Numero
6 maggio 2017
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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
“La bellezza, la creatività, la storia, il paesaggio, le capacità e il genio italiano. Tutti asset che sono attualmente schiacciati”
“Come se domani presentassi venti esposti contro Renzi, lo iscrivessi nel registro degli indagati e verrei in piazza e urlerei Renzi è indagato”
Luigi Di Maio
Corto circuito culturale Maschietto Editore
NY City, Agosto 1969
La prima
immagine Siamo sempre al Central Park e questa era una biglietteria che permetteva ai visitatori di acquistare un biglietto per essere trasportatati a giro comodamente seduti su una specie di trenino con ruote di gomma. Questo rendeva possibile, anche per i turisti piÚ pigri, attraversare le varie zone del parco senza doversi sobbarcare estenuanti camminate sotto l’orribile cappa tropicale che purtroppo contraddistingue il clima della Grande Mela durante tutti i mesi estivi.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
6 maggio 2017
283
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Riunione di famiglia Truppe cammellate Le Sorelle Marx
Il fioraio Lo Zio di Trotzky
Ehi raga, tutto rego? I Cugini Engels
Le nuvole Le nipotine di Bakunin
In questo numero Che Fabbrica Europa sarà di Sara Chiarello
Lampada di nome Lampada di Claudio Cosma
La scossa di Simone Siliani
3 mostre parigine di Simone Zanuccoli
Storia degli uni e degli altri racconto di Carlo Cuppini
L’estinzione della destra e della sinistra di Ugo Caffaz
Cressida, prog senza orpelli di Alessandro Michelucci
Gite sociali alla maniera del Grand tour di Andrea Caneschi
Un lungo viaggio di Laura Monaldi
Il birresco di Vigevano di Cristina Pucci
Eugène Durieu e Eugène Delacroix di Danilo Cecchi
e Mariangela Arnavas, Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Paolo Marini, Susanna Cressati...
Storia del by-pass del Galluzzo - 3 di John Stammer
Direttore Simone Siliani
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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È iniziato da qualche giorno Fabbrica Europa e Cuco lo presenta con una doppia intervista ai direttori artistici Maurizio Busia e Maurizia Settembri e con la recensione di A love supreme, spettacolo che aperto la XXIV edizione del festival.
Maurizio Busia di Sara Chiarelllo Come è nata questa edizione di Fabbrica Europa? Abbiamo lavorato su una visione più che su un concetto definito, che rimane come traccia sommersa nel programma. Volevamo un festival di impatto, che rispondesse alla nostra esigenza di guardare oltre, verso qualcosa che non c’è ancora. Parla questa lingua il progetto che ospita due grandi musicisti quali Hamid Drake e William Parker, impegnati nella produzione musicale “A Love, Naked”, un affondo nelle profondità musicali di John Coltrane, reinterpretandolo e spogliandolo in versione insolita, solo contrabbasso e batteria (14/05 alla Stazione Leopolda). In qualità di responsabile artistico della sezione musica del festival, cosa ci consigli? Quest’anno abbiamo voluto evitare divisioni rigide tra le sezioni, così la musica si intreccia al resto del programma. È sicuramente l’edizione in cui più di tutte presentiamo un programma simile a un tessuto, in cui tutte le tracce si intrecciano in maniera organica. La multidisciplinarietà per noi non vuol dire la somma di percorsi paralleli ma una creazione per contagio, con una intersezione profonda. Tra gli appuntamenti, oltre ai concerti di inizio con il chitarrista Francesco Diodati e il percussionista Ermanno Baron, Matthew Herbert e la rassegna Dan+Z (Dance + Jazz) con la giovane coreografa e danzatrice del Balletto di Roma Roberta Racis, il chitarrista Francesco Diodati e il percussionista Ermanno Baron, da non perdere ad esempio le chitarre dello statunitense Marc Ribot e del canadese Oren Ambarchi (20/05). Affonderemo le mani nella Firenze di certi anni, quelli del Consorzio Suonatori Indipendenti, con i concerti di Marco Parente (con Irene Grandi nella reinterpretazione di Eppur non basta, uscito 20 anni fa, in programma
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Che Fabbrica farà
il 7/05), Edda, con l’ultima creazione, Graziosa Utopia, che sta riscuotendo consensi unanimi per canzoni che trovano in stato di grazia il frontman dei Ritmo Tribale (11/5, Stazione Leopolda), e Marlene Kuntz con il capolavoro Il Vile, forti di un’energia ritrovata anche grazie alla presenza del bassista Luca Lagash (13/5). Ci tengo a sottolineare come non sia un’operazione nostalgica ma la volontà di riproporre qualcosa di bello, e di condividerlo nuovamente insieme. Tra gli eventi in musica anche Tour Blu, progetto speciale in cui la chitarra di Adriano Viterbini incontrerà i live paintings di Davide Toffolo, frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti e Alberto Ferrari dei Verdena, tra blu e blues (6/5). E poi venite a sentire la performance solista di Marc Ribot, chitarrista al fianco di mostri sacri quali Tom Waits, John Zorn, Elvis Costello (10/5, Stazione Leopolda, in collaborazione con Mu-
sic Pool) e le sonorità della capoverdiana Mayra Andrade, che anticiperanno quelle del Festival Au Desert, altro appuntamento di cui siamo organizzatori, momento di incontro tra musicisti tuareg, maliani, berberi e africani con artisti della scena europea e internazionale (12/05). Come si costruisce un festival come Fabbrica Europa? C’è un lavoro molto lungo dietro: la prossima edizione inizieremo a pensarla già in questi giorni, grazie a ciò che accadrà sul palco o dietro le quinte. Il festival prenderà così forma mattone dopo mattone, in una costruzione che crescerà nel tempo. Dopo aver messo a fuoco i nostri sogni e i nostri desiderata, inizieremo a scremare le proposte, e cercheremo i finanziamenti. Un lavoro faticoso, anche perché durante l’anno il nostro staff è ridotto ai minimi termini, ma che ci dà sempre molta soddisfazione.
Maurizia Settembri di Sara Chiarelllo Come immagina Fabbrica Europa tra 20 anni? Non me la immagino nemmeno l’anno prossimo (ride), perché Fabbrica Europa ogni edizione muore e risorge, ogni anno parte con una grande incognita ma fin qui ce l’abbiamo sempre fatta! Sicuramente nelle possibili future edizioni mi piacerebbe ci lavorasse un grande staff formato da giovani, frutto di un completo rinnovamento e di una grande partecipazione. Avere una sede fissa, intendo non solo un luogo di lavoro quale un ufficio, come adesso, ma degli spazi e delle attività permanenti per tutto l’anno, certo ci aiuterebbe. Il festival ci riempie sempre di grandi soddisfazioni ma in questa maniera, chiedendo il favore di ospitalità a teatri e spazi vari per proporre residenze, è molto faticoso, anche se questo fa di Fabbrica Europa una manifestazione di grande partecipazione, di collaborazione, uno dei segreti della sua riconoscibilità. Io vedo Fabbrica Europa come un progetto
Foto di Antonio Viscido
orizzontale, di rete, pensato per Firenze, che è una città che ha sempre avuto bisogno di concordare, di trovare degli accordi interni, di non farsi concorrenza. Per questo dobbiamo sempre evolverci, cambiare, proporre un programma di alta levatura perché vediamo che tanti nostri contenuti poi vengono recepiti da altre strutture, e crediamo che il nostro compito fondamen-
tale sia quello di continuare a innovare. Per fare questo c’è bisogno di una mentalità aperta e di una grande forza giovanile. Quale è lo stato dell’arte dell’Italia secondo lei? Non è dissimile a quello del resto del Mediterraneo, ma purtroppo c’è una grande differenza ad esempio con il Nord Europa. Qui c’è un patrimonio storico che deve essere conservato e tutelato, e che è anche fonte di turismo, ma questo in qualche maniera frena la produzione contemporanea. Da noi c’è un microcosmo che ci crede, composto da tantissime realtà che vivono a volte sul volontariato, perché comunque vogliono innovare. Ci sono progetti e piccoli bandi che aiutano la scena, ma non credo ci sia un vero investimento sull’arte contemporanea, che trovo sarebbe necessario. Quali potrebbero essere delle nuove modalità per incuriosire il pubblico e formarlo? Secondo me ad esempio il progetto dell’artista francese Jérôme Bel, Gala, in prima
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nazionale alla Leopolda mercoledì 10 e giovedì 11 maggio, che mette insieme una ventina di persone tra professionisti e non, bambini e umanità varia. Credo che sia un format molto intelligente, creativo e interessante, che il coreografo porta in tutte le parti del mondo, dall’Australia a Parigi. In questo momento il coreografo è in mostra al Museo Pecci di Prato (fino al 25 giugno), con un progetto collegato al nostro. Bel è interessante perché non usa le persone come se fossero dei volontari, tutti i partecipanti vengono pagati come professionisti e tutti sono alla pari e sono artisti. Secondo me questa modalità incuriosisce a seguire gli spettacoli. È un modo di rendere partecipe il pubblico, facendo anche capire che l’arte ci paga. Certo, è un format internazionale, molto costoso, perché la scelta di chi prende parte al progetto viene fatta in mesi di selezione, in un iter che prevede anche la realizzazione di un video con il cellulare, vari incontri di persona etc etc. Questa modalità permette però secondo me la realizzazione di uno spettacolo moderno e fresco. Fabbrica Europa non è un festival di produzione in senso stretto, ma di fatto lo è, cosa vuol dire lavorare su queste produzioni monumentali? Lo facciamo da sempre. Il mondo è sempre più piccolo ed è interessante lavorare a livello internazionale, non per trovare la star, ma per cercare un modo valido e attuale di comunicazione e di condivisione di esperienze. Per esempio il progetto Bhinna Vinyasa ideato dal coreografo indiano Jayachandran Palazhy, direttore dell’Attakkalari Centre for Movement Arts di Bangalore, che sarà in scena dal 13 al 15 giugno al Teatro La Compagnia, in collaborazione con il festival di cinema River to River, è il frutto del lavoro fatto da questo centro per le arti che si occupa di formazione, ha una compagnia stabile e organizza un festival. Quando ci siamo visti, abbiamo trovato con loro un terreno fertile di incontro, mi hanno invitato a seguire il loro festival e ho potuto vedere dove lavorano, come lavorano, e l’ho apprezzato molto. Li ho così voluti invitare a FE, ma ho dovuto parallelamente lavorare anche per realizzare un tour per loro perché una compagnia che viene dall’India, anche per essere supportata dal suo governo, ha bisogno di avere un tour, che toccherà il Teatro Argentina di Roma, continuando ad Ancona, al Teatro Franco Parenti a Milano e a Verbania al Teatro il Maggiore.
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Cosa non possiamo proprio perdere al Festival? Sono tanti gli spettacoli che suggerisco di venire a scoprire, ma vorrei ricordare il progetto Half a House, che si terrà alla Palazzina EX Fabbri alle Cascine dal 10 al 14 maggio, che verrà aperta in maniera insolita, dal pomeriggio alle 16 fino alle
20. Qui si svolgerà un progetto europeo con una ventina di artisti e operatori che presenteranno realmente una nuova modalità di fare arte, dove si mescoleranno tematiche legate alla biologia, alla scienza e al sociale. Nella formula, c’è una parte performativa e di aperitivo inclusa nel biglietto d’ingresso.
di Simone Siliani A Love Supreme è una scossa elettrica che percuote senza sosta i corpi dei quattro danzatori della coreografia di Salva Sanchis e Anne Teresa De Keersmaeker, che ha aperto la XXIV edizione del festival Fabbrica Europa. Un’onda sonora continua che avvolge e attraversa corpo e anima dei quattro e torna, trasformata ed elevata a potenza, nella sala della Stazione Leopolda che ogni anno ritrova in questo festival la sua vera vocazione culturale, depurata dai chiacchiericci della politica (con cui è, purtroppo, diventata famosa in Italia) e dai saltuari eventi mondani. Sembra quasi che il capolavoro di John Coltrane attendesse questa coreografia quale suo completamente teleologico. Tutto ha un suo ordine, scandito dal numero quattro: quattro musicisti che eseguono la suite in quattro movimenti (Acknowledge, Resolution, Pursuance, Psalm); i quattro danzatori che ne sono al contempo riempiti e impadroniti; il tempo in 4/4 che scandisce l’ordine musicale su cui si intesse la trama coreografica. Stefan Hertmans, nel programma di sala, cita opportunamente il “quadrato magico” rappresentato nell’opera Melancholia I di Albert Dürer: opera complessa in cui il numero 4 domina (presente in molti degli oggetti raffigurati nell’incisione, come quattro sono le dita visibili della mano sinistra sulla quale poggia la testa pensierosa della figura centrale, quattro sono i chiodi in basso a destra e la presenza del crogiolo degli alchimisti sembra alludere alla prima delle quattro fasi alchemiche necessarie per sintetizzare la “pietra filosofale“). Del resto quattro sono i sensi coinvolti totalmente in questa coreografia. E, infine, quattro sta nella Bibbia per completezza dal punto di vista della forma e delle funzioni, come nel caso dell’espressione i “quattro angoli della terra” (Rivelazione 7:1; 21:16; Isaia 11:12). Niente avviene per caso in questo universo musicale-coreografico, eppure è assoluta vitalità e improvvisazione. È la funzione eversiva svolta dalla musica di Coltrane che è misura certamente, ma anche rottura di ogni schema, che non può contenerne la forza vitale. Così è per la coreografia della De Keersmaeker: tutto è inscritto in una dimensione spaziale che nel primo silente movimento i quattro danzatori definiscono, novelli Demiurgi, ascoltando una propria musica interiore: costruito questo cosmo spaziale, irrompe la musica a riempirlo di
vita, di contenuti, a definirne i valori etici di riferimento. Ma poi quello schema spaziale non riesce a contenere la forza primigenia dei corpi, della forza, finanche dei caratteri (così meravigliosamente diversi e precipui: la felicità, la grazia, la potenza e l’ordine) dei quattro danzatori. Davvero un capolavoro toccato dalla grazia dello spirito del mondo questo A Love Supreme, il miglior viatico per la nuova edizione di Fabbrica Europa che fino al 15 giugno offrirà ancora molta arte contemporanea e vita a Firenze.
La scossa
7 6 MAGGIO 2017
Le Sorelle Marx
Truppe cammellate
E così si son celebrate le ennesime primarie del Pd. Ancora con qualche strascico polemico sui risultati, ma un dato è certo: la vittoria di Renzi ha un solo artefice e il suo nome è Eugenio Giani, unico e inimitabile maneggiatore di preferenze. Quando, qualche mese fa, nel quartier generale di Renzi sono iniziati a girare i primi sondaggi non sufficientemente bulgari sugli esiti a Lui favorevoli, colonnelli, luogotenenti e sergenti dello stato maggiore renziano sono stati presi da sconforto: “Ragazzi, qui se non si porta il Capo almeno al 70%, ci licenzia tutti e dobbiamo tornare ai nostri aperitivi serali nei baretti di periferia”. Ma Bonifazi, uomo di esperienza e di mille risorse (e qualche spritz di troppo) ha avuto una brillante idea: “Telefono a Giani e ci pensa lui!”. “Pronto Eugenio? Pensaci tu! Abbiamo bisogno di voti: porta le truppe cammellate per le primarie!”. Eugenio non s’è fatto pregare, nonostante si trovasse impegnato in una pregevole iniziativa, con buffet (appena la terza della giornata): “Certo, Francesco, se lo vuole il Capo... parto subito alla ricerca”. Così, novello Eugene d’Arabia, il buon Giani è andato a colpo sicuro e, come mostra la foto, ha centrato l’obiettivo: “Siamo in #africa con il #dromedario ? No, siamo a #Firenze per la mostra dell’ #Arti-
gianato, ricca di presenze di #artigianato e #arte da ogni parte di #Italia #Europa e del #mondo!”. Il nipote di Canapone, storico dromedario dello zoo di Firenze (purtroppo affogato nell’alluvione del ‘66), è solo l’ultimo delle migliaia di cammelli che Giani ha portato ai seggi Pd. Per la verità Bonifazi è rimasto lì per lì un po’ interdetto, ma poi ha interpretato il regolamento delle primarie e ha concluso: “Oh caspio, si starà a vedere: à la guerre comme à la guerre. Si fa votare tutti, cani, porci e cammelli!”. Et voilà, les jeux sont faits: Renzi 71,1%
I Cugini Engels Ehi raga, tutto rego? Al grido di “ehi raga” il tesoriere del PD e parlamentare Francesco Bonifazi ha richiamato i colleghi parlamentari su Facebook all’indomani dell’approvazione, col voto determinante del PD, della legge sulla legittima difesa. Non certo per stigmatizzare una legge che insegue i peggiori istinti del Paese ma, in linea con quanto dichiarato la sera prima dall’amato leader Renzi, per equiparare la legittima difesa
8 6 MAGGIO 2017
notturna con quella diurna. Al di là del merito, quello che non finisce di stupirci è la disinvoltura con cui un parlamentare, non un avventore del bar sottocasa, affronti un problema per il quale è lautamente pagato da tutti noi. Se l’onorevole Bonifazi riteneva ridicola la norma che il suo partito ha proposto e votato, aveva, a differenza di noi, molti più strumenti di un post su un social per
Lo Zio di Trotzky
Il fioraio Ovvia, finalmente il nostro sindachino Dario Nardella ci ha restituito a meraviglia quell’antro grigio, spettrale e scontato – diciamolo, anche brutto – che è il piazzale degli Uffizi. Infatti, dalla tribuna della newsletter, Nardella fioraio ci consiglia caldamente di andarlo a vedere ora quel piazzale perché “Proprio come la scorsa primavera, è tornata l’invasione botanica nel piazzale degli Uffizi: un giardino temporaneo (resterà fino al 21 maggio) pieno di piante e fiori provenienti da tutto il mondo. Vi invito a passarci, perché è diventato davvero un luogo magico.”. Strano che ancora non ci sia stata una bella foto in cui Nardella abbraccia un albero nel piazzale degli Uffizi. Il quale, nella sua secolare storia, mai ha conosciuto simili infiorate, eppure era parso “magico” a generazioni di artisti, architetti, visitatori e anche qualche sindaco occasionalmente. Invece, Nardella è proprio determinato a togliere gli Uffizi dal loro secolare squallore e restituirlo a vita nova, ora con l’invasione botanica, ieri con il cinema all’aperto. Ma, così come modesto suggerimento, lasciarlo così com’è, nudo e grigio, con le sue perfette forme e proporzioni, voluto da Cosimo come polo direzionale in cui collocare tutte le magistrature e realizzato da Vasari fra il fiume, la chiesa di S. Pietro, piazza della Signoria e la Loggia dei Lanzi? Magari sarà meno “magico”, ma certamente non sfiorisce dopo qualche settimana.
intervenire. Immaginiamo, visto che dal resoconto d’aula Bonifazi risulta in missione al momento del voto, che l’ora della votazione coincidesse con altri e più pressanti impegni per lui e per il Paese. Altrimenti ritorni ai bar alla moda in cui ha dato prova di essere a suo agio e in cui tali ragionamenti sono più in linea rispetto al parlamento della Repubblica.
Nel migliore dei Lidi possibili
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Le nipotine di Bakunin
Le nuvole “Vanno, vengono, ogni tanto si fermano e quando si fermano sono nere come il corvo sembra che ti guardano con malocchio” cosi cantava Fabrizio De André e così è stato. La “nuvola” di Fuksas si è mossa, spostata di un paio di metri e si è messa di traverso alla strada. Ora dovranno restringere la sede stradale di viale Europa all’Eur a Roma. Il centro congressi più costoso mai realizzato in Italia (circa 430 milioni di euro compreso IVA), sul quale pende un’inchiesta della Corte dei Conti, completato il 29 ottobre 2016 dopo oltre nove anni di lavori, è stato realizzato spostato di circa 2 metri rispetto alla posizione nella quale doveva essere costruito. Questo è quanto sostiene Eur spa, la società pubblica (90% Ministero dell’Economia e 10% Comune di Roma) che minaccia provvedimenti. Ma noi sappiamo che non è così. Lo sapeva già De André e lo ha scritto anche Tito Barbini. “Le nuvole non chiedono il permesso”. Vanno dove più gli aggrada. E quando si fermano provocano pioggia, tempesta, danni. Per ora si è fermata li, ma domani chissà...
Gli amletici dubbi del gallo francese: fidarsi del topo o del serpente?
Segnali di fumo di Remo Fattorini Viviamo immersi, invasi, ossessionati dal continuo, ininterrotto flusso di notizie, disponibili gratuitamente e in tempo reale. Crediamo così di conoscere i fatti, di essere aggiornati e di sapere come gira il mondo. Tante notizie ma, in realtà, molta cattiva informazione. Di fatto la verità, in questi ultimi anni, ha perso valore e interesse. E oggi, anche per i più scafati, diventa sempre più difficile distinguere il vero dal falso. L’attenzione a tutto questo si è accentua-
ta all’indomani delle elezioni americane e dell’esito del referendum sulla Brexit. Tanto che l’Oxford Dictionary definisce la post verità “parola dell’anno 2016”. Periodo in cui le fake news sono cresciute in maniera vertiginosa. La qual cosa riguarda anche noi: il panorama italiano delle bufale è infatti assai affollato. Utilizzare e diffondere notizie approssimative, imprecise e false a sostegno delle proprie tesi, allo scopo di sviluppare traffico in rete o per rafforzare il proprio consenso, è una pratica molto diffusa, a partire - ahimè - proprio dalla politica. Proprio da coloro cioè che invece dovrebbero svolgere – sia se appartenenti alla destra o alla sinistra o al centro dello schieramento – un ruolo educativo, formativo e responsabile. Tanto che, anche in Italia, alcuni siti – vedi pagellapolitica.it – si sono specializzati nella caccia alle frottole. A titolo d’esempio ecco un piccolo campionario riportato anche sul “Punto” di Beppe Pagliaro. Beppe Grillo: un terzo delle aziende
italiane ha chiuso i battenti da quando siamo entrati nell’euro. In realtà da allora il numero delle aziende è cresciuto. Matteo Renzi sulla riforma costituzionale: è la prima volta in Occidente che un parlamento vota per abolire sé stesso. Falso, è accaduto anche in Svezia, Danimarca, Nuova Zelanda. Oppure: quando aumentò l’Iva dal 21 al 22% il gettito diminuì. Non è vero, il gettito aumentò. Silvio Berlusconi: la macchina dello Stato costa agli italiani il 30% in più rispetto ad altri cittadini europei. In verità l’amministrazione pubblica italiana costa solo l’1,2% in più della media europea. Più di noi spendono Danimarca, Finlandia, Regno Unito, Portogallo. Matteo Salvini fra le tante dice: tre quarti dei detenuti nelle nostre carceri sono stranieri. In realtà sono solo un terzo. E c’è da scommettere che nei prossimi mesi assisteremo ad un’accelerazione. Avvertimento: fate attenzione a quel che leggete, così come fate con ciò che mangiate e bevete.
9 6 MAGGIO 2017
di Laura Monaldi L’arte di Luca De Silva è un lungo viaggio della mente e nella mente che procede oltre i linguaggi estetici per ribadire l’essenza intima della creazione e dell’ispirazione. Porsi al di là dell’immagine e della parola per Luca De Silva significa porre l’accento sull’armonia alchemica del Tutto, sulla riflessione concettuale che le categorie contemporanee evocano nella loro ambiguità semantica e nella loro sfuggente presenza nel mondo. Ripensare l’Arte è il punto di partenza per rifondare una diversa concezione dell’opera d’arte, la cui fisicità si manifesta come un corpo vivente, antropologico e psicologico, analizzato universalmente e concepito nella quarta dimensione del virtuale e del sogno. Le opere di Luca Di Silva sono epifanie dello spirito, dettate dalla consapevolezza che l’artista contemporaneo deve essere un testimone del passato, un “messia” del presente e un sognatore de futuro: un intellettuale libero che manipola l’oggetto e i legami comunicativi della modernità per sublimare la pesantezza epistemologica ed emancipare la Vita. La mutevolezza, l’evoluzione, la contaminazione e l’energia della luce che affiora dalle tenebre sono i richiami mistici che coinvolgono il corpo dell’artista in installazioni e performance dall’aulico slancio poetico. L’azione sull’oggetto si tramuta in una ponderata messa in evidenza che non vi sono limiti alla dialettica artistica: il Tutto nasce da un arduo processo cognitivo capace di dare valore e senso all’apparenza e alla casualità. Da un semplice pretesto oggettuale scaturisce l’idea che è il possibile è infinito nel suo eterno divenire e dis-venire. In una delle vetrine della Biblioteca San Giorgio di Pistoia è possibile ammirare l’installazione “Al di fuori di me tutto è possibile”: una rinascita al di fuori del corpo fisico; un salto in una dimensione parallela, nell’anima, nella psiche e nell’immaginario collettivo che ci portiamo dietro. «Dal teschio si passa al viso sdraiato che guarda in alto con una luce neutra (o quasi), passando poi al vasetto in cui la luce è rossa, simbolo o riferimento ad una energia creativa, di rinascita, del sangue come energia del parto. Poi la testa con luce blu che guarda il suo passaggio, il suo percorso simbolico della vita vissuta. Uno sguardo blu o azzurro che riflette nella nostra memoria la dimensione infinita del cielo e dell’universo del pensiero». Quello di Luca De Silva è un processo del fare che annienta il tempo e invoca la memoria; che richiama alla mente l’innocenza primigenia, invocando una nuova primavera e il senso di un’energia che parte dalla vita vissuta che l’Arte deve riscoprire.
10 6 MAGGIO 2017
Luca De Silva in performance - fotogramma tratto da un video di Stefano Cecchi
Un lungo viaggio
Luca De Silva in performance a Villa Caruso Bellosgurado in occasione dell’evento “Vitamine”
Musica
Maestro
Cressida, prog senza orpelli
di Alessandro Michelucci Il rock progressivo degli anni Settanta, soprattutto quello inglese, ha segnato profondamente i gusti musicali degli europei nati dopo la fine della Seconda guerra mondiale. All’epoca gruppi come Emerson, Lake & Palmer, Premiata Forneria Marconi e Yes proponevano brani di 10 o 20 minuti dominati da tastiere magniloquenti, arricchiti da influenze che spaziavano dal folk al jazz. Negli anni Ottanta, però, questa musica è diventata oggetto di un forte ostracismo: il linguaggio essenziale, spesso anche rozzo, del punk la rendeva stucchevole alle orecchie dei giovani musicofili. Poi, verso la fine del secolo, è cominciata la sua rivalutazione, spesso acritica e nostalgica. Ma chi scrive, pur avendo vissuto e amato il prog degli anni Settanta, crede che sia possibile parlarne anche senza cadere in questa logica. La musica dell’epoca deve essere valutata per quello che è, non perché la si associa alla gioventù. L’occasione per farlo ci viene offerta dai tre dischi dei Cressida, un gruppo inglese attivo fra il 1968 e il 1970, che sono stati ristampati recentemente dall’etichetta giapponese Belle Antique. Per inciso, un consiglio: se cercate un disco di quegli anni, ricordate che alcune etichette giapponesi, come la suddetta Belle Antique, ne hanno ristampati moltissimi. La storia dei Cressida comincia all’inizio del 1968, quando il giovane chitarrista John Heyworth risponde a un annuncio che trova sul settimanale Melody Maker. Il lavoro che gli viene proposto si svolge a Londra, quindi John lascia il Lancashire e si trasferisce nella capitale. Qui entra a far parte dei Dominators, uno dei tanti gruppi minori che cercano di farsi spazio nell’affollata scena musicale britannica. Diventa amico di Angus Cullen, cantante del gruppo, che lo accoglie nella casa di famiglia. I due cominciano a comporre e poco dopo entrano in contatto con altri musicisti: Iain Clark (batteria), Lol Coker (organo) e Kevin McCarthy (basso). Nascono così i Charge, che cominciano a suonare nelle università e nei locali londinesi del tempo: Blaises, Marquee, Speakeasy. I primi concerti includono brani di altri gruppi, come Doors e Spirit, ma anche numerose composizioni originali di Cullen e Heyworth. Quindi Lol Coker viene sostituito da Peter Jen-
nings. Alcuni mesi dopo decidono di cambiare nome e di chiamarsi Cressida (nome tratto dalla tragedia shakespeariana Troilus and Cressida). Il gruppo sta crescendo e comincia a suonare all’estero. Prima in Germania, come supporter di Colosseum ed East Of Eden, poi a Bratislava. Quest’ultima è una tappa insolita, dato che all’epoca la Cecoslovacchia concede poco spazio agli artisti dell’Europa occidentale. I tempi sono ormai maturi per entrare in sala d’incisione. L’esordio discografico avviene con l’LP Cressida (Vertigo, 1970). Il produttore è Oswald Byrne, un australiano che pochi anni prima ha prodotto i primi dischi dei Bee Gees. Il gruppo propone un rock elegante e curato che segna l’anello di congiunzione fra gli ultimi echi della musica psichedelica e i primi vagiti del rock progressivo. Senza orpelli, armati soltanto di chitarre, piano, organo e sezione ritmica, i cinque musicisti propongono arrangiamenti variati e non banali, con gustosi intrecci di organo e chitarra elettrica. La maggior parte dei brani è firmata da Heyworth o da Cullen. “Home And Where I Long To Be”, dove compare il clavicembalo, si segnala per una soluzione metrica insolita. “Winter is Coming Again” è un pezzo dolce e sognante.
SCavez zacollo
In Asylum (Vertigo, 1971), sempre prodotto da Byrne, John Heyworth è stato sostituito da John Cullen. Il disco esce postumo, dato che il gruppo si è sciolto qualche mese prima. Asylum non si discosta sostanzialmente dal disco precedente, ma presenta qualche novità negli arrangiamenti. In “Lisa” compare Harold McNair, eccellente flautista jazz, mentre Graeme Hall dirige l’orchestra che arricchisce la lunga “Munich”. “Let them come when they will”, articolata e ricca di variazioni, è uno dei vertici del gruppo. I membri del gruppo prendono strade diverse: Clark si unisce agli Uriah Heep, Culley ai Black Widow, mentre altri fanno perdere le tracce o compaiono occasionalmente in dischi altrui. John Heyworth muore nel 2010. Nel 2011 Clark, Cullen, Jennings e McCarthy tornano insieme per alcuni concerti, affiancati dal chitarrista scozzese Roger Niven. Al tempo stesso nasce il sito del gruppo, che ne racconta la storia in modo preciso e dettagliato (www.cressida-group.co.uk). Le due raccolte pubblicate nel 2012, Trapped In Time - The Lost Tapes (Esoteric) e The Vertigo Years Anthology 1969-1971 (Esoteric), contengono materiale già noto, talvolta in versioni differenti da quelle apparse su LP, insieme ad alcuni pezzi inediti. L’anno successivo il gruppo suona al Melloboat, un festival prog svedese che si tiene ogni anno su un battello. Il gruppo inglese non ci ha lasciato dei capolavori, ma due dischi interessanti che documentano perfettamente la temperie musicale di quel periodo. Anni che non devono essere oggetto di un culto nostalgico, ma che dobbiamo considerare una parte di noi, senza la quale non saremmo potuti diventare quello che siamo oggi.
disegno di Massimo Cavezzali
11 6 MAGGIO 2017
Il mondo
senza
gli atomi
Storia degli uni e degli altri
illustrazioni di Aldo Frangioni
di Carlo Cuppini Storia degli uni, che propendevano per una vita quieta e ragionata, e degli altri, che si lanciavano in frequenti avventure rischiose e dissennate. Dove gli uni, un giorno, raggiunti i diciott’anni d’età, decisero di iniziare a fumare, mentre gli altri studiavano alacremente sui libri di fisica per tentare di passare l’esame di maturità. Gli uni e gli altri avevano grandi progetti per il proprio avvenire, anche se si accingevano a intraprendere strade molto diverse per realizzarli. Accadeva che gli uni cucinassero delle crostate alla crema e che gli altri facessero delle emozionanti gite al fiume. La volta che gli uni rischiarono di morire per un malore in piscina, gli altri calpestarono per errore la propria ombra e si videro costretti a fare venti volte il giro dell’isolato, correndo e gridando a più non posso. Nel corso di un anno bisestile gli uni si innamorarono di una ragazza bionda, timida ma dallo sguardo deciso e dal naso forse un po’ troppo pronunciato. Intanto gli altri assecondavano una rabbiosa euforia e, saliti in macchina, cercavano una prostituta sui viali. La trovarono, ed era una donna vestita di rosso e di giallo con lunghi capelli castani; questi altri risultarono molto meno disinvolti di quello che avrebbero voluto dimostrare e se non fecero una sonora figuraccia fu solo grazie all’indulgente attenzione della donna. Dopo la prima giovinezza, per molti anni non ebbero più occasione di incontrarsi. Ad un certo punto, tuttavia, le vicende degli uni e degli altri furono lì lì per sfiorarsi di nuovo, quando gli uni presero a militare nel movimento per l’apertura del guscio dell’uovo con una mano sola, mentre gli altri sostenevano animosamente la causa dello sgusciamento a due mani. Tra i tafferugli che caratterizzarono quel periodo di aspri conflitti sociali, per poco non accadde che gli uni e gli altri se le suonassero di santa ragione, la volta che gli uni giravano con le spranghe in via Tal dei Tali, mentre gli altri
12 6 MAGGIO 2017
facevano la ronda armati di catene nella vicina piazza Talaltra. Ma il destino non mise gli uni sulla strada degli altri, in quel frangente, e dovettero passare molti anni prima che gli uni e gli altri, ormai intorno alla mezza età, si incontrassero di nuovo: e fu uno scontro sulla A1, che coinvolse una Renault 4 e una Opel Corsa. Gli uni e gli altri morirono sul colpo, mescolati a tal punto gli uni agli altri che neanche i parenti più prossimi, convocati immediatamente sul posto, furono in grado di distinguere gli uni dagli altri.
Foto di
Pasquale Comegna
Il sole basso all’ orizzonte
di Mariangela Arnavas Si apre con la morte di un soldato tedesco, con la sua corsa disorientata per i boschi e i suoi giovani occhi terrorizzati il film di Vincent Perez, attore e regista svizzero, “Lettere da Berlino”. La proiezione di questo lungometraggio, del 2016, tratto dal romanzo di Hans Fallada (Rudolph Ditzen) “Leder stirbt fur sich allein”, (“Ognuno muore solo”), pubblicato per la prima volta nel 1947, poco dopo la morte dell’autore, è stato scelto quest’anno dall’Anpi in Toscana per la celebrazione del 25 aprile, una scelta meritoria anche perché il film non era stato distribuito o quasi nella nostra regione e il libro, ripubblicato da Sellerio qualche anno fa dopo un lungo periodo di oblio, era stato definito da Primo Levi “Il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo”. Il nucleo narrativo è costituito da una storia vera: due coniugi, Otto ed Elise Hempel, nella narrazione Otto e Hanna Quangel, sono spinti dalla morte del figlio (nella realtà il fratello di lei) a prendere coscienza e coraggio contro il potere nazista imperante e pervasivo. Siamo nel 1940, le truppe di Hitler hanno appena trionfato sulla Francia e “la Germania è il primo paese invaso dal nazismo”, come dice Sebastien Heffner. I coniugi Quangel, lui operaio capoofficina, lei casalinga, nel film magistralmente interpretati da Emma Thompson e Brendam Gleeson, decidono di scrivere cartoline contro il regime e distribuirle nelle strade di Berlino, rischiando consapevolmente la condanna a morte. Il nucleo narrativo originale e reale si arricchisce nel romanzo di un intreccio di altre storie, tra le quali quella della fidanzata del figlio dei Quangel, Trudel, giovane operaia aderente ad una microcellula comunista e resistente, fino a costituire un tessuto, seppure minoritario, di forte dissenso; “Noi siamo come il buon seme in un campo pieno di erbacce. Se non ci fosse il buon seme, tutto il campo sarebbe invaso dalle erbacce. E il buon seme si può diffondere....”; e il vicino che vende informazioni alla Gestapo per qualche sigaretta rivela il clima sotterraneo diffuso in città: “Si dirige verso la Rollerstrasse; ha sentito dire che vi si trova una bettola in cui la gente parla, con molta leggerezza. Può darsi ci sia qualcosa da fare. Di questi tempi è facile pigliar pesci dovunque, a Berlino” e anche questo promuovere i mediocri in qualità di spie o galoppini o fac-
Un’altra resistenza totum, fino alla gestione dei campi di concentramento descrive una caratteristica del regime nazista, magistralmente stigmatizzata da Hanna Arendt nella “Banalità del male”. Il romanzo è quindi un affresco nel quale si evidenzia un dissenso sotterraneo e diffuso, coartato dalla paura, che emerge in piccole azioni di rivolta senza successo, ma comunque collettivo; il film invece estrapola da questo affresco il ritratto ad olio di una coppia di persone semplici, senza straordinarie caratteristiche intellettuali o morali, che trovano nella morte del figlio il coraggio di passare dallo status di sudditi a quello di cittadini, vincendo la paura che è l’emozione primaria, imperante e diffusa in queste vicende.
È appunto la paura che domina la storia ma anche la pesante fatica del lavoro, la miseria sostanziale di queste vite operaie o appena piccolo borghesi e soprattutto la dignità con cui le difficoltà vengono sopportate e affrontate e la dignità dei sentimenti interni alla coppia e ai pochi compagni di strada: per tutto il processo farsa con cui viene condannato a morte Otto Quangel è costretto a rispondere in piedi ad un tribunale che non gli garantisce alcuna difesa, tenendosi con le mani i pantaloni perché, dopo averlo imprigionato e torturato, gli hanno sequestrato le bretelle per evitare che possa suicidarsi. Eppure, anche se con poche parole perché è un uomo chiuso, introverso e che non ha potuto studiare, non si lascia piegare. Otto Quangel e sua moglie Hanna rappresentano con la loro ribellione pur fallita (delle 285 cartoline lasciate per Berlino solo 18 non vengono consegnate alla polizia) la dignità segreta di un intero popolo. Altro elemento interessante è il ruolo della scrittura nella storia; i cartoncini vengono scritti da Otto Quangel la domenica, indossando i guanti per non lasciare impronte, faticosamente, in gotico tedesco, un tipo di stampatelo da cui difficilmente si può risalire all’autore, ma che le trasforma in piccoli quadri e il linguaggio deve, di necessità, essere sintetico, un po’ come i nostri tweet o sms. E i Quangel capiscono che il figlio è morto prima di leggere perché la lettera che arriva a casa non è scritta a mano da lui ma a macchina e quella scrittura è annuncio di morte. Diceva Bertold Brecht “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” e i coniugi Hempel/ Quangel non lo sono, ritrovano con semplicità la loro intesa emotiva e sentimentale nella comune ribellione al regime che ha ucciso il loro figlio, sono solo persone che hanno ritenuto, pagando con la vita, che tentare un gesto di rivolta al nazismo fosse il proprio dovere. In una fase storica in cui diversi popoli sembrano affascinati da dittatori possibili, leggere il bellissimo romanzo di Fallada o vedere il film di Perez è un buon modo per ricordare.
13 6 MAGGIO 2017
di Ugo Caffaz Stanotte mi sono svegliato di soprassalto, o almeno così mi era sembrato, tutto sudato, con il corpo tremante ma sicuramente in preda ad un incubo. Non esistevano più la destra e la sinistra .Così annunciava un cartello luminoso. Camminavo lungo un viale che non aveva né un inizio né una fine, né tantomeno uscite laterali. Il sole non sorgeva da una parte e tramontava dall’altra. Il fiume non aveva una sorgente e una foce. Il vento soffiava da una parte e dall’altra contemporaneamente e quindi non c’era bisogno di ripararsi e comunque non sarebbe stato possibile. Non parliamo dei segnali stradali: davano la precedenza sia a destra che a sinistra che peraltro non si distinguevano. Volevo scendere dal letto ma non c’erano parti. Mi sembrava di soffocare e volevo aprire una finestra, ma quale? Poi piano piano sono riuscito ad accendere il televisore per sentirmi vivo su questa terra e ho cercato di sintonizzarmi sul canale che di solito dà le notizie politiche, ma ce ne era uno solo. Apparivano due noti esponenti, uno della destra estrema e uno della sinistra che si baciavano con grande affetto e cantavano l’inno d ‘Italia con una musica alternata che richiamava un po’ Bella ciao e un po’ Allarmi siam fascisti. Improvvisamente erano spariti quelli che favoriscono i ricchi e quelli che aiutano i poveri: erano uguali, specularmente identici: Bene, ho pensato, così saremo tutti felici e contenti. No, invece, non era così:i ricchi erano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Questi ultimi cercavano qualcuno che li rappresentasse. Una volta c’erano i partiti della sinistra che li difendevano, ma ora non c’erano più. Oppure tentavano di appoggiarsi al sindacato versus i padroni, ma si erano tutti riuniti in unica associazione che organizzava l’Isola dei famosi. Il sudore continuava a grondare copiosamente. Un rumore improvviso mi sveglia e, dopo qualche istante, riprendo conoscenza, salvo, distrutto, riaddormentarmi nuovamente. Ma questa volta sono nel Paradiso terrestre con Eva e io, ovviamente, ero Adamo. Stiamo mangiando il frutto proibito e, quindi finisce la pacchia, Eva dovrà partorire con gran dolore e io lavorare con gran sudore, ma almeno siamo vivi e il nostro destino è sotto la nostra responsabilità. Ci organizzeremo e se ci sarà da combattere per noi e per i nostri figli, combatteremo. Meglio diversi, ma consapevoli delle differenze, delle ingiustizie e delle fondamentali conquiste in questo mondo.
14 6 MAGGIO 2017
L’estinzione
della destra e della sinistra Spiriti di
materia
di Paolo Marini Paolo Marini, nato a Siena il 27 febbraio 1965, è avvocato, pubblicista, autore di articoli e svariate pubblicazioni, professionali e non. Tra i libri, un pamphlet (“Dal patto al conflitto” - Una critica della concertazione, 1999) e due raccolte di poesie (“Pomi acerbi”, 1997 / “All’Oro”, 2011).
Il poeta delle discariche Ecco, ti ho urlato io sono il poeta delle discariche apologeta dell’ usato finito reietto. Io non so dove io non so quale sia davvero ciò che chiamasi rifiuto. Ma le discariche olezzano
un fascino controverso, sono storia, cronaca e coscienza sono il ventre, l’istantanea della nostra umanità. Nient’altro che luridi contenitori niente altro che di verità. disegno di Aldo Frangioni
di John Stammer L’ingegnere della società Autostrade guardò con interesse il suo interlocutore. E dopo un attimo di silenzio disse: “Lei conosce bene questi luoghi. I suoi suggerimenti per il tracciato fanno si che questo si adagi perfettamente sul terreno sfruttando un piccolo pianoro che interrompe il declivio della collina”. L’incontro avveniva in una sala affrescata della sede del Dipartimento Trasporti e Infrastrutture della Regione Toscana e si stava discutendo del tracciato di una nuova strada che avrebbe dovuto liberare dal traffico l’abitato del Galluzzo. Il dirigente della Regione Toscana annuì e poi disse: “In quel pianoro c’é un palo che sorregge una linea elettrica. E appoggiato a quel palo ho dato il primo bacio alla ragazza che sarebbe poi diventata mia moglie. Eravamo due giovani poco più che adolescenti.”. Era stato il sindaco di Firenze Mario Primicerio a richiedere e ottenere che la nuova strada, che i giornalisti avevano battezzato “il by pass del Galluzzo” come se l’abitato del Galluzzo assomigliasse ad un cuore malato da salvare con un by pass proprio come nelle persone, fosse inserita nell’elenco delle opere necessarie per la realizzazione della terza corsia dell’Autosole nell’ambito metropolitano di Firenze. Il sindaco aveva detto che era uno scandalo che non fosse stata ancora fatta quest’opera per liberare gli abitanti di quella frazione della città dal traffico proveniente da sud e dal Raccordo Autostradale per Siena. E aveva aggiunto che se il Galluzzo fosse rimasto comune autonomo sicuramente quest’opera sarebbe stata già fatta da tempo. Società Autostrade aveva cercato di opporre qualche resistenza alle richieste di Primicerio ma alla fine, grazie anche alla determinazione dell’assessore regionale ai trasporti Tito Barbini, l’accordo fu trovato. Si trattava di un’opera importante, anche da un punto di vista economico, poichè la conformazione orografica del territorio imponeva un tracciato in gran parte in galleria. La realizzazione della terza corsia dell’Autosole nel tratto fiorentino, nelle intenzioni degli amministratori di Firenze, e dei comuni limitrofi, doveva servire non solo a garantire il miglioramento delle condizioni di esercizio della più importante infrastruttura stradale del paese, ma anche a migliorare le condizioni ambientali di alcune parti degli insediamenti urbani. Così fu prevista la realizzazione della copertura del tratto autostradale in prossimità dell’abitato di Casellina nel comune di Scandicci e l’allunga-
Storia del by-pass del Galluzzo
La terza corsia 3
Parcheggio scambiatore di Villa Costanza. Il parcheggio è in costruzione e permetterà di poter prendere il tram senza uscire dall’autostrada
Mario Primicerio
mento della galleria artificiale di Pozzolatico nel comune di Impruneta. Ma il “By Pass” del Galluzzo era di gran lunga l’opera più importante. Tre gallerie, delle quali una lunga oltre un chilometro, un ponte sul torrente Greve, una sostanziale modifica della viabilità preesistente di via delle Bagnese all’innesto nella via Senese e il completo riassetto dell’intersezione fra la Firenze-Siena, la Via Senese e la viabilità di accesso al Casello di Firenze Certosa, costituivano le condizioni per poter realizzare il By Pass. Un’opera che per la sua importanza fu classificata come “lotto 6” dell’opera principale e non come semplice “opera complementare”. Le opere complementari erano invece costituite dalla viabilità di collegamento con Mantignano e Ugnano nel quadrante sud-ovest della città, dalla circonvallazione delle Cascine del Riccio nella zona sud oltre che dal parcheggio scambiatore Autostrada- Tranvia a Villa Costanza nel comune di Scandicci. Il progetto della “terza corsia” fu approvato il 17 giugno del 1999 pochi giorni prima della scadenza del mandato amministrativo del sindaco Primicerio a suggello di una stagione di grandi scelte e di forte determinazione politica. (continua)
15 6 MAGGIO 2017
di Danilo Cecchi Che fra la fotografia e la pittura sia nata, fino da subito, una relazione molto speciale, più di una sorta di intesa, piuttosto una sorta di complicità, è cosa nota, ed è dimostrata da più di un episodio. Ma fra tutti gli episodi che si sono susseguiti dalla metà dell’Ottocento in poi, uno fra i primi, in ordine di tempo, e fra i più significativi, è il rapporto speciale, indagato e descritto già mezzo secolo fa da Aaron Scharf in “Arte e Fotografia”, intercorso nei primi anni Cinquanta dell’Ottocento fra il principale fra i pittori del movimento romantico francese, Eugène Delacroix (1798-1863), ed il poco noto fotografo Eugène Durieu (1800-1874). Se Delacroix manifesta in maniera esplicita già in un suo scritto del 1850 il suo interesse per la fotografia, intesa come “un veicolo perfetto per raggiungere la conoscenza approfondita dell’autentico carattere della luce e dell’ombra, le più sottili sfumature della diluizione tonale, e tutti gli altri segreti della natura”, sembra che sia solo attraverso la conoscenza dell’altro Eugène, appena più giovane di lui, avvenuta attorno al 1853, che maturi la decisione di utilizzare le immagini fotografiche, soprattutto le scene di nudo, sia maschile che femminile, come oggetto di studio preparatorio per la realizzazione delle sue tele. Ovviamente Delacroix non si accontenta di immagini qualsiasi, ma sovraintende personalmente alla “mise en scène” ed alla realizzazione delle fotografie, trascorrendo a quanto risulta dai suoi diari “molte ore nello studio di Durieu”. Fino al punto che il buon Durieu passa alla storia non per una produzione propria ed originale, ma per essere stato “il fotografo di Delacroix”. Se le vicende personali e professionali di Delacroix sono fin troppo note per insistervi, non altrettanto si può dire per Durieu, la cui vita è rimasta avvolta nell’ombra per un lungo periodo. In realtà la preparazione di Durieu è di tipo giuridico ed amministrativo, e la sua professione, ereditata in un certo senso da quella del padre, è quella di alto funzionario dello stato, presso il ministero degli interni. Dapprima responsabile della sezione amministrativa dei comuni, poi ispettore generale degli ospizi e poi, dopo il 1848, direttore generale della amministrazione dei culti. Inoltre riveste il ruolo di membro della alta commissione degli studi scientifici e letterari, carica che lo porta a contatto con il fior fiore degli intellettuali francesi del momento, da Prosper Merimé ad Henri Courmont, fino a Viollet-le-Duc, (il terzo Eugène della nostra breve storia). Per motivi mai resi pubblici, i suoi incarichi pubblici gli ven-
16 6 MAGGIO 2017
Eugène Durieu e Eugène Delacroix gono bruscamente revocati nel 1850, ma gli viene riconosciuto il diritto al godimento della pensione. Appassionato di fotografia si dedica inizialmente alla pratica del dagherrotipo, per passare poi rapidamente a quella della carta salata (o calotipo), attività che assorbe tutto il suo tempo dopo il siluramento del 1850. Grazie ai rapporti precedentemente instaurati è uno degli ispiratori, nel 1851, della “Mission héliographique”, ed è, insieme ad Henri Victor Regnault, uno dei fondatori, nel 1854, della Societé Française de la Photographie, a cui aderiscono personaggi del mondo della scienza come del mondo dell’arte, Olympe Aguado, Hippolyte Bayard, Alexandre Edmond
Becquerel, Jean Baptiste Louis Gros, Gustave Le Gray e lo stesso Eugène Delacroix. Durieu ricopre il ruolo di presidente della Societé fra il 1855 ed il 1857, anno in cui, dopo essersi indebitato per una donna, si trova coinvolto in una serie di oscuri traffici finanziari da cui cerca di uscire falsificando la firma del suo amico barone Ernouf. Viene condannato in contumacia nel 1858 a vent’anni di lavori forzati, poi ridotti a quattro, e di lui si perdono le tracce fino all’annuncio della sua morte, a Ginevra, nel 1874. Della sua breve attività fotografica all’ombra di Delacroix rimangono le numerose immagini di nudo che hanno consegnato il suo nome alla storia dalla fotografia.
di Susanna Cressati Per questa volta l’amico Alessandro Goggioli non avrà un vero critico d’arte a introdurre in maniera colta e specialistica le sue ultime opere, ma solo la penna di una spettatrice, della visitatrice di una delle sue mostre. In particolare di quella che si sta allestendo a Gualdo Tadino (Perugia). Uno sguardo, vorrei però rassicurare, forse inesperto ma non disattento. E chissà che l’inesperienza specifica non conferisca alla riflessione quel tanto di sincera meraviglia che può scarseggiare nelle parole di chi è più “scafato”. Il fatto è che i lavori di Alessandro vanno guardati, direi scrutati, con pazienza, attenzione e scrupolo. Con lo stesso atteggiamento con cui (balza subito agli occhi) vengono ideati, composti, realizzati. Non c’è, nel tratto meticoloso dell’autore, nessuna improvvisazione, nessuno scatto impaziente, nessuna fretta. È come se invece egli si proponesse di trasportare l’osservatore in un altro luogo, ma un po’ alla volta, in modo cortese e implacabile, con metodo, quasi con pudore, usando come tramite una tecnica sicura, un disegno senza sbavature, colori brillanti, composizioni in equilibrio. Il luogo di cui ci schiude la porta è un luogo magico, un luogo di scenari improbabili, a volte lucidi di quella lacca che hanno i sogni, a volte “sgarrupati” e sbrecciati, sempre attraversati da una traccia sottile di iperrealismo: muri senza intonaco, strade ingorgate, campagne o paesaggi marini semideserti. Cumuli di oggetti, vecchi scarponi, pile di valige in bilico. Nature morte secondo la più schietta tradizione pittorica. Questo universo poetico, a momenti perfino lirico, è popolato da una umanità apparentemente stranìta ma di fatto ben consapevole del clima fiabesco in cui è immersa e del tutto consapevole di sé e del proprio ruolo. Una “umanità” di giocattoli meccanici, quelli vecchi di latta con la carica a molla, che entrano in scena senza timidezza e cambiano, di colpo, le carte in tavola: il minaccioso robot della nostra infanzia che fa capolino tra le fette sanguigne di anguria, il tamburino-panda che sembra scandire implacabilmente, finchè dura la carica, il ritmo della partenza dei migranti con la valigia, la bambola che balla inconsapevole (o indifferente) mentre la nave si inabissa, gli uccelli meccanici che cinquettano impettiti tra gli alberi di un paesaggio che sa di Rinascimento fiorentino, i topini meccanici che fanno il verso alle pere oblunghe nel cesto.
Arte senza fretta
Questi personaggi dominano ovunque, nelle evocazioni dell’arte del passato come in quelle del più moderno canone artistico: il bel cavaliere impennato sul piedistallo “Big Mac” al centro di una piazza metropolitana, la macchinina in mano al Gesù bambino di un quadro rinascimentale, la Venere meccanica che fa il verso alle nudità marmoree e spezzate di un torso antico. Come un tarlo spiazzante, una intrusione, sorridente di un sorriso appena appena beffardo, appena appena inquietante. Il paradosso e la logica, la poesia e i casi concreti della vita, la felicità e il dubbio.
17 6 MAGGIO 2017
di Claudio Cosma Una lampada che si chiama Lampada, che si trasforma in opera d’arte contemporanea pur continuando ad emettere luce come una lampada senza, tuttavia, esserlo più. Questa scultura luminosa di Margherita Moscardini è stata realizzata nel 2010 in occasione di una mostra dal titolo “Una stanza/fuori luogo” e come è sua prassi è intervenuta sulla divisione dello spazio della galleria, modificandone la struttura e creando uno luogo asemantico o meglio togliendo significato semantico all’involucro che convenzionalmente consideriamo come casa temporanea di opere d’arte. Nella fattispecie ha inserito nella nuova architettura, ottenuta dopo avere sezionato alcune pareti divisorie fra la parte espositiva e quella destinata alle funzioni più private dello spazio, come l’ufficio e il magazzino, degli oggetti funzionali al mostrare nel modo migliore le opere. Cosa c’è di più funzionale, per far vedere una scultura, di una lampada? Solamente che la scultura era ed è la lampada stessa. Ne aveva esposte due, una in cemento, copia di una reale lampada in ferro e vetro a ioduri metallici ed un l’altra, quella di cui parliamo nell’articolo. Realizzata prendendo come “objet trouvé” un lampada tartaruga da esterno, ma modificandola facendo un calco della base di una seconda lampada, uguale, ma di misura superiore, e ottenendo da questo calco una copia in porcellana di quanto normalmente è di plastica (ho saputo dal gallerista che si è rivolta alla Fabbrica di porcellana Richard Ginori per ottenere questo pezzo). L’oggetto così formatosi è di colore arancione ed essendo di una misura superiore alla restante parte in vetro e griglia metallica, non si adatta a questo e conseguentemente non si può chiudere e a sottolineare l’aspetto di inutilità assunto in tale modo da questo oggetto, ha sistemato la guarnizione di gomma, indispensabile per garantirne la tenuta stagna, accanto alla stessa come un motivo decorativo. Riepilogando, la lampada è formata da due pezzi di misure diverse, la parte che normalmente si fissa al muro non è più di plastica bensì di porcellana e sta capovolta, mostrandosi e diffondendo una luce colorata attraverso la traslucidità del materiale. La tartaruga, dal design essenziale, mantiene del nome il bisogno di riscaldarsi, come tutti i rettili, col calore del sole o di una lampada, quindi di per sé instaura un rimando circolare di significato funzionale e di necessità. Un nome azzeccatissimo per un oggetto a noi familiare come la macchinetta per il caffè Bialet-
18 6 MAGGIO 2017
ti o come un catino di plastica Moplen. Rovesciando la tartaruga l’artista ha compiuto, forse, un misfatto contro la tartaruga animale, che se rovesciata rischia di morire schiacciata dal suo stesso peso, ma sopratutto ha compiuto una operazione squisitamente intellettuale e concettuale. Non si ricrea un cambiamento di senso simile alle operazioni dada o surrealiste, in quanto la lampada rimane tale e serve ad illuminare se stessa nella nuova duplice funzione di lampada e di opera d’arte contemporaneamente, ma sussiste un cambiamento prospettico generato dalla grandezza diversa delle parti che la compongono. Non si crea nemmeno una fuga dall’anonimato in quanto la tartaruga è talmente un oggetto familiare che non basta a farlo divenire bizzarro né il rovesciamento, né l’uso che slitta da esterno ad interno, né l’inserimento del colore, essendo questo un arancione tipico della plastica e quindi continua l’effetto “camouflage”.
Mimetica è anche l’operazione di usare una lampada o un faretto in una galleria d’arte, il genio consiste, da parte della Moscardini, nel provocare la riflessione che siamo tenuti a fare, nel costringerci a considerare auto illuminante un lavoro d’arte, come naturalmente è il processo che l’arte mette in moto (il termine illuminante va preso in senso lato, un qualcosa che è di per se stesso generatore di significati e di scoperte) . Una riflessione che l’apparente minimalismo della scultura non ostacola nel suo fluire, un oggetto funzionale che la sua gigantesca diffusione ha reso invisibile, l’operazione di una artista che mescola due oggetti d’uso di grandezze diverse che ci evidenziano una uscita dalla quotidianità, generando una “impasse” di senso, alimentata dal titolo della scultura, che come avrete notato è “Lampada” e che lascia i più sgomenti e in tale stato risospinti nel labirinto senza uscita dell’arte contemporanea.
di nome Lampada Lampada
Gite sociali alla maniera del Grand tour di Andrea Caneschi Si parte dalla stazione centrale di Firenze, dove al momento di salire sul treno si è ormai costituito un buon gruppo di amici, ricchi di esperienza e di anni, ma sempre curiosi del nuovo, attirati fin qui, alle 7,30 del mattino, dal programma turistico culturale che Marco ha confezionato e diffuso
via web ormai da un paio di settimane: gita a Brisighella, cittadina medievale che conserva interessanti vestigia di epoche e dominazioni diverse. Ad attenderci, dopo due ore di treno sulla linea Firenze Faenza, attraverso un Appennino verde di una primavera appena insediata, troveremo Carlo, un amico, appassionato esperto locale, che ci dedicherà la sua domenica, accompagnan-
doci da un sito all’altro ed illustrandoci con competenza e passione gli elementi storici ed artistici più rilevanti depositati nella struttura cittadina nel corso di otto secoli. Brisighella nasce alla fine del 1200, quando le mire espansionistiche di Maghinardo Pagani, ghibellino amico della guelfa Firenze e signore di Palazzolo sul Senio, lo portarono ad assaltare le terre contigue, controllate dai Signori di Faenza, ponendo l’assedio ad un castellaccio, poco più di una torre armata, che su quelle terre vigilava. Per meglio condurre l’assedio e precostituire una testa di ponte nei nuovi territori, fece intanto costruire una sua torre su uno dei tre pinnacoli che caratterizzano l’orografia di Brisighella, emergenze rocciose di quella vena del gesso che segna potentemente i territori della valle del Lamone. Alla caduta del castellaccio nemico i sopravvissuti furono in qualche modo convinti a sottomettersi alla nuova signoria, dando origine al piccolissimo borgo stretto tra le pareti rocciose della Rocca e le mura esterne di difesa, in uno spazio così esiguo che nel tempo strutture civili e militari si sono fuse in un unico complesso, percorso nella sua breve lunghezza da una via sopraelevata, la via degli Asini o del Borgo, che fu nel tempo fronte di battaglia addossato alle merlature di difesa, cortile delle abitazioni operaie, transito degli asini, per l’appunto, con i loro carichi di gesso da portare alla fusione; per finire poi coperta poco a poco dalle sopraelevazioni delle abitazioni ad esso addossate. Oggi ammiriamo un percorso unico nel genere, ben ristrutturato e illuminato dalle rustiche arcate delle vecchie sopraelevazioni che danno luce alle antiche case tuttora abitate. Alcune targhe commemorative sulle pareti della viuzza ci ricordano che Brisighella fu terra di spade e di Chiesa: di mercenari e capitani di ventura, per lo più al soldo di Venezia, e di grandi vescovi e cardinali ai vertici della Chiesa Romana. Dal borgo si sale alla prima torre, quella di Maghinardo, di cui non resta che un muro sbrecciato proprio sulla cima dello sperone roccioso. Su questo modesto rudere nell’ottocento è stata costruita la Torre dell’Orologio, cui si arriva con un cammino in salita che ci apre ad ogni passo la vista ampia e soleggiata della valle sottostante. Dalla sommità nei giorni più limpidi, si scorge il mare della Romagna.
19 6 MAGGIO 2017
di Cristina Pucci L’ho “conosciuto”, si fa per dire, grazie a Rossano che mi suggerisce pagine Facebook di collezionisti. Ce ne sono molte e sono per lo più davvero spettacolari, come quella gestita da Paolo Marchesi, 44 anni, di Vigevano. Lo contatto e lo intervisto. Quando studiava, insieme ad una amica, nella meritata pausa merenda, si facevano una birretta, le bottiglie consumate venivano archiviate. Arrivato a possederne circa 8000, di tutto il mondo, si rese conto che questo genere di raccolta sarebbe stato senza fine e forse di non estremo interesse, le conserva comunque. Decise allora di specializzarsi in birre antiche, all’inizio solo italiane, dall’inizio del Novecento agli anni ‘40, poi si è messo a cercare, nei vari mercatini, oggetti che ne accompagnavano produzione, vendita, commercializzazione e consumo, dello stesso periodo. Oggi si trova con circa 800 “vecchie” bottiglie di birra, 100 casse antiche, di legno pesante, quelle che le contenevano e in cui venivano trasportate, un centinaio di apribottiglie, legati alle birre italiane, sempre antichi, circa 600 boccali delle varie edizioni dell’Oktober Fest, una trentina di calendari perpetui Roy Vercelli ed altrettante bottiglie di seltz, dedicati alla birra ovvio e, soprattutto, circa 100, bellissime, targhe pubblicitarie, orgoglio e passione recenti. Tutte queste cose sono in buone condizioni, ben catalogate ed esposte nelle varie stanze del villino a due piani che abita da solo, traformato in una specie di Museo. Non fa commercio di ciò che possiede, se mai compra oggetti vari da vendere a collezionisti amici ed usa i soldi per altre preziose acquisizioni per sè, dice “quando si ha molto si mira sempre più in alto”. In una delle foto che mi manda, in cui compaiono intere pareti rivestite di boccali dell’Oktober Fest, appare in primo piano una sorta di scudo, è in realtà un pesantissimo spillatore in ghisa, ottenuto con la metodica della fusione a cera persa, pezzo originale ed unico che proviene dalla Fabbrica Bosio Caratsch. Trattasi del primo birrifico italiano, aveva come motto “bona cervisia laetificat cor hominum”, fondato a Torino nel 1845 e rimasto attivo come tale fino al 1937, assorbito dalla Pedavena, fu chiuso definitivamente nel ‘69. Questo pezzo proviene dal primo insediamento, abbattuto quasi del tutto negli anni ‘20 in occasione del trasferimento in un’altra, più moderna, sede, Paolo lo ha comprato da un anziano signore che abitava vicino alla fabbrica, è sicuramente fine ‘800. Frequentando mercatini, consigliato da “Maestri” collezionisti, si è sempre più appassionato alle latte, smaltate e litografate, a vassoi, manifesti e segnapunti pubblicitari.
20 6 MAGGIO 2017
Il birresco di Vigevano
Oltre ad offrirvi una mini panoramica di questi reperti vi segnalo due manifesti, telati ed incorniciati, antichi e particolarmente belli, uno della citata ditta Bosio Caratsch, in cui compaiono e l’indirizzo dello stabilimento, “Cor. Prin. Oddone”, il che lo fa risalire a prima del 1930, epoca in cui ci fu il trasloco ad altra sede, ed il nome “Barabino e Graeve”che lo indica stampato da questa importante industria genovese. Il materiale grafico da essa ben conservato ha costituito il nucleo portante dell’Archivio Storico della Pubblicità che consta oggi di circa 35.000 bozzetti originali e che è l’unico del suo genere. L’altro, bellissimo e dall’aria liberty, pubblicizza la Birra Borgonovo, prodotta da uno stabilimento sito appunto a Borgonovo d’Ivrea, attivo fra il 1890 e il 1937. Prossimamente dedicherò attenzione alla ancora più splendida collezione di scatole di latta di Paolo.
La Sala Spadolini gremita per Lara Vinca Masini
Ristorante La Loggia
Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy www.ristorantelaloggia.it reservation@ristorantelaloggia.it +39 055 2342832
Il Ristorante Caffetteria La Loggia è il nuovo spazio cittadino per l’approfondimento artistico e culturale. I suoi magnifici locali, interni ed esterni, vengono aperti all’arte e alla cultura con dibattiti, incontri, conferenze, proiezioni e letture. Sabato 19 aprile si è svolta nella Sala Spadolini una prima conversazione sul contemporaneo a partire dalla figura della grande critica d’arte Lara Vinca Masini, animata da Francesca Merz, Antonio Natali, Adolfo Natalini e Simone Siliani, con grande coinvolgimento del pubblico. Domenica 21 maggio si svolgerà la premiazione del concorso letterario “Racconti Commestibili”: saranno letti brani dei dieci testi finalisti e la giuria tecnica – composta da Francesco Mencacci, Sandra Salvato e Marco Vichi – nominerà i vincitori. Vi aspettiamo!
In 50 per la prima edizione di
Maschietto Editore
premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017 La prima fase del concorso letterario “Racconti Commestibili” si è chiusa con l’arrivo di cinquanta racconti. La prima giuria, composta da redattori di Maschietto e di Cultura Commestibile, sta lavorando per selezionare i dieci racconti finalisti, che verranno affidati alla giuria tecnica, composta da Francesco Mencacci, Sandra Salvato e Marco Vichi, per la scelta del vincitore e del secondo e terzo classificato. I finalisti saranno contattati direttamente entro la prima metà del mese di maggio. Tutti i partecipanti al concorso e i lettori di Cultura Commestibile sono invitati a partecipare all’evento di premiazione che si terrà al Ristorante Caffetteria La Loggia al Piazzale Michelangelo a Firenze il 21 maggio.
21 6 MAGGIO 2017
di Simonetta Zanuccoli Una breve selezione di tre mostre, molto differenti tra loro, che Parigi propone in questo periodo. Al Louvre la mostra-evento Vermeer et les maitres de la peinture de genre, fino al 22 maggio, ha avuto un successo clamoroso. Per evitare le file lunghissime, è altamente consigliabile prenotare biglietto e orario d’entrata on line, e anche così occorre comunque più di mezz’ora d’attesa. Una mostra che ha riportato a Parigi il pittore olandese dopo oltre mezzo secolo e la cui preparazione ha richiesto più di 4 anni con il coinvolgimento d’importanti musei europei e americani. Accanto alle 12 opere esposte di Vermeer, tra cui la famosa Lattaia custodita al Rijksrmuseum di Amsterdan, ci sono una sessantina di opere di altri grandi maestri olandesi suoi coetanei. L’intento della mostra è infatti quello di sfatare il mito che ha sempre accompagnato Vermeer dell’artista solitario, quasi un eremita isolato, per mostrarlo in mezzo a una ricchissima rete di artisti con i quali interagiva nell’Olanda del XVII secolo al culmine della sua potenza economica. Il raffinato museo Maillol, in rue de Grenelle 59, presenta fino al 23 luglio la mostra dal titolo 21 rue La Boétie dedicata ad uno dei più grandi mercanti d’arte, collezionista e sco-
La nuova Santa Teresa
È stata inaugurata mercoledi 3 maggio, nell’ex carcere femminile di Santa Teresa a Firenze, la nuova sede del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze La cerimonia si è svolta con il consueto taglio del nastro alla presenza del Rettore dell’Università di Firenze Luigi Dei, del Sindaco di Firenze Dario Nardella, del Direttore del DiDA Saverio Mecca e del progettista dell’intervento Alberto Breschi. Per l’occasione il grande atrio e le nuove aule, affollate di studenti, ospitavano un gran numero di modelli di progetti. Prima dell’inaugurazione Alberto Breschi ha tenuto una lezione sul Tema: “Per Talea. L’innesto del progetto contemporaneo nel tessuto storico” Cultura Commestibile ha pubblicato un’articolo sull’intervento sul numero 195 del 3 dicembre 2016.
22 6 MAGGIO 2017
3 mostre parigine
pritore di talenti dell’avanguardia, Paul Rosemberg, curata dalla nipote Anne Sainclair, notissima giornalista francese, conosciuta anche da noi, malgré soi, con lo scandalo newyorkese del marito Dominique Strauss-Kahn. L’indirizzo del titolo della mostra è quello della mitica galleria che dal 1910 al 1940 fu punto d’incontro di artisti come Picasso, Leger, Braque, Matisse....e lì, come si vede dalle tante Foto di Giuseppe Alberto Centauro
foto d’epoca, erano esposti i 60 capolavori in mostra al Maillol. Durante la guerra Rosemberg, ebreo, fu costretto a fuggire a New York dove aprì un’altra galleria continuando anche lì ad essere ambasciatore dell’arte moderna. La galleria in rue La Boétie, spogliata e saccheggiata dai nazisti delle opere ritenute arte degenerata, divenne la sede dell’Istitud d’etude des Questions Juives, luogo di diffusione della propaganda antisemita. Nel dopoguerra Rosemberg si dedicherà con straordinario impegno al recupero delle circa 400 opere rubate pur non riuscendo a ritrovarle tutte. Ed infine una chicca per gli amanti del genere. Alla Fondation EDF in rue Récamier 6 fino al 27 agosto la mostra Game, le jeu vidéo à travers les temps. La mostra si sviluppa su tre piani in un percorso progettato da Jean Zeid, giornalista specializzato, che presenta il mondo dei videogiochi come fenomeno artistico nella sua evoluzione negli ultimi 50 anni. È un’esposizione interattiva, dei 60 giochi esposti, alcuni leggendari, si può giocare con più della metà.
Maschietto Editore
Novità
MUSICA ELETTRICA immagini da 30 anni di ricerca sonora ideazione di Francesco Giomi a cura di Giulia Sarno, Loredana Terminio 128 pagine / 18 €
presentazione
Lunedì 15 maggio, ore 18.30 Museo Marino Marini, piazza San Pancrazio, Firenze Intervengono Marco Brizzi, critico, curatore e docente Maurizio De Santis, presidente Tempo Reale Francesco Giomi, direttore Tempo Reale Adriano Guarnieri, compositore Con il saluto di Patrizia Asproni Presidente del Museo Marino Marini Durante l’incontro sarà proiettato un video dedicato alla produzione Symphony Device di Tempo Reale (Biennale Musica 2016).
Musica Elettrica. Immagini da 30 anni di ricerca sonora nasce in occasione dei trent’anni dalla fondazione di Tempo Reale, centro internazionale di ricerca, produzione e didattica musicale, fondato da Luciano Berio a Firenze nel 1987. Il libro è pensato come un concerto visivo in cui fotografie storiche dialogano con immagini degli spettacoli e dei progetti più recenti. Attraverso un percorso articolato tra testi, fotografie, manifesti e didascalie narranti, viene presentata la poliedrica attività del centro, in stretto rapporto con la sua produzione grafica, un elemento distintivo che da oltre dieci anni ne determina in modo preciso l’identità. Testi di Luciano Berio, Maurizio De Santis, Francesco Giomi, Giulia Sarno e Loredana Terminio. Contiene i contributi e gli omaggi di musicisti, artisti, direttori, organizzatori, giornalisti, scrittori, poeti legati alla storia e ai progetti di Tempo Reale.
www.maschiettoeditore.com