Cultura commestibile 217

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Numero

La violenza sessuale è un atto odioso e ripugnante sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese Debora Serracchiani

ERGO

La violenza sessuale (...) risulta socialmente e moralmente più accettabile quando è compiuto da chi è nato e vive nel nostro Paese.

Logica ferrea

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Maschietto Editore


NY City, Agosto 1969

La prima

immagine Central Park. A distanza di tutti questi anni non riesco proprio a ricordare a cosa si accedesse una volta attraversato questo portone. Il piccolo gruppo di teenager costretto a restare in attesa di qualcuno che venga a togliere la catena mi intriga un po’, anche se purtroppo, per quanti sforzi abbia fatto nei giorni scorsi, niente è affiorato alla mia memoria! Credo proprio che questa immagine possa essere considerata solo per quello che è, il momento di attesa di queste giovani ragazze di fronte a qualcosa che non potrà mai essere rivelato.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

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La telefonata (versione 2017) Le Sorelle Marx

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Riunione di famiglia Hashtag Lo Zio di Trotzky

L’altro referendum I Cugini Engels

In questo numero Soprammobili per piazze storiche e artisti della domenica nei palazzi di Gianni Pozzi

Astronomia di Claudio Cosma Una collezione impressionante di Cristina Pucci

L’integrazione di Simenon di Mariangela Arnavas

Con i se non si fa la storia, ma forse si può capire di Ugo Caffaz

Un fumetto su Pinocchio e Carlo Marx racconto di Carlo Cuppini

Il mondo in viaggio di Angela Rosi

L’altra metà del suono di Alessandro Michelucci

Les jardins de Bordeaux di Annamaria M. Piccini

Isgrò cancella la Slovacchia di Laura Monaldi

La sparviera di Susanna Cressati

Fra Parigi e Amsterdam - Ed Van der Elsken di Danilo Cecchi

e Andrea Caneschi, Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Paolo Marini, Roberto Giacinti...

Storia del by-pass del Galluzzo - 4 di John Stammer

Direttore Simone Siliani

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


Soprammobili per piazze storiche di Gianni Pozzi Proviamo a mettere insieme alcuni fatti anche se apparentemente lontani. A Roma, all’interno del sito archeologico del Palatino, vista Colosseo, una delle zone più belle e più fragili della città, si sta costruendo una megastruttura di una quarantina di metri per trenta circa, alta quattordici. Cos’è? È un palco che da giugno a settembre prossimi dovrebbe ospitare un musical ispirato a Nerone. Bello vero? Un Nerone rock affacciato sulle antichità autentiche … A Firenze nel loggiato degli Uffizi, altra zona bellissima e fragilissima già invasa da un’orda turistica irrefrenabile, forse tra breve ci sarà un cinema estivo, schermo, poltroncine, ingressi, cancellate e altro. Un po’ come nei paesi di campagna dove nella piazza centrale d’estate si fa il cinema. Ricordate Nuovo cinema paradiso di Tornatore? Ecco, quello. Solo che qui non è la piazza di Giancaldo, l’immaginario paese siciliano del film, ma il loggiato di uno dei grandi musei del mondo. A Fiesole infine, nella bellissima piazza Mino, si alternano statue e bronzi delle più disparate provenienze. Perché? Ma perché è così vuota, dicono… È capitato due settimane fa circa di discuterne in pubblico, tra cittadini, amministratori e artisti. Ed è capitato di sostenere, lì come in infinite altre occasioni, che le opere d’arte non dovrebbero essere considerate come soprammobili da mettere e togliere, che le piazze storiche delle nostre città, spesso straordinarie, non sono fondali e che di fronte alle inevitabili polemiche è strumentale e ipocrita sostenere, da parte di sindaci e assessori, che lo si fa per “sollecitare discussioni sull’arte”, per “avere un confronto”. L’arte e gli artisti non sono i giullari della politica, va restituita loro la funzione che hanno avuto per secoli, quella sulla quale poggia il nostro territorio: riprogettare il mondo, anche attraverso gli spazi urbani. Non aggiungendo segni dove non ce n’è bisogno ma creando situazioni nuove, intervenendo dove serve. Mostrando quel che di solito non si vede. Negli anni Firenze è stata spinta a dividersi – inutilmente – ora su Moore ora su Pistoletto, quindi su Koons, su Jan Fabre, sull’inguardabile pasticciaccio di Gaetano Pesce in Santa Maria Novella. Altrove invece si chiedeva agli artisti di ridisegnare un paesaggio, “Arte all’arte” ad esempio, in terra

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di Siena, con i tantissimi chiamati là dall’Associazione Continua a continuare il lavoro su un paesaggio di stratificata bellezza. A San Casciano con “Tuscia Electa”, a Peccioli nel pisano. Ma anche a Collodi – e si era negli anni ’50 - con la famosa piazza di Venturino o più recentemente a Vinci con Paladino. Per non dire di quel che si fa fuori da qui, a Londra con il Quarto plinto di Trafalgar Square,

straordinaria palestra di sperimentazioni artistiche o a New York con la vecchia sopraelevata chiusa dagli anni ’80 e trasformata in percorso verde e in strada d’arte. Ma lì le cose sono affidate alle istituzioni preposte, a curatori appositamente chiamati, con un progetto, con una idea di ricerca. Da noi la separazione tra chi dovrebbe occuparsi istituzionalmente di queste cose, Università, musei, curatori,


e artisti della domenica nei palazzi

Fondazioni d’arte ( solo a Fiesole ci sono due istituzioni carismatiche, la Fondazione Michelucci e quella di Primo Conti) e chi opera è invece profonda. E la politica che dovrebbe mediare, gettare ponti tra le istituzioni di ricerca e il famoso territorio, gestisce in realtà tutto da sola e amministratori e funzionari si fanno curatori con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Sempre per rimanere a Firenze,

per anni, Palazzo Medici Riccardi ( la Provincia ) ha gestito un programma di mostre che definire dopolavoristico è un eufemismo, mentre il dirimpettaio Palazzo Bastogi ( Consiglio regionale ) ha ospitato di tutto di più, costituendo una sorta di “collezione” esposta ora lungo lo scalone monumentale che invitiamo tutti a vedere per rendersi conto del livello dilettantesco dell’iniziativa. E parlia-

mo di luoghi celeberrimi, sui quali vigila un’opinione pubblica a attorno ai quali un po’ di discussione comunque permane. In un recente viaggio in Iran è capitato di vedere Persepolis, uno dei grandi luoghi della storia, la mitica città palazzo costruita da Dario alla fine del VI secolo e distrutta da Alessandro Magno nel 330 a. C. Come è facile immaginare, ci si avvicina a quell’immenso bastione, così carico di vicende, in preda a un reale turbamento. Quando ci si arriva si scopre però con sgomento che tutta l’area è invasa … dalla musica. Sì, musica. Musica emessa da enormi altoparlanti disseminati qua e là. Musica a volume altissimo, perché nessuno deve sottrarvisi, fastidiosa oltre dire, una musica da intrattenimento: rapsodie spagnole, la Quinta di Beethoven … Tutto. Mentre la folla strabocchevole impedisce anche solo di scorgere, dietro ai selfie, la scala dell’Apadana o le tombe sul monte, la musica vi assordisce, vi impedisce di pensare, di godere la sensazione incredibile dell’essere per un volta là … La stessa musica, con gli stessi altoparlanti un po’ rudimentali – e quindi dal volume altissimo – che trovate nei giardini di tutte le antiche ville di Shiraz. Anche lì vorreste starvene seduti a guardare i giochi delle fontane, a pensare a quel che state vedendo ma è impossibile perché alle spalle rimbomba ogni tipo di musica e allora, o prendete a calci quell’altoparlante ( la tentazione è fortissima ) o ve ne andate mestamente … Ecco, la Disneyland della cultura qui ha trovato qui, in un paese dove il turismo è fenomeno recente, un suo rozzo culmine, Da noi, senza arrivare ancora a tanto, la “disneylandizzazione” la si insegue comunque da tempo, con i palchi al Palatino a Roma e con il cinema agli Uffizi a Firenze. Ma che bisogno ce n’è? Ma non basta, nelle notti d’estate ( o d’inverno ) percorrere quella meravigliosa galleria con da una parte il profilo di Palazzo Vecchio e dall’altra la grande apertura sull’Arno, per avere già uno dei più begli spettacoli del mondo? Si parla di “animare” questi luoghi, anche quelli di risulta, come il fazzoletto senza auto ricavato al centro di piazza del Carmine, l’altro ricavato al centro del Piazzale Michelangelo. Sono deserti, si lamenta, vanno animati. Ormai è un mantra. Forse erano meglio le auto …

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Le Sorelle Marx

La telefonata (versione 2017)

Finisce in gloria la vicenda della moschea a Firenze: anche quest’anno la festività musulmana del Ramadan migliaia di cittadini, cui la nostra Costituzione dovrebbe garantire libertà di culto, dovranno accontentarsi del vecchio e asfittica ex garage di piazza dei Ciompi. Telefonata da Palazzo Vecchio al Nazareno, sede nazionale del Pd. “Pronto Matteo, sono Dario. Volevo parlarti della questione della moschea…” “Ganzo eh, Dario? Anche quest’anno que’ piedi sudici e gli stanno in piazza dei Ciompi, come gl’hanno fatto per tutta la mia legislatura!” “Ma veramente, Matteo, io mi ero impegnato a dargli la caserma Gonzaga come nuova moschea; ma ora non si può più fare… come faccio ora?” “Perché tu sei un bischero, Da dietro: se tu

Nel migliore dei Lidi possibili

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Elettore modello per qualsiasi proposta di legge elettorale

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me lo chiedevi a me, te lo dicevo subito che ‘un si poteva fare. Invece, tu vuoi fare di testa tua e ora son cavoli tuoi. Arrangiati!” “Dai, via, dammi una mano. Io avevo detto che almeno per questo Ramadan si poteva usare la Gonzaga…” “Oh, ma allora tu sei proprio grullo: per usarla, bisogna metterla a norma: costa e ci vogliono 4 mesi. Prima di parlare, caro fringuello, pensaci due volte e poi non fanne di nulla”. “E ora? Non avresti un altro posto da suggerirmi?” “Ma allora sei di coccio! Se avevo voglia di risolvere il problema dei musulmani, ti pare che non sarei stato bono a farlo quando ero sindaco? Figurati, aspettavo che t’arrivassi te con quel visino da bel bambino! Hai voluto la bicicletta da sindaco? Ora pedala!”

“Ma veramente, io il sindaco non lo volevo mica fare: mi c’hai obbligato te… stavo tanto bene in parlamento…”. “Oh, senti Dario, non mi rompere tanto le scatole, che c’ho altri Grilli per ‘i capo! T’è piaciuta la battuta? Comunque, ti do un consiglio. Fai come ho fatto io con la tramvia” “Cioè?” “Non fare nulla, tonto! Lascia la bega a chi viene dopo di te: poi son cavoli sua!” “Dici? Beh, è un buon consiglio… Scusa, Matteo, ma dopo di me ci dovrei essere io… Non vorrai mica che venga il Giani?” “Poveri noi! Di due, ‘un se ne fa uno! Ma tanto a me che me ne frega, sto a Pontassieve… Sai icché tu fai Darietto? Come ti pare! A me non me ne batte nulla. Salutami Izzedin! Bona rintronato!” clic.


I Cugini Engels

L’altro referendum

Ma chi l’ha detto che Renzi abbia rimosso il referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma della Costituzione (che lo ha visto soccombere miserissimevolmente sotto una valanga di 19,5 milioni di No, così tanto per memoria, mentre si celebra il milione e 257 mila che lo hanno votato alle primarie)?? Renzi se ne ricorda, eccome! E ha imparato anche la lezione. Così ha indetto un nuovo referendum, molto più pregnante e decisivo di quello costituzionale: quello sulla copertina del suo prossimo libro “Avanti perché l’Italia non si ferma”. Ma siccome Matteo è di Rignano, paesello già agricolo (e del contadino toscano si dice che abbia scarpe grosse, ma cervello fino), e quindi molto furbo, per esser certo di non perdere, le alternative sulla scheda le ha messe lui così, con ogni risultato ha vinto lui. “Strada o trolley? Almeno su questo decida il ballottaggio” si appella, disperato, su Twitter. Cioè, “visto che non mi fanno fare la legge elettorale che vorrei io (per vincere come ha fatto Macron in Francia), almeno fatemi giocare al ballottaggio sul mio libro. Mentre mi accingo a perdere le elezioni. Via, fate i bravi, almeno questa soddisfazione non toglietemela”. E noi voteremo, certamente Matteo. A noi l’unico Avanti! che ci piace è la testata storica del quotidiano socialista fondato nel 1896 di cui fu primo direttore Leonida Bissolati. Ma in mancanza ci vanno bene sia la strada che il trolley, l’importante è che ti avvii.

Segnali di fumo di Remo Fattorini Percezione e realtà. Spesso, anche nel nostro paese, la percezione dei vari fenomeni è molto distante dalla realtà. Accade perché sempre più spesso c’è chi ci racconta vicende e fatti che non esistono. Si mettono in giro bufale pur di cavalcare le paure e ottenere consensi. Esempio classico: modi e forme con cui si rappresenta il dramma dell’immigrazione, ma anche dell’Europa e via di seguito. Partiamo dalla vicenda profughi e immigrazione. Ne abbiamo sentite di tutti i colori.

Lo Zio di Trotzky

Hashtag

#grandebellezza & #grandepassione. Tutto è grande, bellezza e armonia nell’universo (sportivo) gianiano. Ma soprattutto, tutto, ma proprio tutto è #. Eugenio Giani ha proprio una mania compulsiva per l’hashtag. L’ultima è il Tweet sulla mostra dedicata al ciclista Gastone Nencini (“#leone del #mugello di grande #bellezza”, cinguetta il Nostro) in Consiglio Regionale: in un messaggio di 50 parole, Eugenio ci ha seminato ben 25 hashtag. Un tripudio di cancelletti ogni dove! Sarà forse perché co-protagonista del Tweet in questione era il #Ministro dello #sport Luca Lotti e quindi Eugenio doveva dimostrare che quello veramente adatto a fare il #Ministro dello #sport sarebbe stato lui, #eugeniogiani. Giani non li reggeva più questi hashtag e così si è espresso anche in un plurilinguismo tagghiano di rara bellezza (ma dubitiamo di altrettanta efficacia): #florence #florance #tuscany #italy #italian #beauty #beautiful #eugeniogiani #sports #ciclismo. Se Chris Messina, l’avvocato di San Francisco che il giorno 23 agosto 2007, su Twitter, usò per la prima volta l’hashtag avesse saputo che un suo epigono (anche Eugenio è principe del Foro) avrebbe fatto questo uso bulimico del cancelletto, forse ci avrebbe pensato due volte prima di farlo. Ma si sa. Eugenio vive per aggregare (preferenze, buffet, inaugurazioni, ecc.) e quindi l’hashtagmania non può che essere la sua cifra: aggregare a più non posso! Cancelletti come se piovesse! #pregevoleiniziativa.

Tipo: l’Italia non è una discarica, il business degli immigrati, vengono qui e vogliono tutto gratis, li ospitiamo in hotel a 4 stelle, ci portano malattie ormai estinte (ebola e scabbia), vogliono internet, wi-fi e le case popolari, ci stanno invadendo e che più ne ha più ne metta. E così a forza di sentire queste narrazioni ci stiamo facendo un’idea lontana dalla realtà. La verità è che non siamo affatto invasi: l’Istat ci dice che da noi vivono 5 milioni di stranieri, appena l’8,3% della popolazione. Ma la percezione è molto diversa. Gli italiani – dato Ipsos – sono convinti che siano il 30%. Eurostat ci dà i numeri: per ogni milioni di abitanti da noi ci sono 1.369 rifugiati, 17.700 in Ungheria, 16mila in Svezia, 10mila in Austria, 5.500 in Germania, che è il paese che ha accolto in maggior numero di richiedenti asilo. L’Italia è solo al 5° posto, dopo Germania, Svezia, Austria, Ungheria. È la dimostrazione che le frottole, se non vengono smentite con la stessa forza, non sono

mai innocue. E di questo non si può mettere in croce - come invece si tenta di fare – la rete e i social, additati come i veri responsabili delle post-verità. No, è l’intero sistema mediatico, compreso la carta stampa e le tv, a trasmetterci una lettura deformata dei fatti del mondo. Il fatto è che il sistema dell’informazione è più interessato alle contrapposizioni, alle divergenze, ai conflitti, alle polemiche e devianze, piuttosto che al merito delle cose. Insomma chi la spara più grossa buca, trova attenzione e conquista spazio, senza che nessuno gli faccia notare come stanno veramente le cose. Volete un esempio: l’Europa. Assistiamo ad un coro di voci critiche: chi vuole uscire dall’Unione, chi dall’euro, chi la ritiene al servizio dei banchieri, chi dice che ci impone solo misure di rigore. Ma non ho mai sentito nessuno dire che l’Italia, nel corso degli ultimi 2 anni, non ha mai votato contro una decisione del Consiglio dell’Unione. È così che la percezione diventa realtà e le bufale verità.

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Isgrò cancella la Slovacchia

A sinistra Virgola comma, 2003. Sotto Dichiarazione di Carlo Palli, 2008 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di Laura Monaldi Il 18 maggio presso la Galleria di Arte della Città di Zilina verrà inaugurata la prima mostra in Slovacchia dedicata a Emilio Isgrò, artista concettuale e pittore di fama internazionale, ma anche poeta, scrittore, drammaturgo e regista. A partire dagli anni Sessanta, Isgrò ha dato vita a un’opera tra le più rivoluzionarie e originali, che gli ha valso quattro partecipazioni alla Biennale di Venezia e il primo premio alla Biennale di San Paolo. L’inaugurazione della mostra si svolge alla presenza dell’artista che festeggia quest’anno il suo 80° anniversario. All’interno del percorso espositivo la cancellazione si qualifica come un vero e proprio atto mentale di libertà; un’operazione di trasformazione del verbum in quanto sostanza del dire e del vivere indispensabile all’intelletto umano e al progresso culturale. Cancellare per Emilio Isgrò significa affermare nuovi significati, annientando la tradizione attraverso un gesto consapevole e costruttivo, in virtù di un atto creativo che ha in sé la forza militante di destare le coscienze dal torpore contemporaneo e porre alla loro attenzione una realtà completamente diversa dal convenzionale bombardamento mediatico. Nell’opera artistica di Emilio Isgrò v’è la volontà di far coincidere la negazione del linguaggio e della

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comunicazione, portata avanti dalle avanguardie a oggi, con la materializzazione concreta della progressiva perdita di significazione della parola. La cancellatura diviene in tal senso un gesto estetico che nega le ideologie e costruisce complessivamente un’architettura di senso, basata su una semplice semplificazione apparente. I turbamenti del contemporaneo trovano una sintesi perfetta di concettualità e concretezza, nell’intimo desiderio artistico di dare ascolto a un linguaggio rinnovato, che privilegia la connotazione al posto della denotazione ed elimina surplus morfologici, pesantezze sintattiche e ogni meccanismo di neologizzazione. Si tratta di una poetica consapevole che il frammento e la plurisensoralità non sono più in grado da soli di dare un’interpretazione univoca alle molteplici sfaccettature semantiche della quotidianità. Soltanto negando e riaffermando la parola nella sua centralità poetica ed espressiva si attua la presa di coscienza che l’Arte debba imparare a ri-

scattare ciò che ha di più prezioso. L’arte della sottrazione di Emilio Isgrò è in definitiva una prassi che libera e salva la parola da un destino oscuro e macchinoso, volto all’oblio, ponendo al contemporaneo l’antica questione della lingua sotto una luce nuova, tesa al progresso e alla rinascita delle coscienze, poiché dietro la parola si cela tutta la sostanza dell’essenza e dell’esistenza. La mostra organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Bratislava, l’Archivio Carlo Palli di Prato, propone un percorso esaustivo della produzione di Isgrò, dagli esordi fino ad oggi. L’esposizione, che rimarrà aperta al pubblico fino al 18 giugno, si svolge sotto il patrocinio del Ministro della Cultura slovacco Marek Madaric e del Presidente della Regione di Zilina Juraj Blanár, in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia a Bratislava, l’Archivio Isgrò di Milano e la Galleria di Arte della Città di Zilina. L’evento è inoltre incluso nel 10° festival italiano in Slovacchia “Dolce Vitaj”.


Musica

Maestro

L’altra metà del suono

di Alessandro Michelucci Chi segue questo spazio dedicato alla musica avrà notato l’attenzione che dedichiamo alle musiciste. Finora, comunque, ci siamo concentrati su artiste contemporanee come Battista Acquaviva (n. 72) e Amira (n. 193), o al massimo su autrici vissute fra Ottocento e Novecento come Marie Jaëll (n. 181). Ci sembrava quindi che fosse necessario integrare questo panorama, inevitabilmente frammentario, con alcune letture che inquadrassero la materia in un contesto storico più ampio. Per farlo abbiamo scelto due libri recenti: Sounds and Sweet Airs: The Forgotten Women of Classical Music (Oneworld, 2016) e Guida alle compositrici dal Rinascimento ai giorni nostri (Odoya, 2016). I due volumi sono molto diversi. Il primo è stato scritto da Anna Beer, che ha una formazione storica e letteraria, come attestano le biografie che ha dedicato a John Milton e a Bess Ralegh. La sua opera si concentra su otto compositrici vissute fra la fine del Cinquecento e la fine del Novecento. Le musiciste sono state scelte per il loro rilievo, che talvolta coincide con un primato. Francesca Caccini fu la prima donna a scrivere un’opera lirica (La liberazione di Ruggiero dall’isola d’Alcina, 1625); Nadia Boulanger ebbe come allievi Daniel Barenboim, Aaron Copland, Philip Glass e molti altri; Elizabeth Maconchy fu la prima donna a presiedere il Composers’ Guild of Great Britain. A ciascuna delle otto musiciste Beer dedica un saggio di 30-40 pagine che offre un panorama piuttosto ampio del contesto storico e culturale sociale in cui operarono. Le composizioni di ciascuna autrice vengono citate nei singoli saggi e integrate da una breve appendice collettiva. L’altro libro, al contrario, porta la firma di Adriano Bassi, un musicista che ha alle spalle una lunga attività concertistica. A questa ha affiancato un consistente impegno pubblicistico che spazia da Britten a Scarlatti, da Mozart al café chantant. La sua Guida alle compositrici dal Rinascimento ai giorni

nostri è un’agile raccolta di schede, sintetiche ma non frettolose, che spaziano dal Cinquecento ai nostri giorni. Oltre metà del volume si concentra sulle compositrici del Novecento. Ciascuna di quelle viventi è stata intervistata dall’autore. In questo modo Bassi disegna un ampio affresco, ulteriormente arricchito dai riferimenti bibliografici e discografici che corredano le singole schede. Per chiudere, una considerazione necessaria. Il ventesimo secolo ha segnato una svolta decisiva per le donne. Non soltanto per quanto riguarda la musica, ma in tutti i sensi. Nonostante la nota vulgata eurocentrista, le prima donna a ricoprire la carica di Primo ministro è stata la srilankese Sirimavo Bandaranaike 1960, seguita da Indira Gandhi (1966) e da Golda Meir (1969). La prima europea, Margaret Thatcher, è arrivata soltanto nel 1979. Anche il diritto di voto è una conquista recente: in Francia è stato riconosciuto nel 1944, da noi nel 1945, in Svizzera addirittura nel 1971. La discriminazione secolare che ha limitato le donne in tutti i campi non poteva non riflettersi anche sulla musica. I progressi che sono stati fatti nell’ultimo secolo non ci impongono soltanto di dare maggiore spazio alle musiciste, ma anche di conoscere la storia di quelle che hanno creato in mezzo a pregiudizi e difficoltà enormi. Proprio per questo consigliamo caldamente questi due libri, entrambi concepiti per intaccare il coriaceo intreccio di stereotipi che grava sull’altra metà della seconda arte.

SCavez zacollo

disegno di Massimo Cavezzali

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Il mondo

senza

gli atomi illustrazioni di Aldo Frangioni

di Carlo Cuppini Dopo lo spettacolo e la festa in teatro, dopo la cena ai tavoli rotondi e poi il gran ballo collettivo, decido di prendere il primo tram che passa, con la speranza che nel suo giro capiti anche nei paraggi del nostro albergo – altrimenti sono fottuto. Quando il mezzo arriva sferragliando, uno degli anziani accanto a me alla fermata, forse cogliendo un’esitazione, mi sussurra dolcemente all’orecchio: “Prendilo, è l’ultimo, è quello giusto.” Mi accomodo su un sedile accanto al finestrino. Chiudo gli occhi. Il tram si mette in movimento. Attraversiamo le periferie selvatiche e cadenti, invase da alte piante tropicali (Roma sembra Città del Messico). Il mezzo procede tra i sobborghi inoltrandosi sempre più in un territorio impervio, con le rotaie che si snodano tra i tronchi di grandi mangrovie secolari. Ci avviciniamo alla grande montagna, ripida e verdeggiante, che si staglia in lontananza e di cui non posso vedere la cima. Sbirciando dal finestrino capisco che il binario si infila dritto dentro una piccola e rudimentale galleria che sembra scavata col piccone. “È il Monte Chilometro,” mi informa – non interpellato – il mio vicino di posto: un contadino attempato dal volto scuro e grinzoso. “E adesso stiamo per entrare nel tunnel che porta lo stesso nome. È opera degli antichi Romani. Il monte era dedicato al dio Chilometro e in seguito la lunghezza del tunnel fu scelta come unità di misura per le distanze.” Annuisco senza prestare molta attenzione a questa storia farneticante. Però, mentre il tram si infila nell’antro vetusto, cerco con apprensione di scorgere la luce dall’altra parte, per fugare una certa inquietudine che mi si è attaccata addosso. E poi si tratta di attraversare ancora fiumi (quando la tramvia si muta in funivia e il binario è sostituito da un cavo sospeso, lanciato da albero ad albero), di ascoltare concertini di indigeni che salgono sulla carrozza e suonano i loro strumenti non più di moda, di traballare su rotaie sconnesse e pericolanti, spesso fatte con assi di legno marcio destinate a sbriciolarsi entro poche ore. L’umidità arborescente fa scintillare ogni cosa, fuori e dentro il tram, come in una antica foresta

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Un fumetto su Pinocchio e Carlo Marx

pluviale. Al capolinea mi si presenta uno scenario che ricorda il porticciolo d’una immemore città di mare dell’Estremo Oriente. Dall’interno del tram c’è chi lancia funi e ormeggi per ancorare la carrozza ai grandi tronchi e alle apposite palizzate. Scendono tutti, anch’io faccio per alzarmi. Due uomini di una certa età, però, restano seduti al loro posto intenti a finire una discussione sull’alta finanza e sulla tassazione degli immobili. Quello più magro e più giovane alza di scatto gli occhi su di me, proprio mentre gli passo accanto. Come se non aspettasse altro tira fuori dalla costa della giacca un libro e me lo porge con slancio: “È la Grammatica della fantasia di Gianni Rodari, è un regalo per il tuo compleanno.” Faccio un sorriso di circostanza e mi concentro sul dono inatteso. Ricordo di avere letto questo libro da ragazzo e di averlo molto apprezzato. Preso da un’irrefrenabile voglia di sfogliarlo di nuovo, dimentico completamente dove mi trovo, e la necessità di scendere dal tram, e torno a sedermi sul sedile che occupavo. Apro il libro a caso e ritrovo i testi ben noti. Fin-

ché non mi imbatto in una sezione che non ricordo affatto: è la storia a fumetti dell’incontro tra Pinocchio e Carlo Marx. Qui il libro racconta che il filosofo, intenzionato ad analizzare attentamente la natura singolare del burattino animato, lo riceveva in un suo studio (ambulatorio medico, per la verità) e lo invitava a stendersi sul lettino; poi si toglieva il copri-barba (una barba finta, nerastra, applicata sul mento per coprire quella vera, che invece era tutta bianca); quindi Pinocchio alzava la testa dal lettino e gridava con voce stridula: “Peccato che quella barba nera sia finta, ti donava assai più di questa. Adesso sembri di molto più vecchio!” Il dottore-economista faceva calare la luce con un gesto teatrale della mano e si metteva a fare manovre e manipolazioni sull’omino di legno, ipnotizzandolo con movimenti studiati e ripetitivi. Questo stato torpido del paziente gli permetteva di operare e agire come meglio credeva, scorrendo con le mani e con vari arnesi oscuri sul corpo legnoso sedato. La didascalia di una vignetta sostiene che in seguito qualcuno affermò (presentando le prove) che il noto economista tedesco graffiò ferocemente la schiena del burattino e arrivò perfino ad abusare di lui. Non che quel pezzo di legno insensibile rischiasse di rimanere segnato da tale violenza; però tant’è. Circolò pure una fotografia dove Carlo Marx si ergeva pallido e allucinato dietro al burattino disteso: dall’apertura dei suoi pantaloni fuoriusciva un cazzo-burattino (in tutto simile a Pinocchio, soltanto di dimensioni ridotte) con il quale si accingeva a compiere senza indugio il misfatto. Si disse poi che la foto era un falso, ma in questi casi vallo a sapere. La cosa comunque venne insabbiata e presto non se ne seppe più niente. Fine della storia. Chiudo il libro meditabondo. Meditabondo scendo dal tram. Cammino meditabondo per le strade di Roma. Inizia ad albeggiare. La luce sale dall’orizzonte scacciando le tenebre oltre le nubi plumbee, dietro i cornicioni dei palazzi barocchi. Passando attraverso un giardino pubblico decido di abbandonare il libro su una panchina. Raggiungo l’albergo che è mattina inoltrata. La luce incantevole del cielo di Roma ha inondato le strade e le facciate degli edifici. Gli altri membri della comitiva sono già accalcati nel piazzale, mi stanno aspettando da ore per ripartire alla volta di casa. Mi becco una serie di insulti per averli fatti aspettare. Qualcuno ironizza sulla mia presunta notte brava. Un tizio di cui non so il nome ha recuperato dal teatro il mio cellulare, dove lo avevo dimenticato. Lo ringrazio. Mi unisco alla fila ordinata che si è formata per salire sul pullman.


di Mariangela Arnavas Dopo aver letto da ragazzina i Maigret, ho avuto poi una travolgente passione per i “romans dura” di Georges Simenon, passione che si è alquanto affievolita negli anni, forse anche per la determinazione di Adelphi di pubblicare annualmente, senza deroghe, almeno un romanzo dell’autore, peraltro assai prolifico. Ma l’ultimo uscito ovvero la “Casa dei Krull” (Adelphi, 2017) merita una lettura approfondita, non solo per il ritmo perfetto della narrazione, quasi da grande regista naturale, ma anche per il particolare momento storico in cui è stato scritto. Il titolo originario è “Chez Krull”, pubblicato per la prima volta da Gallimard nel 1939, una felice sintesi che richiama l’attenzione sulla famiglia tedesca, i Krull appunto, protagonista della storia e sul piccolo mondo che li circonda e non li accoglie. Il titolo italiano “La casa dei Krull” è meno essenziale ma centra un elemento importante ovvero il fatto che protagonista della narrazione, insieme alla famiglia Krull, è la loro casa, anzi sono la casa e l’emporio, la parte privata e quella pubblica e poi quella più segreta, nascosta, il laboratorio del vecchio Krull, Cornelius, dove passa le giornate a intessere canestri di vimini, insieme ad un operaio gobbo, suo compagno inseparabile. “Il suo sguardo si appuntò su quella réclame di cui decifrò a rovescio, le due parole: Amido Remy. Lo sfondo era blu, un bel blu oltremare, e al centro campeggiava un pacifico leone bianco”. È con questa occhiata di Hans, il cugino ospite imprevisto della casa dei Krull sulla porta dell’emporio, che si apre il romanzo e già in queste prime frasi c’è una chiave di lettura, perché un’altra scritta in giallo, “metà sul vetro di sinistra e metà sul vetro di destra della porta” recita “Mescita”, qui è il luogo dove la famiglia di tedeschi, immigrati in Francia affronta e si confronta con il resto del mondo, vendendo merci varie di prima sussistenza e dando da bere agli avventori. Scandiscono il tempo narrativo la chiusa del canale che si trova di fronte alla casa e il vicino capolinea del tram, un tempo molto lento all’inizio e in cauta, progressiva accelerazione fino alla catarsi finale. L’arrivo di Hans altera e poi sconvolge l’equilibrio precario dell’imperfetta integrazione dei Krull perché, nonostante la famiglia viva da anni nella cittadina francese, ovvero da quando il vecchio Cornelius, “dopo aver girato Germania e Francia come cestaio” vi si era sta-

L’integrazione di Simenon

bilito” senza una ragione particolare, come ci si ferma una volta giunti al termine del proprio viaggio”, “ la gente del quartiere ci considera stranieri e non viene da noi...Se non fosse per i battellieri e i cavallanti...”. Cornelius vive nella casa/emporio con la moglie, vero capofamiglia, e tre figli, ma tutti, per così dire, in punta di piedi; il figlio maschio studia medicina e sta per laurearsi, la figlia maggiore bada al negozio con la madre, la più piccola studia il pianoforte. Il cugino Hans, arrivando, infrange la prima

regola dell’immigrato che vuole integrarsi ovvero “non attirare l’attenzione su di se’”; è lo straniero che non cerca di farsi accettare ed è fiero della sua diversità ed è anche quello che finisce per avere sorte migliore anche perché non si sente in colpa e non partecipa inconsciamente alla diffidenza degli altri, degli autoctoni; è spregiudicato, forte e leggero, fondamentalmente disonesto, un personaggio che ricorda nel cinema il Jean Paul Belmondo di “A bout de souffle” di Jean Luc Godard, senza il cupio dissolvi del personaggio cinematografico. L’arrivo di Hans, la morte di una ragazzina stuprata e uccisa e un incidente che porta alla chiusura del canale, catalizzano la diffidenza e l’odio diffuso verso gli stranieri Krull e porteranno alla tragedia finale. Sarà una folla, prima solo ostile e poi via via più feroce, in preda ad un odio irragionevole, da branco animale ad assediare la casa dei Krull, i diversi, gli stranieri individuati come capro espiatorio delle disgrazie cittadine. Ricorda il Manzoni, in particolare il tredicesimo capitolo dei “Promessi Sposi”, la descrizione di questo tumulto; la stessa incapacità di compiere scelte razionali, la meschinità e la sostanziale vigliaccheria di questa piccola folla, la caratteristica di essere elettrizzata da un fluido magnetico che può scatenarsi per uno stimolo qualunque, anche casuale come il suono del fischietto di un poliziotto o l’iniziativa improvvisata di un gradasso più audace. E in tutta la vicenda spiccano la totale insipienza e inefficienza della polizia e del giudice incaricato dell’indagine sull’omicidio che “prendeva appunti con un portamine d’oro su un taccuino minuscolo e raffinato come un carnet di ballo”. È’ significativo ricordare che Simenon scrisse questo romanzo nel 1938, quattro mesi prima della Notte dei cristalli e, paradossalmente, aveva prefigurato ai danni di una famiglia di tedeschi immigrati in Francia ciò che a breve gli stessi tedeschi avrebbero cominciato a infliggere agli ebrei e non solo, a maggior prova dell’assoluta irragionevolezza della persecuzione del diverso e dello straniero. Con uno sguardo che comprende senza giudicare ha intuito l’irrompere dell’irrazionalismo sulla scena della storia del ‘900 e rappresentato le più basse, vergognose debolezze degli umani aggregati in una folla e anche se oggi i branchi si formano più spesso negli spazi telematici, questa narrazione non è solo una grande prova di scrittura ma anche una vicenda emblematica di un clima tornato purtroppo attuale.

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di Ugo Caffaz Invecchiando, come è noto, la memoria “corta” (cosa ho mangiato ieri sera ) cede alla memoria lunga, a volte molto lunga, quella dell’infanzia. Leggendo, in questi giorni, i giornali e i documenti politici, se così possiamo ancora chiamarli, il pensiero va anche al percorso relativamente recente. Mi riferisco in particolare ai sedici anni passati a Palazzo Vecchio in gran parte come capogruppo, Pds, Ds, ecc. Allora era normale, magari rapportandosi con le sezioni territoriali, avere un ruolo di proposta anche dai banchi del Consiglio . Ho ricostruito ben sette progetti che però non hanno avuto attuazione. La storia non si fa con i “se” ma, con il senno di poi, cioè giudicando oggi (facile ? ) i “se” possono servire a capire la storia e, magari utilizzando l’esperienza fatta, a correggere eventuali errori del presente . Cioè ragionando, discutendo, prendendosi tutto il tempo necessario per capire appunto e far capire . Tanto non c’è bisogno della fretta nelle risposte come va di moda oggi salvo smentite altrettanto rapide : si tratta del passato! Proviamo a fare un elenco. 1) Il famoso “tubone”. Si trattava del prolungamento di un vecchio progetto Detti. Un tunnel sotterraneo da Firenze sud a Firenze nord che avrebbe evitato l’attraversamento della città da parte di camion e simili che puntualmente in caso di traffico eccessivo in autostrada si scaricano su Firenze, in particolare sui viali rendendoli impraticabili. Avrebbe inoltre facilitato il raggiungimento di Careggi, ospedale regionale nazionale, nonché di tutti quartieri lungo il tragitto, realizzando il più alto numero possibile di uscite e ingressi . A pagamento per i non residenti, gratis per i fiorentini. 2) Sottoattraversamento delle piazze lungo i viali (Pier Vettori, Porta a Prato, Beccaria, Libertà, facendo scorrere così il traffico e restituendo in tutto o in parte le piazze alla città, alla loro vivibilità. L’Ataf sviluppò il progetto. 3) La Moschea, di cui si parla tanto in questi giorni e non sempre a proposito. Circa dieci anni fa proposi ( fra lo stupore di tutti dato che sono ebreo, molto ebreo) in Consiglio Comunale di consentire, anzi di favorire la realizzazione di una Moschea, essendo già allora presenti oltre ventimila fedeli islamici sul territorio fiorentino. Paragonai, non a caso, questa esigenza a quella dell’800 per la comunità ebraica fiorentina . Allora si trattava di certificare, dopo l’apertura dei ghetti, un reciproco riconoscimento : della città nei

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Progetto di sottopasso dei viali di Firenze - Progetto Ataf, 2000

Con i se non si fa la storia, ma forse si può capire confronti di questa minoranza perseguitata per secoli, esigendo un monumento di qualità riconoscibile nel panorama fiorentino e degli ebrei la volontà di esprimere la propria gratitudine con un progetto degno appunto degni di chi appunto aveva loro donato la libertà. Nacque così ,non senza difficoltà, la Sinagoga di Via Farini, considerata oggi una delle più belle del mondo . Pur con le logiche differenze, anche la Moschea doveva avere queste qualità. Proposi come localizzazione l’Aula bunker, in via di dismissione, centrale, vicina a Sant’Ambrogio e, appunto, alla Sinagoga con un chiaro messaggio lapiriano (le tre fedi di Abramo ), ma anche accanto ai viali facilitandone l’accesso . La lega organizzò con Calderoli una grande manifestazione in centro contro tale proposta. Passano gli anni ma le teste rimangono le stesse . 4) Non vado in ordine di tempo, ma, come ho detto di memori. “Tessera di fiorentinità”. La proposta ( in qualche modo copiata da Venezia che proprio in questi giorni parla di un ticket da far pagare ai turisti ) derivava da un ragionamento molto semplice. la vita a Firenze era ed è cara a causa anche dalla presenza di milioni di turisti, i quali, ovviamente, favoriscono l’economia della città, ma solo per alcuni, per altri no. In questo senso andava anche la tassa di soggiorno, “inspiegabilmente” respinta dagli albergatori .

5) L’opportunità di un vettore a “ gremagliera “ per salire al Piazzale Michelangelo evitando così l’afflusso di auto e soprattutto di autobus lungo il Viale dei Colli e il successivo parcheggio. Mi pare che qualcosa in questo senso sia stato fatto in queste ultime settimane unitamente alla dismissione definitiva del Campeggio. 6) Taxi collettivo, che non è il taxi multiplo. Qui l’ispirazione veniva dal Medio Oriente. Si tratta, ancora oggi, di auto a sette/nove posti che fanno lo stesso tragitto degli autobus incrementandone, fino a sostituirli nelle ore notturne ,le corse. Questo anche per garantire maggior sicurezza ai cittadini. Il progetto completo fu concordato con le cooperative dei tassisti e presentato ufficialmente, ma non vide la realizzazione per l’opposizione, inspiegabile, delle OOSS dell’Ataf, pare per un timore di riduzione del servizio (sic!). 7) La “busvia” . Sembra strano parlarne oggi, quando siamo avanti con la tramvia. Ma consideriamo che siamo a metà degli anni ’90 e la previsione di realizzazione dell’intera opera (incredibile ma vero) era il 2020! Per non parlare dei costi. Fu così che proposi la busvia cioè autobus e/o filobus su corsie protette lungo i viali, con raccordi numerosi e frequenti di pulmini elettrici verso il centro. Con i se non fa la storia ma forse ci può aiutare a capire il presente.


di John Stammer La galleria più lunga è 1231 metri, inizia dopo il ponte sul fiume Greve, percorrendo la strada in direzione sud, e termina in una piccola valletta che guarda verso la Certosa del Galluzzo in vista della “Buca di Certosa”. Si chiama Galleria Poggio. Quella più corta è la Galleria Le Romite lunga 258,70 metri. Complessivamente la nuova strada è lunga 3400 metri e sfoggia anche una terza galleria di 677,60, la galleria Colle e un ponte sul fiume Greve di 180 metri. I primi lavori iniziarono nel 2005 proprio dalla galleria Le Romite, quella più vicina alla viabilità esistente e anche quella che avrebbe potuto essere utilizzata subito, anche in assenza del completamento delle altre opere.La Galleria infatti elimina il tratto più tortuoso di via delle Bagnese in prossimità dell’incrocio con via delle Romite, e consente un più agevole accesso fra la via Senese e l’abitato di Scandicci. Per questo il comune di Firenze aveva avviato nel 2005 la progettazione dell’allargamento della via delle Bagnese nel tratto di strada fra la nuova rotatoria e il confine del comune di Scandicci. Il progetto preliminare dell’opera prevedeva un costo di realizzazione di poco più di 3 milioni di euro. Ad oggi di quel progetto, che se realizzato avrebbe senz’altro agevolato la circolazione verso Scandicci e il viadotto dell’Indiano, non si hanno notizie. I lavori di costruzione della galleria invece procedettero all’i-

Storia del by-pass del Galluzzo

La progettazione e le prime realizzazioni nizio con una certa celerità e l’ultimo diaframma fu demolito nell’autunno del 2017. Per evitare i rischi connessi alla costruzione di una galleria molto superficiale si dovette fare sgomberare una famiglia che abitava in una colonica posta quasi sulla verticale della galleria, ma per il resto non vi furono grandi problemi. I problemi sarebbero insorti di li a poco in relazione alla costruzione delle altre gallerie e in particolare per lo smaltimento delle terre di scavo. Una questione che è diventata ricorrente per tutte le opere pubbliche in Toscana. Ma nel frattempo la galleria, con una cerimonia in occasione di Santa Barbara la patrona dei minatori, era stata aperta ai cittadini che per la prima volta poterono percorrerla a piedi nell’autunno del 2017. Una cerimonia sobria per festeggiare l’apertura di un nuovo percorso e i lavoratori che l’avevano costruito. Una cerimonia per rendere concretamente visibile ai cittadini la costruzione dell’opera. Ma da allora iniziarono i problemi. Difficoltà economiche

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delle imprese costruttrici, impedimenti burocratici e normativi bloccarono sostanzialmente per molto tempo i lavori. E come accade in questi casi la “vox populi” cominciò a raccontare. Si disse che la galleria Le Romite non poteva essere aperta perché realizzata troppo piccola per farci passare due mezzi pesanti contemporaneamente in direzione opposta. Si disse che non c’erano i soldi per il completamento dell’intera opera. Ma soprattutto la ben nota ironia dei fiorentini ebbe un argomento formidabile. Per molto tempo una grande scritta in colore viola rimase in evidenza sul muro che sorregge parte della collina all’uscita ovest della galleria: “Cosa aspettate a finire questa galleria? Che si vinca lo scudetto? Piacciconi”. E pochi mesi dopo, quando la Fiorentina, per un breve periodo di tempo, fu ultima nella classifica del campionato di serie A, alla scritta fu aggiunta una nuova frase: “Tranquilli fate pure i vostri comodi. siamo ultimi”. (continua)

Mappa della nuova strada gentilmente fornita da Autostrade per l’Italia

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di Danilo Cecchi Se si guarda quello che succede nel mondo del mercato della fotografia “d’arte”, che è cosa oggi assai diversa dalla fotografia “artistica” di fine Ottocento, si direbbe che la destinazione finale dell’oggetto “fotografia” sia la parete di una galleria, o la raccolta privata di qualche collezionista facoltoso. In realtà l’oggetto “fotografia”, a parte poche eccezioni, gode da sempre di uno statuto estetico del tutto particolare, quello della riproducibilità, partendo dallo stesso “negativo” originale, in un numero (virtualmente) illimitato di esemplari. Questo diventa ancora più vero nell’epoca delle immagini numeriche (o digitali), in cui ogni “copia” è identica al file originale, ed in cui ogni copia su supporto fisico (carta, cartone, plastica, vetro, etc….) è assolutamente identica alla copia precedente ed alla successiva. Questo rende il “valore” effettivo della stampa assai vicino al costo stesso della stampa, costringendo gli “artisti” ad acrobazie tese a limitare il numero delle copie immesse sul mercato. Una volta tutto questo non rappresentava un problema, era ovvio che le immagini fotografiche dovessero essere riprodotte in migliaia di copie, e la destinazione finale delle immagini non era la parete di qualche galleria, ma la pubblicazione a stampa, meglio ancora se in forma di fotolibro. La pubblicazione di un fotolibro è sempre stata l’ambizione, manifesta o dissimulata, della maggior parte dei fotografi del secolo scorso. Il fotografo olandese Ed Van der Elsken (1925-1990) lascia Amsterdam nel 1950 per recarsi a Parigi, dove inizia a lavorare per la Magnum come operatore di camera oscura e dove conosce i più famosi fotografi del suo tempo, lasciandosi conquistare dal fascino della loro professione. Nello stesso tempo frequenta l’ambiente artistico, filosofico, letterario e musicale della capitale, lasciandosi contagiare dalle nuove idee e dai nuovi modelli di vita alternativi, un poco bohèmiens, un poco esistenzialisti, molto liberi e disinibiti, e nel 1954 sposa la fotografa ungherese Ata Kandò, di dodici anni più grande e madre di tre figli. L’ambiente parigino dei primi anni Cinquanta, e soprattutto le sue notti movimentate, diventano lo scenario in cui Ed ambienta una storia fotografica basata sul personaggio reale di Ann (l’artista australiana Vali Myers), di cui egli segue per due anni gli spostamenti, gli incontri e le avventure, storia che diventa un fotolibro che viene pubblicato, da Picture Post nel 1954 in quattro parti, e poi nel 1956 con il titolo “Love in the left bank” (Amore sulla Rive Gauche). Il fotolibro, unico nel suo genere, ottiene un

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Fra Parigi e Amsterdam Ed Van der Elsken grande successo anche grazie alla geniale impaginazione di Jurriaan Schrofer, e consacra Ed fra i grandi del fotogiornalismo, anche se lui dichiara: “non sono un giornalista, cioè un reporter obiettivo, ma un uomo a cui le cose piacciono o non piacciono”. Peter Pollack inserisce nel 1963 Ed Van del Elsken fra i primi venti fotografi contemporanei che fanno “tendenza”. Nel 1955 Ed lascia Parigi e la prima moglie per tornare ad Amsterdam, dedicandosi a molti generi fotografici, dal reportage ala musica ed alla danza, fino ai lunghi viaggi, fra Africa ed Asia, sempre mettendo al centro del suo interesse la figura umana e le sue reazioni

davanti ai problemi della vita. Ad Amsterdam sposa la fotografa Gerda van der Veen e nel 1979 dedica alla sua città natale un grande fotolibro con immagini scattate fra il 1946 ed il 1970. Nel 1971 si trasferisce vicino ad Edam con la terza moglie, e continua a viaggiare, fotografare e filmare. Nel 1981 ripubblica le foto parigine realizzate fra il 1950 ed il 1954. Nel corso dei suoi viaggi visita numerosi paesi e città, fra cui Tokyo ed Hong Kong, scattando quasi sempre in strada in mezzo alla gente, e realizzando in tutto una ventina di fotolibri ed una quarantina di documentari cinematografici, fra super 8, 16mm e 35mm.


di Susanna Cressati Non c’erano studenti (o insegnanti) disponibili a ascoltare per un’ora circa al Gabinetto Vieusseux un ricordo della scrittrice Gianna Manzini (1896-1974). Poi, sabato scorso, ne hanno trovati una manciata, arrivati all’ultimo momento, proprio quando Simona Vinci (la scrittrice che ha presentato la scrittrice in sala Ferri) faceva partire un video tratto da una antica rubrica della Rai, “Almanacco di storia scienza e varia umanità”. Un video con la stessa impostazione e la stessa “grana” di quelle dei fratelli Lumière. Appare sullo schermo una signora elegante, anziana, con i capelli cotonati appena usciti dal parrucchiere. Viso lungo, naso nobile, bocca generosa, lo sguardo attento e mite, ma non docile. Dice inaspettatamente, con una voce impostata e un linguaggio colto, una cosa vera e dura, che i ragazzi in sala avrebbero dovuto annotarsi per portarla con sé come utile ricordo di una giornata: “Per tener dietro a tutte le cose che mi stavano a cuore ho dovuto correre”. È così, carissimi ragazzi. Bisogna correre. E se uno vuol fare lo scrittore sappia che è terribilmente difficile e costa sudore e sangue “sollevare il cuore fino alla bocca”, (heave / My heart into my mouth) come la giovane Cordelia confessa al padre Lear di non saper fare. Sollevare alla bocca o alla penna. Scrittrice dimenticata. Ingiustamente. Tra i tanti. E tra le tante, sottolinea al femminile Vinci, come Alba De Cespedes o Fausta Cialente. Autrici e fondatrici, nel Novecento, di riviste che hanno fatto la storia della letteratura italiana, ma che sono rimaste al margine, escluse dal canone. Penalizzate, dice Simona Vinci, dai tanti uomini che hanno praticato la storia della letteratura e che non hanno saputo guardare con gli occhi della parità di genere. Però questa ennesima denuncia (che di fondo condivido) non mi convince del tutto. Mentre sullo schermo girano le immagini della Manzini nella sua casa foderata di libri e di gatti, delle sue interviste compìte, del profilo grifagno di Leonida Repaci che la premia al “Viareggio”, non riesco a scuotermi di dosso la sensazione di un mondo ormai scomparso, un mondo certo di grande valore e qualità, ma che non è riuscito a superare la soglia che ti consegna alla storia, come avviene per i “classici”. Va dato atto a Gianna Manzini di averci provato. Tenacemente, lottando contro avversità esistenziali e fisiche (“La sparviera”, il titolo di uno dei suoi libri più noti, era la terribile tosse convulsiva che non smise di scuoterla per tutta la vita). Ci ha provato lavorando senza risparmio da giornalista, quando il giornalismo delle donne era rigidamente confinato nelle rubriche

La sparviera di moda e costume sui tabloid popolari. E infatti lei si guadagnò da vivere scrivendo, ricorda Vinci, memorabili pezzi nella rubrica di “Oggi” che firmava con lo pseudonimo di Vanessa, guarda caso il nome della sorella dell’amatissima, letta e riletta per tutta la vita, Virginia Woolf. Articoli di moda. Mentre suo padre Giuseppe inveiva già negli anni Venti contro “la maledizione degli acquisti”. Suo padre, l’anarchico che si era spogliato della sua condizione di benestante per fare l’orologiaio, antifascista militante e dai fascisti picchiato e aggredito fino alla morte; l’uomo disposto a rinunciare a tutto per il suo ideale di libertà e che voleva per sé, sulla sepoltura, non fiori ma ciotole di miglio per gli uccelli, che così sarebbero accorsi a frotte per tenere compagnia, con i voli e i canti, a tutte le tombe del cimitero, non solo alla sua. Qui, in quel “Ritratto in piedi” che Gianna Manzini dedicò a suo padre, sta forse il momento più alto della espressione di questa scrittrice, che finalmente riesce a far parlare il cuore, senza rinunciare allo sperimentalismo, a una ricerca formale raffinata, legata agli sviluppi della letteratura europea, tutta tesa nella difficile operazione di “dipingere con le parole”, di dar corpo a una nuova prosa poetica, lirica, di effetto quasi ipnotico. Per tutta la lunghissima carriera letteraria, dice Simona Vinci, Gianna Manzini si è dedicata al “come”. Certe pagine varrebbero la pena di essere rilette ad alta voce, come una partitura musicale, come suggeriva Carlo Bo. L’inaspettato nella vita è la cosa più bella, dice ancora la scrittrice che presenta la scrittrice. E per Gianna Manzini l’inaspettato è la tardiva consacrazione, il conferimento, a 74 anni, del Premio Campiello. Informata, commenta te-

legrafica: “Stupore”. Nelle carte dell’Archivio contemporaneo del Vieusseux sono conservate parecchie lettere: quelle all’amica Alis Levi, pittrice, che come lei aveva fatto della propria arte ragione di vita; le cartoline inviate a una bambina sotto lo pseudonimo del suo stesso amatissimo gatto, Milordino. Sono materiali con cui si apre un altro capitolo della creatività della Manzini, quella relativa agli animali. Lillo, il cavallo di “Ritratto in piedi”, tanto disturbato da un interiore fantasma da rifiutarsi di attraversare ponte Santa Trinita. Il cane del contadino, da anni alla catena, che ha scavato due solchi sul davanzale di pietra a cui si aggrappa con le zampe implorando attenzione. Il merlo maligno di un racconto dell’ultima raccolta, “Sulla soglia”. Un bestiario misterioso e ininterrotto, quello di “Animali sacri e profani”, o dell’”Arca di Noè”. E gatti. Gatti ovunque, veri e di porcellana. Gianna Manzini precursore della “gattinite” imperante sui social network, come Doris Lessing, Ernest Hemingway, Elsa Morante. Gatti e scrittori impegnati nell’eterno gioco di offrirsi e ritrarsi. In un mondo così l’ideale di vita realizzato, cioè il perfetto accordo tra uomini, donne, letteratura, animali, è quello descritto da un’antica tela, “Uomo che porge una lettera ad una donna nell’ingresso di casa”, dipinta dall’olandese Pieter de Hooch nel 1670. Di quel quadro di recente Tim Cook, CEO di Apple, ha raccontato di essere rimasto folgorato, perché un dettaglio (la lettera, appunto) sembrerebbe un moderno iPhone. Gianna Manzini scomparve nel 1974. Quindici giorni prima era morto l’adorato Milordino. Giusto così. Scrive Wisława Szymborska: “Morire - questo a un gatto non si fa./Perché cosa può fare il gatto/in un appartamento vuoto?

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di Claudio Cosma Questo lavoro è composto da una lastra di cristallo alla quale sono stati praticati cinque fori circolari di diverse grandezze, nei quali sono inserite altrettante lenti ottiche. La lastra è sovrapposta a due pagine di un vecchio libro di astronomia. L’ effetto che ne traiamo è fra lo scientifico/ tecnologico, il prezioso e il mistico. Scientifico/tecnologico in quanto suggerisce un macchinario piano, un dispositivo predisposto per una lettura multipla, quasi un esperimento di decrittazione dove le parti evidenziate dalle lenti abbiano un significato diverso e più importante della scrittura completa, la messa in evidenza di un codice segreto. Prezioso per la meticolosità dell’esecuzione, da ottico esperto in molature e castoni che agisca sotto le direttive di un maestro alchimista. Mistico per l’accostamento ad un reliquario antico, nel quale il frammento appartenuto a qualche lontano santo cristiano viene protetto e ingrandito dallo spessore del vetro che colpito dalla luce ne rimanda l’immagine leggermente distorta. Aggiungo, inoltre, un’altra suggestione, quella indotta dal minimalismo dell’opera, dal suo estremo chiarore, dalla trasparenza, dalla geometria che la governa, formata da un pa-

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Astronomia Man Ray, Glass tears

rallelepipedo e dai cerchi, dalla luminosità del fondo celeste che ricorda e allude al cielo, ma anche all’acqua di un orizzonte marino che si fonde con quello. Il messaggio dell’artista è legato al vedere, alla confusione generata dal mostrare più contenuti contemporaneamente: le cinque aree di scrittura ingrandite dalle lenti, il testo completo posto sotto la latra di cristallo, la cornice che contiene la scultura, in quanto non si tratta di un quadro ma di un’opera che occupa lo spazio nelle sue tre dimensioni di lunghezza, larghezza, profondità (in qualche modo,

Francesco Carone, Astronomia 3

credo, sia chiamata in causa anche la quarta dimensione, quella del tempo). L’opera non si sottrae allo sguardo dell’osservatore, ma non da indicazioni utili alla sua comprensione, per esempio, le zone evidenziate dai cerchi, sono dei vuoti o dei pieni, sono un mirino che guida il nostro sguardo o non piuttosto uno strumento che lo distorce? Ho aggiunto la foto di Man Ray ( Glass tears, 1932) per associazione mentale o culturale col lavoro “Astronomia”, le lenti si comportano come gocce o lacrime e formano, entrambe, con la loro disposizione una sorta di Costellazione, analogamente alle lenti ottiche che rimandano agli albori dell’osservazione del cielo con gli esperimenti di Galileo. Un volto può essere un universo con le sue Costellazioni? le lacrime possono come lenti ingrandire i sentimenti che le generano? Le lenti ottiche di Carone possono, posizionate sulla pagina di un libro o puntate verso l’infinito, in ghestaltico equilibrio, farci riflettere sul nostro saper vedere fuori e dentro di noi stessi?


Gite sociali alla maniera del Grand tour 2a puntata

di Andrea Caneschi Ma oggi è la Rocca dei Manfredi che attira il nostro sguardo, mentre seguiamo la nostra guida, che ci racconta l’epopea della formazione del primo manufatto, la Torre Manfrediana, bassa e potente, arrampicata sulla cima del secondo dei tre rilievi ai cui piedi è cresciuto il paese. La torre, costruita da Francesco I Manfredi, signore di Faenza, risale ai primi anni del 14° secolo; nata come struttura militare di difesa e di

maestro dell’espressionismo italiano e tra i maggiori scultori del primo Novecento. La figura di un soldato con l’elmetto, avvolto in un pesante mantello e con l’arma appoggiata sul corpo massiccio, disteso in un sonno che possiamo indovinare simile alla morte ma suggestivo anche del riposo dalla fatica della violenza, ci sorprende per l’originalità dell’omaggio, che ci sembra lontano dalle retoriche del sacrificio e pieno invece di umanità e rispetto. Ci resta ancora un po’ di tempo prima del treno per il ritorno, abbastanza per

non farci mancare la visita della Pieve Tho e della chiesa dell’Osservanza. La prima sorge alla periferia del paese, all’ottavo miglio della antica via romana da Faenza (per questo conosciuta anche come Pieve in Ottavo) ed è densa di storia antica. Costruita prima del mille sulla via che scavalcava gli Appennini, affascina per la semplicità delle linee, per la composizione stratificata della struttura, costruita con materiali di epoca romana e altomedievale, per le tracce di antichi affreschi recuperati sulle pareti delle navate. La seconda è più vicina al centro e la incontriamo mentre torniamo verso la stazione. Costruita nel Cinquecento e recentemente restaurata, conserva al suo interno opere d’arte notevoli, mantenute all’attenzione del pubblico da appassionati e competenti volontari. Di rilievo una Madonna col Bambino del Palmezzano, pittore e architetto forlivese operante nei primi decenni del 500, ed una cappella dedicata a Santa Elisabetta, regina d’Ungheria, decorata a tempera nel 1927 dal maestro litografo Giuseppe Ugonia, con gli stessi toni tenui e sognanti dei suoi numerosi paesaggi, oggi raccolti agli Uffizi. La cappella è definita da una splendida cancellata in ferro battuto, elegante e leggera e pure non estranea alla solennità del luogo. Sulla via del ritorno la vivacità della mattina ha lasciato spazio a commenti posati e lenti che ci scambiamo col vicino di posto, per ingannare la stanchezza che ci pesa addosso. È ormai buio quando, finalmente, arriviamo a Firenze.

controllo, venne potenziata dai Veneziani, i quali, allargata fino a questo estremo Sud la dominazione della Serenissima, provvidero nel breve periodo della loro signoria su queste terre a costruire la cinta di mura ed una seconda torre, che tuttavia non evitò loro di essere scacciati dalla potenza vincente del papato. Una strada percorre le colline che guardano Brisighella, unendo i due pinnacoli, e ci permette l’agevole trasferimento alla Rocca ai cui piedi resistono, salvate da una estrema rovina, alcune vecchie strutture per la lavorazione del gesso, che ci parlano di una neppure troppo vecchia economia ormai decaduta. Scendiamo di nuovo al paese dove ci aspetta un buon pranzo accanto al Parco della Rimembranza. Al centro del parco un singolare monumento ai caduti, il Fante che dorme, di Domenico Rambelli

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Bizzarria degli

oggetti di Cristina Pucci

Una collezione impressionante

Rossano, oltre ad avere una ricca collezione di bizzarrie, conosce ed è amico di una serie non solo di collezionisti dei più vari oggetti, dischi, libri, macchine fotografiche, ma anche di molti fini conoscitori di ceramiche, esperti di tappeti , di tappezzieri, restauratori ed artigiani del legno, del ferro e via e via. Pesco fra questi ed intervisto, in un Bar come si conviene ad un “personaggione”, Giovanni Magini, collezionista di antiquariato fotografico, macchine, reperti fotografici di vari natura, foto e libri. Dice “possiedo la seconda biblioteca fotografica della Toscana”, libri di Storia della fotografia e di foto, cataloghi, manuali, riviste, anche rare e vecchie, “oggi non ce ne sono più”. Coltissimo sul versante della sua passione, è una vera miniera di aneddoti e curiosità. Ha vissuto molto a lungo in America, si occupava di marketing e vendite di hardware, anni fa, ora è piuttosto agé direi. Nel 1984, mentre passeggiava in un “flea market”, versione americana del mercato delle pulci, dentro un enorme capannone, vide una bellissima fotocamera a soffietto, rossa con la base in mogano, ricoperta in cuoio, costava solo 7 dollari, niente cioè, e che gli fu letteralmente tirata dietro dal venditore, forse offeso dal suo averne chiesto il prezzo! Potete ammirarne la foto, si tratta della No.4 Folding Pocket Kodak, circa 1907, anche se il definirla ‘Pocket’ implica concepire un vestiario dotato di tasche grandi come bisacce. L’oggetto usava un rullone che produceva negativi 4x5, ovvero foto di 10x12,5 cm, quasi formato cartolina. Una fotocamera uguale a questa fu usata nel 1909 dall’esploratore Robert Peary per il primo reportage e i primi scatti al Polo Nord. Da lì a un mese ne aveva comprate una ventina. Prima di questo acquisto e della nascita del suo interesse per le fotocamere antiche Giovanni faceva foto così tanto per fare, da dilettante, per divertimento, ad esempio aveva immortalato lo sbarco sulla luna fotografandolo in

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television! In una Mostra Mercato di Antiquariato fotografico a Boston scoprì che esistevano due biglietti, uno caro per chi andava presto, i cosiddetti “early birds”, forse i più ricchi ed appassionati, che cercavano di accaparrarsi i pezzi migliori, più rari e magari più costosi e uno normale per tutti gli altri. In questa occasione incontrò un interessante personaggio, Lester Gediman, “engineer” ebreo americano di origine lituana, che aveva studiato e lavorato a Firenze, grande fotografo, ha da poco compiuto 91 anni, molti suoi scatti sono diventati cartoline. Lester era membro della Società Fotografica New England (PH.S.NE) frequentata dai più importanti collezionisti ed esperti del mondo, ve lo introdusse e lì fece altre importanti conoscenze. Ad un’asta in Massachussets, frequentata da ricchi tedeschi e giapponesi, c’era una ambitissima stereocamera di noce, costruita a Firenze da tal Alfredo Bianchi, semi ignoto ottico ed artigiano ebanista del 1890 circa, se la aggiudicò Jack Naymor, allora massimo collezionista mondiale. Ebbe modo di fare la sua conoscenza e fu da lui invitato nella sua villa. Aveva speso da poco circa 180.000 dollari per la climatizzazione della stanza dove era collocata la sua imponente, straordinaria e preziosa collezione. Quando se ne annoiò la vendette in blocco, per 9 milioni di dollari, alla Yokohama University.. Trenta e più anni dopo, in un mercatino nostrano Giovanni riuscì a fare sua e rendere funzionante una coeva e simile fotocamera, ve ne mostriamo la foto, in legno, costruita a Firenze verso il 1890 da Carlo Gallo, ottico artigiano, costruttore e riparatore di apparecchi fotografici, che aveva il suo laboratorio in via S.Egidio 25, all’incirca di fronte all’ingresso dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova. Questa meraviglia, totalmente realizzata in moga-


no, è storicamente importante per essere tra le prime al mondo dotate di otturatore regolabile a tendina, progettato e realizzato dal Gallo stesso. Strafelice di questa acquisizione e totalmente identificato con essa, si fece fotografare con una testa di gallo e la macchina in mano! Mi parla poi, come curiosità, della Autographic Kodak 3A, (in auge dal 1914 al 1934) e della sua caratteristica finestrella sul retro da cui, inserendo una apposita penna, fornita con l’apparecchio, si potevano scrivere data luogo o altre indicazioni riguardanti lo scatto appena eseguito, uno speciale tessuto era inserito fra la pellicola e la carta. Oggi ha più di 500 apparecchi, la macchina più “vecchia” è del 1880, la più nuova è degli anni ‘60. Nessuna è la preferita, molte di esse sono state da lui stesso accomodate e messe in grado di funzionare. Fra i suoi libri molti cataloghi di fotocamere e alcuni manuali di istruzione molto antichi. Uno è il “Manuale pratico di fotografia” Bizzarri, Firenze 1865, in cui si prospettano anche sali e preparati per lo sviluppo. Se trova rotolini li compra e li sviluppa, a volte in essi compaiono cose molto interessanti o curiose, ha dagherrotipi, stereofoto, sarebbero quelle che si vedono in rilievo, lastre in vetro, molte di ambiente fiorentino. In una di esse compare Piazza della Libertà, ingrandendola

si vede, attaccato ad uno dei palazzi della Fondiaria, un manifesto del Giro d’Italia, senza specificazione di numero, era il primo! In alcuni vecchi dagherrotipi appare un Fossombroni sul letto di morte , in un altro bambini della famiglia Granducale e Demidoff. Tiene tutte queste sue macchine in delle vetrine, in salotto, precisa che alcune non le vede da anni. Continua a fotografare e mantiene importanti contatti con colleghi del resto del mondo. Ha organizzato una dozzina di mercati di fotoantiquariato. Anni fa si è dedicato ad una simpatica ed originale ricerca, da cui ha tratto dei “libelli”: si è messo a spulciare i fumetti Disney cercando di scovare vignette in cui comparivano antiche fotocamere, ve ne mostro due, quella in cui c’è Nonna Papera con un visore stereoscopico e quella in cui, sempre Nonna Papera, mostra ai nipoti il Presidente Roosevelt in campagna elettorale con tuba e redingote, Giovanni possiede una vera foto di questo periodo con Roosevelt che saluta. Concludo con la descrizione che lui stesso fornisce di due degli apparecchi di cui mi ha inviato le foto da pubblicare, originali e di inusuale ed antica bellezza. Quelle col musetto multicolore (2 formati, 5 combinazioni di colori) sono le Beau Brownies della Kodak Rochester, U.S.A., circa 1930, tecnicamente nulla di che, scatolette di lamiera che fanno clic, ma straordinarie creazioni Art Deco di Walter Dorwin Teague, un grande del design industriale. Quella nera con i tre occhi, i due ai lati sono quelli di ripresa, quello al centro è il mirino, è una Rolleidoscop tedesca, circa 1930, fotocamera stereoscopica di grande qualità, antenata delle Rolleiflex: produceva immagini che, viste in opportuno visore, danno la sensazione del rilievo e della tridimensionalità, come quella generata dalla visione binoculare.

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di Simonetta Zanuccoli

Libro d’artista 2017 Un evento a Firenze assolutamente da non perdere per la sua unicità. Si svolge dal 20 al 27 maggio nella prestigiosa Gipsoteca del Liceo Artistico di Porta Romana, luogo affascinante e bellissimo, un tempo scuderie reali di Palazzo Pitti, oggi sede della più interessante raccolta di modelli in gesso della scultura antica e rinascimentale in Italia. All’ombra di queste queste enormi bianche sculture sarà allestita la mostra Libro d’Artista 2017 alla quale parteciperanno artisti italiani e provenienti da altre parti del mondo come Stati Uniti, Canada, Mongolia, Francia e Germania con più di cento opere. L’occasione è preziosa perchè in Italia le mostre dedicate a questa forma d’arte, contrariamente a quello che accade in altre parti d’Europa e in America, sono piuttosto rare. Il Libro d’Artista nasce con il movimento Futurista e Dadaista e trova la sua diffusione negli anni 60 nei quali molti artisti, nell’esigenza di sperimentare nuove pratiche espressive in formati più flessibili e mutevoli dei rigidi confini della tela, cominciano ad interessarsi a questo particolare tipo di creazione che ha la potenza comunicativa del libro ma che, per le sue caratteristiche intrinseche, la rende unica nella grande famiglia dell’arte. L’oggetto-libro, spesso molto lontano dal mondo seriale della stampa, è seguito direttamente dall’artista in ogni sua fase in un’infinita tipologia di tecniche, materiali e forme, la scelta delle quali diventa il suo peculiare messaggio. In ognuno di essi c’è la ricerca personale, intellettuale e manuale, di una strategia espressiva che spesso sconfina tra l’arte e la dimensione fantastica dei linguaggi senza parole. Il senso del libro viene trasfigurato con assoluta libertà in una nuova vita non più o non solo fatta di pagine e scrittura ma anche di materia, forme, colori, immagini, segni..Le piccole storie che vi vengono narrate offrono così, attraverso mille modalità non codificate, nuovi piaceri e svelano il mondo poetico di chi le ha costruite. La mostra alla Gipsoteca parte da un’avventura iniziata nel 2004 quando gli Artisti Internazionali dell’Associazione Giambo di Firenze organizzarono una piccola mostra

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sul libro d’artista. Il successo oltrepassò i confini cittadini e tra i tanti plausi vi fu anche l’invito del sindaco del comune di Pontremoli, città del libro per eccellezza per il Premio Bancarella, di esporre le opere nella bellissima cornice del Castello del Piagnaro. Da allora la mostra si è ripetuta annualmente a Pontremoli diventanto un evento artistico internazionale con una partecipazione sempre più numerosa di artisti. Quest’anno si terrà un anteprima alla Gipsoteca di Firenze per poi trasferirsi dal 8 al 16 luglio a Pontremoli nelle suggestive Stanze del Teatro delle Rose. All’inaugurazione del 20 maggio, sotto il portico d’ingresso, le pagine di un grande libro di 2 metri x 2 in acetato, sulle quali interverranno ognuno alla loro maniera molti degli artisti presenti, accoglierà i visitatori.

Foto di

Pasquale Comegna

Il sole basso all’orizzonte


La libertà di essere giornalista di Barbara Palla Tra il 5 e l’8 maggio, la città di Prato è stata al centro del Mediterraneo. Vi si è, infatti, tenuta la prima edizione del Festival Mediterraneo Downtown organizzato da COSPE, Libera contro le Mafie, Amnesty International – Italia, Comune di Prato e Regione Toscana. Il Mediterraneo Downtown si propone di essere un evento annuale capace di coinvolgere tutta la città e tutti i cittadini, esperti e curiosi, riprendendo il format di altre manifestazioni cittadine come il SabirFest di Messina(tra l’altro partner del Mediterraneo Downtown), il FestivaLetteratura a Mantova o il Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia. La scelta di Prato è molto significativa: dista cinquanta chilometri dalla costa ma è la città portuale per eccellenza in quanto ospita comunità straniere di centotrenta nazionalità diverse, una proporzione che equivale a città come Londra e Parigi. Un luogo perfetto, quindi, per discutere di tutto ciò che ruota non solo intorno alla migrazione, allo spostamento, al viaggio, ma soprattutto di ciò che succede negli altri Paesi costieri. Il racconto del Mediterraneo è declinato in diverse maniere: dalle mostre fotografiche della rotta balcanica e dei salvataggi in mare della nave Aquarius (SOS Méditerranée), alle rappresentazioni teatrali passando per documentari e cortometraggi fino ad arrivare alle più classiche e più serie conferenze. I temi di queste ultime riguardavano tra gli altri anche la protezione dei diritti LGBTI, delle minoranze e delle donne, oltre alle questioni legate alla libertà di espressione e di stampa. Proprio a questo proposito, l’ospite d’onore del Festival e destinatario del Premio “Mediterraneo di Pace” è stato Can Dündar, l’ex caporedattore del principale giornale di opposizione turco Cumhuriyet imprigionato e esiliato dal governo di Recep Tayyip Erdogan. Nel 2015, Can Dündar, allora ancora caporedattore a Istanbul, e Edem Gul, capo della sezione di Ankara, pubblicarono un articolo, risultato di circa un anno di indagini, circa un possibile scambio di armi tra la polizia segreta turca ai combattenti dello Stato Islamico presenti nel nord della Siria. L’evento scatenante avvenne nel dicembre del 2014, quando la polizia siriana fermò sul confine un camion, che si scoprì poi appartenere ai

servizi segreti turchi, contenente ciò che in apparenza sembrava essere un carico di aiuti umanitari ma che poi si rivelò essere un carico di armi. La tensione tra i due Paesi fu molto elevata per un periodo, tuttavia, grazie al pugno di ferro stretto intorno alla stampa turca, Erdogan riuscì a insabbiare la notizia. Quando però fu pubblicata su Cumhuriyet corredata di video e fotografie, egli non poté più ignorare la questione e decise di agire contro il giornale per silenziare i giornalisti. Erdogan li accusò di aver acquisito illegalmente dei segreti di Stato e di essersi resi rei di spionaggio nel renderli pubblici. Il 6 maggio 2016, giorno della sentenza al Tribunale di Istanbul, in un momento di pausa in cui Dündar e Gul si erano allontanati per bere un caffè, un uomo armato gli si avvicinò gridando al tradimento contro Dündar rimasto privo di scorta. Solo un’ora dopo Dündar fu condannato a dieci anni di reclusione e incarcerato. Oggi, vive in esilio in Germania in attesa dell’appello, ma è riuscito nonostante le difficoltà logistiche a raggiungere Prato per raccontare la sua storia, tanto più importan-

te a fronte del radicale cambio avvenuto in Turchia nell’ultimo anno. Proprio per questa ragione il Festival ha deciso di ricompensarlo con il Premio, un ringraziamento per il coraggio dimostrato nel raccontare storie che altrimenti sarebbero andate perdute. Nel discorso di ringraziamento, Dündar lo dedica ai centocinquanta giornalisti imprigionati dallo Stato turco, per ricordargli che nonostante la privazione della libertà non sono soli e non sono stati abbandonati. La sua conferenza “Le sfide del giornalismo nel Mediterraneo” cade proprio nel giorno della prima ricorrenza dell’attentato al quale è sopravvissuto. Il suo intervento inizia proprio nel ricordo di quel giorno in cui sua moglie Dilek lo ha salvato neutralizzando l’attentatore armato. Dalla sua partenza per la Germania non è ancora riuscito a rivederla, dato che le sono stati ritirati, senza giustificazione, i documenti validi per l’espatrio. “Non ha nessuna colpa, se non quella di essere mia moglie”. Il mestiere di giornalista, come riconosce lo stesso Dündar, è diventato in generale un risky business ma lo è ancora di più in Turchia. La saldatura tra governo e potenze economiche fa sì che i quotidiani subiscano enormi pressioni, spesso le agenzie pubblicitarie rescindono i contratti. Sono pressioni talmente forti che le testate sono costrette a chiudere. La morsa si è ulteriormente stretta, soprattutto a livello politico, dopo il fallito colpo di Stato nel giugno del 2016, alcune redazioni sono state decimate dalle accuse di terrorismo. I giornalisti sono costretti ad autocenusrarsi per mantenere il proprio lavoro, in alternativa devono affrontare il licenziamento o addirittura l’incarcerazione. In queste circostanze, la libera informazione è sempre più difficile, quasi impossibile. A fronte di questo tentativo di silenziare la stampa, Can Dündar spiega di aver intrapreso una collaborazione con un gruppo di giornalisti francesi per raccontare le storie di coloro che sono ancora detenuti in Turchia. Un lavoro molto difficile che serve, però, a dimostrare a Erdogan che per ogni giornalista silenziato, almeno un’altra decina è pronta a rilevare la sfida e raccontare le stesse storie. Una volontà molto importante, così come la presenza di Dündar a Prato, per ricordare di tenere alta l’attenzione e di non abbandonare, o dimenticare, le vittime di un regime che si è ormai consolidato alle porte dell’Europa.

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Spiriti di

materia

di Paolo Marini Paolo Marini, nato a Siena il 27 febbraio 1965, è avvocato, pubblicista, autore di articoli e svariate pubblicazioni, professionali e non. Tra i libri, un pamphlet (“Dal patto al conflitto” Una critica della concertazione, 1999) e due raccolte di poesie (“Pomi acerbi”, 1997 / “All’Oro”, 2011).

Manifesto elettorale L’Italia si sta affrettando a destra.

Se non si sta attenti si rischia di trovarsi addosso il grosso della mischia.

Non è questo il trionfo che ho sognato,

ebbro di conformismo e incultura. E ora, se mi dirigo qua non dite che mi sono collocato al centro. Sto soltanto cercando di star lontano dalle effimere sprezzanti sicurezze del potere e del dominio. L’equidistanza da tutte le feste dal luna park universale. Non ha scadenza elettorale

ciò che preservo l’altro che vado cercando.

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disegno di Aldo Frangioni

Il negozio del Paradiso Di Valentino Moradei Gabbrielli Confrontando con Teodoro le nostre opinioni sul nuovo Museo dell’Opera del Duomo di Firenze frutto di visite fatte individualmente, Teodoro, mi partecipava fra le altre sue osservazioni perplessità sulla proposta eccessivamente spettacolare delle due (in futuro tre) porte del Battistero collocate adesso all’interno del museo. Visitando nuovamente il museo con Renato, mi sono proposto di rivalutare le considerazioni di Teodoro ed ho scattato alcune fotografie affinché supportassero meglio le mie considerazioni. La proposta architettonica, esalta molto le due porte: del Paradiso e Nord, facendole emergere dal buio e contenendole in importanti se pur minimaliste cornici in vetro nero, spettacolarizzandole e creando un’atmosfera da preziosissima teca dove un grande oggetto per dimensioni, è presentato come un articolo da boutique. Questa sensazione si fa più articolata quando allontanandoci, osserviamo le persone che guardano all’oggetto esposto quasi come in una vetrina commerciale si può guardare a una borsa, un vestito, un paio di scarpe. Ho manifestato la mia sensazione a Renato che visitava con me il museo dicendogli che il modo con il quale si presentavano le tre porte, mi ricordava le vetrine dei negozi Prada. Renato, mi correggeva affermando che lo stile è di Versace. Cogliendo la prospettiva delle tre porte, l’effetto “Via della moda”, si faceva ancora più prepotente e convincente, con le persone che in un senso e nell’altro percorrono il “Paradiso” come un’importante e lussuosa arteria commerciale.


di Annamaria M.Piccinini Confrontarsi è sempre utile, specie quando il confronto è anche facile, fra realtà che dovrebbero essere abbastanza simili, ma invece sono molto distanti. Nel sud ovest della Francia, esattamente nella Gironde, si possono fare esperienze molto interessanti a proposito della manutenzione di parchi e giardini pubblici. Nel comune di Blanquefort, a una ventina di km dal capoluogo Bordeaux, un grande parco, il “Parc de Majolan”(19 ettari), realizzato a fine Ottocento dal ricco banchiere bordolese Piganeau e poi, dopo varie vicende e abbandoni, rientrato in possesso del Comune che l’ha riaperto al pubblico nell’84 e successivamente è intervenuto con un lungo e importante restauro terminato nel 2007/8, investendovi 3 milioni di euro. Grazie all’opera di architetti e paesaggisti lungimiranti, il restauro ha mantenuto un dialogo fra ciò che apparentemente sembrava da rottamare e un gusto fantasioso della scultura da giardini con risultati anche di ottima praticità. Ad esempio: una vecchia staccionata in legno di gusto romantico, a imitazione di tronchi d’albero, non più resistente, è stata intrecciata artisticamente con “nastri di ferro “ fino a dar luogo ad una spalliera e, volendo, ad una, panchina. Alcuni divieti di accesso a grotte e rovine artificiali decorative, ma piuttosto pericolose, si sono trasformati in sbarramenti di forme astratte, vere e proprie sculture. Le grotte, che si ergono a specchio sul lago del parco (4 ettari di superficie acquatica, con profondità di 2\3 metri ), sono state messe in sicurezza e sono visitabili accedendo dalla riva per sentieri e ponticelli quasi di gusto liberty. Il parco è meta di passeggiate e pic-nic in luoghi consentiti. Il custode del parco abita stabilmente con la famiglia in un piacevole edificio all’ingresso (chiuso la notte) col permesso di vendere bibite, guide e documentazione del parco stesso. Ma se questo è il caso di un’ area verde, vasta e importante, ai margini della città, anche nell’elegante “Jardin Public” all’interno di Bordeaux abbiamo altri esempi interessanti di attenta manutenzione che comprende anche il “riuso” arboreo a fini artistici. Il grande giardino, di fondazione settecentesca, articolato secondo i principi del giardino alla francese, cioè con grandi allées (viali) dalle prospettive che conducono a due ter-

Les jardins de Bordeaux

razze porticate di gusto neoclassico, adibite a serre, è stato nei secoli destinato e abbellito per usi diversi, ma comunque sempre arricchito di alberi anche rari, laghetti, piccole isole e cascate. Si sono piantati alberi esotici come il “vanillier”(che ha rifornito la pasticceria locale, e non solo, per decenni) e alcuni cedri del Libano fra cui, l’ultimo sopravvissuto, è diventato, appunto, una scultura. Piantato nella seconda metà del XIX sec. aveva raggiunto l’altezza di 18 metri, ma, aggredito da funghi xilofagi, avrebbe dovuto essere abbattuto qualche anno fa. Senonché,

a questo punto, si fa avanti José Le Piez, in origine potatore di alberi, divenuto, poco a poco, scultore: “che ama interrogare la memoria degli alberi”. Egli ha operato, senza violare la struttura del cedro centenario, modellando i rami originari in forme diverse e astratte. Ha poi creato una vera installazione intorno alla base dell’albero, con i rami tagliati, rilavorati, disposti in un cerchio, al centro del quale l’artista ha voluto creare una zona di rigenerazione biologica, una specie di habitat naturale, dando al suo lavoro anche un fine ecologico.

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di Angela Rosi Il mondo in viaggio viene a trovarci, alle volte senza preavviso, ci coglie alla sprovvista e ci fa molto male. Ultimamente il mondo in viaggio muore, muore per le strade, negli aeroporti, nei metrò, muore nei luoghi di culto e di cultura, nei locali dove si va a passare una serata con gli amici e muore ascoltando musica, muore nei parchi delle grandi città. Il mondo in viaggio muore anche passeggiando per strada guardando negozi o andando a vedere i fuochi d’artificio, ma è così…oramai ci stiamo abituando a questa morte che arriva improvvisa e non per malattia ma perché qualcuno mio simile mi uccide. Il mondo in viaggio muore perché c’è chi vende il Paradiso, non sa che esso può essere anche in terra se solo ci guardassimo intorno con maggiore umiltà e rispetto per la Vita. Lo splendore del sole, l’azzurro del cielo e del mare, la natura grida Dio, Amore ed è Paradiso. Il mondo in viaggio è diventato crudele, brutto, pauroso ma oramai ci siamo abituati. Siamo abituati a sentire notizie di stragi, guerre, morti, abbiamo fatto l’abitudine ad un’umanità che urla guerra, lancia bombe e ammazza bambini. Ormai siamo abituati a tutte le stragi, politiche, religiose, mafiose e a quelle di mare. Sembra che ci sia la speranza di una vita migliore e per questo c’è chi si esplode e uccide e chi, vittima, muore in mare. Fa male tutto questo, fa male pensare a un futuro pieno di odio e intolleranza, fa male pensare a non poter più avere libertà di pensiero e di movimento. Fa male pensare che l’apertura delle frontiere e la caduta dei muri ha portato a questo, a dittature ed estremismi. Fa male vedere una giovane e talentuosa fotografa e video artist franco- marocchina, Leila Alaoui, uccisa lo scorso anno nell’attentato terroristico a Ouagadougou, dove stava lavorando su un progetto fotografico con Amnesty International. Uccisa solo perché non portava il velo ma solo i suoi bellissimi capelli e il volto scoperto. La Galleria Continua di San Gimignano ha ospitato la sua personale postuma “Je te pardonne”. Il testo: “Je te pardonne” scritto dalla sorella Yasmine ha aperto la mostra, essa immagina quello che Leila avrebbe potuto dire al suo assassino: “Vorrei dire a te, a te che mi hai uccisa: ti perdono, perché tu non ti rendi conto della gravità del tuo crimine. Tu non hai alcuna idea dei danni mostruosi che hai causato, delle tante esistenze che hai devastato, degli abissi

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di dolore scavati all’infinito. Ti perdono perché tu sei vittima quanto me. E forse ancora di più perché, contrariamente a te, io sapevo esattamente dove mettevo piedi, conoscevo i rischi a cui andavo incontro, ma tra gli appassionati della mie specie ci si convince sempre che ci riuscirà ancora una volta a passare fra le maglie delle sfortuna. Questa volta non è andata così”. La mostra ha presentato un insieme di scatti fotografici dell’artista realizzati in diversi paesi del mondo: “Les marocains” realizzato in giro per il Marocco, “Crossing” sui migranti illegali, “No Pasara” sui Harraga” (i migranti clandestini magrebini) e “Natreen” sull’attesa dei palestinesi nei campi profughi in Libano. Le foto sono bellissime non solo per este-

Il mondo in viaggio

tica e tecnica ma per la dignità che le persone ritratte trasmettono anche se intorno a loro ci sono solo miseria e desolazione. Alaoui con la sua fotografia ha denunciato, raccontato storie e intrecciato relazioni, ha cercato di cambiare la realtà dando un significato a tutte le vite anche a quelle più umili, perché il valore della Vita è immenso e va rispettato. Lei l’ha fatto ma “Era la mia ora, venuta un po’ troppo presto, perché non avevo finito ancora il mio lavoro. Avevo altre battaglie da combattere, dei paraocchi da strappare, delle coscienze da perturbare” così Yasmine fa dire alla sorella. Leila Alaoui era una raccoglitrice instancabile di storie e di umanità, una sensibilità che la sorella Yasmine esprime anche nei confronti dell’assassino: “Tu che mi hai ucciso, avrei voluto conoscere il tuo nome, la tua storia.” Il mondo in viaggio ha ucciso anche Leila.


di Roberto Giacinti Presentato, il 27 aprile 2017, a cura della Regione Toscana, il primo rapporto sul Terzo Settore toscano “Verso un nuovo modello di welfare” che accoglie una analisi di: Cooperative Sociali, Organizzazioni di Volontariato e delle Associazioni di Promozione Sociale che svolgono attività in Toscana. La ricerca effettuata dall’Osservatorio Sociale in collaborazione con Anci, Cesvot, Copas e le tre Università toscane, ricostruisce le caratteristiche, gli orientamenti e le potenzialità dei soggetti delle economie solidali presenti in Toscana evidenziandone le evoluzioni e le criticità, e come è variata la cooperazione e l’integrazione tra pubblico e Terzo Settore. In Toscana i dati al 31 dicembre 2016 tratti dall’Albo Regionale dimostrano il rilievo del Settore. Volontariato: le organizzazioni erano 3.361, il 52% dell’intero Terzo Settore: il 32% nel sanitario, il 33% nel sociale, il 10% nel culturale, il 7% nel sociosanitario. Cooperazione sociale: le cooperative sociali erano 581 di cui il 50% di tipo “A”, il 40% di tipo “B”, il 10% Consorzi e miste. Promozione Sociale: le associazioni erano 2.497 di cui il 43% si occupano di cultura ed educazione, il 22% di sport e ricreazione, il 21% di sociale, ecc. In questo ambito troviamo le società sportive, i soggetti che si occupano di educazione e promozione culturale e quelli che si occupano di attività ricreative e di socializzazione. L’ultima rilevazione ISTAT sul no profit in Toscana (2011) che censisce una quantità di soggetti più ampia di quelli presenti nell’Albo regionale, segnala in Toscana una presenza tra le più alte in Italia (65 ogni 10.000 abitanti a fronte del 50 nazionale). Queste organizzazioni sono diventate indispensabili non soltanto per i servizi che forniscono, ma anche per i valori che riescono a produrre contribuendo alla coesione sociale ed al benessere delle collettività grazie alla produzione di beni e servizi a valenza pubblica o collettiva. Le istituzioni pubbliche collaborano in modo propositivo attraverso una collaborazione feconda con l’utilizzo di strumenti e percorsi anche innovativi che restituiscano dignità alle persone. La crescente complessità della dimensione sociale e le sempre più numerose interconnessioni tra le varie sfere che la compongono, dal lavoro alla famiglia, dalla previdenza alla cura della salute, aprono nuovi spazi di

Il rapporto 2016 sul volontariato e la cooperazione sociale in Toscana

tutela nei quali nuovi attori possono operare con strumenti e modalità innovative in risposta alle nuove esigenze emergenti. Restano ancora rilevanti le sfide da superare per fornire coperture a una domanda di welfare quanto mai dinamica e che con

sempre maggiore consapevolezza può essere soddisfatta da una platea composita di soggetti. Ora i dati preliminari dell’Istat attestano una presenza rilevante di volontari anche in settori strategici quali la sanità, l’istruzione e la ricerca per cui occorre curare maggiormente l’apprendimento con adeguata formazione che deve essere obbligatoria ed attestata poiché il volontario oltre a sviluppare le pratiche operative (“il saper fare”), deve essere competente ed esperto, al pari di un professionista. Altro fronte caldo è quello della non autosufficienza, causato dall’invecchiamento della popolazione, verso il quale si registrano le maggiori criticità ed il Rapporto evidenzia alcune buone pratiche messe in atto in Toscana attraverso una rilevante cooperazione e integrazione tra pubblico e Terzo Settore.

Della Bella gente Sciovinismo

25 13 MAGGIO 2017



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