Cultura commestibile 214

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Numero

Roma brucia a tempo di rock Franco Migliacci e la sua opera rock dedicata a Nerone

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

«e domani Roma rinascerà più bella e più superba che pria» Maschietto Editore


NY City, Agosto 1969

La prima

immagine Per questo numero ho deciso di interrompere per un attimo la serie di Spanish Harlem per dare un po’ di respiro ai nostri lettori. Mi sono spostato all’interno del Gugghenheim Museum per mostrare a questo giovane portoricano un ambiente decisamente diverso dal suo abituale. Mario era il giovane cugino della mia amica Yvonne Bastide Miranda, anche lei ispanica, Mi ha sorpreso molto la curiosità ingorda di questo giovane che osservava stupito tutte le opere d’arte che vedeva da vicino per la prima volta in vita sua, Mi ha anche chiesto alla fine della visita se potevo accompagnarlo in qualche altro museo della città. Io ho detto di si, ma per vari motivi non c’è mai stata un’altra occasione ed io mi sono sentito molto in colpa per questo.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

22 aprile 2017

La grammatica di Renzi Le Sorelle Marx

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Riunione di famiglia La caccia di Nardella I Cugini Engels

In questo numero L’evoluzione delle Oblate di Simone Siliani

Cosmatesca di Claudio Cosma

Addio a malincuore racconto di Carlo Cuppini

Storia della Maga Morante e dei suoi quattro gattini di Susanna Cressati

Australiane controcorrente di Alessandro Michelucci 9 piccole personali di Laura Monaldi La Transilvania di Korniss di Danilo Cecchi Firenze-Bali I viaggi dell’Arte di Rossella Tesi Storia del by-pass del Galluzzo - 1 di John Stammer

Direttore Simone Siliani

Berlin-Kunow fuori dalla trappola delle esclusioni di Giampaolo di Cocco La purezza delle montagne macchiate dal sangue di Michele Morrocchi e Mariangela Arvanas, Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Michele Rescio, Sara Nocentini, Abner Rossi, Roberto Giacinti, Paolo Marini...

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Venghino signori, venghino premio letterario

PRIMA EDIZIONE 2017

La prossima settimana tutte le notizie sui premi Progetto Grafico Emiliano Bacci

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di Simone Siliani Parafrasando il film capolavoro di Sydney Pollack, potremmo dire della Biblioteca delle Oblate di Firenze e delle sue recenti evoluzioni, “non si uccidono così anche le biblioteche?”. La biblioteca nasce, infatti, nella metà degli anni 2000 sulla base della biblioteca storica preesistente come una biblioteca di pubblica lettura dai tratti fortemente innovativi. Per averne concepito il progetto posso affermare che sull’idea fondante di una biblioteca aperta alla città, capace di attrarre un vasto pubblico di lettori deboli o potenziali (e non solo quelli “forti”, consolidati ma solo il 13,7% dei lettori secondo le statistiche ISTAT 2015, frequentatori di biblioteche), con l’obiettivo di diventare uno dei maggiori punti di riferimento della vita culturale e sociale della città, si era costruita una nuova biblioteca in cui ogni dettaglio era curato e coerente con quell’idea. Frutto di un lavoro di staff, coordinato dal direttore Giuseppe Gherpelli, sulla base di un’idea progettuale di Luca Brogioni (all’epoca responsabile del Sistema Documentario Integrato dell’Area Fiorentina), il progetto delle nuove Oblate diventò immediatamente uno degli obiettivi strategici di due mandati amministrativi. L’investimento strutturale per l’abbattimento delle barriere architettoniche e la messa a norma dell’immobile, per l’utilizzo di nuovi spazi (la caffetteria e lo spazio bambini nell’altana, tutto il primo piano in precedenza adibito ad altre funzioni), gli impianti di wi-fi e anti-taccheggio, un arredo accogliente e comodo, erano concepiti per una biblioteca contemporanea essenzialmente a scaffale aperto (con un investimento di acquisto di libri, editi dopo il 2000, ingente), in cui si poteva liberamente navigare su Internet, oltre a vedere (e prendere in prestito) DVD e ascoltare musica, portare i bambini in uno spazio dedicato e partecipare ad attività ludico-educative, partecipare a presentazioni di libri e convegni, semplicemente leggere un romanzo o incontrarsi e chiacchierare. Soprattutto una biblioteca aperta (anche dal punto di vista degli orari, fino a tarda notte) e accessibile.

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L’evoluzione delle Oblate Due caratteristiche importanti per renderla riconoscibile e attraversabile. Può sembrare un dettaglio ma non lo è: la biblioteca era concepita senza il bancone d’ingresso presidiato costantemente dai bibliotecari: questa tipologia classica delle biblioteche di pubblica lettura è il primo,

talvolta insormontabile e comunque respingente, ostacolo per il cittadino che non è un abituale frequentatore di simili luoghi di cultura, che non ne conosce già il contenuto e il funzionamento, cioè la grande maggioranza delle persone. Basti richiamare i dati del Centro per il Libro e la lettura relativi


ad un’indagine su circa 6.000 biblioteche civiche, per i quali, nel 2013, ha visitato una biblioteca comunale o provinciale poco meno di una persona (0,9) ogni mille abitanti. L’indice di frequentazione sale a 1,3 nel Nord mentre nel Centro e nelle Isole raggiunge appena lo 0,6, per scendere a 0,2 nelle regioni del Sud. Il bancone è, di fatto, una barriera all’accesso: se non sai già cosa vuoi o cosa ti aspetti di trovare nella biblioteca, quel bancone ti apparirà come il banco del macellaio o del fruttivendolo (con la differenza fondamentale che però qui la merce non è esposta, ma custodita in depositi cui solo gli addetti ai lavori hanno accesso, quasi fossero i Gran Sacerdoti, cui solo è consentito di entrare nel sancta santorum) e il primo approccio sarà del tipo “cosa le serve? In cosa posso servirla?”. La reazione del neofita della biblioteca – che già ha dovuto compiere uno sforzo non indifferente per decidere di entrare in questo strano luogo che “custodisce” libri – sarà in cuor suo del tipo: “Oddio, e ora che rispondo? Cosa voglio? Non lo so. Ma si dovrà pagare qualcosa? Devo lasciare la borsa con le mie cose all’ingresso? E se poi mi serve qualcosa, posso tornare a prenderla? Se mi viene fame, posso uscire a mangiare e poi rientrare? Se voglio chiedere un libro in prestito e di cui non ricordo bene il titolo, che figuraccia faccio con il bibliotecario?”. E così via. Se lo sventurato riuscirà a superare l’ostacolo della prima volta, non è affatto detto che vi ritornerà e certamente non promuoverà questa esperienza fra gli amici e i conoscenti. In effetti il bancone d’ingresso presidiato dai bibliotecari tradisce un approccio da fornitore di servizi pubblici tradizionali in cui il “cliente” deve essere paternalisticamente “assistito”, perché riconosciuto incapace di autonomia e di responsabilità nei confronti di un bene che, tutto sommato, è pubblico, di tutti e di ciascuno. Per questo, quando fu concepita la nuova biblioteca delle Oblate il bancone d’ingresso fu tolto, sostituito da alcuni punti di prestito con operatore all’interno della biblioteca, da alcuni punti di autoprestito elettronico e sopratutto dal libero accesso agli scaffali dei libri. Questa impostazione consentiva al cittadino di entrare liberamente nella biblioteca, prendervi confidenza, scegliere i libri da leggere ed eventualmente da chiedere in prestito in totale autonomia e, allo stesso tempo, di poter chiedere informazioni e aiuto a operatori specializzati, che non essendo impiegati al

bancone d’ingresso, potevano essere impiegati meglio all’interno della struttura. Non solo, l’assenza del bancone “diceva” al cittadino che qui si poteva entrare anche senza avere l’intenzione di leggere o prendere in prestito un libro, ma che si poteva entrare semplicemente per incontrare qualcuno e, così, venire in contatto anche casualmente con un mondo di libri senza rimanerne traumatizzato e magari scoprirne il fascino; che sarebbe un risultato notevole in un paese in cui il 45,5% dei suoi abitanti confessa di non leggere neppure un libro l’anno. E così è stato: nel breve volgere di un paio d’anni il numero dei frequentatori delle Oblate è passato da 70.000 l’anno a oltre 500.000. Va detto che per un certo periodo di tempo questa impostazione è stata coerentemente seguita dalle amministrazioni successive ampliando le aperture notturne e aumentando nuovi spazi (ricavati dal Museo Firenze com’era). Fino a quando, in occasione di uno di questi allargamenti (che ha consegnato una nuova sala conferenze tanto bella quanto rigida e, al momento, non troppo frequentata), è ricomparso il fatidico bancone d’ingresso, dietro il quale stazionano in perenne ed inoperosa attesa 3-4 operatori, di fronte a schermi di Pc, che peraltro i frequentatori della biblioteca possono trovare in certa quantità e a libero accesso all’interno delle sale di lettura. Molti utenti della biblioteca, ormai abituati ad una struttura ad accesso libero, sfilano davanti al bancone senza prestargli attenzione, dimostrando per loro inutile il lungo catafalco con le postazioni fisse dei bibliotecari. Dunque, come minimo si tratta di un servizio poco frequentato e un utilizzo di risorse umane poco efficiente. Ma, per altri, svolgerà una funzione dissuasiva; per altri ancora, immaginiamo un primo strumento di orientamento per i servizi della biblioteca (ma non si capisce perché quello stesso servizio non si potesse fornire all’interno della struttura). Certamente, esso è un elemento incongruo rispetto al concept delle Oblate, un arretramento rispetto alla linea di innovazione che fondava la biblioteca. Allo stesso modo, costituisce un fattore di depotenziamento delle Oblate la riorganizzazione degli accessi. Nella sua concezione iniziale, le Oblate dovevano essere accessibili tanto da via dell’Oriuolo, dove era stato realizzato un nuovo ingresso con tanto di insegna luminosa, quanto da piazza di S. Maria Nuova. La logica, oltre quella della

massima accessibilità alla biblioteca, era di mettere in comunicazione l’area del complesso ospedaliero (e anche museale, con il percorso realizzato all’interno del ristrutturato complesso ospedaliero) con quella di via dell’Oriuolo, dove ha sede peraltro l’archivio storico del Comune di Firenze e il teatro dell’Oriuolo in possibile ristrutturazione. Anche in questo caso, in occasione dell’apertura di nuovi spazi (il giardino prospicente alla nuova zona bambini) è stato prima aperto un ulteriore accesso attraverso il giardino su via dell’Oriuolo e poi, inopinatamente, sono stati chiusi gli altri due accessi (il primo su via dell’Oriuolo e quello originario su piazza di S.Maria Nuova). Oltre a risultare così un solo varco, in entrata e in uscita, per accedere alla biblioteca, il nuovo e unico accesso attuale presenta degli evidenti problemi di barriere architettoniche, per cui l’ingresso alla biblioteca a utenti in carrozzella è possibile solo con maggiori difficoltà e con l’aiuto di accompagnatori. Inoltre, si è completamente persa quella permeabilità fra due zone della città consentita dalla biblioteca, oggi possibile solo da due strade poste a notevole distanza una dall’altra. Due errori magistrali, quelli qui evidenziati, che tendono a “richiudere” su se stessa una struttura che si caratterizzava per la sua apertura e la sua “diversità” rispetto alle tradizionali biblioteche civiche. Questo tipo di biblioteche ha bisogno di proseguire costantemente sulla strada dell’innovazione: se il processo si interrompe e si dà luogo a iniziative di ritorno all’ordine, tutta la loro portata “rivoluzionaria” rischia di inficiarsi. Inoltre, l’innovazione avviata alle Oblate doveva svolgere un ruolo di traino rispetto alle altre biblioteche civiche di Firenze e dell’area metropolitana. Non che tutte le biblioteche potessero seguire pedissequamente il modello “Oblate” non avendone probabilmente neppure le caratteristiche strutturali, oltre a non disporre delle risorse economiche per sostenerlo. Tuttavia, doveva indicare una strada e alcuni elementi che le altre biblioteche potevano, progressivamente, assumere. Ma se anche le Oblate tornano indietro, non vi sarà alcuna possibilità che le altre biblioteche o l’intero sistema metropolitano delle biblioteche di pubblica lettura possa seguire un percorso di innovazione e cambiamento. “Sì, anche così, con piccoli ma significativi fatti, si uccidono i cavalli”.

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Le Sorelle Marx

La grammatica di Renzi

Neanche il tempo di bearsi della battuta del tesoriere nazionale, Francesco “happy hour” Bonifazi, su Di Maio, mr Congiuntivo, che il suo amato leader, Matteo Renzi, mette in rete un filmato con la trascrizione di una parte della sua intervista a Matrix. Il pezzetto in questione è quello relativo ai vaccini. In appena 30 secondi di video, il comitato elettorale delle primarie di Renzi,

Nel migliore dei Lidi possibili

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

I bambini devono sempre diffidare degli estranei che vogliono donar loro il palloncino del mondo futuro

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riesce a mettere tre errori di italiano. Un accento sbagliato, un qual è con l’apostrofo e uno scienziato senza la prima i. Niente male per quello che, quando era in auge, tutti definivano un mago della comunicazione. Insomma se alle prossime elezioni la sfida dovesse davvero essere tra PD e cinque stelle il nostro povero italiano né soffrirà comunque.

I Cugini Engels La caccia di Nardella Evvai! Nardella ne ha sparata un’altra delle sue: ora se l’è presa con i turisti. Una volta ogni tre o quattro mesi, il gioviale e sviolinante sindaco fiorentina, si veste da vendicatore mascherato e promette fulmini e saette contro qualcuno. Insomma fa la voce grossa, così, per far vedere che è uno tosto. Chi ancora non lo conosce bene, si preoccupa, addirittura si spaventa, soprattutto perché quando si arrabbia parlando con i giornalisti diventa tutto rosso e gli si incrociano gli occhi. Ma come sappiamo, è tutta una finta. Questa volta ha deciso di dichiarare guerra ai turisti che mangiano sui sagrati delle chiese: “Ho già parlato coi vertici della polizia municipale: tolleranza zero, chi sbaglia paga (e i cocci son suoi), questo vale per i fiorentini ed a maggior ragione per i turisti. Se vogliono venire a Firenze devono avere rispetto della nostra città”. Chi lo conosce bene, però, sa che Nardella è un burlone: gli piace spaventare la gente, ma non solo per Halloween, ma poi è un bonaccione. Ne sanno qualcosa i cambiavalute cui aveva giurato guerra senza quartiere, nel dicembre 2016, dichiarando ai quattro venti, “una rendita da stroncare!”. Com’è finita, vi chiederete? A talleri e vino, naturalmente. Anche i minimarket non se la passano poi così male, dopo la guerra dichiarata da Nardella nel 2015: “nel futuro ed anche ridimensionarlo per com’è nelle sue dimensioni attuali. Finora abbiamo curato con l’aspirina una malattia molto grave. Ora dobbiamo passare a qualcosa di più forte». Ma in realtà con un po’ di Tachipirina è passato tutto. Ma quando Nardella mostra i muscoli, scatta l’effetto emulazione nei suoi. Così l’assessore Gianassi nel febbraio 2017 ha dichiarato guerra … nientedimeno che alla cacca dei cani: “Questo tipo di controlli venivano già effettuati, adesso però vogliamo intensificare la presenza degli agenti sul territorio in modo da disincentivare questo comportamento, purtroppo molto diffuso in città”. Ora, noi ci permettiamo solo un piccolo suggerimento al nostro sindaco adorato: anche meno! Meno guerre e metti i fiori nei tuoi cannoni. Peace & love.


Segnali di fumo di Remo Fattorini Ci avete mai pensato: più andiamo veloci più ci manca il tempo; più cose facciamo più ne restano da fare. Le nostre giornate sono una costante ricorsa. Una trappola che ci fa andare sempre di più veloci e ci ruba il tempo per noi. Eppure grazie alle tecnologie, ai computer, ad internet, dalle email a facebook, che pure ci hanno aperto molte porte e liberati da mansioni faticose, manuali e ripetitive che avrebbero dovuto liberarci dal lavoro, di fatto ci hanno resi ancora più prigionieri. Tanto che oggi la cosa che ci

Foto di

Pasquale Comegna

manca di più è proprio il tempo. Viviamo in costante accelerazione, sempre di corsa, in un affanno senza soste. Una vita da trottole. Ci hanno messo in testa che se siamo bravi possono riuscire a fare ancora più cose, basta – come si usa dire di questi tempi – ottimizzare. Così diventa ancora più difficile fermarsi a pensare, a riflettere, a respirare, ad oziare, a fare una cosa solo per… il semplice piacere. Se qualche volta proviamo a liberarci da questa “schiavitù” ci sembra persino di sprecare tempo e perdere occasioni. Così torniamo a correre, inseguire, anticipare, velocizzare. A ottimizzare. Alla fine abbiamo tutti ancora meno tempo, per noi, per gli affetti, per gli amici, per leggere, per camminare. Insomma meno tempo per un andamento lento. Eppure, se ci prendiamo una pausa per pensarci, scopriamo che il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo, quella che ci appartiene di più. Una risorsa di cui tutti disponiamo in maniera ugualitaria; un tesoro che

si rinnova ogni giorno, tanto che ci si sembra abbondante, senza fine. E che ci fa rinviare, appuinto, le cose “nostre”. Eppure solo qualche migliaio di anni fa un certo Seneca aveva trovato il tempo per riflettere su tutto questo e, in una lettera all’amico Lucilio, scriveva con sorprendete attualità e infinita lungimiranza: “Lucilio caro, fai quel che scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano messi loro in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire”. Cosa dire di più e meglio?

Il sole basso all’orizzonte

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di Laura Monaldi Sabato 22 aprile, in occasione di Pistoia Capitale Italiana della Cultura e del suo decimo compleanno, la Biblioteca San Giorgio sarà animata da nove piccole mostre personali allestite negli spazi espositivi dell’atrio, delle vetrine e dell’Art Corner. L’Art Show, curato da Felisia Toscano, ospiterà le opere di Carlo Cantini, Luca De Silva, Maria Di Pietro, Ilaria Leganza, Fabio Mati, Urano Palma, Mauro Pispoli, Stefano Turrini e Fabio De Poli. Il progetto nasce dall’intento di unire in un unico inconsueto happening le peculiarità stilistiche e i linguaggi di artisti provenienti da esperienze diverse ma tutti accomunati dalla grande passione per l’Arte Contemporanea. L’Art Show è un viaggio alla scoperta dell’individualità estetica che tenta di emergere dalla massa; è la messa in evidenza della grande capacità comunicativa che l’arte possiede ancora oggi; è la presa di coscienza sulla forza espressiva che l’artista moderno continua a sperimentare nonostante la complessità e le difficoltà dell’attuale Sistema delle Arti. Parafrasando le parole della curatrice «Artshow è un evento unico nato dalla curiosità per le espressioni creative, dalla pittura alla fotografia, dalla grafica alla doc-art. Un evento unico con 9 piccole “personali” che danno vita ad un’unica collettiva dove ogni visitatore potrà avvicinarsi e conoscere le varie forme di arte contemporanea», l’evento è un invito alla lettura diretta e a un rinnovato interesse per le espressioni artistiche, poiché la Storia insegna che nonostante tutto l’Arte continuerà a vivere e che l’Artista avrà sempre qualcosa da comunicare e da “vedere” contro ogni saturazione linguistica e interpretativa.

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piccole personali


Musica

Maestro di Alessandro Michelucci Se la musica contemporanea australiana è poco nota in Italia, quella scritta dalle compositrici di questo paese è praticamente sconosciuta. Non solo, ma è stata trascurata a lungo anche in Australia. Negli ultimi anni alcuni studiosi stanno cercando di strapparla a questo lungo oblio e di farla conoscere. Particolarmente meritoria è l’opera che svolge la pianista Jeanell Carrigan. Questa docente dell’Università di Sydney, studiosa e saggista, ha esplorato la materia in tutti i modi possibili: concerti, conferenze, dischi, libri. Nel corso dell’ultimo anno ha pubblicato Composing against the Tide: Early Twentieth Century Australian Women Composers and Their Piano Music (Wirripang, 2016), un volume che si concentra sulle composizioni pianistiche delle musiciste nate fra il 1862 e il 1915. In questo mezzo secolo le donne che vogliono dedicarsi alla musica non hanno vita facile. L’ambiente che le circonda è piuttosto tiepido nei loro confronti, quando non addirittura ostile. Il marito di Margaret Sutherland, psichiatra, crede che le donne attratte dalla composizione siano malate di mente. Alcune sono costrette a utilizzare nomi maschili perché la loro musica venga pubblicata. Ben poche possono guadagnarsi da vivere con questa attività. Nonostante tutto questo, stringono i denti e vanno avanti: il loro amore per la seconda arte è troppo forte. Questa discriminazione è strana: stiamo parlando di un paese dove le donne hanno guadagnato il diritto di votare fra il 1895 e il 1911 (trattandosi di una federazione, i vari stati hanno abolito questa discriminazione in anni diversi). In altre parole, molto prima che in paesi europei come la Spagna (1931), la Francia (1944), l’Italia (1945) e la Svizzera (1971). Allo stesso ambiente musicale descritto nel libro Jeanell Corrigan ha dedicato il CD Nostalgia: Piano Music by Australian Women (Wirripang, 2016). Nel di-

Australiane controcorrente sco la studiosa esegue un’ampia antologia di brani pianistici, perlopiù brevi, composti da 17 autrici australiane. Molte di loro si distinsero per l’intensa partecipazione alle nuove strutture

SCavez zacollo

concertistiche e mediatiche dell’epoca. Iris de Cairos-Rego insegnò al Conservatorio di Sydney fin dalla sua apertura (1915). Phyllis Batchelor lavorò all’ABC (Australian Broadcasting Corporation, la televisione di stato), dove dirigeva un programma dedicato ai nuovi compositori australiani. Florence Donaldson, violinista, debuttò quattordicenne alla Royal Albert Hall di Londra. Più tardi si stabilì a Birmingham, dove lavorò come conduttrice, concertista e lettrice. Visse anche in Italia, dove studiò composizione sotto la guida di Ottorino Respighi. Indipendente dal 1901, l’Australia ha conservato comunque uno stretto legame con la Gran Bretagna. Infatti molti musicisti australiani, ieri come oggi, hanno studiato a Londra: Peggy Glanville Hicks con Ralph Vaughan Williams; Dulcie Holland con John Ireland; Margaret Sutherland con Arnold Bax; Ross Edwards con Peter Maxwell-Davies. Questo non ha impedito loro di sviluppare rapporti con altri paesi europei e di comporre un panorama musicale autonomo.

disegno di Massimo Cavezzali

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Il mondo

senza

gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni

di Carlo Cuppini Storia di un uomo che colpito da improvviso malincuore cade per terra e si rompe la rotula, che rotola via e finisce in mare, essendo la strada un declivio che parte dal porto. Resta disteso per terra, il naso schiacciato contro l’asfalto, le braccia distese lungo il corpo, gli occhi bene aperti che guardano non si sa cosa. Rimane immobile, non accenna a rialzarsi e quando qualcuno accorre a prestare soccorso non parla, non collabora, non dà spiegazioni. Batte le palpebre, deglutisce con tranquillità, respira regolarmente come se dovesse restare in questa posizione per sempre. Intorno a lui si riunisce un capannello di persone, qualcuno lo vorrebbe aiutare, qualcuno indaga sulle condizioni di salute, qualcuno fa le foto col cellulare, qualcuno devia il traffico badando che le auto non lo mettano sotto. In mezzo a un discreto trambusto, l’uomo caduto è il solo che tace. Il chiacchiericcio generale fa da collante e mescola la curiosità e l’indifferenza dei presenti, condensando il passare del tempo in un sensibile spessore dell’aria concretamente opaco. Ragione per cui nessuno coglie il momento in cui l’uomo, con discrezione e senza alcuna difficoltà, si solleva da terra e – nonostante la menomazione – riprende spedito il suo cammino in salita. La gente si volta che l’uomo si è già allontanato. Qualcuno nota che appare rallentato, claudicante, incurvato; ma questo non dipende tanto dal sopraggiunto problema articolare, quanto dal perdurare del malincuore che gli preclude ogni buongrado. Qualcuno tra gli astanti si indigna per il fatto che il caduto se ne sia andato senza una parola, senza dare peso all’accaduto, senza dare soddisfazione all’altruismo altrui. Qualcuno lo insulta apertamente, a voce alta, perché non ha motivato, pronunciato, risposto, esposto; non ha ringraziato, non ha rilasciato interviste, ha rubato il momento da tutti atteso, il climax, la

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Addio a malincuore catarsi, le lacrime di commozione, il selfie, la foto sul giornale. Può darsi che costoro abbiano ragione; ma a ogni buon conto l’uomo è già lontano e non sembra toccato dalla modesta baruffa. Procede avvolto da un alone di consunta normalità, il tasso di malincuore apparentemente tornato a valori ordinari – salvo che d’improvviso lui si getta in avanti, più avanti, più avanti di sé e del suo corpo, il quale scatta a sua volta per stargli dietro, ma stenta e non lo raggiunge. E mentre il corpo arranca alle sue spalle, lui se ne distacca del tutto, sguscia via contro ogni logica, contro ogni buon senso, corre forsennatamente in avanti, ma solo per un breve tratto, dal momento che poi si solleva da terra, e si invola, e va in alto, più in alto, fino a rarefarsi del tutto, lasciandosi dietro appena una traccia di umore, mentre il corpo restato a terra crolla di nuovo, di schianto, sull’asfalto, come un mobile mal restaurato, e si sgretola. Il malincuore trionfa per un attimo su tutta la terra. Poi all’improvviso sparisce, risucchiato in un vortice d’aria.


di Mariangela Arnavas Sono tante e sono fatte di carta, di cera, di filo di ferro le api dell’artista Livornese Ivo Lombardi, che contribuiscono a formare la vasta installazione esposta alla Rocca Estense di S. Martino del Rio: più di 300 api e 120 ragazzi, studenti dai 10 ai 14 anni che hanno partecipato ai laboratori condotti dall’autore all’interno della mostra che sarà aperta fino alla fine di maggio. Le api percepiscono il profumo dei fiori fino a più di un chilometro di distanza in condizioni normali; a causa dell’inquinamento la loro capacità percettiva può scendere a 200/300m. Buona parte del nostro cibo (pomodori, ciliege, etc.) proviene da piante impollinate dalle api, che sono agenti preziosi della biodiversità. Ma negli ultimi decenni sono calate del 20%, in alcuni paesi anche della metà; le api sono indicatori biologici del danno ambientale, un buon rivelatore ecologico così come anche altri insetti, come per esempio le lucciole (coleotteri della famiglia delle lampyridae), quasi completamente scomparse per effetto dell’uso di pesticidi e dell’inquinamento in generale come già denunciava Pier Paolo Pasolini nel 1975. Le api si possono rappresentare come indicatori del nostro destino e simboli di un equilibrio possibile tra animali e natura; tra le citazioni artistiche presenti nell’installazione di Ivo Lombardi c’è, infatti, anche questa attribuita a Buddha: “Come l’ape raccoglie il succo dei fiori senza danneggiarne il colore e il profumo cosi’ il saggio dimori nel mondo”. Incontro Ivo Lombardi dopo l’inaugurazione della mostra e i laboratori con i ragazzi e i suoi occhi azzurri sono vivissimi, ci si legge la gioia di una forte esperienza creativa e della capacità di trasmetterne il seme. Come in tutto il suo percorso artistico prosegue il dialogo intimo tra linguaggio scritto e linguaggio figurale, solo che qui le api hanno preso aria e luce sia dalla collocazione ambientale che dall’esperienza attiva dei visitatori/ allievi. “È meglio diventar ape e costruire in innocenza la propria casa, che il dominar coi signori del mondo e urlare con loro come con lupi, che dominar popoli e macchiarsi le mani dell’impura materia”: questa citazione di Holderlin fa parte dell’installazione di Lombardi. È chiaro che l’artista avverte con ansia i pericoli di un potere perlopiù insensato e svincolato da qualunque forma di saggezza; in effetti, il mondo attuale ci appare costellato da governanti dittatori o aspiranti tali che, parafrasando Woody Allen, non

Le api di Lombardi

vorresti mai come soci nel tuo club del tennis. Lombardi affida alle api e anche ai ragazzi un messaggio di speranza; diceva qualche anno fa: “Vive ognuno nella sua gabbia psicologica. Decisivo è avere un gesto di ribellione......se non lo hai sei già morto”. Invece lui e le sue api sono vivissimi.

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di Rossella Tesi* Dopo la mostra-convegno “L’Oriente dell’Occidente” nel giugno 2013 a Palazzo Medici Riccardi Firenze, che ha ospitato l’artista indonesiano Albert Yonathan Setyawan, un nuovo appuntamento di scambio con l’ Indonesia, la mostra in due tappe”Firenze-Bali”. Viene presentata all’Hotel Palazzo Dal Borgo a Firenze, elegante dimora storica situata nell’omonimo palazzo rinascimentale del 1480 appartenuto alla famiglia Dal Borgo. Il successivo viaggio con l’Arte sarà in Indonesia, a Bali presso la Bayanaka Design Concept Studio. Corrado Agricola, Stefania Balestri, Aldo Frangioni, Malipiero, artisti che operano a Firenze,una città dall’ identità universalmente riconosciuta, con diversi linguaggi della contemporaneità, si mettono in relazione con un Paese diverso, l’Indonesia. “Questo mondo giorno per giorno diventa sempre più interconnesso, cosicché diventa sempre più importante promuovere la comprensione reciproca e le premesse sociali come la lingua, le abitudini, le tradizioni culturali e al tempo stesso rafforzare i contatti diretti attraverso lo scambio culturale”. Parole pronunciate dall’Ambasciatore della Repubblica di Indonesia August Parengkuan, nel convegno fiorentino del 2013. Promuovere il connubio di idee e cultura per far conoscere una parte della contemporaneità italiana e in particolare toscana. Italia e Indonesia,un incontro. E concludendo con le parole di Roberto Palmieri Ambasciatore d’Italia in Indonesia 2007-2011” Queste trasformazioni epocali non disegnano soltanto i nuovi orizzonti economici della globalizzazione,che impattano con forza sulla cultura, sulle relazioni culturali e sulle opportunità tra aree e Paesi” E nella cultura, nel cambiamento di ottica gli artisti coltivano e propongono altre possibili soluzioni Seguendo il mito. Uno sguardo all’arte classica,quello di Corrado Agricola che seguendo i parametri di una leggenda greca, fà della sua ripetizione un esercizio di ricerca personale,Fascinazione da superare per recuperare la propria unità. Ribadisce le origini dell’arte classica mettendo al centro Roma e la sua natia Siracusa, come eredi dell’arte greca. Dalla storia al mito sviluppa una sua narrazione. Come i frammenti di un opera da restaurare, rigenera, rimpasta, riforma, rinnovando in un fenomeno di reazione e aspirazione. Delinea delle prospettive di una visione personalistica. Sequenza di un “gelum” Stefania Balestri ferma in un immagine realtà

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Stefania Balestri Aldo Frangioni

Malipiero (Piero Maffessoli)

sovrapposte come scatole cinesi, una dentro l’altra, in sequenza. L’artista sottolinea l’uso del contenitore, in questo caso l’acquario,come necessità di chiusura, preservazione, congelamento. Atmosfere solidificate in un “Gelum” per tenere bloccate/sospese figure/soggetti in uno stato di immobilità, evidenziando al tempo stesso la sua natura inconsistente. Segni di riconoscimento Come un raccoglitore di simboli, Aldo Frangioni sigilla con l’incisione un documento e ci propone con strumenti decifrabili, dai caratteri infiniti, le possibili risoluzioni di un enigma. Una concatenazione di simboli magico/culturali,resi più visibili dal colore tra contigui spazi bianchi, procedono in un tracciato nel raggruppamento di segni. Il graffio come elemento visivo e tangibile per imprimere in modo profondo l’importanza espressiva e nel caso di un incer-

Corrado Agricola

tezza dell’occhio,basta sfiorare con il dito per risolvere ogni dubbio. Emblemi di un segno di riconoscimento formano una raccolta e insieme l’inizio di tutti i racconti, l’origine dell’uomo. tMalipiero usa la cultura dell’immagine puramente rappresentativa di personaggi famosi, molto diversi tra loro e dalla loro contrapposizione con qualcosa d’altro, sviluppa l’icona e il suo doppio. Non solo divi, politici, soggetti d’arte miscela, combina un collage della memoria. Sono immagini che affiorano subito alla mente, nella glorificazione di un passato e a conferma di una vita straordinaria, diventano i volti e gli sguardi degli Dei. * Presidente Associazione Nomya L’Associazione fondata nel 1999 per promuovere, valorizzare, diffondere l’arte e la cultura in Italia e all’estero.

Firenze-Bali I viaggi dell’Arte


di John Stammer Alla fine l’avevano costruita. Una grande catena colorata realizzata con centinaia di anelli di stelle filanti dondolava lentamente sulla via Senese appesa da un lato alla terrazza dell’ultimo piano del civico 317 e dall’altra alla finestra del civico 296. Nelle due abitazioni, una di fronte all’altra, in prossimità del ponte sul torrente Ema della strada statale Cassia per Siena, vivevano i due bambini che avevano costruito la catena , amici di giochi nel vicino “orto dei frati”,. Un gioco per festeggiare il carnevale e per divertirsi a vederla muovere al passare delle auto, poche in verità, che proprio agli inizi degli anni ‘60, transitavano per andare o venire dal sud della città. L’abitato del Galluzzo era ancora molto raccolto intorno alla grande piazza ottocentesca, che fa ancora da fulcro del sistema insediativo, e la strada per Siena era la principale arteria che lo attraversava da nord a sud. Una strada importante che ricalcava il percorso di uno dei tracciati della strada romana Cassia e che era stata poi chiamata “Strada Regia da Firenze a Siena e Roma”. Ma dopo la caduta del fascismo e la proclamazione della Repubblica qualcuno aveva provveduto a cancellare la parola Regia lasciando solo le indicazioni stradali. Le poche auto che transitavano venivano ammirate dai due bambini come grandi giocattoli per adulti. In particolare una “macchina” piaceva tanto ad uno dei due. La Giuletta Spider dell’Alfa Romeo. La considerava “la più bella macchina del mondo” ma al proposito il suo babbo lo aveva alquanto disilluso dicendogli che c’erano auto più grandi e più belle come ad esempio le Ferrari. Ma a lui la Giuletta Spider piaceva tanto lo stesso. Mentre pensava questo un grande camion con un grande telo sul cassone passò e si portò via la catena di carta. Il gioco era finito.Ma i ragazzi rimasero sulla strada, nel piccolo spazio davanti al Bar Berti al Ponte, proprio di fronte all’Albergo, costruito nell’area già occupata dall’albergo ristorante che fu demolito dalle bombe naziste che fecero saltare, nell’estate del 1944, il vecchio Ponte della Certosa sul torrente Ema. Il Ponte si chiama ancora così perchè dal ponte la Certosa del Galluzzo si vede benissimo, alta sul colle di Montaguto a proteggere l’abitato. Negli anni seguenti i ragazzi scelsero la Piazza Acciaiuoli per contiuare a giocare. In quella grande piazza si potevano imbastire partite di pallone, giocare con i “tappini” a fare il “giro d’Italia” della piazza su piste segnate

Gli albori

con il gessetto bianco, giocare con le figure Panini dei calciatori a “volino” o a “soffino”. Il traffico era ancora scarso sulla via Senese ma cominciava a crescere e agli inizi degli anni ‘70 iniziarono i primi problemi. La via Senese dal Galluzzo alle Due Strade era diventata “la via del petrolio”, come fu definita, per i numerosi distributori di benzina che si andavano costruendo, da un volantino della locale sezione del PCI per protestare contro il crescente traffico nell’abitato

Storia del by-pass del Galluzzo

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del Galluzzo. Cominciavano a manifestarsi i primi segnali di inquinamento atmosferico e acustico che sono tuttora presenti. E si cominciò a pensare a soluzioni per evitare l’attraversamento dell’abitato. Le soluzioni allora ipotizzate nei diversi piani urbanistici prevedevano tutte una nuova strada che aggirasse da ovest l’abitato ma con ipotesi diverse. Ma erano ipotesi disegnate sulla carta perchè il Comune di Firenze non aveva i soldi per un’opera di queste dimensioni e forse mancava anche una vera volontà politica di affrontare un problema così complesso in un’area altamente delicata da un punto di vista storico architettonico(la presenza della Certosa incombeva su tutte le ipotesi di tracciato) e ambientale ( le valli dell’Ema e della Greve cosituiscono un sistema ambientale ancora oggi di particolare interesse paesaggistico e naturalistico). L’abitato del Galluzzo continuava ad essere attraversato da un traffico di auto crescente. (continua.)

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di Danilo Cecchi La professione di fotoreporter contiene in sé il concetto stesso, amplificato dall’uso che ne hanno fatto nei diversi momenti storici le riviste di “informazione”, di viaggio, spostamento, scoperta di terre nuove e lontane, di popoli, genti e culture distanti. Ai fotoreporter “di razza” si chiede di rinunciare alle proprie radici, di muoversi di continuo, di raccontare delle storie interessanti, di svelare delle realtà non facilmente abbordabili da parte dei lettori più pigri, e questo ancora nell’epoca dei viaggi di massa e per tutti. In realtà molti fotoreporter hanno basato la loro notorietà e la loro professionalità proprio sulla loro capacità di adattamento, sulla mancanza di pregiudizi, sulla innata abilità di raccontare un intero mondo in poche immagini simboliche, catturate nel corso di brevi soggiorni ai più diversi angoli della terra. Agli antipodi di questa concezione, vi sono i fotografi che mantengono vive le proprie radici e le proprie origini, che approfondiscono i propri temi nell’arco di anni, che non si accontentano mai di quanto hanno visto ed hanno fotografato, ed insistono nel volere conoscere sempre meglio e nel voler capire sempre di più. L’ungherese Peter Korniss, nato a Cluji in Transilvania nel 1937, trasferito con la famiglia a Budapest nel 1949 e cacciato dall’Università nel 1957 per avere appoggiato la rivolta del 1956, diventa fotografo nel 1961 e lavora per diverse riviste ungheresi, seguendo soprattutto gli spettacoli teatrali e di danza nelle loro tournées in patria ed all’estero. Nel 1967 torna per la prima volta nella sua terra di origine e comincia a documentare sistematicamente il mondo agricolo della Transilvania, ritornandovi più volte e percorrendola a lungo. Le sue immagini in bianco e nero sono quelle di un mondo che conserva ancora i ritmi e le tradizioni del passato, ma che comincia a cambiare, in maniera lenta e progressiva, un mondo di cui solo la fotografia riesce a conservare pienamente il ricordo. L’obiettivo è puntato sulla gente, sulle persone, sui riti familiari, sui lavori agricoli, sul rapporto con la natura, con le stagioni, con gli animali, con gli altri gruppi e con le altre famiglie. La frequentazione con gli abitanti del luogo gli permette, come è prevedibile, un avvicinamento ed un coinvolgimento totale e la realizzazione di immagini calibrate e dense di significati. Quello che interessa Peter Korniss non è l’evento in se stesso, ma sono le persone che all’evento partecipano, che dell’evento sono protagonisti e che in qualche modo sono destinate a subire l’evento e le sue conseguenze. “Sono interessato all’individuo ed alla cul-

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La Transilvania di Korniss tura in cui egli vive”. Questo suo interesse si sviluppa anche negli altri ambiti di ricerca a cui si dedica, come quello sui lavoratori migranti, un tema che Peter Korniss svolge seguendo un operaio edile nei suoi spostamenti fra il villaggio in cui abita e la città di Budapest dove lavora. L’operaio viene seguito nelle sue giornate per una decina di anni, fino al suo pensionamento. Per i suoi lavori Peter Korniss riceve numerosi premi e riconoscimenti, e con le immagini scattate da lui vengono realizzati

dei fotolibri, oltre una quindicina, dai primi e più emozionanti “Ho camminato attraverso il mondo” del 1975, “Tempo passato” del 1979, “Lavoratore migrante” del 1988 ed “Inventario - Immagini della Transilvania” del 1998, fino alle opere più commerciali, come “Ungheria cuore d’Europa”, “Ungheria Luminosa” o “Balaton”, dove il colore prevale sul primitivo bianco e nero, senza tuttavia riuscire mai a superare quanto espresso in precedenza.


di Susanna Cressati Il tema del disequilibrio tra autori uomini e autrici donne nel nostro canone letterario è cosa nota. E anche in questi mesi molto animosamente dibattuta. L’eccezione che conferma la regola, secondo Paolo di Paolo (ottavo oratore al Gabinetto Vieusseux per il ciclo “Scrittori raccontano scrittori”) è Elsa Morante. La maga Elsa, tessitrice di sortilegi, impietosa cantrice dello scandalo della bellezza minacciata, che in questo canone si è alla fine ritagliata un posto speciale, mentre il celebrato Alberto Moravia (in questa occasione citato solo nelle vesti di marito) è ormai condannato all’oblio da un diffuso ostracismo. Sic transit. Elsa Morante, dunque. Data di nascita 18 agosto 1912. Morta nel 1985. Maga, dunque, e per questo affascinante, seducente, misteriosa. Ma anche straordinariamente abile, “capace” in qualche cosa. A scrivere, nella fattispecie. Elsa non ha ascendenze – dice Di Paolo – Non ha, letterariamente parlando, madre, padre, fratelli o cugini. Talento precocissimo, manda al Corriere dei Piccoli (sono gli anni ‘30) le sue prime prove narrative, segnate da una prosa istintiva, da autodidatta. Affronta la vita, come la pagina, con slancio febbrile. Seguono il matrimonio, le frequentazioni letterarie non provinciali, la guerra. Studia, scrive, traduce. Nel ‘48 Natalia Ginzburg (in altri casi editor implacabile, come abbiamo già visto) non ha riserve da opporre, e stappa la bottiglia fatata, sfrega la lampada magica. Pubblica “Menzogna e sortilegio”, un’opera che Natalia stessa definisce “luminosa e generosa”. Così nasce una stella. Nel panorama dominato (ma chi se ne può crucciare?) dal neorealismo, Morante scrive in pieno Novecento, dice Di Paolo, un romanzo ottocentesco. Perché? Forse proprio al Vieusseux, in quel suo prezioso archivio contemporaneo che è la miccia che gli “scrittori che raccontano scrittori” accendono ogni sabato, ci sono alcune tessere che possono aiutare a comporre l’enigma. Ci sono alcune lettere che Morante scrisse al critico Pietro Pancrazi, che l’aveva un po’ strapazzata, lei e la piega “volontaristica” del suo stile. A lui Morante replica (sacrificando la passione ad espressioni di formale educazione, ma contestando apertamente il clima culturale di disincanto ormai dominante) che il suo modo di esprimersi obbedisce né più né meno che ad una “necessità”, ad una ispirazione che letteralmente la invade e che è come un treno in corsa, una esplosione di energia più grande di lei. “Credevo in tutto quello che

Storia della Maga Morante e dei suoi quattro gattini scrivevo – dice Elsa - comprese le cose più inverosimili”. Eterna adolescente, quindi mutante, si sente come un nuovo Rimbaud, il suo adorato ragazzino poeta. Una stella fulgente, un re, un eroe. La sua meta è una sola: sentire la felicità come uno stato permanente, di pura bellezza, incontaminata dalla seduzione. “Crede che potrò arrivare alla bellezza?”, scrive a Pancrazi. Ma il destino degli esseri umani è diverso. La storia, anzi la STORIA (lei scriveva un sacco di maiuscole) e la morte assediano la bellezza e la felicità. Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo, La storia e Aracoeli sono il suo poker d’assi. La prova provata della sua inattualità di successo. Del suo essere felicemente e drammaticamente “fuori tempo”, nel dopoguerra come negli “anni di piombo”. I piccoli

movimenti dei corpi e delle singole esistenze sono squassati dalla storia, dalla STORIA. Elsa, le chiedono e quasi pretendono, dove sta la visione politica, la possibilità di riscatto? Non c’è niente di bello nell’umiliazione, risponde. Conclude con Aracoeli, spiega Di Paolo, il suo romanzo meno letto e meno capito, dominato da un personaggio spiazzante, sgradevole, mortifero. Protagonista di una ricerca fuori tempo massimo, quella della madre morta, che sa di non poter trovare in questo tempo e in questo spazio, né seguendo le tracce inconcludenti di una bellezza ormai sfiorita, umiliata. Come quella di Elsa. Che però, tra febbri e gatti, tra Rimbaud e Mozart, una certezza l’aveva: Dio ha creato il mondo, il sabato (giorno del suo riposo) il poeta ha il compito di rinnovarlo.

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di Claudio Cosma Immagino non sia da tutti possedere un opera site-specific di 700x800 cm. Dove si può mettere un quadro di 7 metri x 8? Ma sul pavimento, naturalmente. Nel passato era più semplice, se si avevano di questi desideri si chiamava un pittore e ci si faceva affrescare il soffitto di qualche salotto o salone di solito con qualche Afrodite, un paio di Ercoli oppure col Ratto delle sabine o anche Diana al bagno. Oggi, esistendo l’arte contemporanea, questi soggetti non vanno più e poi i salotti e ancora di più i saloni, sono molto difficili da avere. I pavimenti, ci sono i pavimenti, dunque il gioco è fatto, si usano quelli. Purtroppo però non si possono usare, si sciupano, sono delicati una volta trasformati in un opera d’arte. Allora è meglio avere la stanza in questione fuori da casa, che poi, per un collezionista, è la cosa migliore in assoluto. Fra l’altro, all’interno delle accezioni che definiscono il termine “collezionista” quella che più mi piace è quella che definisce collezionista colui che tiene la propria collezione in un posto specifico, separato dalla propria abitazione e se questo luogo è aperto al pubblico, diventa un museo privato. Il concetto di “aperto al pubblico” è molto vasto, ogni collezionista, direi, ha il suo e l’accessibilità deve seguire un rituale cavalleresco, che scoraggia i più tentennanti e i curiosi che nulla accrescono con la loro presenza. Una volta ottenuto uno spazio separato da casa, avevo risolto un problema che non sapevo di avere e a questo punto devo fare una digressione di carattere personale. Nel ottobre del 2012 cominciai a trasferire le mie cose d’arte, iniziate a raccogliere negli anni ‘80, in un ampio spazio dalle parti di piazza d’Azeglio, a Firenze con l’idea di poterle vedere insieme e collocate come di mio gusto. Due stanze grandi, due così così, altre due piccole, un corridoio, uno studio minuscolo, una specie di cucina e due bagni, anch’essi non risparmiati dalla asettica furia di vederli allestiti, compongono, insieme ad uno spazio esterno ed a qualche altra cosetta, quello che definisco il mio giocattolone. Per farla breve, da allora sono accadute svariate cose, ed ho ampliato i miei contatti affinché questo posto potesse avere una vita interessante, questo porta al pavimento L’artista visivo Lorenzo Pezzatini ha progettato un lavoro che si adattasse al perimetro di una stanza, dato che le stanze hanno qui un nome, quella scelta era la stanza orien-

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Cosmatesca tale, un po’ per via che è situata ad oriente, rispetto alla planimetria dello spazio, un po’ perché lì ci tenevo e in parte ci tengo ancora, dei lavori di artisti orientali. Il pavimento di Lorenzo è un universo a due dimensioni, una Flatlandia di geometrie elementari, dove domina incontrastato l’ottagono, che posto al centro si espande fino ad incontrare dei doppi triangoli che ne bloccano l’espansione con la ricchezza del proprio oro. A protezione di questo oro si dispongono dei rettangoli che arrivano fino ai margini estremi della pianta. Un lato della stanza compie una curvatura dove il rettangolo, da quella parte sembra voler fuggire. L’equilibrio della composizione è estremo tanto da generare una atmosfera proclive alla introspezione, alla meditazione, ma anche alla lettura e alla conversa-

zione. Io prendo dei cuscini che posiziono in una piccola superficie di parete posta fra due grandi vetrate che danno su di un viale, in verità poco frequentato, ma così ho la sicurezza di non essere visto da nessuno, dedicandomi alla lettura, a volte mi preparo anche il tè. Questa è la mia piccola perfezione, in solitudine, in silenzio, mi accorgo di non aver bisogno di niente. Vorrei ancora aggiungere che la stanza che ospita questo meraviglioso, sottile impero matematico, le cui parti esposte per qualche ora del giorno al sole, stanno perdendo i bagliori accesi dell’oro e il rosso si trasforma in rosa frusto ed il blu diventa azzurro turchese, in una specie di loggiato che lo separa dalla strada, sto allestendo un giardino aggrovigliato di verdi diversi che crea un diaframma di separazione dal mondo esterno.


L’altro volto della speranza di Francesco Cusa Il surrealismo di Kaurismaki raggiunge l’apice nel suo ultimo “L’altro volto della speranza”. Il regista finlandese affronta il tema dell’immigrazione con la sua solita flemmatica poetica dello scardinamento dell’immagine, della sospensione della dinamica dei personaggi, i quali “stanno” con tutto il loro passato come dentro ad una vasca temporale per pesci. I risultati sono “devastanti” e questo “stratagemma filmico” - sua vera e propria “techné” e marchio di fabbrica,- colloca le storie ed i fatti in una prospettiva ellittica, sbilenca, che distorce la narrazione con sottilissimi giochi di lenti per poi declinarla, nel processo peculiare della sua poetica, come sgranata, limpida, vivida nella sua essenza. Khaled e Vikström sono i due personaggi che si incontrano ellitticamente, secondo traiettorie imperscrutabili che collimano in una sorta di zenith, di momento topico in

cui collassano le dinamiche della cronaca e della prospettiva storica. Un processo alchemico quello di Kaurismaki che trova il suo amalgama grazie al surreale umorismo che caratterizza, o sarebbe meglio dire connota, tutta la sua opera, garantendo una sorta di cornice/canovaccio d’ambientazione atta a deframmentare il quotidiano, a parcellizzarlo in microbolle di densità. E’ proprio questa “sospensione” a determinare la creazione di mondi e universi paralleli in cui si sfilacciano i quadri del racconto, nella microscopica taratura di ogni dettaglio che finisce col debordare dallo schermo per poi addensarsi in un altro momento che costituirà un ulteriore straniamento. La realtà Kaurismaki ce la filtra col setaccio e la sua straordinaria maestria sta tutta nella sua capacità di incastonare queste “vite” in meravigliose perle di cinema, ove “tout se tient”, per dirla con De Saussure, vita e opera, nella fissità universale della forza delle immagini

Spiriti di

materia

di Abner Rossi

Abner Rossi nasce a Firenze il 24 novembre del 1946. Autore e regista teatrale da circa quarant’anni ha al suo attivo diverse sceneggiature cinematografiche, opere teatrali e monologhi adottati da molte scuole di teatro come testi di studio e di esame nonché per le audizioni. Ha pubblicato tre libri di poesie e non ha mai partecipato, per scelta, a concorsi poetici. Ha scritto, collaborato e poi diretto G. Albertazzi, Omero Antonutti. Come dirigente dell’Arci di Firenze ha partecipato alla grande stagione della nascita della comicità toscana. Recentemente alcune sue poesie sono state pubblicate sulla Enciclopedia della Fondazione Mario Luzi,

Nasqua Stanotte a Nasqua cadono formiche puzza di stalla la setola e il crine, la mia ascella, il mio capello imbianca anche, com’è, nascosto nel cappello. Le ultime tre ore son volate tra bocce, amici ritrovati e cimiteri di ciò che ho riciclato tante volte. Per ultimo ecco uno sporco imbecille con le coperte in braccio ed un fucile, vive nell’atrio a destra di una croce. Io tremo di freddo senza sapere cosa sta accadendo, senza sapere cosa mi ha svegliato. Qui stanotte cadono formiche, come ho già detto tremo… per quella mia Nasqua che mi ha fatto urlare, alle quattro di notte dentro a un foglio. Nasqua è una dimensione poetica che raramente emerge da me ed è per me come qualcosa di sconosciuto e, nello stesso tempo, me stesso più di qualsiasi mia altra rappresentazione.

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Foto di Stefano Cantini

di Michele Morrocchi L’ordine, la pulizia, la neve. La protezione delle montagne a salvaguardare la tranquillità familiare. Questo il contesto in cui si svolge la vita di Fritz e Greta nella loro linda casa del Kirolo. Lui impiegato addetto al riempimento di moduli, lei casalinga impegnata in una strenua battaglia contro lo sporco e poi una vita “sconvolta” da un detersivo comprato al mercato cosmopolita. Alpenstock di Rémi de Vos messo in scena per la prima volta da Angelo Savelli per Pupi e Fresedde è una commedia surreale che parla delle fobie della nostra società, dei cani neri, per citare Mc Ewan, che dormono nel cuore dell’Europa. L’ingresso del detersivo cosmopolita porta con sé una famiglia di balcani, carpati transilvani, interpretati da uno spumeggiante Fulvio Cauteruccio, che faranno le spese della difesa dell’ordine costituito di Fritz, un Ciro Masella, volutamente eccessivo, maschera dei mostri “normali” che percorrono le strade delle nostre cittadine. In mezzo Greta, una superba Antonella Que-

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La purezza delle montagne macchiate dal sangue

sta, donna semplice, motore prima inconsapevole poi (forse) appagata, del menagé di ordine, morte e pulizia. Si ride con Alpenstock ma si esce pervasi da qualche brivido, se dalle caricature viste sulla scena si passa alla vita reale e alla cronaca dei nostri giorni. Dunque un gran plauso a Savelli e al Teatro di Rifredi che hanno portato in Italia uno dei drammaturghi più innovativi della scena francese; un autore dal respiro europeo assolutamente al centro della nostra riflessione contemporanea. Un gran bel modo di festeggiare, facendo l’ennesimo regalo al proprio pubblico, i 40 anni della compagnia fiorentina. Alpenstock, in scena fino al 29 aprile al Teatro di Rifredi di Firenze. www.toscanteatro.it


di Monica Innocenti La storia di Alessandro Capone, già concorrente-finalista di un’edizione de “Il Grande Fratello” di un po’ di tempo fa, offre numerosi spunti d’interesse, sia perché espressione dei nostri tempi, sia per gli sviluppi imprevedibili che ha avuto nel corso degli anni. Alessandro se ne stava in casa, a fantasticare su una nuova vita; quando vide la pubblicità dei provini del GF, decise di tentare la sorte e fu scelto. Appena uscito dal GF partecipò ad una serata; 5.000 persone lo aspettavano in un locale e alla fine intascò 10.000 Euro: lo stipendio di 6-7 mesi del suo vecchio lavoro di muratore! Era facile sentirsi preda di un sentimento di onnipotenza, ma estremamente complicato prendere atto che, con il tempo, la notorietà andava scemando così come i guadagni e il sogno si trovava fare i conti col ritorno alla realtà di tutti i giorni. E poi investimenti sbagliati, la creazione di un marchio di abbigliamento che non aveva dato i risultati sperati e i soldi che, inesorabilmente, calavano. Alessandro lavorava come modello, ma non riusciva a trovare la sua strada, fino a quando un amico, che gestiva un’azienda che produceva scarpe ortopediche su misura, gli propose una collaborazione: la cosa gli piacque, decise di investire in questo settore e si dedicò seriamente ad imparare il mestiere. Trascorsi 8 anni di lavoro nel settore delle scarpe ortopediche (e produrre questo tipo di calzature è tutt’altro che facile) cominciò a creare artigianalmente scarpe da uomo! Dopo aver molto studiato e sperimentato, un ulteriore salto di qualità arrivò grazie all’incontro con un anziano artigiano (in Italia c’è una tradizione antichissima) che, dopo aver apprezzato la sua grande passione, gli insegnò tutti i trucchi del mestiere. E non volle nemmeno esser pagato, perché …“Ce ne fossero di giovani come te, appassionati a questi mestieri antichi”! Nacque così la Alessandro Capone Luxury Shoes, il cui simbolo (ispirato a quello dei corsari) è un teschio con un martello e una lesina (gli strumenti del calzolaio) incrociati. La produzione, rigorosamente artigianale, che mischia la tradizione di un mestiere antico con la moda e l’innovazione, viene fatta a Segromigno, nell’hinterland lucchese e a Milano; tutte le scarpe sono fatte a mano, colorate a mano e Made in Italy e questo comporta anche l’altra faccia della medaglia: prezzi di vendita mediamente parecchio alti!

Passo dopo passo

La storia di Alessandro Capone

L’azienda ha un corner in una galleria a Dubai, due show-room in apertura a Las Vegas e Miami, tre monomarca previste in tre grandi città brasiliane e ha in programma di cominciare a produrre anche scarpe da donna che, come le altre, non verranno vendute on line, in quanto la filosofia aziendale è: il cliente passa dallo showroom e sceglie il modello! Modelli tra l’altro, sempre più audaci e originali: scarpe borchiate; calzature con teschi di Swarovski neri; altre definite “Super Luxury”, con fibbie in pietre preziose (e magari anche con inserti in diamanti), per il mercato asiatico e arabo. Infine un modello in limited edition (ne sono previsti 100 esemplari), color rosa fucsia e decorate in stile fumetto (una provocazione contro i taboo sessuali): una scarpa dipinta con peni e l’altra con vagine con le alette e un disegno con pene + vagina = cuore. Un paio di queste scarpe sarà incorniciato ed esposto in un locale a Lucca e sarà seguito a breve da un altro modello con tasche trasparenti porta-condom. Alessandro Capone e il suo socio hanno scommesso che si taglieranno la barba quando avranno realizzato un obiettivo (segreto), che si sono prefissato: come dire che la voglia di guadagnare bene c’è ancora, ma il modo di farlo è cambiato. Il ragazzo che sognava una vita diversa e pensava che, per raggiungerla, bastasse fare qualche passaggio in tv è diventato un uomo, un imprenditore avveduto che, dopo essere passato attraverso tante esperienze, ha bene in testa i suoi traguardi e il modo di raggiungerli.

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La Loggia si veste d’estate Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy www.ristorantelaloggia.it reservation@ristorantelaloggia.it +39 055 2342832

Ristorante La Loggia Gnocchetti con ricotta e melanzane di Michele Rescio Non conosco nulla che vellichi così voluttuosamente lo stomaco e la testa quanto i vapori di quei piatti saporiti che vanno ad accarezzare la mente preparandola alla lussuria. Marchese De Sade Preparazione: Mettere nel forno scaldato a 150° le melanzane tagliate a metà e farle cuocere per 2 ore. Spolparle con un cucchiaio e mettere la polpa in un frullatore assieme a foglie di maggiorana. Attivare il mixer e, mentre frulla, unire l’olio extravergine di oliva. Continuare a frullare fino a ottenere una crema omogenea e morbida. Cuocere le patate in acqua, sbucciarle, schiacciarle e impastarle con la farina fino ad ottenere un impasto morbido e lavorabile. Appiattire la pasta ricavata e tagliarla a striscioline. Tagliare a piccoli pezzi le striscioline in modo da ricavarne degli gnocchetti ai quali è data una forma tondeggiante passandoli fra i palmi delle mani. Mettere una padella ampia sul fuoco e versar-

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ci olio extravergine di oliva, foglie di maggiorana e una noce di burro. Scolare gli gnocchi, giunti a cottura in abbondante acqua bollente poco salata e trasferirli nella padella con il condimento. Aggiungere qualche pomodorino tagliato a spicchi. Far saltare gli gnocchetti velocemente e spegnere il fuoco. Stendere la crema di melanzane sul fondo di un piatto singolo e adagiarci sopra gli gnocchetti con i pomodorini. Spargerci sopra la ricotta salata grattugiata grossolanamente, guarnire con foglie di basilico fresco e servire in tavola gli gnocchetti con ri-

cotta e melanzane. Ingredienti per 4 persone: Patate 1 kg Farina 300 g Melanzane 3 Pomodorini 5 Ricotta salata q.b. Maggiorana q.b. Burro 1 noce Olio extravergine d’oliva Sale120 g di parmigiano a scaglie sale e pepe


di Paolo Marini Se devo indovinare il temperamento di Enzo Tayar dalle pagine che ci ha lasciato (“1943. I giorni della pioggia”, pagg. 456, Polistampa), scommetto sul suo essere (stato) essenzialmente “a quiet man”, un uomo tranquillo, ben più dell’ex-pugile Sean Thornton (interpretato dal mai troppo compianto John Wayne) nel film dall’identico titolo. ‘Tranquillo’ che – attenzione - non sta per sempliciotto, magari remissivo o, peggio, banale; bensì nel senso che riuscì a ponderare i fatti/eventi intorno a sé, elaborandoli (malgrado tutto) in un impasto di accettazione e buon senso, forse grazie ad un’anima fondamentalmente limpida, serena; e seppe essere un osservatore sensibile, per lo più silenzioso (perché per bene osservare bisogna saper tacere), dal che non stupisce che abbia concepito un diario compiuto di un periodo drammatico e al tempo stesso fertile della propria esistenza. I ‘giorni della pioggia’ rappresentano quel futuro oscuro (non si sapeva quanto vicino) che la famiglia Tayar intravedeva davanti a sé e a cui si preparava con la previdente premura che usano le formiche. Sono piene di intimità, tenerezza e consuetudini familiari le pagine della prima parte del libro, in cui si descrive la quotidianità di questa famiglia di religione ebraica” - Enzo, con i genitori e la sorella (l’altro fratello essendo a Malta) – che viveva a Firenze e per la quale (approssimandosi il 1938) il regime fascista si faceva d’un tratto temibile, con la crescente probabilità che si sarebbe lasciato vincere dai “riflessi nefasti” del nazismo. Perché il fascismo fino ad un certo punto, “come tutte le cose che succedono in Italia”, era apparso ad Enzo soprattutto come “una manifestazione esteriore folcloristica di scarso contenuto” (valutazione tanto superficiale quanto genuina, da parte sua). Invece sarebbero sopraggiunte le leggi razziali e Mussolini si sarebbe trasformato, da quel “buffone che sparava smargiassate dal balcone di Palazzo Venezia”, in un autocrate stretto a Hitler. Così anche la famiglia Tayar (tra le altre) ebbe a conoscere discriminazioni, costrizioni, perdita del lavoro, fino a sperimentare (settembre ‘43) la fuga dalla città, per non rischiare la cattura e la prigionia nei campi di sterminio (della cui tragica realtà qualche notizia già trapelava). Eppure - come accade, talvolta - è proprio da tale condizione che ebbe inizio per Enzo un periodo gravido – oltre che di incertezza e di tensione - di gioie, di rivelazioni inattese

I giorni della pioggia

e, in qualche modo, di entusiasmo giovanile. Separatosi per prudenza dalla famiglia, si rifugiò in un podere di proprietà di amici, nei pressi di Radda. Da qui si sviluppano anche le pagine migliori del libro: il Chianti avrebbe avvolto e protetto il giovane protagonista col suo cuore talvolta ruvido ma sincero. E fu un susseguirsi di trasferimenti, da un podere all’altro, da una famiglia all’altra, che gli consentì di conoscere e di stringere rapporti con personaggi di varia intensità e umanità - così diversi da lui per estrazione, stile di vita, cultura -, però sempre con la stessa curiosità/apertura al nuovo e la capacità di sfruttare ogni minimo segno (una circostanza gioiosa, una parola buona, un gesto di attenzione) per recuperare fiducia e speranza. E’ probabile che il valore specifico di queste pagine risieda proprio nella testimonianza di una vita contadina che, per quanto perduta, non è (ancora) così lontana, nel tempo, dal non residuare nel fondo della nostra coscienza. Il diario di Enzo Tayar, che vuole offrire una micro-storia sullo sfondo (torbido) della grande storia, rinfresca allora - e felicemente - la memoria collettiva di una civiltà rurale, colma di semplicità e di intelligenza quasi innate. Non è né aspira ad essere un testo di letteratura alta ma contiene un esempio ch’è non meno prezioso: un modo di affrontare la sofferenza e piegarsi alle necessità della vita, senza sentirsi mai vinti.

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di Sara Nocentini Tra le varie realtà culturali popolari della nostra città merita attenzione e sostegno quella del Circolo Arci di Ponte a Mensola (Faliero Pucci) che da circa un anno viene gestito nel fine settimana dall’associazione Cirkoloco. L’associazione è impegnata nel recupero e nel reinserimento sociale di persone con disagio mentale, che coinvolge attivamente nella conduzione del bar e delle attività in programmazione al circolo, dotato di un piccolo ed accogliente teatro. L’azione di Cirkoloco e dei suoi volontari ha una grande valenza sociale anche oltre gli scopi specifici dell’associazione perché consente di mantenere attivo e vitale un luogo di aggregazione e socialità, il circolo appunto, che a causa del passare del tempo e del ciclo di vita che accomuna molti di questi luoghi, faceva fatica a trovare nuove risorse e una rinnovata identità. Venerdì scorso la programmazione ruotava intorno a Polvere di pelle – lo spettacolo teatrale per i senza tetto, di Francesco Mancini, con Roberto Gioffré e Francesco Mancini, regia di Alessio Targioni che mette in scena un dialogo emozionante tra due uomini senza fissa dimora. “Lo spettacolo – spiega Mancini – ha origini lontane e nasce da una ‘complicità di spirito’ con i clochard, con chi si trova a vivere una di Roberto Giacinti Il ddl 2287 bis sullo spettacolo dal vivo, approvato dal Senato, dichiara di voler razionalizzare gli strumenti pubblici in favore dello spettacolo nonché gli incentivi e le condizioni per la partecipazione dei privati al finanziamento delle attività culturali, a partire dalla convinzione che, nel campo della cultura, lo Stato non deve, ma non può anche essere, l’unico finanziatore. In Italia, storicamente, l’intervento dello Stato nel settore culturale, e specificamente in quello dello spettacolo, è stato caratterizzato da un approccio assistenziale, non producendo adeguate politiche per la cultura volte a favorire lo sviluppo dei diversi settori. L’aiuto utilizza anche lo strumento fiscale, oggi approvato dall’UE, ma non dà le certezze che necessitano agli operatori. Dal 1° gennaio 2016: - è riconosciuto alle persone fisiche e giuridiche che esercitano attività d’impresa, anche fuori del settore dello spettacolo, un credito d’imposta, di € 300.000 annui, per gli investimenti effettuati nello spettacolo dal vivo ovvero per quelli finalizzati al recupero o all’ammo-

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Teatro marginale

vita ormai senza vincoli, senza regole, senza riferimenti, con la consapevolezza che spesso la linea di confine tra un’esistenza “normale” e una “marginale” è molto più sottile di quanto si possa immaginare”. Una prima versione di una durata di circa 10 minuti è stata presentata alla fine degli anni ’90 durante un evento alla Flog. “Da allora – spiegano Mancini e Gioffré - abbiamo continuato a lavorare al testo e alla messa in scena, adattando lo spettacolo a contesti diversi, alcuni più imporvvistai, altri più strutturati, portandolo ai festival, nei teatri, ma anche in strada, nei parcheggi, talvolta con allestimenti scenici elaborati, altre volte estrema-

Benefici fiscali per lo spettacolo dal vivo dernamento di locali da adibire ad attività di spettacolo dal vivo. - è consentita la deducibilità ai fini irpef, con le modalità previste dal TUIR per i lavoratori autonomi delle le spese sostenute dai soggetti operanti nel settore dello spettacolo dal vivo in forma non continuativa o professionale per l’acquisto e la manutenzione delle strumentazioni tecniche, artistiche e coreografiche utili all’attività artistica, nonché le spese relative a prestazioni alberghiere e a somministrazioni, derivanti da rapporti di scrittura o di lavoro in associazione. Le modalità per la fruizione del credito d’imposta, le tipologie degli investimenti e delle spese agevolabili, saranno definiti con appositi decreti del MEF di concerto con il Mibact.

mente essenziali”. Molto particolare, unica potremmo dire, è risultata anche la messa in scena a Ponte a Mensola. L’obiettivo della serata, molto ben riuscito, era portare la strada in teatro. Ad accogliere lo spettatore, all’ingresso del teatro, Fuori Binario, con i volontari che distribuiscono per strada il noto giornale dei senza fissa dimora, un aperitivo prima dello spettacolo su tavoli sparsi, con musica sparsa, improvvisata, nella stanza, accompagnata da un piacevole brusio. Mancini e Gioffré, che fino a qualche minuto prima si aggiravano in sala, salgono sul palco, trascinandoci in un dialogo a due intenso e emozionante. Intorno ad un’anonima panchina di strada, i due clochard si lanciano in una comunicazione viscerale, alimentata da vino scadente (“che libera l’anima”) solo a tratti guidata da una qualche razionalità del discorso; talvolta fisica e veemente, intercalata da silenzi, sospesi, vuoti: le vacanze, il suicidio, l’arte e la poesia, il passato, tutto si rincorre senza una regola, senza un perché, senza un fine. Ad accompagnare lo spettacolo, per l’occasione, musiche dal vivo con le percussioni improvvisate con pentole di Fabio Bussonati (tra le altre cose collaboratore di Fuori Binario) e la chitarra di Domenico Luca Longo, Presidente dell’Associazione Cambiamusica! L’effetto è avvolgente, emozionante, riuscito. Per le agevolazioni sopra indicate, è istituito il Fondo di Agevolazione Fiscale, con dotazione annua di € 5 mln, cui, ahimè, in caso di insufficiente copertura finanziaria originerà l’automatica riduzione del limite di fruizione del credito d’imposta! Sono previsti anche un fondo paritetico per esigenze territoriali e un fondo per l’innovazione e i giovani talenti, ambedue per 5 mln di €. Si spera in un innalzamento del Fondo Unico per lo Spettacolo che si aggiungerebbe alle altre facilitazioni fiscali, all’estensione dell’art bonus, al tax credit e alle defiscalizzazioni già previste, vedi la defiscalizzazione dell’IMU, che riguarderebbero anche la prosa e lo spettacolo dal vivo in genere. Sembrano vane le richieste di abbassamento dell’IVA sui biglietti di spettacoli e concerti al 4% come per l’editoria; la richiesta omogeneità dell’IVA per la vendita di spettacoli e per le coproduzioni all’aliquota del 10%; l’introduzione di forme di tax-credit e crediti d’imposta per i settori dello spettacolo dal vivo, non soltanto per le fondazioni lirico-sinfoniche e gli enti pubblici, ma per tutti i soggetti professionali del settore. Speriamo nel prosieguo del dibattito.


di Giampaolo di Cocco Sono pervenuto ad Abaco Space, nell’ hinterland berlinese, dopo l’esperienza della Villa di Luciana, bellissimo posto nel Comune di S. Casciano Val di Pesa, dove nel 2010 assieme a Luce De Silva ed Andrew Ferrara, costituitici ufficialmente come AARC, Agenzia per le Arti Contemporanee, tentammo l’impresa di avviare un Centro Culturale rivolto alle arti visive ma non solo, impresa che comprendeva il complesso restauro dell’immobile di Luciana, già villa dei Pitti, magnifico edificio ma in stato di assoluto abbandono.Per farla breve, dopo varie peripezie tra cui il diniego di poterci allacciare all’acquedotto comunale, fu chiaro che il Comune preferiva favorire i cacciatori, così gettammo la spugna. Tuttavia, la voglia di aprire un Centro Culturale m’era rimasta, e qui è il caso di rivelare uno dei miei personali perché di questa fissazione, ovvero il fatto che a Firenze non riuscivo a trovare nessun luogo dove si facesse cultura nel senso che interessava a me: tutti i luoghi per l’arte che conoscevo il Pecci, la Strozzina, più tardi il Museo 900, Villa Romana dopo la gestione Burmeister erano luoghi espositivi basati sull’esclusione, vi vigeva cioè la preoccupazione di tenere lontani quegli artisti che non rientravano negli standard stilistici approvati da mercanti e gallerie private. A Firenze era in atto insomma una sorta di “dittatura culturale” che escludeva dal favore delle gallerie pubbliche proprio quegli artisti che si esprimevano nella maniera più intensa e significativa, privilegiando al loro posto la pittura “carta da parati” e la scultura dei soprammobili. Io cercavo un posto dove si potesse parlare, confrontarsi, un “circolo degli artisti” insomma, libero, aperto e curioso. Mi venne in mente che i prezzi degli immobili a Berlino si erano mantenuti ragionevoli e chiesi a mia moglie, che è appunto berlinese, di dare un’occhiata; venne fuori che con lo stessa somma che avrei dovuto impegnare per restaurare Villa Luciana avrei potuto sistemare una ex fattoria nella provincia di Berlino e soprattutto avrei potuto acquistarla, liberandomi dalla spada di Damocle degli sfratti, terrore di tanti artisti e persone di cultura periodicamente condannati a restare senza studio. Insomma, nel villaggio di Kunow nel 2012 ho messo su da solo il Centro Culturale Abaco Space. Il nome proviene dalla mia rivista Abaco, www.abacorivista.com, fondata nel 1977 con Luciano Caruso e tuttora attiva, l’ag-

Berlin-Kunow

fuori dalla trappola delle esclusioni giunta “Space” fu un’idea di Luca De Silva, intendendo con ciò che che il Centro era una filiazione tridimensionale della rivista e delle sue intenzioni liberali. Abaco Space è oggi anche il mio studio (150 mq.!), il mio deposito e il mio show room, ma rimane spazio abbastanza per accogliere ad esporre e ad esibirsi persone interessanti, per farli confrontare con gli spazi della ex fattoria, grandi e affascinanti ma anche molto difficili da interpretare proprio perché ricchi di personalità. La proprietà comprende quattro edifici edificati in mattoni rossi faccia vista posti attorno ad una grande corte, ovvero: la casa d’abitazione, il grande ex granaio su quattro piani, la galleria, uno spazio unico di 140 mq., e un edificio dove ho sistemato il deposito dei miei lavori bidimensionali. Dietro l’ex granaio, oggi spazio espositivo, si pare il terreno “selvatico” concluso da un boschetto con torrentello. Luca fu il primo artista visivo che ha lavorato ad Abaco Space (2012), ne sono seguiti molti altri, Edoardo Malagigi, Virginia Panichi, Sherry Mills, Ugo Dossi eccetera, come si può vedere consultando www.abacospace. com. Abaco Space pone una certa attenzione anche verso la musica sperimentale, vi si sono esibiti infatti Andrè Wlodarsky, Andrea Belfi, Martin Lau eccetera.

Quest’anno, il 27 di Maggio saranno da me a Kunow Mariateresa Sartori, Angelo Barone, Aroldo Marinai, io ovviamente esporrò con loro e mi pregusto già le giornate di discussione e confronto, l’approfondimento della conoscenza reciproca, la grande cena dell’inaugurazione: ritengo un privilegio poter convivere con gli artisti, sia pure per un breve tempo. E non sforzatevi a cercare i “principi critici” secondo i quali scelgo gli artisti perché questi non ci sono. Ad Abaco Space va bene tutto ciò che “funziona”, che dà cioè curiosità ed emozione; tutte le forme, tutte le tecniche, tutti gli stili sono ben accolti purché più o meno efficaci. Lavoriamo infatti in uno spirito di accoglienza, non di esclusione. E mi preme precisare che Abaco Space non è una galleria; anche se esiste la possibilità che qualche artista riesca a vendere, io non faccio nessuna pubblicità a tal fine e non percepisco comunque nessuna percentuale. Insomma, ho trovato un luogo che mi soddisfa, o meglio, me lo sono fatto. Ed ho raggiunto oltre all’obiettivo di sfuggire alla “trappola delle esclusioni” dei luoghi espositivi fiorentini, anche quello di portare un po’ di cultura italiana e fiorentina in Germania. Non che questo ci salvi dall’essere terra di conquista per le produzioni culturali d’oltralpe, ma insomma un luogo in più per dire la nostra ora l’abbiamo.

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Maschietto Editore Sabato 29 aprile 2017, ore 17.30 Ristorante Caffetteria La Loggia, Piazzale Michelangelo

DIALOGO SUL CONTEMPORANEO a partire dalla figura di Lara Vinca Masini con Antonio Natali e Adolfo Natalini introduce Simone Siliani, modera Francesca Merz “Dobbiamo parlare con la gente, trasmettere loro le stesse emozioni che proviamo noi davanti all’arte contemporanea” Lara Vinca Masini

Durante l’incontro sarà proiettato un filmato inedito con una conversazione tra Lara Vinca Masini, Fabio Cavallucci, Laura Lombardi e Claudio Nardi, organizzata da Cultura Commestibile nell’ambito delle iniziative per la tutela dell’archivio della grande critica d’arte. Nei mesi scorsi Cultura Commestibile ha lanciato un appello per chiedere alla Presidenza del Consiglio l’applicazione della Legge Bacchelli a favore dello straordinario archivio di Lara Vinca Masini, raccogliendo oltre 300 firme di personalità della cultura e dell’arte.

Questo incontro è il primo di una serie di appuntamenti culturali organizzati da Maschietto Editore con Cultura Commestibile presso il Ristorante La Loggia al Piazzale Michelangelo a Firenze. Per informazioni: tel. 055701111 - redazione@maschiettoeditore.com - www.maschiettoeditore


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