Numero
29 aprile 2017
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Nostra patria è il mondo intero nostra legge è la libertà Con la cultura non si mangia
Pietro Gori, mica gli Eiffel 65
Giulio Tremonti (apocrifo)
Maschietto Editore
NY City, Agosto 1969
La prima
immagine Tarda mattinata, in mezzo al Central Park, il grande polmone verde della città. Ricordo bene di essere stato colpito dallo sguardo diretto di questa giovane donna. In generale le persone non ti guardavano quasi mai negli occhi, andavano sempre di fretta cercando di evitare questo tipo di contatto. Questa, almeno fino a quel momento era stata la mia impressione. Un po’ il contrario delle nostre abitudini mediterranee. Spesso avvertivo la sensazione che le persone cercassero di mantenere una certa distanza “di sicurezza” nei confronti degli altri.. Questo sguardo diretto mi ha fatto pensare che forse le mie erano solo delle strane fantasie senza alcun fondamento.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
29 aprile 2017
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Riunione di famiglia Giani Democratico e progressista Le Sorelle Marx Ridi Pagliaccio I Cugini Engels
In questo numero Il 1921, la cooperazione e i partiti della sinistra di Emanuele Macaluso La porta racconto di Carlo Cuppini La voce della notte di Alessandro Michelucci Il tempo sospeso di Laura Monaldi Alessandra e la composite photography di Danilo Cecchi Il bisogno di ricordare tutto di Simone Siliani Storia del by-pass del Galluzzo - 2 di John Stammer
Il direttore artistico perplesso Lo Zio di Trotzky
Dog’s shit di Claudio Cosma Parigi merita di non essere tradita di Simone Zanuccoli L’uomo che ricorda di saper ruggire di Elisa Zuri Fast and furious di Melia Seth Marisa Mori al Lyceum di Cristina Pucci
Da non perdere Maschietto Editore Sabato 29 aprile 2017, ore 17.30 Ristorante Caffetteria La Loggia, Piazzale Michelangelo
DIALOGO SUL CONTEMPORANEO a partire dalla figura di Lara Vinca Masini con Antonio Natali e Adolfo Natalini introduce Simone Siliani, modera Francesca Merz “Dobbiamo parlare con la gente, trasmettere loro le stesse emozioni che proviamo noi davanti all’arte contemporanea” Lara Vinca Masini
e Mariangela Arvanas, Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Michele Rescio, Paolo Marini, Sara Chiarello... Durante l’incontro sarà proiettato un filmato inedito con una conversazione tra Lara Vinca Masini, Fabio Cavallucci, Laura Lombardi e Claudio Nardi, organizzata da Cultura Commestibile nell’ambito delle iniziative per la tutela dell’archivio della grande critica d’arte. Nei mesi scorsi Cultura Commestibile ha lanciato un appello per chiedere alla Presidenza del Consiglio l’applicazione della Legge Bacchelli a favore dello straordinario archivio di Lara Vinca Masini, raccogliendo oltre 300 firme di personalità della cultura e dell’arte.
Questo incontro è il primo di una serie di appuntamenti culturali organizzati da Maschietto Editore con Cultura Commestibile presso il Ristorante La Loggia al Piazzale Michelangelo a Firenze. Per informazioni: tel. 055701111 - redazione@maschiettoeditore.com - www.maschiettoeditore
Direttore Simone Siliani
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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di Emanuele Macaluso Pubblichiamo qui la lectio magistralis che Emanuele Macaluso ha tenuto a Livorno il 7 aprile scorso in occasione delle iniziative di Legacoop per il suo 130° anniversario. Durante quella giornata è stato presentato il restauro, avvenuto grazia al contributo della stessa lega delle Cooperative, della facciata del teatro San Marco di Livorno, che fu il luogo in cui si radunarono gli scissionisti del Partito Socialista, in congresso al vicino teatro Goldoni, per dare vita al Partito Comunista d’Italia. Proprio a partire da quella ricorrenza il movimento cooperativo ha chiesto al dirigente della sinistra italiana una riflessione sull’intreccio tra movimento cooperativo e la più vasta storia della sinistra italiana. La redazione ringrazia Legacoop toscana per averci concesso la pubblicazione in esclusiva dell’intervento. A me sembra molto significativo e interessante il tema che mi è stato chiesto di svolgere in questa conversazione con voi, perché si tratta di vedere e di ripensare cosa è stato il movimento cooperativo italiano nel rapporto con il grande movimento dei lavoratori, con la sinistra, con l’emancipazione che ha segnato la vita di tante persone e anche la storia del nostro Paese. Io penso appunto che ci sia stato un intreccio profondo tra questi movimenti, ed è un rapporto che nasce da un modo di pensare la società, un sentimento antico: l’idea che le persone, gli uomini e le donne, nascono uguali. L’uguaglianza delle persone: è questo il tema che ha animato per tanti anni la società, tante persone, tanti lavoratori e tanti intellettuali. I primi socialisti utopisti, basti pensare a Tommaso Campanella, sono della seconda metà del cinquecento e si ponevano già il problema di dove va la società e se questo tema, il tema dell’uguaglianza, fosse un tema da porre già in quel momento storico. A questo è seguito uno sviluppo impetuoso e diverso quando si è affacciato il capitalismo e quindi il problema del socialismo; il problema del rapporto dei lavoratori con la società e con il capitale. È il tema che ha animato il secolo scorso, ma io penso animi anche l’attualità, quello della lotta di classe. Lotta di classe che oggi cambia senso, cambia anche i modi di porsi; perché cambiando il capitalismo e la società sarebbe schematico pensare che anche le forme di lotta di classe siano uguali a quelle dell’ottocento, del novecento, o del duemila. Tuttavia la questione essenziale di cui io parlo e cioè il problema dell’uguaglianza, il problema
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Il 1921,
la cooperazione e i partiti della sinistra dell’emancipazione dei lavoratori, resta un problema ancora attuale. Come si colloca il movimento cooperativo in questo contesto? Già nel 1860, alla metà dell’ottocento, a Firenze si stampava un giornale, che si chiamava il Proletario e già allora in un articolo, Francesco Piccini, che era un socialista di Lugo, affrontò questo tema. Siamo in anni in cui il capitalismo comincia a svilupparsi e comincia a organizzarsi il movimento dei lavoratori. Cosa dice quindi in questo articolo apparso nel 1865 Piccini? “Bisogna riunire nelle stesse mani lavoro e capitale e perciò gli operai debbono associarsi e formare cooperative, dove essi lavoreranno nel loro interesse e godimento dell’intero frutto dell’opera loro.” Cioè il movimento operaio capì subito che non basta l’organizzazione politica: che è necessario che i lavoratori abbiano il sindacato (e quindi la organizzazione del movimento sindacale che comincia a costruirsi), ma anche il movimento cooperativo. Perché quest’ultimo questo si pone già come uno strumento per dare potere ai lavoratori e di godersi, come dicono già questi primi segni della organizzazione del movimento cooperativo, i frutti del proprio lavoro sottraendolo al capitale. Questa intuizione e questa direttiva diventeranno sempre più concrete quando fu sancita la sconfitta della strategia insurrezionale che era stata messa in atto dall’organizzazione dell’Internazionale. Era il periodo in cui si pensava di agire attraverso forme insurrezionali,
ricordiamo i grandi moti del 1874, che finirono però tutte nel massacro e nel carcere. Parlo degli anni di Bakunin, di Malatesta. Rispetto a questa battaglia, anche generosa e che coinvolse tanti lavoratori che pensarono quella insurrezionale fosse la strada, fu la forza e il potere dello Stato, che già avevano assunto una capacità di intervento anche violento, a prevalere. Noi oggi sappiamo che i risultati di quella stagione furono drammatici, per gli uomini e le donne del movimento operaio. Fu questo un momento importante perché anche uno dei fondatori del Partito Socialista, Andrea Costa, che era nel movimento internazionalista, e tanti altri esponenti di quel movimento, cominciarono ad intrecciare questa visione anche con l’attività parlamentare. Io ricordo che anche l’esponente del movimento internazionalista in Sicilia, un medico di Sciacca che si chiamava Friscia, fu anche lui parlamentare. Furono questi i primi parlamentari socialisti; però non c’era ancora in quegli anni, che pure sono importanti per la formazione di una coscienza collettiva che poneva il problema dell’emancipazione del lavoro come essenziale anche per il progresso del Paese, una agibilità politica e sociale. Furono anni di travaglio profondo, che ha coinvolto tante persone, e che ha avuto già alla fine dell’ottocento le prime forme di organizzazione strutturata: penso ai fasci siciliani, colpiti da Crispi poi con una violenza incredibile e con arresti, processi e morti, e penso alle organizzazioni dei lavoratori del nord,
repressi da Bava Beccaris che faceva cannoneggiare i lavoratori di Milano. Tutti momenti in cui lo Stato si incarnava e si intrecciava con gli interessi più conservatori e reazionari che pensavano che quel movimento potesse essere represso con la violenza. La nascita del Partito Socialista nel 1892, del partito dei lavoratori, segna un momento essenziale, non solo per dare una organizzazione nazionale ma per la formazione dei primi gruppi dirigenti, per dare alla battaglia politica anche un rapporto con la battaglia parlamentare e quindi con l’intreccio della lotta di massa con l’organizzazione dei lavoratori, nel sindacato, nel movimento cooperativo, in quello associativo. Fu questa appunto l’intuizione di uomini come Filippo Turati, come Andrea Costa, Modigliani, Treves, i fondatori del Partito Socialista; il quale ebbe uno sviluppo impetuoso soprattutto in rapporto al tipo di sviluppo del capitalismo. Con Giolitti il capitalismo infatti assume uno sviluppo nuovo a cui corrispose un interesse del governo diverso rispetto a quello che era già un forte movimento dei lavoratori; diverso rispetto a quello che aveva avuto Crispi. È in questo momento che anche il movimento cooperativo assume una fase nuova, più forte Sappiamo poi cosa avvenne con la guerra del ’14-18, sappiamo come in quel momento il neutralismo socialista, e anche il neutralismo di Giolitti, furono sconfitti. La guerra è stata quella che sappiamo: fu un grande macello. Macello dei lavoratori, dei contadini del mezzogiorno, di migliaia e migliaia di giovani, di ragazzi, i quali andarono a morire in massa. È nel primo dopoguerra tuttavia, con quella terribile esperienza consumata negli anni della guerra, che il socialismo ha un impulso e con il socialismo ha un impulso per la prima volta l’organizzazione politica dei cattolici, con Luigi Sturzo. Il quale aveva proprio un retroterra cooperativo; perché lui in Sicilia aveva costituito decine e decine di casse rurali, ritenendo che la possibilità di aiutare i contadini nel sottrarsi agli strozzini, agli agrari e alla mafia, l’unica possibilità era quella data dal credito. In Sicilia sorsero quindi con Sturzo decine e decine di Casse rurali, di cooperative agricole, un tessuto fondamentale, sviluppatosi poi in tutto il Paese, per la formazione del partito popolare, del partito che Sturzo organizza. Questo è un corso parallelo: nel primo dopoguerra noi abbiamo un grande sviluppo del movimento e del Partito Socialista e un grande sviluppo del Partito Popolare; insieme anche a grandi lotte sociali, nel mezzogiorno e nel nord.
In Sicilia ci furono allora le occupazioni delle terre che iniziano nel ’19: anche con l’organizzazione degli ex combattenti si costituiscono le cooperative per gestire le terre incolte, le terre sottratte agli agrari e alla mafia. Ci furono allora tanti morti. Nella mia provincia, io sono di Caltanissetta Riesi, furono uccisi 19 lavoratori proprio mentre occupavano quelle terre. Ricordiamoci però anche le grandi lotte operaie: le grandi lotte alla FIAT, a Torino nasce l’Ordine Nuovo, con Gramsci, con Togliatti, con altri giovani intellettuali e operai. Ci fu poi la grande occupazione operaia delle fabbriche. Un dopoguerra molto animato, socialmente forte ma allo stesso tempo forse incapace di dare uno sbocco a questa forza. Nel 1919 in Italia fu anche introdotto il sistema proporzionale: il superamento del localismo, dei collegi dominati dalla mafia nel mezzogiorno, dalle consorterie massoniche. Già con Giolitti nel 1911 si era esteso il suffragio universale maschile e quindi da allora le elezioni assumevano un significato diverso da quando erano limitate solo ai gruppi sociali più forti. Anche questo comportò una nuova forza al Partito socialista e al Partito Popolare, che aveva superato il non expedit della Chiesa Cattolica. Ebbene nel 1919 con la proporzionale, i due partiti costituiscono la maggioranza del parlamento. Il Partito Socialista ebbe un grande successo e un successo ebbe il Partito Popolare;
anche il movimento sindacale e il movimento cooperativo in questo contesto si rafforzano e diventano momenti essenziali, perché questo intreccio tra quello che è stata l’avanzata del movimento politico e contestualmente del movimento sindacale e del movimento cooperativo è stato un intreccio continuo. Sia nella avanzata, sia nella repressione, perché quando ci sono state le repressioni, queste hanno riguardato l’organizzazione politica, il sindacato e il movimento cooperativo. Questa è l’esperienza degli anni del primo dopoguerra quando nasce nel 1921 il Partito Comunista d’Italia, proprio qui a Livorno nel teatro di cui oggi pomeriggio andremo a inaugurare il restauro, grazie proprio al movimento cooperativo. Il Partito socialista nel 1921 si scisse e nasce il PCd’I, con l’Ordine Nuovo di Gramsci, di Togliatti, di Tasca, di Terracini, nasce con il gruppo meridionale di Bordiga, col Soviet, il nome del giornale napoletano di Bordiga, che aveva un gruppo fortissimo e maggioritario. Era quello napoletano il gruppo astensionista: cioè proponeva di non partecipare, nella tradizione dell’internazionalismo, alla competizione elettorale. Ebbene si è discusso anche in questi anni se la scissione comunista sia stata utile, necessaria e giusta. Ancora recentemente ho visto una polemica, sul tema delle scissioni, perché questo piccolo gruppo che si è scisso dal PD ha ricordato che le scissioni nella sinistra, purtroppo, sono state momenti continui: cominciò coi riformisti di Bissolati, poi c’è stata la scissione comunista, nel dopoguerra la scissione di Saragat, poi c’è stata la nascita del PSIUP, di altri gruppetti; quindi questi compagni hanno detto “noi capiamo, ma siamo dentro a questa storia”. Del resto anche negli anni in cui il Partito Comunista aveva un ruolo e una forza, questo problema, se è stato giusto fare la scissione del ’21, è stato sempre discusso. Io ricordo bene che già Gramsci aveva posto il problema nei Quaderni del Carcere; lo stesso Terracini aveva detto che bisognava ripensarla. Tuttavia c’è una frase di Giorgio Amendola, che a me personalmente, è sempre sembrata la più giusta. Lui definì la scissione di Livorno “un errore provvidenziale”. Amendola quindi mise insieme l’errore e il fatto che da quell’errore era nato un grande partito, una grande forza che aveva combattuto, come aveva combattuto, il fascismo e che ebbe quel ruolo dopo la Liberazione. In ogni caso per tornare a questi compagni di oggi, ecco io ho detto loro: badate, che quando ci fu la scissione del ’21 era avvenuto nel mon-
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do qualcosa di diverso da oggi. C’era stata la Rivoluzione di Ottobre. Si può avere tutti i giudizi, oggi, su quella rivoluzione, ma non c’è dubbio che quella rivoluzione cambiò il mondo e quindi il fatto che la scissione aveva come spartiacque aderire o non aderire alla terza internazionale, fa molta differenza. Aderire o non aderire al sostegno totale della rivoluzione di ottobre, era questa la posta in gioco. I famosi 10 punti, uno dei quali era purtroppo, per dare il segno di questo impegno, che i partiti socialisti dovevano espellere i riformisti. Quindi anche qui l’errore e la provvidenza come diceva Amendola. Perché non si può pensare che scissione del ’21 è come tutte le altre piccole scissioni che ci sono state, perché c’era qualcosa nel mondo, il mondo cambiava. In un grande Paese era avvenuta quella rivoluzione proletaria: quella presa del potere, lasciamo stare come era avvenuta e quali sono stati gli sviluppi, aveva cambiato il mondo e lo stava cambiando. Perché dobbiamo pensare al rapporto che ha avuto, nel bene e nel male, l’Unione Sovietica, con la storia del mondo: se penso a cosa ha significato il contributo dato alla seconda guerra mondiale, un contributo essenziale per sconfiggere il nazismo e per sconfiggere il fascismo. O il contributo, con tutte le contraddizioni, dato alla lotta anticolonialista, che ha significato la liberazione in tanti Paesi grazie all’appoggio e al sostegno dell’Unione Sovietica. Non fu quindi quella una scissione come le altre; fu una scissione che riguardava un cambiamento d’epoca politica. Eppure io penso che la discussione anche sulla giustezza di quella scissione, sia una discussione più che legittima, da parte di chi pensa che la scissione indebolì fortemente il partito socialista e la sinistra nel momento in cui il fascismo nel 1922 fece quello che fece. Perché nel 1922 il fascismo significò la fine della democrazia, la fine della libertà. Lo scioglimento dei partiti. L’attacco violento al sindacato e al movimento cooperativo. Perché l’intreccio era quello. L’attacco reazionario, violento, del fascismo e del grande capitale, fu diretto contro tutto quello che significava, aveva significato, lo sviluppo negli anni a cui abbiamo accennato. Fu quella una grande esperienza, un’esperienza terribile: perché il fascismo ha cambiato tante cose nella vita e nella coscienza del nostro popolo fino alla guerra e alla distruzione e alla mortificazione del nostro Paese; il quale si risollevò anche grazie alla resistenza, grazie al fatto
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di quella provvidenza di cui parlava Giorgio Amendola. Perché il ruolo che ebbe, diciamo le cose come stanno, il Partito Comunista nella resistenza, fu importante, determinante. E tuttavia la nostra non fu una resistenza comunista, stiamo attenti, la resistenza è stata nazionale: è stata la resistenza dei socialisti, dei comunisti, dei cattolici, dei monarchici, di parte dell’esercito, dei carabinieri: ricordiamoci quanti militari furono uccisi a Cefalonia. La resistenza è stata un grande fatto unitario. Ma sarebbe ipocrita non ricordare il ruolo che ha avuto la resistenza comunista, il ruolo che hanno avuto uomini come Ilio Barontini, militante comunista livornese. Barontini, io l’ho conosciuto bene, era per me l’esempio di cosa era stata la resistenza. Perché lui era andato in tutte le guerre in cui bisognava lottare il fascismo: andò in Africa, alla guerra etiopica, andò in Spagna, fece la resistenza. Cioè ci furono degli uomini, i quali pensarono che laddove c’era il fascismo, ci doveva essere l’antifascismo e dove c’era la violenza fascista, la guerra fascista, bisognava replicare con le armi anche. Questo ruolo che hanno avuto nella guerra di Spagna, nella guerra di Liberazione, uomini come Barontini e tanti altri è un fatto che riguarda la nazione, non riguarda un partito, riguarda la storia nazionale. Perché pensare che la storia del Paese non sia, nel bene e nel male, anche la storia del ruolo che ha avuto questo partito io credo che sia un grave errore che può essere pagato e forse in questo periodo stiamo pagando. Io però ora vorrei ricordare una questione che ha un intreccio con il movimento cooperativo: quale è stato il ruolo del Partito Comunista in rapporto alla cooperazione. Io voglio ricordare un fatto che a mio avviso è significativo, mol-
to significativo, di cosa è stato appunto questo rapporto. Nel settembre del 1946, Palmiro Togliatti andò a Reggio Emilia dove tenne due discorsi: fece un discorso al popolo, in un grande teatro, in cui invitò il ceto medio dell’Emilia rossa e poi Togliatti tenne un altro discorso ai soli iscritti al partito. Fu quest’ultimo un discorso molto importante che io ho ripreso nel mio ultimo libro su Togliatti; in questo discorso Togliatti fa un attacco durissimo alle cosiddette volanti rosse, al terrorismo che già allora alcune frange del partigianesimo come le chiamava Togliatti, avevano fatto anche in Emilia. Fu un discorso molto importante. Però io qui voglio ricordare Togliatti nel discorso che fa al popolo, all’Emilia, al ceto medio dell’Emilia Rossa, come si chiamava allora. Ebbene lui, in questo discorso, esalta le figure del riformismo emiliano: Andrea Costa, Anselmo Marabini, Giuseppe Massarenti, Camillo Prampolini. Erano gli artefici del riformismo emiliano, i costruttori del movimento cooperativo emiliano; e verso di loro Togliatti usa una frase straordinaria, dice: “voglio onorare queste persone, noi le dobbiamo venerare”. Usa la parola venerare. Poi naturalmente fa anche una critica a questi uomini che venerava e onorava. Non critica certo la grande opera organizzativa che fecero, il grande movimento cooperativo che sappiamo, anche in Toscana, cosa ha significato. La critica che faceva era questa: “Io faccio una critica perché molti bravissimi – usa questa frase – dirigenti delle cooperative, ritenevano di esaurire la loro funzione nel buon funzionamento della loro cooperativa e in molti avevano perso il problema del complesso del movimento operaio” Io ho ascoltato quello che ha detto prima di me il vostro presidente toscano, Roberto Negrini, il quale ad un dato momento ha detto una frase molto interessante, quando ha detto “bisogna avere in testa un modello di sviluppo”, “un’idea di società”. Ed era questa la critica che faceva Togliatti, cioè che non bisogna perdere l’idea di società. L’idea di società, badate, negli anni a cui mi riferisco, era l’idea che con la democrazia, l’organizzazione delle masse, la battaglia per le riforme, via via si andava verso il socialismo. La via italiana democratica al socialismo. Non più la rivoluzione, che era la parola d’ordine qui a Livorno degli scissionisti comunisti: “faremo con in Russia”, affermavano. No, a Napoli nel primo discorso che fa Togliatti rientrato in Italia nel 1944, dice: “non faremo come
la Russia”. Quella fase era finita, era chiusa. Le sconfitte che c’erano state in Germania con gli spartachisti, le sconfitte che poi anche successivamente anche dopo la guerra, avverranno in Grecia, dimostravano la non fattibilità della via insurrezionale. Togliatti disse la via democratica è inevitabile, non ci sono alternative. Quindi il nuovo orizzonte diviene la democrazia e il movimento cooperativo sta, in quel momento, nel disegno di una forza che organizzando il lavoro e intrecciando il movimento con le quelle che chiamava le grandi riforme di struttura, portava alla via italiana al socialismo. Del resto c’era stata già un’attività molto forte nel dopoguerra quando ci furono le grandi occupazioni delle terre, nel mezzogiorno. Io voglio che questa questione sia ricordata, perché lì nasce un nuovo movimento delle cooperative grazie alle grandi lotte che costarono tanti morti. Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della strage di Portella della Ginestra, che è stata una cosa terribile e fu un tentativo, quella strage e i 36 dirigenti sindacali uccisi, di dire: “da qui non si passa”. Invece il movimento continuò dopo la strage e l’agricoltura e la società siciliana, calabrese e il mezzogiorno cambiarono. Sì la mafia c’è ancora, sappiamo cosa è successo dopo, però la società e la struttura è cambiata: non c’è più il baronaggio, non c’è più il feudo. Il risultato essenziale di quella lotta furono le cooperative, le cooperative che gestivano la terra. Oggi quando si vedono i vini siciliani che vanno ora in tutto il mondo con una produzione straordinaria, dobbiamo ricordare che le prime attività, le strutture per i vigneti nel Belice e altrove, sono delle cooperative. Quelle cooperative sono state un battistrada dello sviluppo economico anche di quello che poi sarà lo sviluppo capitalistico del mezzogiorno. Molta parte dello sviluppo meridionale è dovuto a questo fatto straordinario che è stato il movimento cooperativo. E badate che se il Mezzogiorno non fosse uscito dalla feudalità, l’Italia non poteva pensare di fare miracoli economici e lo sviluppo che poi c’è stato. Di questo si deve tener conto. Quindi il percorso nel secondo dopoguerra qual era? Che queste riforme, lo sviluppo di un’industria e attività pubbliche, un forte movimento cooperativo, avrebbero via via trovato le forme, graduali, modificando progressivamente l’economia, la coscienza e la società, perché quell’ideale straordinario dell’uguaglianza potesse avere uno sviluppo democratico. Poi cosa è accaduto? C’è stato un momento dopo la crisi del 1991, la fine dell’Unione So-
vietica e la sua implosione, in cui il mondo sembrava appunto non avesse più niente a che fare con noi, perché era rimasto solo il dominio del capitalismo nel mondo; c’era la globalizzazione capitalistica, c’era il capitale finanziario dominante, e in parte è stato ed è ancora così. Però proprio in quel momento uscì un libretto di Bobbio, sulla sinistra, in cui si diceva: no, attenzione! La sinistra, comunque si incarni, come partito, come forza sociale, come sindacato, come cooperativa... deve comunque mantenere un obiettivo, e l’obiettivo è l’uguaglianza. Tendere all’uguaglianza non all’egalitarismo, il siamo tutti uguali e quindi dobbiamo dividerci tutto. No, la tendenza all’uguaglianza e al progresso, disse Bobbio. A me pare appunto questa la chiave di un’idea di società; quello che dobbiamo cercare nella condizione attuale. Tenendo conto che in questi anni non è andata avanti l’uguaglianza; è andata avanti la disuguaglianza, sono aumentate le disuguaglianze. C’è qualcosa che è avvenuto, non possiamo ignorare questo fatto. Le disuguaglianze di cui ha parlato Obama per il suo Paese, ma che riguardano la società anche nostra, sono cresciute e dunque il problema è: le forze politiche e l’intreccio che le forze politiche dovrebbero avere col movimento cooperativo, col sindacato, mantengono qui il problema di un’idea di società? Questa è la questione. Io ritengo che questo problema è aperto compagni. Sarei un ipocrita se dicessi il contrario. E’ molto aperto perché oggi, in questi anni, dopo la crisi della cosiddetta Prima Repubblica, la crisi dei partiti (io non voglio qui ricordare tutte le ragioni di quella crisi e le responsabilità anche politiche di quella crisi), non si è ricomposta una forza di sinistra che abbia come obiettivo quello a cui ho accennato e quindi che abbia anche un rapporto col
sindacato, un rapporto col movimento cooperativo, con l’associazionismo, con tutto quello che è necessario, giusto, utile, possibile, per andare avanti su questa direzione dell’uguaglianza. È questo il punto e se tale soggetto non c’è, io ritengo che non c’è un vero partito di sinistra. Un partito che vuole iscriversi, comunque si chiami, nella tradizione e negli ideali e nei valori di una sinistra del 2017, non certo quella di cento anni fa e nemmeno quella di 20 anni fa. Oggi, con il progresso che sappiamo, con la rivoluzione digitale, che sono un punto essenziale da valutare per costruire una forza politica, anche se non cambiano l’obiettivo essenziale di una forza di sinistra. Cambiano le forme di lotta, cambiano il modo con cui questi processi politici possono avvenire, cambiano gli strumenti con cui fare la lotta politica ma non l’obiettivo fondamentale. Perché se non c’è quell’obiettivo fondamentale, quello di tendere sempre all’uguaglianza, quindi al miglioramento, non c’è a mio avviso forza di sinistra. La sinistra deve mantenere questa caratteristica, è questo l’impegno che deve tornare. In questo processo il movimento cooperativo, ha detto bene il vostro compagno presidente, deve verificare il suo ruolo. Dopo la Liberazione il fatto nuovo che è avvenuto è che la cooperazione assume un ruolo costituzionale. L’articolo 45 della Costituzione dice “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La Legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura con gli opportuni controlli il carattere e le finalità”. È la stessa costituzione che ci dice qual è la grande funzione della cooperazione nella società. Sappiamo che c’è stato un attacco alla cooperazione anche perché c’è stata qualche ignobiltà vestita da cooperativa, non voglio dire altro anche di quello che è avvenuto anche a Roma, però il movimento deve trovare la forza e la capacità, l’impulso di darsi di nuovo questo carattere. Oggi le cooperative hanno i consorzi, hanno la grande distribuzione, hanno tante cose; io credo che sia assurdo pensare che nella modernità dei mezzi di produzione la cooperazione doveva restare quella che ho conosciuto quando si apriva una piccola bottega con scritto Cooperativa. È chiaro che bisogna avere la capacità di stare con il nuovo ma senza perdere quei caratteri che la stessa Costituzione afferma. Quei caratteri che sono fondativi del movimento cooperativo e sono intrecciati con una idea di società, questa io credo che debba essere la lotta e il movimento negli anni venturi.
7 29 aprile 2017
Le Sorelle Marx
Giani Democratico e progressista
Grandi sconvolgimenti sono alle viste nella politica toscana: il nostro mito assoluto Eugenio Giani, presidente del Consiglio Regionale e lo Zelig della politica toscana, sta per cambiare (nuovamente) casacca e si sta avvicinando, con il suo solito passo felpato, verso la nuova formazione della sinistra, Articolo 1 Movimento Democratici e Progressisti. Vi sembrerà impossibile, ma le nostre informazioni sono di prima mano. Ne è fortissimo indizio una delle (infinite) celebrazioni storiche cui Eugenio ha partecipato, e si sa, il Giani non fa mai le cose a caso. Il 27 aprile Eugenio ha ricordato questa fatidica data del 1859 quando la Toscana dopo secoli diventa Stato senza dinastie regnanti, con la partenza da Firenze di Leopoldo II Lorena. Eugenio ci informa che allora, in quella che è oggi Piazza Indipendenza, ci fu una pregevole iniziativa: una grande e partecipata manifestazione durante la quale si costituì il Governo
Lo Zio di Trotzky
Il direttore artistico perplesso
L’amico Ventrella ci fa sapere su Facebook, ricordano una bellissima iniziativa nel carcere di Sollicciano, che lui, sul tema notte bianca, è sempre stato perplesso. Caspita, non ce ne eravamo accorti negli anni in cui ne era stato Direttore Artistico e, da bravo professionista, organizzava e magnificava al meglio l’evento. Peraltro non dice che è diventato perplesso dopo che l’evento, da novità, si è trasformato inevitabilmente in consuetudine. No dice che lui, perplesso, lo è da sempre. Figurarsi noi, caro Riccardo, che abbiamo sempre trovato la notte bianca un’altra manifestazione del provincialismo cosmopolita della nostra città; averlo saputo ti avremmo chiesto, allora, un bell’editoriale per questa rivista.
8 29 aprile 2017
provvisorio della Toscana guidato prima da Ubaldino Peruzzi poi da Bettino Ricasoli. Eugenio si è precipitato, come da foto, in piazza Indipendenza, con i nostalgici del Risorgimento, ad omaggiare il monumento a Giuseppe Dolfi, leader dei Democratici Progressisti seguaci di Mazzini e Garibaldi. Certo, non c’è Movimento (trattasi di statua, appunto), ma Democratici e Progressisti ci sono tutti.
I Cugini Engels Ridi Pagliaccio “La commedia è finita!”, conclude rivolto agli spettatori, Canio il capocomico della compagnia teatrale itinerante, nell’opera lirica di Ruggero Leoncavallo, Pagliacci. Si sa che il sindaco Nardella ama la musica e forse, nella vicenda della moschea a Firenze, avrà voluto vestire i panni del capocomico, riuscendo perfettamente nell’intento. Ma, come per Leoncavallo, il vero facitore della farsa non è il pagliaccio Canio bensì il delatore Tonio che svela a Canio la tresca fra la di lui moglie Nedda e il contadino Silvio, così nella farsa fiorentina il vero factotum è Renzo che ha spiegato – tecnicamente e giuridicamente, s’intende – a Canio-Nardella che la moschea alla caserma Gonzaga non si poteva fare. Del resto che la moschea, né alla Gonzaga né altrove, non s’aveva da fare, Tonio-Renzi lo ha fatto intendere più volte nei cinque anni della sua sindacatura, caratterizzata più per i “non si può” che pure il “fare”, con buona pace della sua retorica. Ha voglia Canio-Nardella a intonare il “No, Pagliaccio non son”: sulla scena il re è nudo ed egli appare con il suo cerone bianco, il trucco pesante e grottesco, le vesti sgargianti da clown, a dimostrare la sua vera natura, quella del capocomico indotto all’efferata azione dall’altrui volontà. Allora noi gli diciamo, tutti in coro: “dai, Canio-Dario, vesti la giunta! Facce’ ride’”. E altrettanto coralmente invochiamo Tonio-Matteo: “Son qua, ritornano!”, indimenticato è vero sindaco di Firenze.
Nel migliore dei Lidi possibili
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Basta con le vecchie cromie tripartite di inciuci colorati, prendete atto che non esistono più né verde, né bianco, né rosso
Segnali di fumo di Remo Fattorini Sconsigliato. Lo dico ai fiorentini e ai tanti turisti con destinazione Firenze: evitate di arrivare all’aeroporto di Pisa dopo le 22.15. Per la semplice ragione che l’ultimo treno per Firenze parte alle 22.30. Un viaggio lento (un’ora e venti) ma con un arrivo civile. Da lì per le varie esigenze ci sono, comodamente, taxi e tramvia. Peccato che l’intermodalità resti da noi una pia illusione. Lo dico per esperienza personale, essendo rientrato giovedì da Malta con arrivo a Pisa alle 22.35. Stessa fascia oraria di altri voli provenienti da Roma,
Tenerife, Londra, Bari, Catania e Lisbona. Atterrati tutti tra le 22.30 e le 22.45. In perfetto orario per perdere, anche se solo per pochi minuti, la coincidenza con il treno per Firenze. Ai fiorentini e ai tanti turisti non resta quindi che l’alternativa del bus. Poco male direte voi. In teoria si arriva sempre a SM Novella in poco più di un’ora di viaggio. In pratica le cose, per come sono di-sorganizzate, stanno diversamente. A quell’ora la Toscana accogliente, organizzata e moderna o è a dormire o è distratta. Ad accogliere i viaggiatori c’è un’altra Toscana, quella disorganizzata, cialtrona e anche maleducata, in pratica una regione che nel giro di poche ore scivola nel profondo Sud del mondo. Vi racconto la nostra odissea. Il primo bus disponibile parte un’ora dopo, alle 23.30. Nel frattempo i viaggiatori aumentano. Quando arriva c’è l’assalto all’Ok Corral, rallentato da un lento e inutile controllo del biglietto. Il tutto sotto la pioggia, al capolinea di una pensilina scoperta. Non c’è po-
sto per tutti e alcuni restano fuori. Sembra ci sia ancora una corsa, ma non si capisce bene. Per i fortunati che arrivano a Firenze (intorno all’una) il bus, causa ingorghi (?!), non arriva più alla stazione ma si ferma in viale Strozzi, di fronte alla passerella che porta al binario 16. Luogo buio e privo di indicazioni. Il gruppo di francesi e tedeschi persi e smarriti. Noi indigeni increduli ma rassegnati. Si imbocca la passerella ma, sorpresa, l’ingresso alla stazione è sbarrato da un cancello. Non ci sono alternative: sotto la pioggia, trascinando bagagli, saltando cordoli e attraversando strade la lunga fila indiana imbocca il marciapiede di via Valfonda. Si arriva alla stazione. Per fortuna i taxi ci sono ancora e l’odissea finisce. Stupisce che nessuno abbia pensato che a quell’ora i bus potrebbero. senza problemi, raggiungere la stazione, evitando a tutti una notte da maratoneta. Così se l’intermodalità resta un sogno, il buon senso è come l’araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.
9 29 aprile 2017
di Laura Monaldi Le fotografie di Maria Di Pietro evocano una bellezza ancestrale che si perde nella notte dei tempi; si lasciano assaporare nella loro totalità cogliendo al tempo stesso le sfumature impercettibili all’occhio umano; sono narrazioni visive dall’alto slancio poetico e metaforico, in cui il colore o le scale di grigi non fanno altro che aggiungere enfasi alla visione. Il fotografo è per antonomasia un predatore di immagini, ma per Maria Di Pietro la fotografia è un cosciente divenire di bellezze, verità e libere associazioni del pensiero; è la sintesi completa fra la riflessione e la rappresentazione dell’esistente, nonché il sentimento di un oblio inarrestabile a cui è impossibile non partecipare. Scorci, paesaggi e particolari sono il resoconto diaristico di un soggettivo modo di vedere e carpire il mondo circostante, attraverso uno sguardo penetrante e onirico dentro e oltre il reale. Nella serie Il
Il tempo sospeso tempo sospeso – in mostra alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia fino al 3 giugno – l’immaginazione su ciò che era e su ciò che sarà si fonde con il senso di abbandono allo scorrere del tempo. Una creatività che lascia emergere l’idea dell’esistenza della Storia, in cui l’uomo e il mondo si stagliano in un piano secondario, facendo emergere l’essenza intima di uno spazio dominato dalla Vita e di tutto ciò che rimane di essa nell’eterno ritorno del nulla, della dimenticanza e della distruzione che il Tempo opera. I treni fotografati da Maria Di Pietro sono la metafora di un viaggio ai confini degli inganni dell’apparenza: tra presente e passato, tra malinconia e gioia della scoperta, l’archeolo-
In ogni città vive un tempo sospeso. Scorre sui margini delle mura, s’insinua nelle nervature delle crepe, ha il volto della solitudine e il suono di vite vissute. Vive in un momento come una fitta nebbia avvolta nel suo corpo. Come un’interruzione improvvisa tra gli angoli le curve in ogni forma diventata scrigno di una storia una solitudine dei luoghi avvolta da suoni vivi nel silenzio e nell’immaginario. Si colgono i profumi, le gioie e le paure. La sostanza del tempo s’incolla alle mani che Cercano di toccare quel tempo, le labbra provano a raccontare negli occhi come acqua che dilata le pupille fino a vedere immagini infinite di vite esistite, lì per sempre come tracce, come note, aspettando chi sappia fermarsi a reinventare tra un bianco e nero, le sfumature dei colori e dei suoni.
10 29 aprile 2017
gia ferroviaria del fotografo lascia presagire la necessità di una realtà da vivere e toccare con mano. Riesumati da un antico sogno e riportati con vigore alla ragione attuale attraverso la stampa fotografica, i treni di Maria escono dalla fotocamera interpretati sotto una nuova luce, in cui l’emozione del ritrovamento e la coscienza del filo sottile che separa il domani dal remoto spiccano su paesaggi desolati e resti di mondo che hanno ancora molto da raccontare. Al fotografo moderno spetta l’arduo compito di offrire al pubblico una visione inedita della realtà, di veicolare lo sguardo oltre ciò che il reale può offrire e Maria Di Pietro ci riesce con una maestria inimitabile.
Musica
Maestro di Alessandro Michelucci Il fascino della notte ha ispirato artisti di ogni tipo. Pensiamo agli Inni alla notte, ciclo poetico di Novalis (1800); alla Notte stellata di Vincent van Gogh, olio su tela del 1889; al libro di Kazuo Ishiguro Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo (Einaudi, 2009). La musica non fa eccezione, tanto è vero che il termine notturno indica brevi composizioni pianistiche tipicamente romantiche, dove i toni lirici e sognanti si alternano a quelli cupi o malinconici. Molti compositori europei, fra i quali Debussy, Grieg e Liszt, hanno utilizzato questa forma espressiva, ma quello che le viene comunemente associato è Fryderyk Chopin (1810-1849), che compose i celebri ventuno Notturni fra il 1827 and 1846. Eppure non fu il musicista polacco, ma l’irlandese John Field (1782–1837), a concepire per primo il notturno. Nato a Dublino in una famiglia di musicista, allievo di Tommaso Giordani e Muzio Clementi, Field era particolarmente sensibile al fascino della notte. Nel 1810,quando nacque Chopin, era già un pianista affermato. I due si conobbero e il musicista polacco divenne un grande ammiratore dell’altro, restando influenzato dalla sua tecnica compositiva. I notturni del compositore irlandese, scritti fra il 1812 e il 1836, sono stati registrati da vari interpreti. Il lavoro più recente è Complete Nocturnes (Decca, 2016), realizzato da Elizabeth Joy Roe. La pianista statunitense di origine coreana vanta un curriculum prestigioso. Ha collaborato con artisti come Leonard Slatkin e Daniel Hope. Insieme al pianista Greg Anderson forma un duo che riscuote grandi consensi. Complete Nocturnes ci permette di capire le differenze fra i notturni di Field q quelli di Chopin. Il secondo possiede una gamma espressiva meno ampia: ascoltando il disco si percepisce qua e là una certa monotonia timbrica e melodica, temperata comunque da un lirismo intenso. Interprete incisiva
e attenta alle sfumature, Roe aggiinge alla propria discografia un disco di grande interesse. Chi volesse approfondire la figura del musicista irlandese può leggere il libro John Field and the Nocturne (Xlibris, 2006), scritto da Allan Wagenheim.
La voce della notte SCavez zacollo
disegno di Massimo Cavezzali
11 29 aprile 2017
Il mondo
senza
gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni
di Carlo Cuppini Storia di un uomo che osserva dall’alto di un bastione un altro uomo più giovane fermo accanto a una grande porta fortificata. Il secondo uomo, con ogni evidenza, è il se stesso di molti anni prima, capitato chissà come sotto i propri occhi. Con il passare degli anni si era completamente dimenticato di lui, e ora la visione lo cattura. È quasi sera. Dal modo in cui si muove e sembra attendere qualcosa, si comprende che l’uomo più giovane è il custode o il guardiano della porta, o forse semplicemente l’incaricato ad aprire i battenti la mattina e chiuderli la sera. All’improvviso, come rispondendo a un segnale preciso, il giovane passa sotto l’arco imponente della soglia, afferra un’anta e se la tira dietro chiudendola. Quindi rientra per fare lo stesso con l’altra. Il meccanismo della porta permette alla serratura di scattare soltanto quando i battenti vengono tirati con forza dall’esterno: non c’è chiave, e chi chiude la porta è destinato a rimanere fuori dalla città. L’uomo che osserva dall’alto pensa che il giovane se ne stia andando per sempre, dato che non sarà possibile riaprire la porta, né per lui, né per chi resterà all’interno. Afferrata la seconda anta, però, il giovane si blocca sorpreso da una visione inattesa. A pochi metri da lui, lungo una seconda cerchia muraria più interna, c’è un’altra porta, più piccola, anch’essa munita di pesanti ante di legno che in questo momento sono socchiuse. Un puledro snello e muscoloso, con il manto che va dal bianco al rossastro, si sta affacciando tra i battenti, scosta i battenti spingendo con i fianchi quel tanto che gli basta per passare e procede dritto fino alla porta più grande. L’uomo, rimasto immobile, si fa da parte tirando l’anta verso l’interno, per aprirla del tutto e permettere al cavallo di passare. L’animale trotta libero, spettrale con il suo manto chiaro che riluce nella notte ormai sopraggiunta. Quando la visione è sparita, il giovane torna alla sua occupazione: afferra l’anta che aveva spalancato e fa di nuovo per chiuderla, per chiudere se stesso fuori dalla città. Ma di nuovo una visione lo interrompe. E questa volta lo rag-
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gela. Una figura femminile appare tra i battenti della porta più piccola, confusa nell’oscurità, nel silenzio tombale che adesso permea ogni pietra. È una donna anziana, completamente nuda tranne che per uno straccio bianco, molto liso e quasi trasparente, che le copre l’addome. La sua pelle è avvizzita, lucida e rosea come se fosse stata cotta nell’acqua bollente. Il volto è intriso di una sofferenza immobile. Gli occhi sono due fessure, i capelli sembrano paglia gettata sulla fronte. Avanza verso la grande porta esterna, le braccia tese in avanti a indovinare la direzione, nell’evidente impossibilità di fare affidamento sui propri occhi. L’uomo, paralizzato dallo sgomento, pensa soltanto: “No. Mamma, non avrei mai voluto vederti così.” Mentre la donna si avvicina, lui si scosta badando di non fare rumore. Tiene ben aperto il battente e trattiene il respiro per far sì che la donna passandogli accanto non percepisca la sua presenza. Aspetta che abbia attraversato la soglia e che sia giunta fuori dai confini della città. Poi con uno slancio attraversa a sua volta la porta, senza curarsi di sbattere l’anta per serrarla, e raggiunge la madre. Adesso la donna non appare più nuda, non sembra scorticata né ustionata, non è più morta. Però è chiaro che sta per andarsene. Per questo motivo se ne sta china, a occhi chiusi, immersa in una dolente e muta meditazione. Il giovane uomo le si avvicina tremante, la sfiora con le dita, aspetta un suo sussulto, una sua
La porta
reazione che non arriva. Allora la abbraccia con vigore, la stringe a sé, accarezza il suo viso e le dice: “Mamma, ti voglio bene. Mamma, sono carne della tua carne. E anche se tu adesso morirai, questa cosa resterà vera per sempre.” Piange. La madre resta impassibile. Si sta già inoltrando dentro il territorio distante della morte. Nemmeno apre gli occhi, se non dopo un lungo tempo. Solo allora l’abbraccio ha termine e il giovane si stacca lentamente. Insieme, in un muto accordo, il figlio e l’anziana si avvicinano di nuovo alla porta, con l’intento di chiuderla finalmente, una volta per tutte, tirando insieme i battenti, chiudersi alle spalle il ricordo della città. Entrambi afferrano con una mano l’estremità dell’anta ancora aperta. Ma quando si accingono finalmente a tirarla, l’irruzione di una nuova, rumorosa presenza li interrompe. Un uomo basso, grassoccio, eccessivamente elegante e ridicolo, sbuca dalla porta più interna, come prima il cavallo e la madre. L’uomo ha una bombetta calata sulla fronte, grandi occhiali tondi sul naso, un vestito nero con la camicia bianca. Se ne va spedito, trotterellando su gambette troppo corte, con un passo da sempliciotto benestante. Senza guardare in faccia né l’uomo né la donna guadagna l’uscita e se ne va per la sua strada fischiettando. La madre si volta verso il figlio e per la prima volta pronuncia delle parole: “Quello è il cocchiere.” Restano lì, nello spazio tra l’anta chiusa e quella aperta. Il giovane sa che questa volta la porta verrà chiusa davvero; il momento è delicato, sente l’aria che vibra intorno a sé. Si prepara a compiere il gesto finale. Da lontano, intanto, dal cuore della città, provengono rumori sordi: sono i tonfi e i rantoli degli acrobati – alcuni dei quali farabutti e assassini – che in piazza si cimentano con il quadruplo salto mortale. Lui sa bene che una sola ragazza ci può riuscire agilmente; tutti gli altri cadono male, e restano stesi per terra urlando come morsi dal diavolo, i denti che stridono per i dolori lancinanti e le convulsioni causate dall’impatto violento col suolo. La porta viene chiusa. Il giovane ascolta lo scatto della serratura. I suoni della città sono rimasti chiusi dentro. Fuori è silenzio, nella grande notte che ascende. Non si vede più niente: il cavallo, il giovane, la madre, sono spariti nel nero. Fuori dalla città non c’è più nessuno. L’uomo sul bastione solleva gli occhi da terra. Il cielo è buio, pieno di una luce nera che si spande vorticosamente in tutte le direzioni. Ha assistito a tutti questi accadimenti mirabili senza fiatare. Il gelo gli scende dagli occhi e penetra nel cuore.
di Mariangela Arnavas Il termine ebraico rechem/rachamim, presente nel Vangelo all’interno di una varietà lessicale più ampia, solitamente tradotto in italiano con “misericordia”, potrebbe essere meglio reso con la parola “tenerezza”, così suggeriscono le quattro bibliste, Rosalba Manes, Annalisa Guido, Rosanna Virgili, Marisa Nicolaci che hanno pubblicato nel 2015 un commento ai Vangeli, fondato su un’accurata analisi del testo, da un’angolazione e con interpretazione femminile. In effetti, mentre la misericordia sembra contenere implicitamente un passaggio dall’alto al basso, la tenerezza appare più orizzontale, comprende il riconoscere nell’altro le proprie fragilità ma anche la forza vitale e soprattutto è un sentimento concretamente umano, come la sua etimologia suggerisce; il lat. tenerus indica ciò che ha poca durezza, che acconsente al tatto e non è un caso che la sequenza finale del film di Amelio consista nell’avvicinamento anche fisico di padre e figlia, lontani per tutto il film sia nel linguaggio verbale che in quello non verbale, che finalmente si accarezzano le mani. E la tenerezza, la capacità di provarla ed esprimerla è profondamente legata in questo film alla felicità possibile che, come dice uno dei personaggi nella parte finale, “è una casa a cui tornare” (l’ispirazione della storia viene dal romanzo di Lorenzo Marone, “La tentazione di essere felici”). Ma la tenerezza, nonché la felicità sono traguardi non scontati e molto difficili da raggiungere; lo sguardo di Amelio sulla famiglia o meglio sulle due famiglie che ci fa incontrare nel film è uno sguardo privo di quella asfissiante retorica che da decenni una parte dell’opinione pubblica italiana, in basso e in alto ci infligge; emerge l’acuta consapevolezza che genitori e figli non si scelgono e si possono non amare; l’amore autentico non è conseguenza né dei legami di sangue né tanto meno dei contratti matrimoniali. Talora anzi, come in questa narrazione, sono i sentimenti di spontanea tenerezza che sorgono verso estranei e la comunicazione con loro che possono consentire di liberare dai pesi delle incomprensioni passate anche i rapporti familiari; talvolta, ma niente è scontato e la tragedia può essere dietro l’angolo, svolgersi nella casa accanto, solo dopo qualche avvisaglia di significato ambiguo. Già un altro regista, di recente, ha sondato questo terreno con maestria e con grandi film; impossibile non
Una misericordiosa tenerezza ripensare al Clint Eastwood di “Gran Torino” e anche di “One Million Dollar Baby”. I personaggi di Amelio, che si stagliano nella narrazione grazie alla notevole prova degli attori, a cominciare dal protagonista fino alla breve, ma molto significativa sequenza affidata a Greta Scacchi, camminano macinando le angosce e i dubbi a lungo, inseguiti da motorini e auto per le strade di una Napoli, anch’essa non retorica, caotica come le metropoli odierne, ma senza eccessi di degrado e con sprazzi di bellezza e lentamente, alcuni, soprattutto nella seconda parte del film, riescono a dipanare la matassa del non detto, degli equivoci, segreti e misteri del passato, fino a fa riemergere tra loro, appunto, la tenerezza. Sono famiglie senza maschera quelle che il regista ci suggerisce e ci mostra, dal padre anziano che ammette di non riuscire ad amare i suoi figli da quando sono diventati grandi, all’altro giovane genitore che confessa di non saper di cosa parlare ai suoi bambini. La storia evolve con lentezza perché è fati-
coso far emergere e venir fuori il sentimento autentico della tenerezza, ma il film è teso e non perde mai il ritmo, non ci sono cadute e questa limpidezza è, a mio avviso, legata non solo alla completa assenza di pregiudizi, ma soprattutto alla capacità di non giudicare nessuno dei personaggi, pur negli errori, nelle avversità, nella tragedia e nelle piccole debolezze; credo sia questo il presupposto che ha permesso al regista di guidare magistralmente gli attori , consentendo loro di “farsi raggiungere dai personaggi in profondità”, come dice Elio Germano, interprete del giovane padre. Forse proprio il conseguimento di un’età avanzata sia da parte del regista sia del protagonista che, in buona misura, lo rappresenta fa avvertire come una vera e propria necessità rinunciare a giudicare non tanto per non essere giudicati, quanto per comprendere e calarsi a fondo nella realtà umana fino a riscoprire sentimenti autentici, riscattando così almeno in parte il proprio destino di solitudine.
13 29 aprile 2017
di Simone Siliani Oggi vorrei odiarvi, ma non riesco. Sì, voi, sparuto manipolo di reduci e nostalgici che ogni anno vi riunite al cimitero di Trespiano per rendere omaggio ai morti della Repubblica di Salò. Voi che pretendete di trasformare aguzzini e traditori della Patria in eroi al pari (e per voi ben sopra) di quelli che dettero la loro vita per liberare l’Italia dal giogo fascista e nazista e restituire dignità a questo Paese. Voi che pretendete pietà da morti per chi non ne ebbe in vita. Conosco alcuni di voi per aver frequentato le stesse aule consiliari, quali eletti democraticamente dal popolo, e non posso non salutarvi cordialmente come ho fatto ogni giorno in quelle aule della democrazia. Dovrei odiarvi, eppure provo un misto di rabbia e compassione per queste vostre patetiche celebrazioni. La rabbia è perché a oltre 70 anni di distanza ancora non avete capito che se potete liberamente manifestare la vostra opzione politica per i vinti e se qualcuno di voi ha potuto essere eletto dal popolo nei consigli comunali o provinciali è perché coloro che omaggiate sono stati sconfitti e perché quelli che disprezzate in questo 25 Aprile hanno vinto. Non avete capito che la libertà di cui voi anche oggi godete è il frutto del sacrificio di migliaia di ragazzi, donne e uomini che hanno combattuto i vostri eroi. Ma la rabbia più grande la provo per me, per noi che non siamo riusciti pienamente, in oltre 70 anni, a far crescere, non tanto in voi che vi immagino risoluti nell’errore fino alla fine dei vostri giorni, ma in tanti giovani di oggi la consapevolezza del valore della libertà, della democrazia. Dove e quando abbiamo sbagliato? mi chiedo con tormento. Perché, se alcuni dei vostri rappresentanti istituzionali hanno potuto dire qualche anno fa – senza provare vergogna e sollevare pubblico scandalo dei suoi – che Mussolini non fece poi male (salvo guerra e leggi razziali) nell’aula dove il Duce si assunse nel 1926 la responsabilità del delitto Matteotti, allora qualcosa non ha davvero funzionato. C’è, dunque, ancora tanto da fare per ricostruire memoria viva e attuale di ciò che precedette questo mattino di libertà. Joshua Foer, nel suo libro L’arte di ricordare tutto, racconta di come il poeta Simonide di Ceo nel V secolo a.C. ricostruisce la memoria della tragedia del crollo della sala in cui si celebrava il nobile tessalo Scopa: la sua paziente e meticolosa ricomposizione delle macerie permettono
14 29 aprile 2017
Il bisogno di ricordare tutto una collettiva riattivazione della memoria dei morti sotto il crollo. Ecco, penso spesso che questa minuziosa e mai completa ricostruzione e assemblaggio di lacerti del passato, dei fatti piccoli e locali (dalle stragi
Foto di
Pasquale Comegna
alle biografie, dalle passeggiate nei luoghi della Resistenza alle ricerche, spettacoli, film, lavori nelle scuole), possano restituirci il senso della felicità di quella mattina di fine aprile di 72 anni fa.
Il sole basso all’orizzonte
di John Stammer Attraversare la strada sulle strisce pedonali. In modo ordinato e con passo deciso. Poi proseguire sul marciapiede fino alle strisce pedonali successive e attraversare nel senso opposto. Tornare sul marciapiede alle strisce pedonali e attraversarle di nuovo. Questa era la forma di protesta civile che era stata messa in atto da un centinaio di abitanti del Galluzzo. Protestavano contro il traffico sempre maggiore che aveva trasformato la via Senese in una sorta di camera a gas. Il traffico per quel giorno era stato bloccato ma il giorno successivo sarebbe stato di nuovo come prima. La soluzione per liberare dal traffico l’abitato era ancora di là da venire. Anche la famosa “tangenziale sud di Firenze”, di cui il viale dei Tanini, realizzato agli inizi degli anni ‘70, avrebbe dovuto costituire un tratto, non sembrava essere una soluzione praticabile. Per ipotizzare il coinvolgimento di Anas nella realizzazione di quest’opera si erano anche mossi i vertici provinciali del maggior partito della città, il PCI, insieme a tutti i sindaci dell’area sud della città. L’ipotesi era stata presentata in una affollatissima assemblea pubblica alla Casa del Popolo del Galluzzo nell’aprile del 1988, ma la soluzione non appariva a portata di mano. Anche perchè proprio in quegli anni la coscienza ecologica e di salvaguardia del paesaggio cominciava a farsi strada nella popolazione. Nella relazione introduttiva dell’assemblea questi problemi erano affrontati: “....in considerazione dell’alto valore paesaggistico dei luoghi che occorre attraversare, e della vicinanza di monumenti di valore universale, nonchè della densità urbana della parte pianeggiante del tracciato fra Torregalli e l’Indiano...... si ritiene opportuno che detta viabilità, come peraltro già definito dal progetto preliminare di PRG, possa e debba assumere, in alcuni suoi tratti, una configurazione diversa da quella della parte nord-ovest, soprattutto in relazione all’andamento altimetrico, adeguandosi il più possibile al terreno e evitando grandi opere infrastrutturali”... Pur tuttavia numerose assemblee si sarebbero svolte alla Casa del Popolo di Ponte a Greve contro un progetto che si inseriva con difficoltà nel delicato equilibrio ambientale della zona. Sembrava una battaglia senza soluzione quella che il Galluzzo stava combattendo, tutte le forze politiche unite, contro il traffico. Il primo barlume di soluzione si iniziò a intravedere nel 1995 quando si dovette
Storia del by-pass del Galluzzo
Le proteste
mettere mano al rifacimento del Ponte della Certosa. Il vecchio ponte in pietra, fatto saltare dalle mine tedesche nell’estate del 1944, era stato sostituito nel primo dopoguerra con un ponte in cemento armato, ma
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senza tenere in debito conto del fiume sottostante. Che infatti nel 1966 e poi per due anni consecutivi nel 1991 e nel 1992 aveva tracimato nella zona ora occupata dai giardini di Viale dei Tanini, allagando buona parte dell’abitato e tutta la piazza Acciaiuoli, perchè il deflusso delle acque in alveo era ostacolato proprio dalla struttura del ponte. Il comune di Firenze decise allora, anche a seguito delle iniziative di un agguerrito comitato di cittadini, il rifacimento del ponte. Per garantire la continuità funzionale alla via Senese fu deciso di realizzare, a valle del ponte da demolire e ricostruire, un ponte Bailey. La soluzione prevedeva che al momento dell’apertura al traffico del nuovo ponte il ponte Bailey sarebbe stato smontato e tutto sarebbe tornato come prima. Ma si sa le cose provvisorie in Italia hanno una vita lunga. Infatti il ponte Bailey è ancora in funzione e svolge ancor egregiamente il suo compito. La realizzazione del ponte Bailey racchiudeva però una seconda e più importante novità. La realizzazione del ponte era stata posta a carico di Società Autostrade. Si iniziava infatti a parlare della terza corsia nel tratta urbano fiorentino dell’Autostrada del Sole. La soluzione del traffico al Galluzzo aveva intrapreso la strada giusta. Ma il percorso per arrivare alla soluzione sarebbe stato ancora molto lungo, tortuoso e disseminato di ostacoli. Un vero gioco dell’oca (continua.)
15 29 aprile 2017
di Danilo Cecchi Nella galassia fotografica l’immagine che blocca il movimento e rende l’attimo eterno non è che uno dei tanti aspetti del fare fotografico. All’altro capo del mondo fotografico vi sono le composizioni fotografiche, in cui due o più immagini vengono accostate, sovrapposte o miscelate in modo da ottenere effetti piacevoli o paradossali. La composizione fotografica è una tecnica antica quanto la fotografia stessa, può essere realizzata con il metodo del fotomontaggio o con quello della doppia o tripla esposizione, sia in fase di ripresa che di stampa. La doppia esposizione (casuale), una volta considerata un errore, viene apprezzata in ambito surrealista e viene praticata intenzionalmente e massicciamente, per essere riscoperta all’epoca della fotografia digitale. Accanto alla fotografia composta o multipla esiste, da oltre un secolo, la così detta “composite photography”, ovvero quel tipo di fotografia in cui sulla stessa lastra ed in maniera metodica vengono successivamente riprodotti, a parità di illuminazione, distanza ed esposizione, numerosi oggetti o persone aventi in comune qualche caratteristica dominante (sagoma, famiglia, provenienza, nazionalità, etc.) allo scopo di evidenziare la “permanenza” dei tratti comuni, anche e soprattutto quelli dei volti, che vengono rafforzati dalla sovrapposizione, ed allo scopo di ignorare i tratti dissonanti, e perciò ininfluenti, che vengono cancellati o minimizzati da un’esposizione insufficiente. Attorno al 1898 Peirce, parlando degli effetti evocativi del segno verbale, sintesi di tutto ciò che il segno evoca in funzione di esperienze, conoscenze e reminiscenze, sovrapposte e stratificate nel tempo, lo paragona ad una “composite photography”, in cui le individualità si sovrappongono e si depurano fino a fare emergere il “tipo”. Nella realizzazione delle sue sofisticate immagini di paesaggio Alessandra Casini, fotografa non professionista, proveniente da studi di filosofia della scienza e di filosofia teoretica, utilizza un metodo che ricorda da vicino la “composite photography”. In ogni situazione realizza numerose immagini, variando in maniera non sostanziale l’inquadratura, ottenendo una serie di scatti tutti leggermente “fuori registro”. Con l’impiego di un semplice programma le immagini selezionate vengono ricomposte in una immagine unica, che le contiene tutte, e che, omogeneizzando lo sfondo, diventa non più l’immagine di un paesaggio, ma la somma di alcune delle immagini possibili (ma non di tutte le immagini possibili) dello stesso paesaggio. Ovvero, se si vuole
16 29 aprile 2017
Alessandra e la composite photography condurre il gioco fino in fondo, l’immagine finale diventa l’idea stessa di quel paesaggio, o per meglio dire una “possibile” idea di quel paesaggio. Un’idea in cui acqua, alberi, cielo e nuvole non sono se stesse, nitide e definite, ma sono la somma di più visioni, dai contorni sfrangiati e confusi, sicuramente indefiniti, ma non per questo meno reali, meno presenti. Se la realtà è il frutto di una idea (di una somma di idee e di esperienze), l’immagine (pittorica o fotografica) della realtà fa parte di una idealizzazione (e di una semplificazione) della stessa, mentre le immagini di Alessandra, in un corto circuito filosofico, diventano
allo stesso tempo l’idealizzazione ma anche l’attualizzazione di un’idea della realtà, un’idea complessa di un reale che è in continuo movimento. Non più un’idea del reale, ma la realtà di un’idea. Alessandra non ferma l’attimo estraendolo dal fluire del tempo (anche nelle esposizioni più lunghe si ferma sempre un “attimo”), ma moltiplica l’attimo riproducendolo nel suo divenire e restituendo al tempo il concetto bergsoniano di “durata”. Nelle immagini di Alessandra il tempo non è quello istituzionale della scienza, è quello interiore e reale che ciascuno di noi vive nella propria coscienza.
di Matteo Cateni Sono nato nel 1980, la mia generazione è cresciuta parallelamente alle tecnologie informatiche, di pari passo crescevamo noi e miglioravano i computer. Quand’ero poco più che un fanciullo e frequentavo le scuole elementari, internet non c’era ancora, o perlomeno non era diffuso e i telefoni cellulari erano grossi e pesanti e avevano antenne lunghissime. Per questo motivo mi ha sempre affascinato il mondo degli hacker e il cyber-spazio, per me ha qualcosa di incredibile, di magico, di fantascientifico. Pensare che ci sono persone che da casa propria, semplicemente usando il proprio pc, sono riuscite a mettere in crisi colossi come Mastercard, Paypall, Lufthansa, la Nasa, così solo per citarne alcuni, me li ha sempre fatti immaginare come i supereroi dei fumetti. Io, come molti della mia generazione, figli di quelli “che hanno fatto il ‘68”, ho sviluppato molta della mia coscienza politica sulla base delle conquiste, ma sopratutto dei fallimenti dei movimenti rivoluzionari che hanno segnato la storia di quegli anni. Molto era già stato fatto, già stato detto, ma gli hacker hanno aperto un nuovo cammino, un nuovo piano d’azione. Internet è stato pensato come uno spazio libero dove chiunque potesse scambiarsi opinioni, ma sappiamo bene che è diventato altro da questo. Un gigantesco supermarket virtuale, ma anche il modo migliore che hanno i governi di controllare i singoli cittadini, un sistema perfetto per sapere cosa fai, dove sei, cosa dici in qualsiasi momento tu lo faccia. Ma come in ogni sistema artificiale che si rispetti esiste sempre una falla, un punto debole, un pertugio nel quale infilarsi per entrare al suo interno, “forzarlo”, violentarlo. Nel tempo gli hacker hanno preso posizione, si sono schierati politicamente e si sono divisi al loro interno. C’è chi ha scelto di schierarsi dalla parte del più forte, uscendo dall’illegalità e mettendo le proprie capacità e conoscenze a servizio delle grandi aziende, si fanno chiamare “Cappelli bianchi”. Ma c’è chi invece vive nascosto ancora nella completa illegalità e dalla scrivania della propria stanza da letto cerca di penetrare nei sistemi operativi di siti governativi e non, si fanno chiamare i “cappelli neri”. Si sentono dei veri cowboy virtuali, dei moderni Robin Hood. E’ un gioco intellettuale, una sfida dove il singolo individuo vince sulle multinaziona-
Hackers
li invece che venirne ingoiato. Electronic Disturbance Theatre, Zapatismo digitale tanto per citarne alcuni sono gruppi di hacker che hanno cambiato per sempre il piano d’azione della disobbedienza civile nel mondo e attraverso l’uso di nuovi mezzi, come ad esempio i seat-in virtuali, hanno inoltre permesso anche ad altri meno esperti di partecipare alle azioni di protesta. Internet è un mondo molto vasto e al suo interno si può trovare veramente qualsiasi cosa, per gli hacker è come Disneyland per un bambino, basti pensare al Deep web ,la rete parallela alla quale si accede soltanto scaricando un sofware (gratis online) che rende non rintracciabile l’ID del proprio modem e all’interno della quale si può trovare veramente ogni cosa esistente al mondo: puoi comprare droga, armi, manuali per costruire bombe etc... Certamente Anonymous è stato il movimento hacker che ha fatto più notizia e che magari si è esposto di più al pubblico, basti pensare alle manifestazioni contro le sedi di Scienthology organizzate da loro in tutto il mondo. Ma degno di nota rimane l’appoggio dato da Anonymous alla Primavera Araba, durante la quale sono riusciti a diffondere le immagini di quanto stava accadendo a tutto il mondo, mentre il governo aveva bloccato ogni connessione internet, costringendo il presidente Mubarak a dimettersi. Personalmente trovo molto confortante che l’intelletto umano, del singolo individuo con le sue capacità, renda impossibile il controllo assoluto delle nostre azioni e meno immenso lo strapotere dei governi e delle multinazionali.
Gli ex-voto di Distefano
Allo Studio Bong (Via Calimaruzza, 10r) Giorgio Distefano presenta Ex Voto suscepto, un progetto sui temi e simboli desunti dal linguaggio sacro-popolare e dalla cultura di massa, reinterpretati e ricomposti in una logica di suggestione che identifica e genera il voto stesso. La sua sperimentazione tecnica che spazia dall’utilizzo di colori a olio, a stucchi e acrilici su tela e tavola, con gli Ex Voto suscepto lo porta alla carta, nello specifico quella dei cartamodelli per abbigliamento, utilizzati in maniera “impropria”, sfruttando la forza della geometria prestampata. Queste visioni-concetto scaturiscono da una riflessione sulla potenza delle simbologie, nel momento in cui divengono decoro ambiguo e ambivalente, al limite tra il sacro e il profano, tra la sanità di un corpo-organismo e una richiesta di salvezza o liberazione da un’afflizione dell’anima. La “messa in forma” - come si fa per un vestito ha i bagliori dei metalli e la leggerezza della carta, il trasporto delle linee e l’intenzione della parola, perché gli ex voto sono desideri, aspettative, richieste; sono abiti di vanità per corpi che non tollerano il dolore e per anime che si nutrono di speranze di urgente tutela e di sopravvivenza, nel tempo sospeso e incerto delle promesse.
17 29 aprile 2017
di Claudio Cosma Le sculture di pittura ad olio modellata (oil paints sculpture) realizzate dall’artista giapponese Mitsunori Kimura sono ottenute usando una tecnica inventata e credo praticata solo da lui. Sono piccolissime, solo qualche centimetro, ma richiedono una abilità specifica, ovvero servirsi di strumenti in miniatura, da orafo, tenere presente il tempo in cui si asciuga la pittura od olio e servirsi della capacità di sfruttare o contrastare il normale restringersi del materiale nel suo passaggio da fresco a secco, cosa che del resto conoscono bene i pittori che usano l’olio come mezzo espressivo. Questi sovrapponendo uno strato di colore bagnato ad uno asciutto ottengono strati di trasparenze e particolari sfumature di colore. Mitsunori Kimura, nell’opera “Dog shit” del 2013 si serve proprio di queste tecniche usate per primi dai pittori fiamminghi del 1400. Per ottenere la particolare tonalità di verdastra che talvolta assumono le dog shit abbandonate sui marciapiedi da qualche tempo, sovrappone una velatura gialla a quella sottostante blu. Nella fattispecie sia la pasta dei tubetti di pittura ad olio, sia le deiezioni canine sono soggette ad un processo di essiccamento, pertanto l’abilità dello scultore consiste nel prevedere, mescolando i colori necessari, a come quest’ultima si presenterà dopo un periodo di assestamento, mantenendo l’assoluta rispondenza fra le due. Kimura è uno scultore di di animali, che realizza usando il legno di canfora, molto comune in Giappone, costruendo con questi animali, la cui somiglianza con gli originali è intuitiva e non anatomica, delle situazioni comiche, mimetiche o paradossali, situandole, nelle gallerie dove espone, in maniera da assecondare i risultati voluti, concentrando il realismo nelle attitudini e nei dettagli. Le sue sculture, raramente hanno la centralità monumentale, ricercata ad esempio da quasi tutti gli scultori di cultura europea o americana. Del resto gli animali, non hanno mai, purtroppo, un posto centrale nelle vite umane (forse da morti nei nostri piatti) e il miglior trattamento che possono ricevere e quello di giocattolo animato. Anche in natura gli animali, rispetto agli esseri umani, occupano posizioni di contorno e non sono mai centrali rispetto all’osservatore, appartengono al paesaggio dove abitano e riuscia-
18 29 aprile 2017
mo a vederli con la stessa frequenza delle sculture di Kimura dislocate nello spazio delle gallerie con la stessa volontà animale di sfuggirci Dunque dog shit è una traccia, antecedente la scomparsa del cane stesso, la cui perfezione annulla la reazione di disgusto che abbiamo alla sua presenza, al disgusto, comunque si mischia una certa comicità, la cacca per certi versi fa ridere, quando si pesta o la pesta qualcun altro la cosa è esilarante e fa parte di un umorismo popolare, contadino, comunque semplice ed immediato. Questo ci riporta ad uno degli aspetti del lavoro del nostro scultore, l’umorismo, e mi pare anche comica la scelta di realizzare una complicatissima scultura usando la pittura da olio, modellata, essiccata e scolpita,
Dog shit Di come una cacca di cane abbandonata, incontrandosi con un artista, si trasforma in opera d’arte
e non si può non cogliere l’ironia che con la pittura ad olio, materiale e tecnica sovrana per i più grandi artisti dell’umanità, Mitsunori Kimura tragga una cacca di cane. Con questo metodo realizza anche cani, gatti, una vite, un ossicino di pollo (anche questo nella mia collezione), una lisca di pesce, una scimmia, del cibo vegetariano. Crea anche dei disegni a matita su carta di riso, colorati con pittura ad olio di modo che rimane intorno alla cosa disegnata un alone rilasciato dall’olio che si spande, rendendo traslucido il foglio in quel punto. La psicanalisi di Freud, Piero Manzoni, Salvador Dalì hanno spesso associato, come gli alchimisti del medio evo, opera d’arte, feci ed oro. In realtà è difficile dire quello che passa per
la testa di una artista che contiene innumerevoli cose i cui confini sono sempre in tumulto, ma analizzando la nostra sculturina, le cui misure sono 1,9x5,6x2 cm, posso dire che mi mette di buon umore e mi fa pensare al cane che l’ha depositata dove l’artista deve averla vista, sicuramente, pur non sapendo se esista una ritrattistica delle cacche di cane, questa è un ritratto dal vero. Il cane in questione doveva essere un canino un po’ stizzoso, cittadino e probabilmente viziato, col pelo ispido e le zampe corte, come si deduce dallo stronzetto giallo senape, verdastro e marroncino. Per finire, la nobiltà del materiale fa sì che questo profumi di quadro antico, di bottega di articoli per pittori, di studio di vecchio pittore e di mobile tirato a lucido, in definitiva un odore buonissimo che ancora ci spiazza, ricollocando la scultura e cosa rappresenta nella sfera d’attenzione di una familiarità sempre negata.
Una femminista distratta di Gabriella Fiori Femminista? Autentica. Distratta? No davvero. Direi piuttosto che Laura Lepetit rivive per noi la sua vita “mine de rien” (senza parere) come direbbero i francesi. Da intellettuale concreta, nel 1965 rileva con Anna Maria Gandini la vivace libreria Milano Libri e con coraggio nutrito di tale esperienza fonda nel 1975 una delle più belle case editrici italiane dandole nome La Tartaruga(“animaletto simpatico che va piano e si porta la casa appresso”). Pubblica solo libri di donne. Come? “Davanti ai libri mi sento come un cane da tartufi. Li cerco col naso, ne sento l’odore, capto i segnali che mandano e batto il terreno con il muso tra i cespugli.” Realizzerà questo suo principio con indipendenza “in base a criteri letterari, non solo politici, anche in anni in cui la militanza femminista avrebbe potuto far virare verso scelte ideologiche”. Così, il suo catalogo accoglieVirginia Woolf, Gertrude Stein (“l’autrice che amo di più in modo assoluto”), Grace Paley, Doris Lessing, Alice Munro... Per l’Italia, Grazia Livi con “Le lettere del mio nome”, “libro bellissimo e indispensabile” in cui le vicende di vita e di pensiero delle donne più importanti del
‘900, da Simone de Beauvoir a Carla Lonzi, da Anna Banti a Madre Teresa...diventano “ il punto di forza da cui partire per andare avanti, le lettere del nostro nome”. ll libro è stato Premio Viareggio 1992 per la Saggistica. Su quel punto di forza Laura fa leva come madre, nonna, amica, amante degli animali (i suoi gatti, la cavallina Giulia), delle piante (la sua rosa, il cui “rosa” la commuove) per raggiungere una visione equilibrata dei difetti e virtù di donne, uomini e circostanze, facendo tesoro di tutto sulla base di un onesto “ascolto di sé”. Così, l’incontro col clochard che canta a squarciagola “Mamma... solo per te la mia canzone vola” all’unisono con un mangiadischi posato sul marciapiede le indica che “cantare a squarciagola la stessa canzone e poi pensare ad altro” sarebbe una felice soluzione del rapporto con la madre resa dalla psicanalisi “irraggiungibile e ingombrante” con il suo dovere di perfezione e i suoi sensi di colpa. E, una volta mamma, ha voluto creare fra lei e i suoi figli una distanza perché potessero “espandersi a modo loro”. Nonna,giocando al teatro con la nipotina, vive un dialogo con il suo coniglio di peluche e pensa che forse teatro e recitazione vogliono dire ‘tornare bambini’.
Amica, in visita dal celebre critico Cesare Garboli nell’entroterra viareggino serba un caro ricordo ammirato di lui che, degli avanzi dello squisito pesce mangiato in un bel ristorante in riva al mare “osa fare un cartoccio per i suoi cinque o sei gatti”.. L’incontro che le ha cambiato la vita è stato quello con Carla Lonzi (1931-1982) fiorentina trapiantata a Milano dall’intelligenza “sfolgorante”e il suo gruppo di autocoscienza Rivolta Femminile. Laura si decise ad andarci nell’autunno 1970 e da allora, accolta dal sorriso “accattivante”di Carla dai grandi occhi chiari (“pantaloni di pelle nera allora audaci e originali”), non mancò mai, perché “ogni volta era un’emozione nuova quel parlare di sé davanti a tutte, direttamente senza la maschera che il patriarcato [ci] aveva costrette a indossare”. Carla, per me l’anima del femminismo italiano, “definiva la donna l’imprevisto della storia”. Tuttavia, “mettere in piedi La Tartaruga portò alla rottura con lei, la quale, “lontanissima da ogni compromesso” aveva voluto gli Scritti di Rivolta Femminile “fuori contesto” e biasimava l’idea; Laura, pur ammirando Carla, non voleva rinunciare al suo progetto di un’impresa diversa, soggetta quindi ai compromessi della competizione commerciale. Separarsi fu l’unica soluzione. Ricordo un po’ “tormentoso ma anche molto bello perché la lotta era stata a viso aperto”. La notizia della morte prematura di Carla per una grave malattia che le era stata ignota raggiunse Laura il 2 agosto 1982 al mare, nella “luce immensa dell’estate”. Provò “la sensazione di un vuoto senza confini”. Laura Lepetit ha diretto La Tartaruga fino al 1997. Oggi ancora pubblica con Baldini & Castoldi. Personalmente ho avuto il piacere di pubblicare con lei l’edizione italiana del mio secondo libro su Simone Weil: “Simone Weil, una donna assoluta”, (1991 oggi in 2a edizione, 03.02.2009 per il centenario della nascita della Weil). Laura organizzò subito una bella presentazione; ricordo bene le parole sue e quelle di Giancarlo Gaeta. Mi sentii capita. Laura Lepetit, “Autobiografia di una femminista distratta”, Nottetempo, Roma 2016
Laura Lepetit – Foto di Maria Mulas
19 29 aprile 2017
L’uomo che ricorda di saper ruggire
di Elisa Zuri Sedersi al Funaro Centro Culturale di Pistoia e partire per un viaggio. È accaduto il 21 aprile, quando al Funaro ha debuttato in Prima Nazionale il Blake EternalLife Show di Pappacena/Vezzani, una produzione del Teatro del Carretto nata nel 2015, che grazie ad un’azione di crowdfunding lunga due anni si presenta oggi come un progetto di rock, elettronica, voci e video, che danno forma alle visioni di William Blake. Il Funaro è un Centro Culturale indipendente di formazione, ricerca
20 29 aprile 2017
e creazione teatrale, che ospita residenze artistiche, spettacoli e progetti di formazione. E’ luogo di accoglienza e condivisione, in cui si trova tutto quello che rende possibile la crescita e l’espressione artistica: spazi da abitare, una biblioteca, una foresteria dove incontrarsi. Un luogo perfetto per portare in scena William Blake, che per tutta la vita è stato poeta, incisore, bibliomane, profeta visionario. Fabio Pappacena e Giacomo Vezzani con basso, chitarra, tastiere e synth hanno cercato di dare forma a queste visioni, accompagnati dalle voci di Elena Nené Barini ed Elsa Bossi. Dei video fanno da
cornice al suono, lo seguono, lo anticipano, lo aprono a percorsi immaginifici e a percezioni scardinanti e intime. Il Blake EternalLife Show è un viaggio interiore che inizia con il rumore del mare, ti conduce in luoghi immaginari sconosciuti ed intimi, il ritmo incalza, i battiti aumentano, il buio si accende, ti ritrovi dentro con il respiro alterato che diventa fischio, morso, sussurro, vibrazione interiore, giù fino allo stomaco e ai singulti. Giù dove ci si dimentica di guardare, giù dove tutto è collegato, l’innocenza del bambino, la disperazione dell’uomo che brucia, che non si trova e a un tratto si riconosce in un granello di sabbia o in un fiore selvatico. William Blake, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, ha accompagnato quasi ogni suo componimento con un’incisione, una rappresentazione figurativa in cui si può entrare per sentire e vivere la sua visione. Una bambola di cera si scioglie e si mostrifica. Il muso di una tigre si sovrappone e si fonde a quello dell’agnello. Due mani si cercano e si uniscono con lacci che le imprigionano e le sostengono. “L’immaginazione non è uno stato mentale, ma l’esistenza stessa” scrive Blake. Al centro di tutte le visioni c’è l’uomo, con le sue fragilità e la sua fierezza, nella sua appartenenza alla natura, che ne preserva l’innocenza e che lo brucia di distruzione, lo morde di passione, è terra e fuoco per la sua forza e lo riconsegna disarmato al vento. Blake scardina il linguaggio poetico e lo abita con forme provocatorie, suoni, con una musicalità naturale e profonda che ognuno di noi sente e riconosce, anche se è nascosta e legata nella rete di conformismo che abbiamo costruito, in cui le cose chiamate belle sono tutte uguali e ognuna è a suo modo mostruosa. Ma i versi di Blake che risuonano potenti nella musica di Pappacena e Vezzani, nelle voci e nei movimenti caldi e a tratti mistici di Elena Nené Barini ed Elsa Bossi, hanno un corpo, penetrano nello spettatore fino alla sua parte animale, le parlano. È allora che la nostra appartenenza alla natura si manifesta, intera, potente, libera. “Tiger tiger burning bright in the forest of the night”. Essere sporchi, ma vivi. Ruggire di eccessi per trovare la saggezza. Ruggire perché siamo parte della natura, nudi, esposti, deboli, sfiniti, meravigliosi, capace di rinascere, di sorridere, di sentire la gioia. Perché in natura tutto accade, senza fine. “Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è: infinito”.
di Gianni Biagi La conversazione era stata piacevole, ma Aldo non poteva scordare quella sera. C’era una domanda che gli era rimasta in testa: “Come faranno le maestre a ricordare, a distanza di tanti anni, i nomi dei propri allievi?”. Una domanda legittima, che però era rimasta senza risposta. Mentre Aldo raccontava le gesta sportive di Simone Faggioli, 9 volte campione europeo e 12 volte campione italiano di velocità montagna, quella disciplina che i più chiamano corse in salità per auto, una delle commensali aveva chiesto: “Ma è nato a Bagno a Ripoli questo Simone Faggioli?”. Ed alla risposta affermativa aveva continuato “Questo nome lo ricordo. Veniva a scuola a Rimaggio”. Quella conversazione e quella domanda sono la ragione per cui oggi, gli stessi commensali di quella sera, si ritrovano. Non a casa di Aldo, ma in un albergo della Stiria nella cittadina austriaca di Fladnitz, poco distante da Tulwitz. Aldo è l’addetto stampa del Team Faggioli e il designer della livrea del bolide di Simone Faggioli e di quelle del suo team. La sera a cena, nel ristorante dell’albergo, si festeggia anche il compleanno dello svizzero Fabien, uno dei piloti del team. Un’occasione voluta da Aldo che però continua a non saper rispondere a quella strana domanda. A cena la maestra e il “suo” allievo, si incontrano dopo trent’anni. E la maestra ha con se foto, e un’incredibile bagaglio di ricordi di quel bambino ora diventato famoso. Nei due giorni successivi ci sono le prove e la gara della Rechberg Rennen, la più famosa corsa automobilistica in salita dell’Austria che si svolge sulle dolci colline della Stiria poco a nord di Graz. Una gara che segna l’apertura del Campionato Europeo di specialità e che vede la partecipazione di oltre 270 vetture. Simone Faggioli parte con addosso il peso della responsabilità del campione in carica, ma con la consapevolezza che questo sarà un fine settimana difficile. Anche lo scorso anno, su questo stesso percorso, ha dovuto lasciare il passo al suo rivale Christian Merli. Il clima è rigido e la brevità della gara (5.050 metri, poco più del limite minimo fissato in 5 km) non favoriscono le caratteristiche della sua auto, una Norma M20FC. Un tracciato di gara decisamente più congeniale all’Osella FA30 di Merli. Una battaglia che si gioca sui decimi di secondo. Lo spettacolo è assicurato, avvincente... ma non solo per le emozioni della gara. Il piccolo paese di Tulwitz è letteralmente invaso da auto da corsa di ogni tipologia ed età. Dalle auto storiche, le incredibili monoposto anni Settanta, fino ad arrivare ai moderni prototipi con i quali corrono anche i piloti del Faggioli Racing Team. Monoposto con motori fino a 500 cavalli simili a quelle che
La maestra di Rimaggio e il campione
siamo abituati a vedere in Formula Uno ma che, in questo caso, si misurano su impervie strade di montagna e raggiungolo velocità che superano i 270 chilometri orari. In ogni area libera, campo, piazzale, si vedono auto da corsa, camion, tende, meccanici, piloti e cucine improvvisate. Per Simone, le tre prove del sabato, pur svolte con assetti diversi delle sospensioni e delle alette delle carenature, non sono soddisfacenti e la distanza fra il suo tempo e quello di Merli è ancora troppa. Occorre porre rimedio modificando ulteriormente l’assetto della vettura. Alle prime luci dell’alba della domenica di gara i meccanici e i tecnici del team, tra loro anche Franco, un veterano della Formula Uno, si mettono al lavoro e... così cambia il clima. Pur mantendosi freddo, tra le nuvole appare qualche sprazzo di sole e nel team comincia ad esserci un cauto ottimismo. Nella tenda del paddock, il quartier generale del team, la pentola fuma sul fornello da campo. Un pasto caldo per tutti è assicurato. E’ così che mamma Graziella segue l’attività del figlio. Occupandosi degli altri per esorcizzare i timori della competizione. A babbo Mario, ex pilota, l’onere di supervisionare la parte tecnica. Il percorso è ormai affollato da spettatori di ogni età che certo non si fanno mancare generi di conforto e la razione necessaria di birra. I motori rombano e nella prima manche Simone, che resta un marziano della specialità, stabilisce il nuovo record della salita: 1’53”768. Ma non è sufficiente. Alla fine vince Merli che nella seconda manche stabilisce un nuovo record: 1’52”912. Terzo si classifica il giovane Paride Macario, del team Faggioli che corre con la stessa macchina di Merli. Un podio tutto italiano. Un risultato in fondo positivo anche per chi è abituato a vincere sempre. Ma questa è solo la prima gara e, per arrivare alla fine del campionato, c’e ancora molta strada da fare. Una strada tutta in “salita”. Simone lo sa bene. Questa è la sua professione. E se è vero che campioni si nasce, certamente la sua determinazione ha radici in quel bambino dai capelli neri tagliati a caschetto che frequentava, trenta anni fa, la prima elementare della Scuola Statale di Rimaggio, nel comune di Bagno a Ripoli. Quel bambino sorridente, allora speciale come tutti gli altri, è rimasto nel cuore della sua maestra.
21 29 aprile 2017
Maschietto Editore Sabato 29 aprile 2017, ore 17.30 Ristorante Caffetteria La Loggia, Piazzale Michelangelo
DIALOGO SUL CONTEMPORANEO a partire dalla figura di Lara Vinca Masini con Antonio Natali e Adolfo Natalini introduce Simone Siliani, modera Francesca Merz “Dobbiamo parlare con la gente, trasmettere loro le stesse emozioni che proviamo noi davanti all’arte contemporanea” Lara Vinca Masini
Durante l’incontro sarà proiettato un filmato inedito con una conversazione tra Lara Vinca Masini, Fabio Cavallucci, Laura Lombardi e Claudio Nardi, organizzata da Cultura Commestibile nell’ambito delle iniziative per la tutela dell’archivio della grande critica d’arte. Nei mesi scorsi Cultura Commestibile ha lanciato un appello per chiedere alla Presidenza del Consiglio l’applicazione della Legge Bacchelli a favore dello straordinario archivio di Lara Vinca Masini, raccogliendo oltre 300 firme di personalità della cultura e dell’arte.
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Questo incontro è il primo di una serie di appuntamenti culturali organizzati da Maschietto Editore con Cultura Commestibile presso il Ristorante La Loggia al Piazzale Michelangelo a Firenze. Per informazioni: tel. 055701111 - redazione@maschiettoeditore.com - www.maschiettoeditore 29 aprile 2017
di Paolo Marini Mi era praticamente ignoto prima che un’amica me lo donasse, al ritorno da un viaggio oltreoceano, la bellezza di ventidue anni fa. Recava in copertina l’immagine di un celebre dipinto d’arte moderna: ringraziai senza enfasi, prefigurando per l’oggetto un destino oblivioso. Restò a rispettosa distanza, rigorosamente inutilizzato, per circa due anni. Poi un giorno - non ricordo sotto quale influsso – iniziai, diciamo così, a ‘impiastricciarlo’. Era il mio primo Blank Book e lo scrivo, a distanza di anni, con le iniziali maiuscole, quale segno di riconoscimento della sua presenza (oramai) istituzionale e privilegiata nella mia esistenza. L’impiastricciamento d’esordio fu rappresentato da alcuni versi scambiati per gioco tra amici, una sera, mentre ci intrattenevamo in un locale. Vi sopraggiunsero. nelle settimane/mesi a seguire, appiccicate con lo scotch, alcune immagini di tele/opere pittoriche famose, versi in libertà ovvero lavori preparatori di componimenti poetici, appunti/ sunti da articoli di giornale e anche articoli integrali ivi ‘scotchati’; eppoi considerazioni, annotazioni di idee e improvvise folgorazioni, scherzi, aforismi e frasi celebri, curiosità. Era ed è (il ‘BB’ n. 1, con quelli che lo hanno seguito negli anni successivi) il mio personale circo Barnum, un angolo di sovranità assoluta, il supporto a partire dal quale la mente si nutre con leggerez-
Blank book za, si rende docile ad ogni sollecitazione e, pur partendo da una cornice naturalmente finita (i fogli di carta, peraltro spessi alla bisogna), è aperta (intellettualmente) a tutto, e al non-finito sopra tutto. Le ore del raccoglimento sul mio BB di turno (al momento sono ‘al lavoro’ sul quattordicesimo) si dilatano e assumono una pregnanza speciale: momenti di abbandono alla divagazione - in cui regnano la casualità degli scoperte letterarie, delle letture, dei pensieri, quella dei ritrovati impegni interiori, in una sorta di serendipity a puntate -, che lasciano un’impronta impalpabile e misteriosamente
In 50 per la prima edizione di
efficiente, perché sempre pronta, al momento giusto, a far affiorare percezione, memoria di sé. Ogni mio ‘BB’ è un individuo (complesso) che si lega ad un tempo: inconfondibile come il primo, irripetibile come il secondo. Senonché la stessa forma/vita, e la funzione del Libro Bianco, sono variabili. Qualcuno, partendo da libri veri trattati con acqua, colla e gesso (onde deprivarli del loro contenuto), ha ottenuto degli oggetti disanimati, semplice materia prima, cui è rimasta la sola forma: su di essa ha applicato, di volta in volta, elementi di vetro o di legno, ovvero sassi o altro, oltre a vernice acrilica bianca. I Libri Bianchi sono divenuti delle sculture, con le loro superfici e i volumi, i pieni e vuoti, gl’innesti o le escrescenze, trasmigrando da una dimensione semantica ad una simbolica. L’artista si chiama Lorenzo Perrone e chi vorrà conoscere le sue creazioni potrà presentarsi alla mostra “Libri, cibo dell’anima”, presso la Galleria Frascione di via Maggio, a Firenze, dal 18 maggio al 1 luglio prossimi venturi. E io che - prima del ‘97, meschino! - pensavo che un Libro Bianco (o Blank Book che dir si voglia)... non avesse senso.
Maschietto Editore
premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017 La prima fase del concorso letterario “Racconti Commestibili” si è chiusa con l’arrivo di cinquanta racconti. La prima giuria, composta da redattori di Maschietto e di Cultura Commestibile, sta lavorando per selezionare i dieci racconti finalisti, che verranno affidati alla giuria tecnica, composta da Francesco Mencacci, Sandra Salvato e Marco Vichi, per la scelta del vincitore e del secondo e terzo classificato. I finalisti saranno contattati direttamente entro la prima metà del mese di maggio. Tutti i partecipanti al concorso e i lettori di Cultura Commestibile sono invitati a partecipare all’evento di premiazione che si terrà al Ristorante Caffetteria La Loggia al Piazzale Michelangelo a Firenze il 21 maggio.
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di Cristina Pucci Il Lyceum fiorentino è una Associazione Culturale che ha festeggiato da un pò il centesimo compleanno, è nata infatti nel 1908 come emanazione di quella originaria, fondata nel 1904, a Londra, da Constance Smedley, animata da spirito decisamente orientato al femminismo, sia pure di stampo moderato, combatteva per il diritto delle donne al voto, senza mai indulgere a forme di protesta men che pacifiche. Dopo circa 4 anni, subito dopo le sedi di Parigi e Berlino, miss Smedley fondò un Lyceum Club a Firenze, questa nostra bella città fu scelta perchè, all’inizio del ‘900, appariva particolarmente “colta e cosmopolita, abitata da Edith Warton, Bernard Berenson, Aldous Huxley...” La prima Presidente, Beatrice Pandolfini dei principi Corsini, diede vita anche qui ad una Associazione in cui donne, colte, intelligenti, capaci fossero unite in un ideale “cerchio” al cui interno, e non solo, cercare autonomia economica e, attraverso il lavoro, effettiva emancipazione. Il cerchio è tuttora il logo del Lyceum che ha sede nel bel Palazzo Giugni di via degli Alfani e che prosegue una intensa e variegata attività culturale, volta a migliorare comprensione, integrazione e buona convivenza fra le persone, siano esse donne o uomini. Definirei comunque strettamente legata alla originaria mission la serie di mostre dedicate a “Le artiste del Novecento al Lyceum” al cui interno si colloca l’esposizione di opere di Marisa Mori, (1900-1985), interessante ed emancipata figura di donna ed artista, che fu attiva in quella Associazione dal 1934 al 1950. Nell’occasione viene presentato un catalogo redatto da Chiara Toti che ha potuto consultare ed utilizzare i documenti di Archivio del Lyceum e che bene ne illustra la poliedrica e creativa figura e che, per la prima volta, pubblica i suoi appunti per una conferenza, avente come significativo titolo, “Vita della donna artista” tenuta proprio al Lyceum nel 1948, contemporaneamente alla esposizione di alcune sue opere, riproposte oggi. Marisa, donna sola, separata con un figlio, fu sempre animata da grande passione per la pittura , il libro si apre con queste parole del figlio “Sono stato molto geloso della pittura. Le mie prime memorie sono di mia madre che dipinge...L’arte è stata la mia rivale vincente...”Originariamente allieva di Casorati, si allontanò dalla sua scuola in quanto fu affascinata dalla moderna, prorompente, vitale e provocatoria poetica del futurismo del quale fu, per alcuni anni, esponente di punta. Molto nota la sua ricetta “mammelle italiche al sole”, dessert pensato per la “cenaereo” organizzata da Fillia
24 29 aprile 2017
Marisa Mori al Lyceum
per un ultimo dell’anno e proposta in vari “aereopranzi” da Marinetti stesso, e che compare nel libro La Cucina Futurista dai due curato. Io trovo questa sua creazione, non coinvolta in questa mostra, due calotte di pasta di mandorle decorate da capezzoli di fragola, appoggiate su un piano di solare zabaione, geniale, spiritosa e piena di verve ironica verso il predominante spirito maschilista e patriottico del tempo. Grande successo ebbero le sue opere sia “casoratiane” che futuriste, esposte in grandi eventi nazionali ed internazionali. La collusio-
ne futurista con la politica e quindi con le leggi razziali provocò un risoluto allontanamento di Marisa da questo movimento, e, si direbbe, da ogni altro contesto gruppale. Ridusse la sua attività espositiva, dopo gli anni ‘50 soprattutto, mai quella pittorica. Delle dodici opere esposte solo due, bellissime peraltro, “l’aviatrice addormentata”e “l’ebbrezza della maternità”, sono riconducibili al futurismo, le altre sono rarefatte immagini di interni e paesaggi, fiori e nature morte, dai colori delicati e dalla silenziosa e solitaria pace intrinseca.
di Melia Seth Cantava il poeta: “C’è dei telari in Mèrica, in cui vanno / ogni minuto centomila spole. / E ce n’ha mille ogni città, che fanno / ciascuno tanta tela in uno scatto, / quanta voi non ne fate in capo all’anno.” La canzone napoletana ripeteva: “E nce ne costa lacreme st’America”. “Nu York Nu York” cantava Liza Minnelli. Il mondo vecchio e il mondo nuovo. Il nuovo era una costola del vecchio: ma quanto in fretta camminava. Sembrava voler dimenticare la sua discendenza. Nel mondo vecchio il nuovo vede polvere, buon gusto e corruzione. Loro sono innocents abroad e sono innocenti anche in patria. L’Europa ha scoperto l’America, e ha continuato a scoprirla e riscoprirla all’infinito. Un tempo il viaggio d’istruzione dell’Americano si svolgeva in Europa. Poi al contrario: dall’Europa agli Stati Uniti per vedere il futuro. Da una parte e dall’altra entusiasmi e offese, plauso e scherni, ammirazione, imitazione, rifiuto. Da noi la civiltà americana è demoplutocrazia, gigante dai piedi d’argilla, barbarie del comfort. Pure, bisogna farci i conti se il vento della storia soffia da quella parte. L’energia dei giovani, l’inutilità della storia, il peso del passato. L’arte italiana a partire dal secondo dopoguerra scopre la sua America. Afro, Schifano, Vedova, Cagli, Savinio, Rotella, Maselli, Scialoja, Fontana fanno il viaggio; tutti fanno il viaggio perché quel viaggio va fatto. Li colpiscono i grattacieli, la ville débout l’aveva chiamata Paul Morand, l’energia, la velocità, la mancanza di anzianità, il coraggio. Come fosse un un mondo primitivo, oppure appena nato. Li colpiscono wilderness, spazio, folla, metropoli, macchine. Li colpisce the lonely crowd. Depero ci vede il sogno futurista realizzato. De Chirico ambienta uno dei suoi uomini antichi sulla spiaggia: l’uomo guarda il mare ma al posto del mare c’è New York. Sempre la stessa storia di vecchio e nuovo, ma la lingua che parlano ora è la stessa. La consacrazione viene da là, dall’essere esposti, apprezzati, acquistati, esibiti là, dall’altra parte dell’Oceano. E’ un secolo che dura il secolo americano. Allora tutto a posto, tutto superato? Finiti pregiudizi e stereotipi? As american as apple pie. Cos’è per noi l’America? Apple pie, Coca cola, hamburger, fast food, money, business e materialismo? Oppure è Pollock, Twombly, Lichtenstein, Warhol, Rauschenberg, De Kooning? Emanuel Cardinali emigra da solo in America nel 1914: ha 16 anni. Nel 1919 scrive a un corrispondente italiano:
“Ah, questo è un grande e bel paese, voi non ne avete un’idea! E’ più pulito della vostra Europa, e qui si può essere giovani senza vergognarsene. Gli artisti qui non esistono. Uomini solamente. I poeti - un genus scomparso!” E poi: “E’ quello che ci fa arrabbiare, noi altri. Che non c’è un europeo che sappia che dopo Jack London c’è stata una grande battaglia in America con molti morti
e feriti. E che i giovani che sono rimasti sono pochi. Che bisogna cercarli ed amarli invece di continuare a buttar loro in faccia - che non c’è letteratura, né pensiero, né arte in America.” New York New York. Arte italiana. La riscoperta dell’America, Museo del Novecento e Gallerie d’Italia, Milano, 13 aprile-13 settembre 2017
Fast and furious
Grand Central, 1941. Fotografia di Berenice Abbott, colorizzata da Avi A. Katz
25 29 aprile 2017
di Simonetta Zanuccoli Alice mi ha mandato un sms quasi contemporaneamente alle immagini che scorrevano giovedì sera, 20 aprile, in diretta alla televisione dagli Champs Elysées pochi minuti dopo l’attentato. Doveva partire sabato per andare a passare qualche giorno a Parigi nel mio appartamento. Mentre il cronista tentava di dare le prime informazioni, Alice aveva già deciso di rinunciare alla piccola vacanza da tempo progettata e, come lei, immagino, tante altre persone. La Francia e soprattutto Parigi, la città più visitata al mondo, con i frequenti eventi e allarmi terroristici, sta subendo conseguenze drammatiche non solo come tributo di vittime, dal 2015 i morti sono stati 238, ma anche da un punto di vista economico. La spesa pubblica si è molto aggravata per la difesa e le altre misure, come sistemi di monitoraggio, aumento della forza dell’ordine, l’assistenza, regolata per legge, alle famiglie delle vittime e ai feriti sia per quanto riguarda le cure che la ricostruzione dei beni distrutti e anche il contributo al deficit di guadagno delle attività forzatamente interrotte... Le ripercussioni più gravi si stanno verificando però nel settore turistico che rappresenta il 7% del PIL. Ne risente soprattutto Parigi, che di tutta la Francia rimane l’attrazione principale, con i suoi 500.000 posti di lavoro legati a questo settore. Paris fait peur aux touristes depuis les attentats titolava qualche giorno fa
Parigi merita di non essere tradita un giornale francese. L’attacco a Charlie Hebdo aveva una qualche “giustificazione” ideologica, ma quelli accaduti dopo hanno un’altra dimensione per la loro natura indiscriminata (può succedere dovunque e colpire chiunque). Per questo davanti ai luoghi simbolo della città come il Louvre e la Tour Eiffel non ci sono più le interminabili file e al Marais, quartiere turistico per eccellenza, è diventato poco più che un rigagnolo quel fiume ininterrotto di giapponesi. Dei 2,6 milioni di turisti in meno nella sola Parigi nel 2016, data delle ultime stime, il 40% erano infatti giapponesi. La strana sensazione (molto piacevole se non si pensa alle cause) che si ha in questi mesi è che per
la mancanza di stranieri Parigi sia ritornata ai parigini che più di sempre riempono i bistrot e i ristoranti stringendosi nei minuscoli tavolini tondi caratteristici della Francia. Apparentemente sembra che abbiano imparato a convivere con la minaccia. Dopo ogni attentato tanti i gesti simbolici (fiori, biglietti con il proprio pensiero, foto, candele, oggetti....) impensabili prima per un paese laico, ma poi sembra che la vita continui il suo solito fluire anche se in un recente sondaggio il 40% afferma di aver cambiato il proprio comportamento nei magazzini e negli spazi pubblici troppo affollati. Ma Parigi rimane una città magica. In questi giorni tutti i giardini pubblici sono un tripudio di fiori coloratissimi, la Senna brilla al sole e dondola con pigrizia le tante case galleggianti già pronte per l’estate con un tavolino, due sdraio e tanti vasi di bambu. Credo che Alice abbia fatto male a rinunciare al suo viaggio. Parigi merita di non essere tradita.
il succo. Mettete sul fuoco una padella grande, che poi possa contenere la pasta. Fate scaldare dell’olio e insaporitelo con lo spicchio d’aglio, versate i pezzetti di asparagi (non le punte) e fate cuocere a fuoco basso per 5 minuti. Rimuovete l’aglio. Intanto mettete sul fuoco una pentola con l’acqua per la pasta. Aggiungete in padella i calamari, rosolateli brevemente, versate il vino bianco e fate sfumare bene. Unite poi il succo d’arancia, regolate di sale e continuate la cottura per 10 minuti, eventualmente
aggiungendo un mestolo di acqua di cottura, in modo da avere un sugo non troppo asciutto. In un altro pentolino cuocete per qualche minuto le punte di asparagi con un cucchiaino di olio, devono rimanere croccanti. Salate e tenete da parte. Quando l’acqua bolle in pentola, salatela e calate le linguine. Cuocete 8 minuti, scolate e versate la pasta nella padella col sughetto, mescolate bene, aggiungete le punte degli asparagi, le striscioline di scorza di arancia e un giro di pepe. Ingredienti per 4 Persone: 320 g Linguine 350 g Calamari 500 g Asparagi 1 Arancia 1 bicchiere Vino Bianco 1 spicchio Aglio Olio Extravergine D’Oliva Sale Burro 1 noce Olio extravergine d’oliva Sale120 g di parmigiano a scaglie sale e pepe
Linguine calmari e asparagi di Michele Rescio Non ero preparata per la sensazione della pasta nella mia bocca, o la purezza del gusto. Ero stata in Italia per quasi un mese, ma non avevo mai sperimentato nulla di simile. Le tagliatelle tremavano come se fossero vive, e saltassero in bocca, dove vibravano come riproduzione di musica non udibile.. Ruth Reichl Preparazione. Iniziate pulendo gli asparagi. Con il pelapatate sbucciate la parte più coriacea, lavateli bene, tagliate il fondo e poi tagliateli a tocchetti, tenendo da parte le punte. Passate ora ai calamari. Staccate delicatamente i tentacoli, togliete gli occhi e la bocca e gettateli. Prendete poi in mano la sacca e togliete la penna e le interiora. Sciacquate bene, poi tagliate ad anelli la sacca. Sempre col pelapatate sbucciate l’arancia e tagliate la scorza a striscioline, tenendole da parte. Spremete poi
26 29 aprile 2017
di Sara Chiarello Bentornata Fabbrica Europa, festival che da sempre ammiriamo per la sua forza visionaria, alla ricerca di nuove forme artistiche, di idee da condividere e realizzare, di altri mondi possibili. Il meglio degli artisti performativi (non solo d’Europa, ma provenienti dal Medio Oriente, India, Cina, Mediterraneo…) si ritrova a Firenze per la sua ventiquattresima edizione, dal 4 maggio al 15 giugno, alla Stazione Leopolda e in vari luoghi. Settanta gli appuntamenti, in un laboratorio d’arte permanente, che è una festa, dove i linguaggi e i segni si intrecciano, perdendo finalmente etichette. “Se in questi anni Fabbrica Europa è diventata una delle realtà consolidate del panorama del contemporaneo anche grazie ai grandi ospiti internazionali, la sfida è ora quella di trasmettere esperienze e conoscenze, pratiche e progettualità alle generazioni che si affacciano al mondo dell’arte in cerca di riferimenti, per capirne i meccanismi profondi. È per questo che l’attenzione del Festival va sempre più alla ricerca di tutti quei luoghi in cui trovare una vitalità nuova da condividere, un terreno fertile in cui agire, adatto per osservare e riflettere la realtà da prospettive inusuali, fino a raggiungere, quando possibile, lo stupore”, dicono gli organizzatori. L’apertura sarà affidata a un progetto speciale, A Love Supreme, della coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker, in prima nazionale (in replica il 5). Costruita in collaborazione con il coreografo Salva Sanchis per la Compagnia Rosas, sulla musica dell’omonimo capolavoro di John Coltrane, la dinamica coreografica si sposa con il fluire ascetico e vulcanico delle sonorità del jazzista, e ognuno dei quattro danzatori si lega a uno strumento specifico, in un bisogno di assoluto. In collegamento, la produzione musicale A Love, Naked che vede protagonisti Hamid Drake e William Parker affondare nelle profondità musicali di John Coltrane, solo contrabbasso e batteria (14/05). Per la danza, Jérôme Bel presenta Gala, coproduzione Fabbrica Europa e Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato: danzatori professionisti, attori e amatori di diverse formazioni (selezionati sul territorio) si uniscono per interrogarsi sul concetto di danza, in una celebrazione collettiva che scalza la supremazia del “ben danzare” a vantaggio del puro piacere di raccontarsi (10, 11/05). Nella stessa sezione Prélude, nuova creazione di Cristina Kristal Rizzo, in cui una sequenza di movimenti semplici ripercorre le geometrie della linea e della diagonale, creando il tono ritmico di un gruppo di otto danzatori (13,14/05), e l’opera della coreografa giapponese Anan Atoyama,
Bentornata Fabbrica Europa, la visionaria che con Hidden Body Déclinaison rende omaggio a Kazuo Ohno e alla sua capacità di collegare il gesto all’universale attraverso le emozioni personali (10/05). Santasangre presenta Gravure_Le chevalier_II quadro, performance che ruota attorno alla figura del cavaliere e dell’arte della spada, ricordando come la disciplina e l’esercizio nella preparazione alla battaglia pongano l’uomo di fronte a se stesso e a un’impalpabile potenza (11,12/5). Matthew Herbert delizierà il dancefloor (5/5), la rassegna Dan+Z (Dance + Jazz) farà incontrare la giovane coreografa e danzatrice del Balletto di Roma Roberta Racis, il chitarrista Francesco Diodati e il percussionista Ermanno Baron (5/5). Ascolteremo le chitarre dello statuniten-
se Marc Ribot e del canadese Oren Ambarchi, le sonorità della capoverdiana Mayra Andrade (12/05), oltre ai concerti di Marco Parente (con Irene Grandi nella reinterpretazione di Eppur non basta, uscito 20 anni fa, il 7/05), Edda (11/05), e Marlene Kuntz con il capolavoro Il Vile (13/5), non un’operazione nostalgica ma la volontà di riproporre qualcosa di bello, e di condividerlo nuovamente insieme. Tra gli eventi in musica anche Tour Blu, progetto speciale in cui la chitarra di Adriano Viterbini incontra i live paintings di Davide Toffolo, frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti e Alberto Ferrari dei Verdena, tra blu e blues (6/5). Programma completo su www.fabbricaeuropa.net , prevendite su boxol.
Foto di Ian
27 29 aprile 2017
di Franco Manescalchi Kiki Franceschi muove dal gotico e dal fantastico - in un’aura di rinnovato romanticismo con tutti gli elementi naturalistici che gli sono propri - per mettere in evidenza come l’umanità tradizionalmente intesa sia giunta alle soglie di una reale dissoluzione causa una devastante alienazione sociale che la sfigura e ad una radicale modificazione cibernetica per cui la realtà supera l’immaginazione. Ciò è evidenziato nello scritto che si trova qui, a chiusura del libro, “Visioni della malinconia tra l’intimo e il globale” dove l’autrice presenta sinteticamente alcuni autori per lei di riferimento. Di fatto, comunque, non si tratta di una riflessione filosofica, l’autrice vive davvero questa condizione esistenziale e di questa testimonia nei testi che compongono la presente opera. Nel testo n° 1, Sotto mentite spoglie scrive: “Ho due anime, un falso sé o un inventato sé. Sono sempre sotto mentite spoglie, in duello con me stessa nel tentare di uscire dai grovigli interiori che strozzano l’impulso ad esprimermi e frenano la pulsione al silenzio. Combatto con la voglia di tacere, il desiderio di riposo e silenzio, la fine delle inutili fatiche, l’abbandono della tensione costante. Fuggo. Entro in un dialogo tra ombre e doppi. Inevitabilmente.” Da questa dicotomia deriva il confronto individuale, sociale e storico con la morte che è “un sonno senza sogno e senza Dio”. Passando dalla visione del mondo all’aspetto creativo, appare subito evidente la poliedrica attività artistica e letteraria di Kiki Franceschi che intreccia, nella sintesi multimediale, generi diversi. Di certo essa rappresenta una delle voci più significative nella letteratura e nell’arte del secondo Novecento e degli inizi del terzo Millennio, a partire dalla sua drammaturgia, in cui dà vita a personaggi di grande e drammatica evidenza recuperati dal vissuto. Questo suo ampio respiro è ancor più evidente nella elaborazione dei linguaggi delle opere multimediali dove essa conserva tutta la sua vitalità di fondo, sempre sostenuta da una profetica indignatio, (Si natura negat, facit indignatio versum, scrisse Giovenale) e da una sapienza filologica nel tessere citazioni di scrittori amati con cui condivide, come si è già scritto, le “visioni della malinconia fra l’intimo e il globale”). Essa rimane in ogni caso se stessa, muovendosi fra prove diverse ma fuse in una voce unica, decisa e insieme amaramente suadente per la modulazione dei toni che la fanno viva. Anche questo testo di poesia si propone come canto che non è nato per rimanere sulla pagi-
28 29 aprile 2017
Kiki Franceschi un’artista totale
na, ma per essere contestualizzato in opere di poesia sonora. Forse, a livello interiore, la poetessa, esprime in questi versi di La morte come sentimento, la chiave del suo pessimismo: paura d’aver paura della paura che annichilisce cosciente paura della vita del tempo che già trascende… Un testo bellissimo, che dà un senso altamente poetico di questo assunto, è Parole dove la personale estinzione è custodita da”nate e morte nel silenzio /bianche fragili parole /arcane attingibili”.Parole che sono “pietrificate foreste / insondati segni”. Altro testo che spicca, in tal senso, è Semplicità all’inizio, dove la poetessa dà un’interpretazione della Genesi e del dopo concludendo con un distico che è una dichiarazione di identità dell’artista: “traduciamo in parole /avventura colore melodia”. Inoltre, questo subìto cupio dissolvi, che interpreta una società, una natura, un universo in una crisi profonda, cerca comunque una soluzione: “Notte assoluta. Chiedo voce e parola.” Oltre a la notte ossianesca altro elemento “cosmico” è il mare che per Kiki Franceschi è anche un alveo biografico, essendo lei legata alla città natale, Livorno: “Il nostro mondo è acqua /amara del sale dei continenti”. E mai versi furono più attuali. Per lei, il nuotare è un fatto esistenziale “Improvvisa mi coglie la sera / nuotando /nella luce degli specchi.” Un nuotare come presenza nell’Universo in cui si domanda se sia meglio essere libera (ma sottoposta alle proprie angosce) o affidarsi a un “tiranno dio psicopatico” che sappia liberarci da queste. Così, traducendo la visione del mondo in esperienza personale la poetessa ci consegna un testo di rilevanza storica. E, infine, anche le immagini delle sue opere testimoniano la forte tensione catartica e, se ce ne fosse bisogno, l’alto posizionamento che Kiki Franceschi ha nel quadro dell’arte contemporanea
Maschietto Editore
libri d’arte
In occasione della mostra dedicata al grande artista italiano dalla Fondazione Giorgio Conti di Carrara, curata da Massimo Bertozzi e Antonio Natali, Maschietto Editore realizza uno speciale volume, catalogo della mostra e monografia d’artista, che presenta la serie degli inediti esposti a Palazzo Cucchiari e propone un viaggio nel ricco universo visuale dell’artista, con suggestive immagini dello studio e delle opere in lavorazione. L’artista stesso firma il progetto artistico e il concept grafico, facendo del volume un’opera d’arte e un’esperienza immersiva unica, attraverso la quale il lettore può addentrarsi empaticamente nella poetica, Luca Pignatelli Palazzo Cucchiari nelle visioni, nei ritmi creativi dell’artista. rilegato / 104 pagine / 28 € La grandi lamiere di ferro zincato, lavorate con maISBN 978-88-6394-132-6 teriali e strumenti appartenenti al mondo dell’edilizia e della cantieristica, rappresentano eroi, condottieri, imperatori romani, oltre alle rovine dell’Urbe. Dal lavoro di Pignatelli emerge una rilettura artistica e intellettuale del rapporto tra antico e contemporaneo; i temi della memoria, della tradizione e delle macerie vengono ‘messi alla prova’ e a contrasto con la fisicità delle lavorazioni, facendo scaturire significati e sguardi nuovi. Il volume presenta i testi critici di Antonio Natali e Massimo Bertozzi, oltre della Presidente della Fondazione Giorgio Conti, Franca Conti; le immagini delle opere sono state scattate dal grande fotografo Paolo Vandrasch.
LUCA PIGNATELLI A cura di Antonio Natali e Massimo Bertozzi 22 APRILE 2017 – 18 GIUGNO 2017 Orari di apertura Da martedì a domenica, 15:00-19:00 A partire dal 26 maggio: martedì, mercoledì, giovedì e domenica, 15:00-19:00 venerdì e sabato, 15:00-22:00 Ingresso intero 5 € / Ridotto 4 €
PALAZZO CUCCHIARI Via Cucchiari, 1 – 54033 Carrara, Italy T. +39 0585 72355 info@palazzocucchiari.it
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