Un documentario? Forse. Ma poi la voce di Pino Daniele comincia a parlare «di» Pino Daniele e l’effetto si sfa straniante. In realtà chi parla dal grande schermo montato sotto le arcate è Maurizio De Giovanni, la cui voce assomiglia in modo stupefacente, per timbro e cadenza, a quella del musicista scomparso. Un elemento di simpatia in più, per questo scrittore partenopeo dal fare gentile e modesto, nonostante il crescente successo (anche televisivo) dei suoi libri. Stavolta però ai ragazzi riuniti in sala Ferri dal progetto «Scrittori raccontano scrittori» del Gabinetto Vieusseux, non parla dei fantasmi che tormentano le indagini del commissario Ricciardi né dello sgangherato gruppo di sbirri che si arrabatta a Pizzofalcone. Ma di De Filippo. Il grande, amatissimo Eduardo, di cui, dice, ha letto le carte conservate a Firenze con intensa emozione. Genio Pino Daniele, perchè capace di interpretare il cambiamento di un suono. Genio Eduardo, perchè capace di interpretare il cambiamento di una città, di un mondo, di un’epoca. Il tutto a partire da una battuta teatrale: «Perdonatemi signo’, mi sono sbagliato». E’ il 15 marzo del 1945 quando il pubblico del Teatro San Carlo di Napoli ascolta per la prima volta queste parole. Dopo 200 raid aerei, di cui 181 soltanto nel 1943, la città è costellata di palazzi diroccati dai bombardamenti. I morti (si stima che le vittime furono almeno 25.000) sono ancora a terra, dice De Giovanni. In questa situazione Eduardo torna nella sua città, la contempla dal balcone di casa, scrive d’un fiato, a tempo di record, la prima opera del neorealismo italiano, la prima commedia che non prevede una parte comica (lui e il fratello Peppino si sono separati) e che va subito in scena: «Napoli milionaria». La battuta la dice il personaggio principale, Gennaro Jovine, che è appena tornato dalla guerra, esausto, smagrito, con i vestiti bisunti di un soldato morto addosso, un pacco di effetti personali legato con lo spago al collo. E’ scomparso da casa dopo un ratrellamento e per mesi la famiglia (moglie e tre figli) ha condotto una vita sempre più rapace e disordinata: la madre si è arricchita con una implacabile gestione del mercato nero e dell’usura, la figlia è stata messa incinta da un soldato americano che poi se l’è filata, il figlio ruba. La figlia più piccola è gravemente ammalata. Gennaro Jovine, prima della scomparsa for-

16 8 APRILE 2017

Eduardo e Pino, argonauti a Napoli zata, aveva provato a tenere insieme la famiglia, pur nelle difficoltà e nell’angoscia della guerra. Ma la sua onestà, il suo frequente parlare di «disegni di legge» (riforme, si direbbe ora) per liberare la povera gente dalle ristrettezze, erano considerati da famiglia e vicinato delle fesserie. La battuta la dice quando, messo piede di nuovo a casa, nel «basso» che in sua assenza si è trasformato dalla topaia sgarrupata che era prima in una topaia sfarzosa e pretenziosa, non riconosce il luogo, l’ambiente, non riconosce la moglie, vestita di seta e ingioiellata, e a bassa voce si scusa: «Perdonatemi signo’, mi sono sbagliato». Sintesi fulminea, dice De Giovanni, del cambiamento epocale di una città e di un mondo, come se un fisico fosse riuscito a condensare in poche parole il racconto del «big bang». Quando Gennaro tenta di raccontare, ai parenti e al vicinato riunito nel basso per festeggiarlo, che cosa gli è accaduto suscita fastidio, nessuno lo ascolta. Sconcertato, si chiede come mai quando era tornato dalla prima guerra, tutti lo invitavano a parlare delle sue disavventure (tre giorni in trincea con accanto un morto, era stato) mentre ora quando cerca di raccontare tutti lo sfuggono, tutti cambiano discorso. E’ il mondo che è cambiato. Prima della guerra Napoli era una comunità. Dopo la guerra Napoli diventa l’esatto contrario, diventa il singolo individuo, il «topo» che si è salvato, che si salva da solo. Gennaro non potrà più tornare a casa, come dopo la grande guerra, non sarà mai più cittadino del suo mondo, della sua città, ma uno straniero che non ha più casa a cui tornare.

Alla moglie Amalia che lo esorta a calmarsi, perchè ormai è finito tutto, Gennaro non nasconde la sua inquietta lucidità: «No! Vuie ve sbagliate... ‘A guerra nun è fernuta... E nun è fernuto niente!». Uomo retto e intelligente, accetta di prendere su di sè un difficile destino, quello di essere un argonauta, un viaggiatore tra mondi diversi. «Napoli milionaria – dice De Giovanni - è una violenta invettiva». Rituccia, la figlia piccola di Gennaro che sta morendo, è la città, è Napoli prostrata dalla guerra, in preda alla nuova febbre dell’arricchimento individualistico. La medicina? Un rinnovato senso di comunità, di solidarietà, quello che spinge il ragionier Riccardo Spasiano, che Amalia aveva ridotto sul lastrico senza pietà, a portarle, senza chiedere nulla in cambio, la medicina per la bimba, il farmaco introvabile a Napoli (Questo episodio mi riporta in qualche modo alla mente il film «Il terzo uomo», il cui protagonista Harry Lime, interpretato da Orson Welles, in una Vienna del ‘46 ancora divisa in zone di occupazione, campa facendo il contrabbandiere di penicillina adulterata). Un bel messaggio, no? Eppure, chiosa De Giovanni, ci fu chi non capì o non volle capire. La celeberrima battuta finale «Ha da passa’ ‘a nuttata» fu interpretata, dai compagni comunisti di un Eduardo fieramente comunista, come troppo pessimista: ci leggiamo rassegnazione – dicono – ma la notte è già passata, l’alba siamo noi, noi siamo il cambiamento. Eduardo pensava invece che la notte fosse appena cominciata e (al gelo del suo lavoro teatrale) si preparava a vegliare.


di Claudio Cosma Ci sono delle forme costruite intorno alle cose o per contenere qualcosa ed altre che sono un puro perimetro che si condensa intorno all’idea astratta del volume. Angelo Barone costruisce forme per contenere lo spazio, forse prescindendo dal fatto che i volumi così ottenuti potessero essere abitati. Come tutti gli artisti che sognano le mostre deserte, non frequentate o contaminate da nessuno, intendendo così, la possibilità di vivere staccati dalle contingenze, Angelo Barone non fa eccezione, ma va addirittura oltre e le sculture che realizza sono pervase da un senso struggente di solitudine, che tuttavia non si avverte immediatamente, ma confermano questa teoria di inabitabilità dove aleggia il silenzio supremo dell’assenza. Un mondo diviso a compartimenti dove certe parti della vita si possono svolgere in comune ed in altri non sono tollerate presenze umane. Le sue sculture sono abitate da un pensiero sempre teso a creare una architettura ideale che si presti a mettere al proprio posto tutto quello che esiste di fabbricato in natura e dall’essere umano che di questa fa parte. La strada che percorre inizia con l’ideazione di forme organiche, piegate o meglio curvate come nei sofisticati nidi di alcuni uccelli appartenenti alla specie dei ploceidi, il cui nome deriva dal greco e significa tessitori. Queste opere assecondano la materia con la quale sono costruiti e celano con sapienza le inevitabili parti artificiali che ne fanno parte. L’opera che descrivo si intitola «Città aromatica» ed è fatta di paglia, segatura, rami, pigmenti di colore su tela preparata. Questa tela si avvolge come le fette di pane a cassetta di un toast su di un’anima di rete metallica da pollaio che ne assicura la consistenza, la colla di coniglio fissa le parti sia interne che esterne dove le componenti cromatiche ne costituiscono il particolare intonaco. L’intonaco è la parte esterna del lavoro e lo ricopre difendendolo con la sua superficie ruvida e scabrosa che non invita al tatto né

Città aromatica

alla vicinanza. Questo grande cono, la scultura raggiunge quasi i tre metri di altezza, è completato da una filiazione di materiale plastico adagiata su di un letto di rami e rametti immersi in una soluzione di blu cobalto che ne costituisce il collegamento al suolo. Una presenza a metà naturale e metà aliena, fatta in un tempo imprecisato (il c’era una volta delle fiabe) da colonie di insetti evoluti che adesso sembrano averla abbandonata, intatta come le città delle civiltà precolombiane nelle foreste del Sud America. Si è pervasi dall’idea che i costruttori del grande nido lo pensassero come un tempio e che si trovasse originariamente nel profondo di un bosco sacro, appartenente ad un centenario tronco d’albero e le cui slabbrature blu che ne costituiscono gli ingressi, servissero per far entrare le file di insetti, bombi, coleotteri o termiti che fossero, che nella parte più alta e segreta del nido depositassero in cunicoli e gallerie invisibili, ma che immaginiamo ordinati e perfetti, un miele segreto riservato alla classe regnante. Il vederla nello spazio immacolato di una galleria, dove adesso si trova, ne aumenta il fascino e contribuisce a infondere nella scultura fatta dal nostro scultore tessitore, una malia particolare che sempre fa parte degli oggetti tolti da dove ci aspetteremmo che fossero e loro stessi suggeriscono di essere stati e trasportati in un museo dove godono la particolare extraterritorialità dell’ospite. Un rappresentazione in bilico tra architettura e organismo naturale, la volontà di voler creare un esperimento dove si incontrino specie diverse in attitudini sociali momentanee come nelle le chiese cattoliche che si riempiono e si svuotano secondo gli orari dei riti o come nei cinematografi frequentati solo durante le ore di spettacolo o come, appunto, nella Città aromatica, costruzione esemplare ed emblematica della quale non si sono mai conosciuti, ma solo ipotizzati, gli usi ai quali Angelo Barone l’ha destinata costruendola e alla quale io riconosco uno stato d’eccezione come si confà all’anarchismo sotteso al mondo dell’arte.

17 8 APRILE 2017


Il bilancio sociale dei senza profitto di Roberto Giacinti È tempo di Bilanci. Il documento di sintesi della gestione di una impresa non è più in grado di soddisfare le esigenze informative richieste dai portatori di interessi, tanto meno l’armonizzazione dei documenti, voluta dalle direttive europee ed ora in formato XBRL, ha contribuito significativamente a migliorare il contenuto informativo, ma solo a semplificare il confronto nel tempo e nello spazio dei documenti in tutto il territorio europeo. La necessità di informazione è maggiormente sentita nel Terzo Settore dove gli aspetti di natura economica non rappresentano il fine da raggiungere, come nell’impresa for profit, ma il contenuto sociale degli stessi; infatti la rendicontazione sociale di un ente no-profit serve a dimostrare il raggiungimento dell’interesse generale della comunità e la destinazione al fabbisogno dei soggetti meritevoli di aiuto previsti dalle norme statutarie. Il bilancio sociale è uno strumento facoltativo per gran parte delle organizzazioni no-profit (ad eccezione di imprese sociali e fondazioni bancarie), ma la sua funzione di utilità e di trasparenza va ben oltre la mera scelta di avvalersene; infatti, l’adozione di tale strumento, consente di avviare un serio processo di comunicazione. Benché lontano dall’utilizzo diffuso dello strumento, il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa e sulla sostenibilità della crescita mette a segno continui progressi e dal 1° gennaio 2017 (ossia nei bilanci che saranno presentati nel 2018) le aziende di interesse pubblico, e comunque di grandi dimensioni, dovranno rendere pubbliche, oltre alle informazioni finanziarie, anche quelle relative ad ambiente, politiche sociali, diritti umani, politiche di genere e anti-corruzione, in attuazione della direttiva UE 95/2014, che il nostro Paese ha recepito con D. Lgs. 30 dicembre 2016, n. 254. L’Agenzia per le Onlus pubblicò una guida volta ad uniformare le attività volte alla predisposizione dell’anzidetto documento sottolineando come i numeri contabili coinvolgano «tutte le componenti dell’organizzazione»; infatti il bilancio sociale si caratterizza per l’uso diffuso degli indicatori di performance generali e setto-

18 8 APRILE 2017

riali che non deve enfatizzare solo gli aspetti più virtuosi dell’attività: l’autoreferenzialità sarebbe in grado di vanificare gli effetti positivi della trasparenza informativa. L’adozione diffusa della rendicontazione sociale dovrebbe avviare il progressivo abbandono del concetto di «no-profit» a favore del «non-profit», che ben oltre l’aspetto semantico, introduce la possibilità di vivere all’interno del Terzo Settore anche alle imprese che vorranno destinare parte dei propri utili a finalità sociali, inserita anche nella legge sulla società benefit, che stenta a decollare. D’altronde già oggi il legislatore consente che l’ente tragga il maggior beneficio possibile dai proventi che è in grado di conseguire anche attraverso attività commerciali utilizzando le agevolazioni fiscali regolate Capo III, Titolo II, del TUIR. La riforma del Terzo Settore, quando sarà a regime, affiderà al bilancio sociale anche la meritevolezza per accedere o mantenere il ricorso ad aiuti ed agevolazioni pubbliche.

Spiriti di

materia

di Abner Rossi

Abner Rossi nasce a Firenze il 24 novembre del 1946. Autore e regista teatrale da circa quarant’anni ha al suo attivo diverse sceneggiature cinematografiche, opere teatrali e monologhi adottati da molte scuole di teatro come testi di studio e di esame nonché per le audizioni. Ha pubblicato tre libri di poesie e non ha mai partecipato, per scelta, a concorsi poetici. Ha scritto, collaborato e poi diretto G. Albertazzi, Omero Antonutti. Come dirigente dell’Arci di Firenze ha partecipato alla grande stagione della nascita della comicità toscana. Recentemente alcune sue poesie sono state pubblicate sulla Enciclopedia della Fondazione Mario Luzi,

Homo Occidentalis Chiamiamo sogni le illusioni, le illusioni speranze, le speranze ipotesi certe. Ogni attimo che si fa giorno il sipario si serra, il servo di scena chiude a doppia mandata la commedia in corso. Nell’ancòra del dopo intanto il tempo macina pietra, la fa sabbia, polvere volatile ed infine cipria e belletti. Dal pulviscolo di vecchie ossa, cenere di carte scritte ieri ricche di parole – storia, probabilmente anche magiche, che, oggi, incomprensibili sono meno di niente. Ai nostri eredi possiamo solo offrire comparsate.


di Sara Nocentini Sabato scorso ha preso le mosse dai locali della ex dogana di rifredi, ristrutturata e adibita a coworking e spazio culturale urbano, Lessico geneazionale,un ambizioso e variegato progetto curato da Stefano De Martin, che attraverso luoghi, saperi e linguaggi diversi ci introduce ad una riflessione su quale sia oggi il senso delle politiche giovanili, di un rapporto adulti giovani generatore di spazi di espressione e di crescita. In prima battuta Lessico generazionale. Adulti che si occupano di giovani si presenta come un libro edito da edizioniPiagge, il cui ricavato andrà a sostenere interventi concreti contro la dispersione scolastica nella periferia di Firenze in cui operano Alessandro Santoro e la sua comunità. Ad uno sguardo più attento, il progetto va molto oltre il libro e diviene un cammino nel tempo e nello spazio alla ricerca di buone domande e risposte efficaci affinché le potenzialità di una generazine capace e vitale non rimangano imbrigliate all’interno di percorsi burocratici e interventi di breve periodo e di corto respiro che disperdono le sempre più esigue risorse destinate all’istruzione e alla cultura. Il volume nasce dall’esigenza dichiarata dal curatore di leggere, in una prospettiva diacronica «corsi e ricorsi del fragile approccio pubblico alle problematiche giovanili in Italia». «Non ho inteso – rivela De Martin – fare la storia di questi decenni bensì raccogliere e rilanciare sull’oggi concetti elaborati in tempi diversi, ancora utili e da dischiudere compiutamente». Il percorso ha preso avvio dalla condivisione di alcune letture, che hanno ispirato la discussione tra uomini e donne di età diverse accomunati dall’essere interessati per motivi professionali o sociali a comprendere le dinamiche e le caratteristiche dei giovani di oggi. L’elenco di questi volumi è inserito in un’appendice bibliografica volta a riproporre il confronto iniziato, chiamando lo stesso lettore a confrontarsi con ricerche, analisi e teorie che interrogano non solo le scienze sociali, ma il significato stesso del concetto di cittadinanza. Mentre Stefano De Martin descrive le sezioni del libro, scorrono sullo sfondo immagini, citazioni e interviste disponibili sulla pagina Facebook del progetto. Le sezioni sono tre: Smart land che «raccoglie un excursus ampio e diversificato sulle politiche locali, un viaggio non scontato sulle tracce di innovazione economica e sociale nelle nostre città»; Accompagnare, che si sofferma sul mondo della scuola e sull’importanza dell’educazione non formale; Camminare, che racconta esperienze di comu-

Metti una sera al BUH! Lessico generazionale

nità e buone pratiche sociali. La presentazione del volume si chiude con un’intervista ad Alessandro Santoro, prete delle Piagge che in poche battute richiama alla necessità di pensare ai giovani come soggetti di una comunità e alle politche giovanili non come un capitolo a se stante dell’intervento pubblico, ma come progetto di cittadinanza che coinvolga attivamente uomini e donne di tutte le età. La serata si sposta nello spazio ristoro dove il BUH! ci riserva un menu toscano e vegetariano eccellente, in attesa del concerto della Nuova Pippolese. Sul palco giovani e meno di Puccio Duni La prima osservazione da fare sulla lampada di Sandro Baldi attiene all’immediatezza della consonanza tra osservatore ed oggetto. In effetti appena la guardi ne comprendi la purezza del segno e la gradevolezza del gesto. Ti viene fatto subito di addentrarti nella percezione dei molteplici piani tattili attuati dall’Art designer per guidare lo sguardo e la mano nella percezione oculo sensoriale di quanto ti trovi davanti. Se non si può parlare di design tout court è perché ogni pezzo della lampada parte da una logica irripetibile e questa non ripetibilità ne fa sì un oggetto di culto, ma toglie una caratteristica base del good design per cui l’oggetto deve essere ripetibile e seriabile. Ma l’immagine è senz’altro ripetibile con la sua naiveté intrigante che non stona neanche con la tecnicità della fonte luminosa rigorosamente led. Anche la scelta dell’essenza appartiene al percorso progettuale perché ognuno dei tre pezzi che compongono la lampada deve seguire il corso del disegno donandosi alla fresa che segue una traccia non sempre

giovani che prima di iniziare a suonare si siedono per lasciare che il pubblico possa godersi il video che precede il concerto: un insieme di interviste a cura di Lorenzo Ugolini e Frank Cusumano agli anziani del circolo di Serpiolle, che raccontano la loro gioventù, la loro Pippolese. Sullo sfondo una targa Società di Mutuo Soccorso 1904-2004 Corale fra gli operai di Serpiolle. Inizia la musica, accompagnata dal buon sapore di cibo, parole e storie che ci appartengono e che fanno apparire la costruzione di quel lessico generazionale un normale, piacevole e possibile cammino.

Le lampade di Sandro Baldi a Quadro 0,96

logica ma suggestiva. Siamo quindi di fronte ad un oggetto irripetibile che cattura l’attenzione, ti mette a tuo agio e ti concilia con quello che stai facendo ossia niente è più bello che leggere un buon libro ed alzare ogni tanto lo sguardo per carezzare il legno della lampada di Sandro moderno Geppetto della Luce.

19 8 APRILE 2017


di Barbara Palla La sala del Cinema La Compagnia è gremita per la serata di apertura del Middle East Now, la rassegna cinematografica dedicata al Medio Oriente arrivata ormai alla sua ottava edizione. Il format è sempre lo stesso: un programma intenso di cortometraggi, documentari e film, esibizioni, installazioni, ma anche molti incontri con esperti, giornalisti e artisti per affrontare la complessità di una zona in continuo cambiamento. Il tema scelto quest’anno è il Urban Middle East, il contesto urbano delle grandi e storiche città mediorientali e le loro trasformazioni. Per la serata di apertura, però, questo tema è declinato in un modo particolare: invece che alla costruzione si assiste, in prima persona, alla distruzione di Aleppo. Last Men in Aleppo di Firas Fayyad è una preziosa testimonianza della vita quotidiana degli operatori delle Forze Civili di Difesa, note al mondo come White Helmets (Caschi Bianchi). Un corpo di soccorso, composto da civili, la cui missione è recuperare le vittime intrappolate sotto le macerie dei palazzi bombardati. La storia gira intorno a due personaggi, Khaled, un ex muratore, e Mahmoud, ex studente di filosofia. Khaled affronta con coraggio la doppia vita di padre di famiglia e di soccorritore. Per tutto il film si intravede il rapporto con i figli, la preoccupazione per la loro salute in una città in cui non mancano solo i medici, ma anche le medicine, le amicizie costrette a cambiare e il dubbio. In Khaled si intuiscono il contrasto e la tensione tra il voler rimanere per salvare una città e il voler mettere al sicuro la propria famiglia, magari in Turchia, magari nel Kurdistan siriano, due zone però in cui la sicurezza è solo relativa. In una sola occasione lo si vede cedere, durante una manifestazione per le strade di Aleppo, mentre si avvicina a un amico per chiedergli di organizzare un viaggio verso il confine turco. Khaled però rinuncia subito, forse per la pericolosità, forse per una sorta di sentimento di tradimento nei confronti dei suoi compagni e della sua città. Il dubbio però ricorre in tutto il film: prima o poi, la maggioranza dei personaggi si confronta con la possibilità di lasciare (scappare da) Aleppo. Per Mahmoud invece questa non è un’opzione. La sua famiglia vive in Turchia, i genitori pensano che stia lavorando da qualche parte nel Paese, ma lui invece è tornato ad Aleppo insieme al fratello minore per lavorare con i Caschi Bianchi. Mahmoud è costantemente preoccupato per il fratello, per la possibilità che possa morire durante un’operazione di soc-

20 8 APRILE 2017

Gli ultimi uomini a Aleppo

corso, e, quindi, per la paura di dover dare la notizia alla madre malata. Entrambe le storie mettono in luce una doppia realtà: quella della guerra e quella della vita quotidiana. Un giorno Mahmoud deve andare via prima dal lavoro per assistere al matrimonio di un suo amico; Khaled e i suoi amici organizzano una sorta di parco divertimenti per i bambini del quartiere. Ma la felicità non può che durare un breve attimo: i raggruppamenti di persone sono obbiettivi facili per gli aerei e i droni in ricognizione. Lo spettatore vive insieme ai personaggi quella costante insicurezza, non ci si può rilassare ed è necessario dare prova di coraggio insieme a quei soccorritori che combattono il proprio istinto di sopravvivenza mentre corrono verso una recente esplosione. È però molto difficile non reagire quando dalle macerie escono corpi esanimi, mostrati in tutta la loro realtà con i rumori, le urla, la disperazione. Il ritrovamento di una persona viva, invece, è silenzioso e l’azione subito frenetica per assicurargli la sopravvivenza. Last Men in Aleppo è il risultato di più di due anni vissuti in prima linea. Le riprese sono iniziate nel 2013, dopo il coinvolgimento ufficiale dell’aviazione russa, il momento in cui

lo scenario politico nazionale e internazionale è cambiato, così come la vita quotidiana di Aleppo. Quando Fayyad non poteva essere in Siria, le riprese sono state garantite dall’aiuto di un direttore della fotografia, Mojahed Abo Aljoud, e da due cinematographers Fadi al-Halabi e Thaer Mohammed, mossi dalla volontà di raccontare la Siria che i giornali e i media internazionali non sono capaci di mostrare. Il film, però, è soprattutto il risultato di un lungo lavoro di convincimento. Durante la presentazione a La Compagnia, Fayyad racconta di essersi confrontato con la diffidenza delle persone, con il timore dei soccorritori di essere intralciati nel proprio lavoro o di essere messi in pericolo inutilmente, ma anche con il disagio dell’essere ripresi, nell’essere messi in mostra in modo ingiusto. Mahmoud, per esempio, dopo aver dato un primo consenso, si è reso irraggiungibile per mesi. Gli altri sono stati convinti in modo progressivo, con una costante negoziazione: alla spiegazione del motivo e delle modalità di ripresa si aggiungeva l’approvazione di ciò che era stato ripreso. Nonostante il suo passato attivismo (Fayyad è stato imprigionato due volte nel 2011, prima per aver ripreso le manifestazioni anti-governative di Damasco, poi di nuovo per sette mesi, durante i quali è stato a più riprese torturato dalla polizia segreta, per aver portato avanti un progetto su un poeta siriano in esilio con un tono molto critico nei confronti di al-Assad), con Last Men in Aleppo Fayyad non ha realizzato un film politico, ma piuttosto una storia di umanità, di ingiustizia, di cruda realtà. Un film scomodo, a tratti molto duro, la cui visione però è consigliata a tutti coloro che vogliono capire la realtà e, soprattutto, a coloro che, in teoria, sarebbero in grado di poterla cambiare, quella realtà.


La biblioteca dell’Istituto Tecnico Industriale «Leonardo da Vinci» di Firenze, durante tutti i cinque anni che ho frequentato quella scuola dal 1976 al 1981, era un’isola di speranza per noi studenti, dove potevi trovare non solo i libri delle materie tecniche (spesso troppo costosi per essere acquistati), ma soprattutto di materie umanistiche, sociologiche, politiche, romanzi, addirittura poesia, che secondo alcuni guardiani dell’ortodossia tecnica anche fra i professori non dovevano avere diritto di cittadinanza in quella scuola. Abbiamo trovato titoli e autori altrimenti per noi inaccessibili o ignoti nell’era pre-Internet e nella periferia della città dove passavamo in quella scuola gran parte della nostra giornata. Poi la biblioteca si è aperta anche alla cittadinanza del quartiere e non solo a allievi e professori dell’istituto e questo ha reso la scuola meno impermeabile al territorio e alla vita esterna. E’ entrata a far parte della rete delle biblioteche e degli archivi della città e della provincia, entrando così a far parte di una grande biblioteca civica di milioni di titoli. Ora, risulta intenzione dell’Amministrazione cittadina di riportare la biblioteca al solo servizio interno alla scuola, per esigenze economiche. Dal quartiere insorgono le prime preoccupazioni e contrarietà. Pubblichiamo volentieri un appello al Comune di Firenze perché ci ripensi.

Appello sulla biblioteca dell’I.T.I buon livello scolastico offerto da questo importante istituto che continua a fare la storia del nostro popolo, chiediamo: che sia garantito l’apertura al pubblico, non retrocedendo questa biblioteca a mero servizio scolastico che sia garantito a cittadini e studenti

l’accesso alla biblioteca con orari almeno pari a quelli odierni (che sono già limitati) anche per tutti gli anni a venire. Firenze, lì 31 marzo 2017 SMS Rifredi - SMS Peretola - Circolo Le Panche - Casa del Popolo Castello

Appello sulla biblioteca dell’I.T.I. Leonardo da Vinci Apprendiamo dell’ipotesi che il Comune di Firenze, per risparmiare costi, potrebbe non garantire le dipendenti bibliotecarie e di fatto chiudere l’accesso alla biblioteca dell’ITI. Questa biblioteca, aperta da anni a tutta la cittadinanza e inserita sul circuito Sdiaf (oltre che ovviamente essere scolastica) è dotata di un ingente patrimonio librario. E’ consultata da istituti di tutta Italia. L’importanza dell’ITI con i suoi oltre 1.800 iscritti , corpo docente e vive ramificazioni col tessuto produttivo è una parte fondamentale di Firenze contemporanea. Una storia di successo che ha oltre 150 anni. La biblioteca viene alimentata regolarmente da acquisti, grazie agli accordi che ne stabilirono il passaggio di proprietà dal Comune al patrimonio dello Stato, e funge da prezioso strumento di aggiornamento professionale anche per i già diplomati. Quali associazioni interessate alla cultura e formazione professionale, nonché allo sviluppo economico di Firenze e alla salvaguardia del

21 8 APRILE 2017


di Paolo Marini Ci torno spesso a camminare, a respirare, a diffondere lo sguardo e puntualmente misuro la distanza con quel tempo, non troppo lontano, in cui tutto, qui, era abbandono. Oggi no. Nel Chianti non si spreca un centimetro. Quelle che furono stalle, porcilaie, depositi per attrezzi, sono state convertite in abitazioni/camere complete di tutti i comfort. I ruderi dei poderi sono divenuti casolari finemente ristrutturati, residence o relais; per non parlare di ville padronali e castelli. Aie e cortili si sono trasformati in spazi dedicati al relax, adornati con piante da giardino e alberature che donano ombra. A poca distanza, non si fanno mancare annessi destinati al fitness, piscine, prati rasati come campi da golf. Si, qualche volta si vedono ancora panni stesi all’aperto ma non si sente l’odore del bucato. Gli orti paiono nascondersi come clandestini, il paesaggio è soverchiato da olivete e soprattutto da impeccabili (nella loro regolarità) vigneti, ora anche di più da quando gli orridi pali in cemento armato sono stati soppiantati da quelli in legno, ambientalmente compatibili. Naturalmente ci sono anche i boschi, con una importante precisazione: in passato zone abitate e campi coltivati ne erano, in certo senso, delimitati. Oggi son essi ad essere circondati: strisce, fazzoletti o, al più, tovaglie di terra ‘selvatiche’. Senonché il selvatico rintuzzato, circoscritto – tipo riserva indiana - è una modalità con cui è vieppiù confermata la fine della sua signorìa. Eppoi, eppoi. Provate ad annusare l’aria. Non capita più di sentire il profumo della terra, di stallatici e di bottini. Semmai arbusti di rosmarino, glicini e rose, viti e mosti, secondo le stagioni, provvedono ad allertare gli olfatti. Osservate gli animali: per lo più da cortile, galline, conigli, talora anche oche. Da questi si passa direttamente ai cavalli, che non servono per il lavoro, non tirano carri, bensì conducono eleganti ippo-turisti in percorsi che si snodano lungo amene strade bianche. Se cercate le emozioni forti, potrà al massimo capitarvi di osservare una famiglia di cinghiali che all’improvviso attraversa, giusto davanti a voi, la strada ch’è rimasta per poco senza transiti d’auto. E sulla soglia degli abitati non ascolterete muggiti o ragli, quanto piuttosto latrati e, a debita distanza, grugniti rigorosamente ‘doc’ (da suini di rinomata cinta senese in recinti offerti alla vista dei turisti). Tendete l’orecchio, ascoltate gli idiomi: genovese, emiliano, lombardo, eppoi tedesco, inglese, francese e non solo. Dove sono finite

22 8 APRILE 2017

Oh mio Chianti, così addomesticato

le ‘boci’ che squarciavano il silenzio dei campi e segnalavano intere famiglie al travaglio, magari con l’ausilio di trattori? Quali echi risuonano mai lungo le valli, senza quelle presenze? Per udire la dolce parlata che si usava nelle nostre campagne, tenetevi lontani da agriturismi e resort, più facile è incontrarla se rientrate nei paesi e scegliete gli esercizi che non sono ‘antichi’ per marketing ma stantii fin nel retrobottega! Avete fame? Non troverete un alimentari neppure se lo pagate a peso d’oro. Ci sono miriadi di osterie, punti di ristoro, veri e propri luoghi di degustazione dove per prima cosa berrete; non il vino del posto, non nei vecchi bicchieri, opachi d’usura, che si stringevano nel pugno; vi toccherà il rosso nettare - versato da una prestigiosa bottiglia, appena stappata per voi - in calici che dovrete sollevare per lo stelo, con calma studiata, simulando un sapere che non avete (non essendovi iscritti ad un corso per improvvisati sommeliers). Se c’è ancora un segno del tempo che fu, è nei tabernacoli che si incontrano sulla via -

ai crocicchi, in prossimità dei borghi -, quasi mai dimenticati nell’incuria; forse perché, dietro a tanto splendore, questa terra non ha perso del tutto il bisogno di fare i conti con ciò ch’è oltre la superficie delle cose. Il Chianti, comunque, non è più un’area geografica, un insieme di zone/comunità con storie, rivalità, fobie, feste, dizioni peculiari; è un tappeto omogeneo, è la dittatura della vite e del vino – anzi, l’ideologia di una diffusa ‘città del vino’ - che ha plasmato un intero territorio, lo ha intestato alla ‘monocultura’, vocandolo ad un turismo d’elite, ad una immagine ‘glamour’ e a ciò subordinando ogni residua istanza. Il Chianti è stato massicciamente addomesticato, nel senso etimologico (ad/domesticus) di essere condotto (a ciò che appartiene) alla casa: un grande giardino, una maliziosa, ricercata divagazione dalla città. Continuo a vagheggiarlo, ad amarlo, anche se il sentimento è messo a dura prova. Ove tutto pare svoltato in tendenza, patina, caricatura, brand, look, potrei scoprire addomesticata e vinta, un giorno, la mia antica passione.


di Susanna Cressati L’immagine forse più icastica è quella che il critico e saggista Alfonso Berardinelli offre al pubblico raccolto in sala Ferri dal Gabinetto Vieusseux per un convegno su Giacomo Debenedetti. Avventuratosi a cercare una definizione della situazione culturale del tempo presente, non trova aggettivi e solo dopo qualche secondo, spalancando le braccia e scuotendo la testa, sussurra sconfortato: «Desolante». Tanto è vero, argomenta, che ormai chi sia Giacomo Debenedetti non lo sanno più nemmeno i responsabili culturali dei giornali. Non pervenuto. Ignorato. Come Batistuta negli spogliatoi dell’Argentina. Non si parla più di questo uomo geniale e coltissimo, morto cinquant’anni fa, il solo, disse Gianfranco Contini, «che al servizio del genere critico piegò le qualità di un vero scrittore». Il letterato di cui Moravia sottolineava lo charme raffinato, la cultura non libresca, il suo essere civile in modo moderno, «con trepidazione, inquietudine e angoscia», e a cui Pasolini riconosceva una complicata «macchina moralistica» applicata al sistema letterario, in costante ricerca dell’uomo «che palpita, cerca, trema». Il critico letterario che (per Berardinelli) cerca di incontrare un personaggio narrativo in cui rispecchiarsi, di avere delle idee orientative, preferenze nella scrittura, interesse e coscienza per la situazione sociale e storica in cui vive. Grande didatta ed efficace oratore, forte di una pastosa voce baritonale, capace durante le sue lezioni di tenere vigili i giovani ascoltatori esagerando nella narrazione «quel tanto che basta» (Marino Biondi) e di far confluire nella sua riflessione sul naturalismo e il realismo le tendenze e le intuizioni del nuovo romanzo,

una adeguata edizione degli scritti dispersi, degli scritti postumi, una edizione critica de «Il romanzo del ‘900», una biografia intellettuale... Quasi paradossalmente, mano a mano che si disserta in chiave specialistica della nozione di «personaggio», «personaggio-uomo» e «personaggio-critico», della differenza tra «critica osmotica» e «critica strutturale-semiologica», di digressioni e interdisciplinarietà, la figura di Debenedetti si delinea con sempre maggiore chiarezza. A questo contribuisce il ritratto di Mario Andreose di un Debenedetti infaticabile nel lavoro editoriale al Saggiatore, saldo

Debenedetti come Carneade ovvero la rottamazione della critica il romanzo «di analisi», quello delle epifanie e delle intermittenze del cuore. Proust sopra tutti, di cui era traduttore e declamatore (per verificare il ritmo del testo traslato) davanti al direttore d’orchestra Igor Markevitch. In sala Ferri relatori e pubblico resistono eroicamente alla tentazione di gettare la spugna e di arrendersi alla proclamata rottamazione della critica letteraria. Invocano (Franco Contorbia) qualche benintenzionato che abbia ancora la curiosità di arare la «fascinosa consistenza» dell’archivio Debenedetti, conquistato a Firenze dalla caparbia volontà di Renata Orengo Debenedetti e di Alessandro Bonsanti, e dalla concreta disponibilità della Regione Toscana. Mancano ancora infatti all’appello

Visite ai Giardini fiesolani

di Ines Romitti La scoperta dei giardini fiesolani tra i cipressi e le ville del colle lunato coniuga due obbiettivi importanti: da un lato l’attrazione turistica per numerosi luoghi nascosti e affascinanti dall’altro l’approfondimento culturale e la narrazione di giardini come opere d’arte in uno dei paesag-

gi più iconici della Toscana. Tra San Francesco, Sant’Apollinare e Monte Ceceri i giovedì pomeriggio da aprile a giugno nella fase primaverile e a settembre ed ottobre in quella autunnale, vengono effettuate vere e proprie lezioni en plain air con esperti Aiapp, Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio, in sinergia con il Comune di Fiesole. Con l’intento di valorizzare il ricco patrimonio ambientale, storico e culturale, da oltre vent’anni un mondo segreto di ville e di giardini inanellati lungo cinque affascinanti itinerari paesaggistici differenti per esposizione, microclima e vegetazione, viene letto come in un’antologia di storia dei giardini. Iniziando dalla via Vecchia Fiesolana, Villa Medici o Belcanto è un’op-

sull’arcione quando si tratta di cavalcare le avanguardie, aperto ad accogliere l’ondata montante delle nuove scienze sociali, compagno di avventura di Ernesto De Martino, Giulio Carlo Argan, Fedele D’Amico, Guido Aristarco. Tanto generoso da prendersi sulle spalle l’anonimo incarico di redattore dei risvolti di copertina, della cura del publishing e del marketing e dello stile da «disegno industriale» delle copertine. Fino a scrivere 80 pagine di introduzione al catalogo del 1965 dedicato allo strutturalismo. Un grande intellettuale borghese in doppio petto, che agli increduli che fosse iscritto al PCI sventolava sotto il naso la tessera del partito. Giacomo Debenedetti: ecco chi era costui. portunità preziosa per approfondire l’origine dei giardini rinascimentali in Toscana, accanto a Villa le Balze nella reinvenzione dei giardini formali ad opera del paesaggista inglese Cecil Pinsent. Poi villa San Michele antico convento francescano con gli interventi del Maestro Pietro Porcinai nel Novecento, villa il Roseto sede della Fondazione Michelucci sul poggio che volge a solatio, mentre a Maiano si possono percorrere i sentieri della restaurata villa il Salviatino. Dopo Borgunto si incontra l’antica villa torrita il Rinuccino e il podere di Montececeri a mezzogiorno, sulla via dei Bosconi poi via di Vincigliata il Castello medievale di Vincigliata, per raggiungere nella valle del torrente Mensola, villa i Tatti, dell’Università di Harvard, altro capolavoro del paesaggista inglese Pinsent voluto da Bernard Berenson.

23 8 APRILE 2017


Maschietto Editore

Danza e Teatro

collana il gesto Diretta da Virgilio Sieni

un progetto editoriale unico dedicato al lavoro artistico di virgilio sieni e alla riflessione sui linguaggi del corpo

La collana Il Gesto nasce nel 2007 per seguire ed esprimere in modo originale il lavoro di ricerca e produzione artistica di Virgilio Sieni. I suoi lavori, interpretati sia da danzatori professionisti sia da gruppi di amatori e da comuni cittadini, costituiscono una costante riflessione sulle pratiche corporee, sul senso dell’abitare, sulle relazioni umane e sulle età, sulla trasmissione, la memoria, la creazione. Spesso ambientati fuori dai contesti scenici tradizionali, i percorsi che trovano espres-

sione in questi libri rinnovano radicalmente i linguaggi contemporanei, puntando a un superamento della separazione tra arte e vita, e collegando idealmente le pratiche del gesto alla storia dell’arte, alla conoscenza della natura, alle caratteristiche antropologiche dei territori, ai mutamenti sociali in corso. Con 32 titoli pubblicati, la collana Il Gesto costituisce un progetto editoriale unico in Italia, esteso anche all’estero grazie a libri con testo a fronte o realizzati in doppia edizione.

Nei libri della collana Il Gesto, i progetti, le visioni, le tavole e gli scritti di Virgilio Sieni sono affiancati dalle riflessioni di filosofi, critici, storici dell’arte, antropologi, giornalisti, tra i quali Giorgio Agamben, Franca D’Agostini, Stefania Di Paolo, Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande, Giancarlo Gaeta, Piergiorgio Giacchè, Marinella Guatterini, Andrea Nanni, Antonio Natali, Francesca Pedroni, Andrea Porcheddu, Rodolfo Sacchettini, Maurizio Zanardi. Per la parte visuale spiccano le collaborazioni con artisti e fotografi quali Martina Bacigalupo, Ela Bialkowska, Dario Lasagni, Patrizio Esposito.

Virgilio Sieni è danzatore, coreografo, artista, progettista e direttore artistico di fama internazionale. A partire dai primi anni Ottanta ha operato un continuo rinnovamento dei linguaggi del corpo e delle pratiche performative. Nel 2003 ha fondato CANGO Cantieri Goldonetta Firenze, fucina di progetti multiformi, riconosciuto centro di produzione nazionale. Nel 2007 ha dato vita all’Accademia sull’Arte del Gesto per portare pratiche inedite di formazione, trasmissione e creazione nei territori, fuori dai contesti e dalle logiche tradizionali dello spettacolo. Dal 2013 al 2016 è stato Direttore della Biennale Danza di Venezia, primo coreografo italiano a ricoprire questo incarico.

www.maschiettoeditore.com


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