Numero
27 maggio 2017
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
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American Gothic
nella versione recentemente acquisita dai Musei Vaticani
Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Siamo ancora nella zona dei “Projects” e queste due donne, madre e figlia di origine portoricana, stanno sedute su una panchina nell’insopportabile calura umida dell’estate della Grande Mela. Erano rispettivamente madre e nonna di una mia cara amica. Due donne molto dolci e gentili, come la maggior parte degli altri amici e parenti che ho conosciuto frequentando questa simpatica famiglia.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
27 maggio 2017
Dario, il trasformista Le Sorelle Marx
Tutti francescani con il lupo degli altri I Cugini Engels
Waiting for Obama Lo Zio di Trotzky
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Riunione di famiglia
In questo numero Fortini il chiaro e l’oscuro di Severino Saccardi
ZonaFranca, cultura da indossare di Monica Innocenti
Fortunata di nome, ma non di fatto di Mariangela Arnavas
Ritrovare Pasolini di Gabriella Fiori
Ciao Cate di Carlo Cuppini
Ceramiche Déco a Faenza di Cristina Pucci
Materia viva di Alessandro Michelucci
Cannes mon amour di Simonetta Zanuccoli
Berkeley il teatro della rivolta di Danilo Cecchi
Dimore divine di Ines Romitti
Storia del by-pass del Galluzzo - 6 di John Stammer
e Laura Monaldi, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Gianni Biagi, Roberto Barzanti, Roberto Mosi, Romolo Perrotta...
premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Direttore Simone Siliani
L’anice stellato, il racconto vincitore è a pagina 17 Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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di Severino Saccardi «È molto triste il destino dell’orso / Tutti gli tirano ghiande sul dorso / lui morde l’aria con mezzo morso / Quattro zampe un lungo percorso / Quattro pensieri un lungo discorso»: non sono versi di uno scrittore per l’infanzia, ma, curiosamente, di un autore importante e “impegnato”, quanto versatile, come Franco Fortini (Piccolo zoo, in Poesie inedite, ed. Einaudi, Torino 1997). È un profilo complesso da definire quello del poliedrico Franco Fortini (in realtà, Franco Lattes; il cognome Fortini è ripreso dalla madre). Poeta, scrittore, saggista, polemista politico e letterario, il grande intellettuale scomparve nel 1994, a causa di una grave malattia, segnata da non poca sofferenza, di cui poeticamente è frutto il piccolo, coraggioso e commovente libro di versi significativamente intitolato Composita solvantur («Si dissolva ciò che è composto»), pubblicato da Einaudi proprio nell’ultimo anno della sua intensa vita. Era nato, Franco, nell’«anno spartiacque» 1917, quello della rivoluzione sovietica e dell’inizio del «secolo americano». Vero avvio del «secolo breve», secondo una certa lettura della storia. Quasi un segno del destino. Quel secolo di passioni civili Fortini l’avrebbe respirato fino in fondo con veemenza e con un forte coinvolgimento ideale. Era un letterato fine, colto ed erudito, ma certo l’isolamento nella torre d’avorio non faceva per lui. Chi volesse farsi un’idea del suo profilo (non semplice da delineare: era, infatti, definito talora «Fortini, l’oscuro», notazione tutt’altro che da intendere come demerito) dovrebbe forse ripescare in qualche biblioteca il bellissimo libro-intervista realizzato dall’allora giovane ricercatore Paolo Jachia (P. Jachia- F. Fortini, Fortini- leggere e scrivere, Marco Nardi editore, Città di Castello 1993). C’è tutto: ricostruzione biografica, rapporto fra studio e vita, dialettica fra memoria e avvenire, impegno sociale, «questione religiosa» in molte sue declinazioni (dal protestantesimo di Barth alla visione filosofica del cattolico Augusto Del Noce) e poi il dialogo intimo e intellettuale con tanti autori: Gramsci, Sartre, Lukács, Goldmann, Adorno, Benjamin, Bloch, Koestler, Silone, Merleau-Ponty. Perché questo era anzitutto Franco Fortini, in un modo e con uno stile che alle generazioni a noi più vicine sono difficili anche solo da immaginare: un intellettuale con una spaventosa capacità di lavoro, con una grande voracità nel leggere
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Fortini il echiaro l’oscuro e una invidiabile capacità produttiva e profondità nello scrivere. Una cultura vissuta con divorante partecipazione e al di fuori di ogni separatezza. La cultura, secondo concezioni come quella di Fortini, o fa tutt’uno con la vita o non è. Va messa a disposizione degli altri. Ma senza facilonerie, senza far sconti ed in modo serio e rigoroso. Fortini, che passa anche per l’esperienza dell’Oli-
vetti, attribuirà sempre un grande rilievo al tema della formazione. Ne conosceva, del resto, l’importanza: per alcuni anni, aveva fatto anche l’insegnante di scuola media superiore. Uno dei suoi molti ruoli: da giornalista e commentatore di vaglia (e collaboratore di riviste il cui solo nome rappresenta una sorta di contrassegno di un’epoca, come i «Quaderni Piacentini») a scrittore e poeta,
a docente (stimato) dell’Università di Siena (dove ora il Centro Studi «Franco Fortini» ne coltiva intelligentemente la memoria). Il sapere, in ogni caso, senza perdere nulla della propria complessità, va trasmesso, condiviso, passato ad altri. Senza disprezzare anche gli strumenti della divulgazione «alta» e di buona qualità. È con questo spirito che, nell’«anno della contestazione», Franco Fortini pubblica l’interessantissimo Ventiquattro voci per un dizionario di lettere (Il Saggiatore, Milano 1968). Spigolando, fra le «voci» troviamo: Antichi e moderni, Articolo, Assoluto, autobiografia, Baudelaire, Bouvard e Pecuchet, Cardarelli, Cronaca, Decadentismo, Dialogo, Eluard…Molti sono i motivi per cui si poteva voler bene all’intrattabile Franco Fortini (famoso per il carattere pessimo, tendente alla litigiosità). Se posso fare un riferimento personale, la scintilla da cui rimasi folgorato di stima e di ammirazione per questo atipico, controverso, e geniale scrittore la trovai in un articolo del quotidiano «il Manifesto». Si intitolava Mezzo litro dopo sussurri e grida. L’articolo era, se non vado errato, del 1972 (il testo è comunque reperibile in: F. Fortini, Non solo oggi, a cura P. Jachia, una raccolta pubblicata dagli Editori Riuniti nel 1991); Sussurri e grida era un film del grande Ingmar Bergman, da cui Fortini prende spunto per parlare di temi esistenziali (come il dolore, la malattia e la morte) quasi innominabili, in tempi ancora dominati da una visione ideologica che, interpretando dogmaticamente il marxismo, anteponeva il «collettivo» e marginalizzava il «personale», accusando di «cedimenti idealistici, mistici e irrazionalisti, chiunque osasse guardare» oltre il «limite oscuro» dell’esistenza umana. Per l’immanentista Fortini, la risposta alle angosce derivante per l’uomo dal «limite oscuro» della vita non può essere di carattere religioso; ma rispetto al tema religioso, egli (nato personalmente da padre ebreo non praticante e da madre cattolica, anch’essa non praticante, convertitosi al cristianesimo di confessione valdese, cui aderirà per un periodo, per approdare, poi, per la vita a posizioni marxiste) denuncerà sempre la limitatezza dell’interpretazione fornitane dalle visioni scientistiche e grezzamente materialistiche. Mostrerà sempre un grande interesse per personalità e percorsi segnati dal fuoco della fede. Come quelli di don Milani e della grande Simone Weil (entrambi, peraltro, come lui, di origine ebraica). Per quest’ul-
tima (che in Italia fu iniziata a conoscere soprattutto per merito di Adriano Olivetti), Fortini nutriva un «sentimento doppio di ammirazione grandissima e di resistenza» (Fortini- leggere e scrivere, cit.). Qualcosa di un radicalismo à la Weil doveva pur essere politicamente connaturato all’indole dell’inquieto scrittore. Di provenienza socialista, ma non riformista, approdato poi ad una sorta di comunismo eretico, del tutto non togliattiano e marcatamente antistalinista. Inequivoco nel denunciare le degenerazioni del «socialismo reale» di marca sovietica. Come nella bellissima Lettera a una rivista sovietica (F. Fortini, Dieci inverni, Feltrinelli, Milano 1957). Di Fortini, dico la verità, nell’ultimo arco della sua vita, era difficile accogliere le posizioni via via più intransigenti che nascevano dal timore che, di fronte al cambiamento di paradigma che eventi come il crollo del Muro imponevano, prevalesse la tendenza rinunciataria all’omologazione alla logica dell’esistente. Si manifestava allora, in lui come in altri, una reazione istintiva di arroccamento e di chiusura. Ma sono posizioni che pure avevano un robusto nocciolo di «verità interna», a cui veniva comunque, anche nel disaccordo, da guardare con rispetto. Permaneva, fin negli ultimi giorni, in Fortini la curiosità e l’interesse per il mondo e insieme si manifestava il senso di impotenza di fronte agli eventi sconvolgenti che vi si manifestavano. Come viene evidenziato nelle Sette canzonette del Golfo (in Composita solvantur), particolarmente in questi versi di Lontano lontano: “Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare. / E se anche potessi, o genti indifese, / ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese! / Potrei sotto il capo dei corpi riversi / porre un mio fitto volume di versi? / Non credo. Cessiamo la mesta ironia. / Mettiamo la maglia, che il sole va via.”. Chi era dunque Franco Fortini? Forse il tratto distintivo (e l’elemento unificante del suo multiforme talento e impegno) lo si trova nell’azzeccato titolo di una sua raccolta di scritti: Questioni di frontiera (Einaudi, Torino 1977). Era un uomo «di frontiera», Franco Fortini e, anzi la sua nota caratteristica stava proprio nel muoversi su più terreni e più dimensioni «di frontiera». Ha un grande significato ricordarne la lezione in un tempo in cui, non solo in senso materiale, ma anche a livello mentale e culturale, tendono a rinascere barriere e muri alti come e più di quelli contro cui egli si era battuto per tutta una vita.
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Le Sorelle Marx
Dario, il trasformista
No, non sarà ricordato con l’eponimo di Dario il Grande il nostro sindaco di Firenze Nardella, piuttosto con quello del Trasformista. Per sua stessa ammissione. In occasione dei mille giorni del suo regno, ha inondato le caselle di posta elettronica della città con la sua newsletter nella quale ci annuncia di voler “condividere con voi i piccoli passi avanti fatti insieme, perché Firenze sta vivendo la più grande trasformazione degli ultimi 150 anni”. A parte il gusto infelice per la contraddizione in termini (piccoli passi – grande trasformazione, nemmeno fosse l’allunaggio di Armstrong nel 1969), Dario potrebbe forse farsi dare una consulenza dall’enciclopedico Giani circa i fatti e fatterelli che sono avvenuti a Firenze, anche in termini di trasformazioni urbanistiche, negli ultimi 150 anni e ne avrebbe giovamento quanto meno il suo stile comunicativo (ma sarebbe uno scontro fra titani!). Ma Dario, come il musiliano Uomo
I Cugini Engels
Tutti francescani con il lupo degli altri
Francesco e francescanesimo sono diventati ormai due must della politica italiana. Essere francescani è diventato cool, fa figo e, presumibilmente, voti. Fa impressione che questa filosofia di vita, questo modello morale faccia presa su persone apparentemente così diverse dal frate di Assisi. Ora, dovessimo pensare ad un emulo di Francesco il nostro pensiero non andrebbe certamente a Silvio Berlusconi, eppure lo avete visto tutti, dolce e mansueto, allattare agnellini, crogiolarsi fra i cani e fondare partiti animalisti. Manca solo che parli con gli uccelli e addomestichi il lupo Salvini e il gioco sarà fatto. Poi Beppe Grillo, sì quelle del Vaffa Day, delle contumelie contro la casta e tutti quelli che c’erano prima, della politica urlata a squarciagola. Durante la personale marcia Perugia-Assisi, Beppe tutto
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senza qualità (“- E che cos’è? - chiese Clarisse sorridendo. - Niente. Niente, per l’appunto! - rispose Walter”), ha concepito questa sua grande Azione Patriottica o Azione Parallela che nessuno (tanto meno lui) sa veramente in cosa consista. Certamente tenta di trasformare le più grandi ovvietà in fatti straordinari: la sua newsletter ci informa che ha “parlato davanti a tutto il consiglio comunale” (ma pensa te che cosa inusuale, un sindaco che parla davanti al consiglio comunale!), “ho spiegato le mie ragioni ed ho ascoltato le motivazioni di tutte le opposizioni” (altro fatto straordinario! Caso mai avrà ascoltato anche la maggioranza, qualora avesse avuto qualcosa da dire?), ma “sia chiaro, non ho fatto la lista della spesa”. Ma nella newsletter sì e da questa si capisce che la Grande Trasformazione è fatta parimenti di rastrelliere e tramvie, di “guerra alle buche” (questo è il leit motiv nardelliano: guerra a tutti, dal compro
oro ai minimarket, senza mai combatterne una!) al rifacimento dei marciapiedi. La raccolta differenziata dei rifiuti al 60%: straordinario risultato, davvero. Peccato le la legge indichi l’obiettivo minimo del 65% e che quindi Firenze non rientri neppure nella classifica dei Comuni Ricicloni fatta ogni anno da Legambiente che vede diversi Comuni arrivare oltre il 90%. E poi ci sono i giovani e la cultura. E cosa ti cita Dario il Trasformista? Oltre all’Estate Fiorentina (che si fa da quasi 20 anni), la riapertura del Teatro della Compagnia (che è stata realizzata con finanziamenti della Regione, che ne è proprietaria ed è gestito da Fondazione Sistema Toscana), del Teatro Niccolini (che è proprietà di un privato, che ha pagato interamente la ristrutturazione) e del Museo degli Innocenti (altra opera di diversi soggetti, meno che del Comune). Sono i miracoli della Grande Azione Parallela di Nardella, di cui possiamo dire ciò che Musil diceva descrivendo la situazione di Cacania: “Nessuna sapeva bene che cosa stesse nascendo... Perciò ognuno ne diceva quel che voleva”, a partire dal suo sindaco.
di giallo vestito ha dichiarato: “Noi siamo i francescani d’oggi” perché il reddito di cittadinanza “non è una questione di povertà, ma di dignità”. Anche se per la verità, il poverello d’Assisi da ricco si era
fatto povero, cosa che non risulta di Beppe Grillo. Né di Berlusconi, per quanto debba continuare a pagare alimenti stratosferici alla sua ex moglie. Grillo ha poi fatto una scoperta incredibile: “Ho visitato la tomba di san Francesco, sopra hanno costruito una speculazione edilizia... Credo sia stata condonata. Se san Francesco vedesse...” … il quale, se vedesse, forse avrebbe ben altro di cui scandalizzarsi, compreso l’uso strumentale e improprio che certuni fanno del suo movimento. Non risulta, infatti, che Grillo e Berlusconi abbiano sposato le fondamenta del movimento francescano, cioè ascetismo, vita mendicante (forse, di consensi...), cura d’anime e voto di povertà. Ma tanto sulla scena politica italiana di miracoli se ne vedono ogni giorno e quindi anche del neofrancescanesimo grillino e berlusconiano ce ne faremo una ragione.
Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Elezioni A-nticipate
Lo Zio di Trotzky
Waiting for Obama
La coppia presidenziale più amata del momento ha fatto tappa in Italia e, in particolare, in Toscana. Non si tratta di Trump e Melania, né di Renzi e Agnese, ma di Barack e Michelle Obama. Siamo stati informati dalla stampa di ogni loro passo durante la breve vacanza, e siamo solidali con i due che non possono godersi neppure un momento di relax dopo le fatiche di 8 anni di governo e soprattutto lo shock della successione di Trump. Ma ci ha incuriosito il fatto che Michelle e Barack abbiano acceso un cero alla Madonna nella cattedrale di Santa Maria Assunta a Siena. Noi siamo riusciti a cogliere il seguente colloquio fra i due.
“Barack, accendiamo un cero alla Madonna in questa bella chiesa?” “Ma Michelle, perché mai? Ormai lo hanno capito tutti che non sono musulmano e che la mia fede è fragile e intima” “Senti Barack, fidati di tua moglie: un bel cero alla Madonna non fa male di sicuro” “Dai Michelle, non insistere: non vedo il motivo. Non lo abbiamo mai fatto...” “Senti Barack, smettila di essere so doubtful (trad. cacadubbi) che mi sembra ti sia costato abbastanza quando eri presidente. Ti spiego perché dobbiamo accendere questo cero. Dove andiamo domani?” “Ah, credo a Firenze”
“E a fare cosa, bel musino mio? A fare shopping? No, perché tu sei anche tirchio. A vedere un museo? No perché tu ti annoi. Andiamo a Firenze perché ci ha rotto le scatole fino allo spasimo quel tuo amichetto di Matteo Renzi perché andassimo a Firenze a incontrarlo! Ecco, andiamo da quel pompous asshole (trad. pomposo buco di culo) di Renzi per fargli fare un selfie, tre fotografie per i giornali e un po’ di riprese televisive per la sua stramaledetta carriera politica. Che bella vacanza di merda che mi hai regalato Barack! E quindi per la giornata di domani e per salvare il nostro matrimonio, mettiamo ‘sto cero alla Madonna”.
7 27 MAGGIO 2017
di Laura Monaldi Grande affluenza ieri pomeriggio all’inaugurazione della mostra dedicata a Hermann Nitsch nei locali della Limonaia dell’ex-Convento dei Frati Cappuccini, gentilmente concessi dalla Fondazione Opera Santa Rita: un omaggio tutto pratese a uno dei massimi esponenti dell’Azionismo Viennese che, dopo esser stato presentato nel Duomo di Prato nel novembre del 2016 e in Palazzo Vescovile in occasione della Festa degli artisti nel febbraio di quest’anno, è stato celebrato in un nascente spazio espositivo che si spera avrà una continuità nel nome dell’Arte Contemporanea e dei grandi artisti di fama internazionale. Durante la conferenza, con interventi e saluti del Presidente della Fondazione Opera Santa Rita Roberto Macrì, dell’Assessore alla Cultura di Prato Simone Mangani, del Presidente della Fondazione delle Arti Contemporanea in Toscana ed Economo della Diocesi di Prato Irene Sanesi, nonché di Giuseppe Billi, grande stimatore e studioso del Maestro, è stata messa in rilievo, alla presenza di Rita Nitsch, moglie e compagna di avventure estetiche di Hermann, l’importanza della Collezione Palli e di tutto l’evento in sé, in quanto fulcro di valorizzazione e di una passione artistica da riscoprire, lontano dai tabù istituzionali e dai preconcetti che il mondo attuale sembra ancora porre. La mostra, visitabile fino al 15 ottobre, è un raro esempio di coraggio e vitalità archivistica e non fa altro che ribadire che leggere Nitsch significa interfacciarsi con un universo unico e totale, con un connubio di cultura e scienza, con l’apogeo della storia dell’uomo che nell’azione estetica trova concretezza e dimostrazione, in virtù della sua personale ricerca volta a ristabilire, attraverso l’arte, lo stretto legame con lo stato di natura dell’umanità: solo regredendo a tale stadio e colpendo il subconscio degli attori si verifica la catarsi e la presa di coscienza che il linguaggio ha perso qualsiasi valore e qualsiasi funzione. Per riuscire a vedere nuovamente Dio e percepire la sacralità nella vita, l’uomo deve immergersi nella propria crudeltà artificiosamente ricreata e da quella rinascere, come essere intellegibile con un valore aggiunto rispetto alla massa.
8 27 MAGGIO 2017
L’universo unico di Nitsch
Musica
Maestro di Alessandro Michelucci Era scritto nel grande libro del destino che Orio Odori e Valter Colle avrebbero realizzato un progetto discografico comune. Il primo, toscano, ha alle spalle un percorso che spazia dalla musica contemporanea (Harmonia Ensemble) alla rilettura in chiave moderna della musica bandistica (la Banda Improvvisa). Il secondo, friulano, è il fondatore delle Edizioni Nota, un’etichetta nata da una passione sincera e sostenuta da solide base etnomusicologiche. Dalla Sardegna al Friuli, dalla Maremma all’impero ottomano, il suo catalogo offre una grande varietà di musiche tradizionali. Dischi fatti con amore, curati fin nei minimi particolari. Il frutto della loro collaborazione è Rapsodia toscana. Echi e suggestioni di canto dall’Archivio di Dante Priore (Nota, 2016). È stato appunto questo studioso l’anello di congiunzione fra Odori e Colle. Nato nel 1928 a Montenero di Bisaccia (CB), Priore vive da oltre mezzo secolo a Terranuova Bracciolini. Qui ha raccolto una grande quantità di musiche legate al mondo contadino e tradizionale in genere. Caso alquan-
SCavez zacollo
Materia viva
to raro, il Comune della città valdarnese ha curato la pubblicazione di numerosi libri e CD col prezioso materiale documentario raccolto dallo studioso. Rapsodia toscana propone sei brani strumentali arrangiati da Odori. I pezzi somigliano a delle matrioske: cia-
disegno di Massimo Cavezzali
scuno ne racchiude altri. In “Cecilia” si ritrovano due canzoni note, quella omonima e “Donna Lombarda”; nella parte finale di “Promenade” emerge “Mamma mia dammi cento lire”. La lunga “Rapsodia” è un caleidoscopio di suoni dove si sentono fra l’altro “La Tea fa il bucato”, “Bianca regina fulgida” e “Le fabbrichine”. Famiglia e lavoro, politica e vita quotidiana, religione e lavoro: temi semplici ma imperituri, nel quale ciascuno può ritrovare un pezzetto della propria esperienza umana. Il musicista valdarnese, che come sempre suona il clarinetto, è affiancato da strumentisti di ottimo livello. Fra questi spiccano il figlio Sergio, impegnato alle percussioni; Damiano Puliti, il violoncellista che ha condiviso con Odori l’entusiasmante percorso di Harmonia Ensemble; l’arpista Diana Colosi, che ha suonato con numerose orchestre italiane e straniere. Accurata come sempre, la confezione include un libretto con testi dei due autori (Odori e Priore), di Pietro Clemente e di Sergio Chienni, sindaco di Terranuova Bracciolini. La tradizione non è un curioso resto del passato, ma un cuore che batte, una materia viva che respira. Il musicista che l’ama veramente è in grado di reinterpretarla e rinnovarla. Orio Odori è uno di questi.
Della Bella gente
di Paolo della Bella
9 27 MAGGIO 2017
di Monica Innocenti Franca Margherita Severini della Casa Editrice “ZonaFranca”: sei nata come giornalista! Ho studiato in Inghilterra, mi sono specializzata in Storia dell’Arte e quando sono tornata in Italia ho iniziato a lavorare come giornalista d’arte, per riviste come “Ville e Casali” e “Il giornale dell’Arte”. Poi fui inviata in Argentina dove, a fronte di una complicata situazione politica, la cultura univa la popolazione: conobbi gli editori più in voga dell’epoca. Rientrata in Italia, decisi di misurarmi con la produzione editoriale italiana e, nel 2006, nacque “ZonaFranca”, dove raccogliamo quelle che, a parer nostro, sono le voci più autorevoli su argomenti come viaggio, arte antica, cucina, filosofia, poesia. Ad esempio Paolo Febbraro, che cura la pagina di poesia del Sole 24 ore; Daniela Marcheschi, premio Rockefeller per la critica letteraria; Giovanni Sias; grande studioso di psicanalisi; Ajazzi Mancini, il traduttore di Rilke e Kafka per Mondadori; Nanni Delbecchi de “Il Fatto Quotidiano”. Quali sono i progetti futuri? Uno di questi, per il quale la Casa Editrice ha un accordo con la Fondazione Casa Pascoli e con il Vittoriale degli Italiani, s’intitola “Magnifiche Presenze” ed è incentrato su due capisaldi della nostra letteratura: Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio, sui loro carteggi e la loro vita. Ci saranno due mostre: dal 1 Giugno al Vittoriale e dal 3 giugno a Castelvecchio Pascoli. Poi la pubblicazione di libri legati ai musei, come “Inno all’Olivo” di Giovanni Pascoli, che gli fu commissionato nel 1901, che inseriremo anche nel progetto di “Magnifiche Presenze”; cataloghi fotografici; nuovi progetti da indossare per la città di Viareggio; mostre al Vittoriale degli italiani. ZonaFranca e la moda. In generale, Zona Franca si occupa di bellezza: sia bellezza che ci arriva attraverso le parole e la cultura, sia bellezza da indossare, che è poi il progetto che abbiamo realizzato. L’idea di “indossare la cultura”, si concretizza in borse, astucci e foulard, realizzati dai migliori artigiani italiani; tutto è Made in Italy, in collaborazione con una nota azienda fiorentina e gli articoli sono acquistabili dal sito di Zona Franca e presso il nostro showroom a Barga, uno dei più bei borghi italiani. Parliamo delle copertine che utilizzi; carta riciclata, cartone: copertine ...tattili, diverse. Costituiscono una parte del nostro modo di fare editoria, usiamo materiali di recupero ed è una scelta che molti apprezzano. In collaborazione con la Prefettura di Lucca,
10 27 MAGGIO 2017
ZonaFranca cultura da indossare abbiamo affrontato il tema del disagio giovanile proprio attraverso uno questi volumi; la Questura, ha distribuito un questionario in tutte le scuole, “S.O.S. Angeli” del Dott. Bertolucci. Con le psicologhe ha elaborato le risposte e la sintesi del tutto ha creato un’istantanea del mondo giovanile: ho voluto seguire personalmente, come editor e casa editrice, l’intero progetto, che è stato presentato dalla Prefettura con la Regione Toscana. Quali sono i tuoi focus? Le donne, la Città di Lucca…? L’imprenditoria femminile: sono vice presidente del comitato per l’imprenditoria femminile di Confindustria Toscana Nord. Mi occupo di
Foto di
Pasquale Comegna
Mitoraj a Pompei
dare valore all’imprenditoria femminile per la zona di Lucca attraverso azioni dirette, per dato culturale e non per generalizzazioni: non parliamo di quote rosa, ma di riconoscere la forza e la qualità del lavoro
femminile. Con Confindustria abbiamo costituito un gruppo, unico in Italia, che nasce dall’acronimo “Frida” ovvero Formazione Relazione Informazione Donna, un protocollo che unisce le donne e le Istituzioni: ne vado fierissima. La casa Editrice ZonaFranca (www.zfzonafranca.it) ha sede in Lucca, piazza S. Romano, 15.
di Mariangela Arnavas Se volessimo usare un’espressione sintetica per dare un’idea complessiva di Fortunata, il film di Castellitto presentato a Cannes, dovremmo usare la parola “troppo”, davvero troppe, infatti, le tematiche che si affacciano in questo film: la vita di una madre separata con una bambina di 8 anni e un lavoro al nero, il marito stalker, lo stupro, la periferia romana, gli orfani, le problematiche dell’infanzia trascurata, l’ambivalenza nel rapporto tra genitori e figli, gli immigrati di seconda generazione, le banche che danno soldi solo a chi li ha già, gli usurai che strozzano la povera gente e poi la tossicodipendenza, la malattia mentale, l’Alzheimer, l’eutanasia, la ludopatia, la cabala, gli annegati e infine anche il teatro e Antigone, passando per l’Acquario di Genova e i suoi delfini. E non tutto si tiene anche se la prima parte del film, grazie all’idea felice di una protagonista, Fortunata, interpretata da una Jasmine Trinca davvero brava, parrucchiera a domicilio, sempre di corsa, in minigonna e canottiere colorate, che si trascina un trolley con gli arnesi del mestiere e una figlia piccola sempre arrabbiata per la mancanza di attenzione, arrancando sulle zeppe (pare si sia davvero slogata una caviglia) per le strade sterrate fra Torpignattara, la via Casilina e il Parco Sangalli si presenta vivace e soprattutto vitale. Si passa da una casa all’altra, tra la borgatara romana anziana e verace, la bellissima usuraia cinese, le coatte con le extension a colori in terrazza con le ascelle ossigenate; un universo femminile brulicante, intervallato da passaggi per l’Acquedotto Alessandrino e i locali dove si gioca al lotto, dove traccheggiano gli amici di Fortunata e il compagno della sua infanzia e di sogni, il Chicano, ben interpretato da Alessandro Borghi con la madre malata di Alzheimer, ex attrice di teatro, nel film Hanna Schigulla. Ma quando, nella seconda parte del film, la narrazione, dall’affresco concitato e caotico, vira verso la tragedia, il film si spappola, perde di senso, addirittura ci sono incongruenze: in particolare, appare del tutto incongruente la figura dello psichiatra infantile che prende in cura la piccola figlia di Fortunata (molto brava), uno Stefano Accorsi poco convincente, forse perché giustamente poco convinto dal personaggio, che abbandona la cura della figlia per amoreggiare con la madre, salvo scoprire di avere una deontologia quando la nuova compagna diventa ingombrante e imbarazzante e che, perdi più, senza che se
ne comprenda il motivo, si trascina dietro, anche nella vita privata , un paziente ragazzino con la sindrome di Down, comparsa di cui non si capisce affatto il significato. Per il film, forse perché presentato a Cannes, sono stati fatti paragoni illustri, a mio parere del tutto inappropriati, come Mamma Roma di Pasolini; un bianco e nero essenziale, asciutto che puntava come una freccia alla tragedia finale, straziante, assoluta; lontano dal film di Castellitto come un’altra galassia. Ancora, lo stesso regista ha parlato della sua protagonista come di una “Bovary di periferia” enunciando di fatto una tautologia perché Emma Bovary viveva, non a caso, nella profonda provincia francese, da sempre periferia di Parigi e proprio dalla sua ansia di evasione e di fuga verso la capitale era mossa nei suoi comportamenti.
Comunque Fortunata non ha proprio nessuna somiglianza con Emma; la parrucchiera del film non è una donna annoiata e ambiziosa, narcisista, piena di fantasie, non ne ha nemmeno il tempo, è sempre in corsa come molte donne di questi tempi e il suo sogno è solo quello di aprirsi un negozio di parrucchiera , lasciando uno spazio all’amico Chicano per i tatuaggi; è una donna, deprivata nell’infanzia ,affannata e povera in cerca di una felicità possibile. Quel che viene in mente, guardando Fortunata ovvero Jasmine Trinca nei suoi affanni quotidiani e nei primi piani, spesso felici e intensi, è la Giovanna Ralli di tanti episodi di film commedia all’italiana, vicino a Gassman o a Manfredi, spontanea, schietta e spesso disperata; per lei vale la pena di vedere il film.
Fortunata di nome, ma non di fatto 11 27 MAGGIO 2017
di Danilo Cecchi La fotografia, si dice, ha il potere di riportarci indietro nel tempo. E forse in questa affermazione c’è qualcosa di non completamente sbagliato. Sarà allora questo il motivo per cui si ristampano con una frequenza sempre maggiore le vecchie foto, e soprattutto i vecchi fotolibri, per la maggior parte quelli che ci raccontano le epoche ed i momenti non troppo lontani nel tempo, magari solo pochi decenni. Epoche e momenti che quelli della mia generazione ancora ricordano per averli vissuti, direttamente o indirettamente. Il fotografo californiano Nacio Jan Brown decide così di ristampare nel 2011 una versione ampliata di un suo famoso fotolibro del 1975, dal titolo “Rag Theater - Berkeley 1969-1973”. Berkeley, come ognuno sa, è una località nei pressi di San Francisco, ed è la sede della più importante delle università pubbliche degli USA. Come ricordano quelli della mia età, Berkeley è stata anche, fino dai primi anni Sessanta, il focolaio delle rivolte studentesche e la culla di quell’idealismo radicale di sinistra che poneva al centro della questione politica i temi delle libertà personali, dell’alienazione, del disagio e dell’autoritarismo, arrivando a teorizzare, a sognare ed a pensare di vivere la rivoluzione. E’ soprattutto Telegraph Avenue che fa da sfondo alle manifestazioni degli studenti di Berkeley, ed è in questo contesto che Nacio Jan Brown fotografa, non solo gli scontri con la polizia, ma tutto il fiorire di una controcultura basata sulla ricerca della libertà individuale, da realizzare attraverso l’uso indiscriminato di sesso, droga, musica ed arte, ma soprattutto sul rifiuto del sistema economico - militare posto alla base della cultura americana. Il lavoro di Nacio Jan Brown si polarizza attorno a Telegraph Avenue, in particolare sul “blocco” 2400, un luogo che all’epoca rappresenta la sintesi di tutto quanto si muove attorno alla protesta, al rifiuto dell’american way of life, alla elaborazione di nuove ideologie e di modelli di vita alternativi, raccontando quel periodo storico che molti presero sul serio per una vera e propria rivoluzione. Telegraph Avenue era lo specchio della Berkeley non convenzionale, una sorta di enclave bohèmien, frequentata da hippies e punk, bikers, antimilitaristi e gente comune, un luogo in cui si potevano trovare giornali e libri in lingue straniere, croissant e caffè espresso, sigarette turche e Gouloises, in cui si poteva ascoltare musica barocca e popolare, si potevano frequentare caffé letterari, gallerie d’arte contemporanea, e vedere film in lingua straniera. Nacio Jan Brown lavora a stretto contatto con questo ambiente e con questo tipo di umanità, estremamente varia e differenziata, in continuo mutamento ed alla
12 27 MAGGIO 2017
continua ricerca di una identità. Dopo quattro anni pubblica il suo libro, ma confessa che attraverso le sue immagini ha come l’impressione di avere “preso qualcosa alle persone senza avergli dato niente in cambio.” Come se, catturando le immagini, avesse carpito loro qualcosa di intimo, delle confessioni riservate solo a parenti ed amici, tutte cose che lui mostra in pubblico, attraverso i suoi libri e le numerose esposizioni. “Molto tempo dopo avere scattato ed essermi dimenticato delle persone, ritrovo i loro volti sui miei negativi e sulle mie stampe. Come se queste persone fossero entrate a far parte della mia famiglia, suscitando per questo in me dei sentimenti contrastanti”. A distanza di oltre quarant’anni Nacio Jan Brown pubblica le sue immagini di Telegraph Avenue su Internet, e
chiede alle persone che si riconoscono in esse di contattarlo, per ricostruire in qualche modo quel legame che si era stabilito, fugacemente, al momento dello scatto. In questo senso la fotografia, forse, ha davvero il potere di riportarci, in qualche modo, indietro nel tempo.
Berkeley il teatro della rivolta
di John Stammer Lunedi 29 maggio sarà il gran giorno. Alla presenza del Ministro delle Infrastrutture e Trasporti Graziano Del Rio sarà aperto al pubblico transito il By Pass del Galluzzo. Un’opera attesa da oltre 50 anni sarà percorribile da tutti, e anche dalle prime polemiche, che a dire il vero non sono mai mancate in tutti questi anni. Ma si sa discutere, polemizzare, arrabbiarsi, è parte di un modo tutto toscano, e più in particolare fiorentino, di “apprendere”. Il processo di conoscenza, di acquisizione di concetti, di appropriazione di un’idea, di un’opera, di una parte di città non può prescindere a Firenze da un’aspra, ironica, dissacrante e spesso anche divertente discussione. Ne abbiamo esempi illustri anche su opere d’arte celeberrime a cominciare dal David di Michelangelo. Quindi perchè meravigliarsi se alcuni commercianti del Galluzzo abbiano sentito il bisogno di rimarcare che la nuova strada sarà sicuramente bella e utile, ma più funzionerà e peggio sarà per il lorocommercio poichè distoglierà quantità crescenti di possibili clienti dal passare davanti alle loro botteghe. Oppure come non ricordare che alcuni abitanti del Galluzzo ebbero molto a lamentarsi quando, con la prevista apertura del nuovo ponte Bailey, tutto il traffico in direzione sud in uscita da Firenze sarebbe passato, come poi è avvenuto, proprio davanti alle loro finestre nella strettissima via Volterrana. Non avevano torto quei cittadini come non hanno torto quei commercianti dal loro specifico e particolare punto di vista. Spetta al decisore pubblico coniugare le diverse e contrapposte esigenze degli utenti urbani (spesso una stessa persona manifesta esigenze diverse da soddisfare sullo scenario urbano in periodi diversi della stessa giornata a seconda che in quel momento sia un pedone, un automobilista, che cerchi un luogo dove mangiare, un luogo dove sostare all’ombra, ecc.) cercando un minimo comune denominatore che faccia prevalere l’interesse complessivo della comunità. Con pazienza e anche con ironia. Quando fu chiuso al traffico il tratto urbano di via Senese nel tratto compreso fra la piazza e l’accesso alla Certosa del Galluzzo, chiusura necessaria per poter ricostruire il ponte della Certosa, la “vox populi” disse che era stato fatto proprio in quel periodo perchè un noto esponente politico del partito di maggioranza aveva temporaneamente la propria dimora in quel tratto di strada. E il noto esponente politico si guardò bene dallo smentire una notazione palesemente falsa. Occorre ironia
Storia del by-pass del Galluzzo
L’attesa sta per finire
per governare a Firenze. Ora che la nuova strada è stata realizzata, e il Galluzzo sarà alleggerito di una quota significativa di traffico, i cittadini potranno appropriarsi sempre di più dei loro luoghi. Uno di questi è la piazza Acciauoli, centro dell’abitato e luogo di incontro, di mercato, di giochi infantili passati e recenti. Bene ha fatto la locale Misericordia a organizzare la consueta cena annuale non, come nel passato, lungo il viale dei Tanini
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nella zona dei Giardini, ma proprio nella piazza Acciauoli. Il 16 giugno centinaia di abitanti del Galluzzo vivranno la loro piazza finalmente più libera dal traffico e dall’inquinamento acustico e atmosferico. Il luogo che nell’ottocento era stato pensato come fulcro del nuovo paese in espansione potrà dimostrare di essere ancora la Piazza del Paese stretta attorno al monumento ai suoi caduti. (continua)
13 27 MAGGIO 2017
di Carlo Cuppini Caterina Poggesi è scomparsa il 26 novembre scorso, all’età di 42 anni, dopo una lunga malattia che non le ha impedito fino all’ultimo di portare avanti i suoi progetti e le sue molteplici attività. Figura di grande spessore artistico, intellettuale e sociale, ha dato un impulso e un contributo straordinario alla vita culturale fiorentina, toscana e italiana. Nel suo percorso ha proposto formati sempre nuovi di esperienze artistiche e sociali, unendo la sua formazione di psicologa, la sua attività di teatrante (attrice, regista e drammaturga), la sua vocazione di pedagoga, formatrice e ‘facilitatrice’. Nel 1998 ha fondato, con Cristina Abati, Carlo Salvador e Tommaso Taddei, la compagnia di ricerca teatrale Gogmagog. Pochi anni dopo, con Giacomo Bernocchi, ha dato vita al gruppo Anonima Scena. Nel 2006 ha fondato l’associazione Fosca insieme a Maria Pecchioli e a Paola Maritati, il suo progetto più ampio e radicato, fucina di incessanti sperimentazioni e contenitore di originali progetti artistici, di formazione, di intervento sociale, di promozione culturale. Fosca, che in questi dieci anni ha visto molte persone avvicendarsi alla direzione accanto a Caterina, continua a esistere e a crescere, grazie alle decine di soci attivi nei diversi filoni della sua progettualità. Oltre ai propri progetti, Caterina Poggesi ha collaborato con le principali realtà del contemporaneo, a Firenze e non solo, dando contributi fondamentali per la creazione di modalità di lavoro innovative: Virgilio Sieni e Cango Cantieri Goldonetta (dove ha dato un apporto fondamentale per la definizione iniziale dei progetti tra formazione, trasmissione e creazione dell’Accademia sull’Arte del Gesto), Tempo Reale, Fabbrica Europa, Teatro Studio di Scandicci, Novaradio, Vivaio del Malcantone. Ricordiamo qui Caterina Poggesi attraverso un estratto di una lettera scritta da Carlo Cuppini all’indomani della scomparsa. Ciao Cate, tu non ci sei più, la tua casa è vuota, ma io ti vorrei parlare. In questi ultimi tuoi giorni – prima, durante e dopo la tua scomparsa – hai riunito una grande comunità di persone che ti volevano bene, che ti stimavano, che si riconoscevano nelle tue tracce e visioni. Una umanità varia e coesa, tenuta insieme da invisibili ma potenti fili, che per quattro giorni si è spostata da una parte all’altra del-
14 27 MAGGIO 2017
Ciao Cate,
non ti abbiamo dimenticato
la città, per cercarti, pensarti, guardarti, sgomentarsi, applaudirti, ringraziarti, toccarti, piangerti, trattenerti. Per giorni e notti ci siamo spostati da Scandicci a Careggi, da Cango ancora a Careggi, alla chiesa dei Cappuccini. Qualcuno, già prima, passando da casa tua vicino a piazza Giorgini, con te ancora presente, anche se incosciente; qualcuno accompagnandoti il giorno dopo fino a Livorno e poi a Castiglioncello, per gli ultimissimi atti. Una geografia di luoghi dell’anima a te cari. In ognuno di questi luoghi cercavamo te, e trovavamo noi stessi, gli uni con gli altri. La grande festa per i dieci anni di Fosca al Teatro Studio di Scandicci, organizzata da tempo e accaduta proprio in contemporanea con la tua dipartita, e che comunque si è svolta, grazie alla forza dei tuoi amici e collaboratori: selvaggia, energica, rumorosa e sensuale come l’avevi pensata. Musica, balli, travestimenti e grida, fino a notte. E chissà in quale baratro sprofondavi in quelle ore, o in quale corridoio di luce ascendevi. (E come non pensare che quel giorno –fatalità – era il giorno di Santa Caterina.) La notizia della tua morte, la sera seguente. Dunque era vero. Era possibile. Ed era accaduto. Ce l’avevano detto subito, una settimana prima, che era irreversibile, finale, questione di giorni o di ore. Ma chi ci poteva davvero credere? In miracolo si può sempre sperare. Lo stesso miracolo che ci tiene in vita ogni giorno: strutture così fragili come noi siamo, in mezzo al caos, al caso, agli incidenti della materia. Un miracolo deve succedere, soprattutto in questi frangenti. Il miracolo ti avrebbe ripresa per i capelli, ti avrebbe svegliata – come il principe azzurro la bella addormentata. Il miracolo invece non era prolungare il tuo calvario, concedendoti altre settimane. Il miracolo è stato vederti nella bara, bellissima e intatta, la mattina dopo, domenica, piena di fascino silenzioso, assorta, con il sorriso che ti contraddistingueva, con i tuoi migliori vestiti di scena, la spilla di Fosca sul petto. Bella, riposata, come prima della malattia. Come se questi sette anni fossero passati senza ombra del male. Poi il pomeriggio ai Cantieri Goldonetta, in una bottega di falegnameria, per assistere alla tua ultima regia: una poesia intensa, dolente, che richiamava l’assenza, la distanza, le parole di Elisa Biagini veicolate attraverso le voci disincarnate di tre donne non vedenti. Pubblico assorto e concentrato, appeso ai movimenti di quelle labbra, aggrappato all’apparire e sparire delle parole in mezzo
alla polvere di segatura sospesa. Seduti per terra, tutti accalcati. Un lunghissimo applauso, che ti chiamava, ti richiamava tra noi, in mezzo al tuo lavoro, all’energia che avevi evocato, una durata di mani che ti voleva trattenere. Che si illudeva di potere non finire mai. Poi ancora a Careggi, alle Cappelle del Commiato, tra i tuoi parenti, tua madre – tua madre – tuo padre, le tue sorelle, per vederti ancora un’ultima volta. Così serena e rilassata. Quasi con l’imbarazzo di rubarti un
momento di intimità estrema: il volto vero – ma di una verità spaventosa – ancora più che nel sonno, solo con se stesso, assorto, senza espressione o tensione, senza protezione. Il giorno dopo, lunedì, il funerale. La chiesa dei Cappuccini strapiena, in una mattina limpida e fredda, piena di sole, il vento che spazzava via le foglie appena ingiallite dai rami, che l’autunno mite aveva fino a quel momento risparmiato. Tanta gente nel piazzale che non riusciva ad entrare. La bara sigillata. Dov’eri? Già volatilizzata? Noi c’eravamo, tantissimi, un corpo solo, fragile e potente nel lasciarsi andare, stentando a lasciarti andare. I discorsi vibranti di un frate. Dopo tutti a mangiare dai Briganti, cos’altro ti saresti aspettata? Gli spaghettini aglio e pomodoro, un brindisi con un bicchiere di vino, ancora lacrime, ricordi, qualche risata. “La Cate ha detto se si va tutti a mangiare.” Come dopo un incontro o uno spettacolo al Frau, l’ex barbieria in piazza Giorgini animata da Fosca con innumerevoli e preziose occasioni. E noi tutti che adesso non sappiamo che fare. Come continuare. Esattamente come in “Tangeri”, quel tuo piccolo capolavoro: tre minuti di pura immersione in un sogno, e poi doversi all’improvviso svegliare, e andare. Hai sempre voluto mischiare l’arte e la vita, la vita e l’arte, attraverso un preciso progetto esistenziale. L’arte vissuta come vita, la vita vissuta come arte, lo stesso sogno, lo stesso desiderio a sostenere entrambe. La tensione che, come nelle ore delle rivoluzioni, trasforma per un breve momento gli individui in esseri solidali, mille braccia e un solo cuore che batte, una sola intelligenza trasversale. Qualcosa che somiglia all’alchimia, e all’amore. Ecco. Adesso sei andata ben oltre. L’arte e la vita. La morte. Un progetto molto ardito. Fa male pensarlo, sembra una retorica romantica e macabra. E so che se tu avessi potuto scegliere tra questo grande spettacolo e altre ore di vita, probabilmente avresti scelto la vita. Ma è andata così. E non si può dire altro che è stato tutto perfetto. Niente di improvvisato. Dobbiamo esserti molto grati per questa precisione. Per quanto di potente e grandioso – e fragile, ma perdurante, anche se difficile da conservare – ci hai lasciato. Che è un compito, un progetto, una direzione, una responsabilità, un’energia, uno stare, una promessa, un impegno, una sfida, un legame, un mistero: una grande utopia che non possiamo trascurare.
15 27 MAGGIO 2017
premio letterario
Vincitori PRIMA EDIZIONE 2017 e premiati
La prima edizione del concorso “Racconti Commestibili”, organizzato da Cultura Commestibile e Maschietto Editore, si è conclusa domenica 21 maggio con la premiazione dei sei finalisti e dei primi tre classificati, con due ex aequo per il terzo posto. La cerimonia si è svolta presso il Ristorante Caffetteria La Loggia al Piazzale Michelangelo, che ha collaborato all’organizzazione del concorso. I tre membri della Giuria tecnica, Marco Vichi, Sandra Salvato e Francesco Mencacci, hanno consegnato gli attestati e letto le motivazioni. Hanno animato l’incontro le letture di Lorenzo Degli Innocenti e la musica del M° Francesco Furlanich del Maggio Musicale Fiorentino. A questa prima edizione hanno partecipato 50 autori (di cui pubblichiamo qui sotto i nomi), di età, provenienza geografica ed esperienze letterarie completamente diverse. Il tema assegnato, “il cibo”, è stato declinato nelle forme più varie e originali, raccogliendo con vigore la sfida lanciata: nei racconti si trova la chiave dell’ironia, la critica sociale, il cibo inteso come strumento della memoria, come pretesto per innescare meccanismi narrativi legati ai più vari generi, come oggetto del desiderio, come malattia, aspirazione, riscatto, ricatto. Si trovano anche ricette, accanto a parodie dei reality show più in voga e a revisioni grottesche del culto della personalità degli chef che caratterizza i nostri tempi. Naturalmente, non è mancata l’accezione del cibo come nutrimento: del corpo, della mente e dell’anima. Il livello è stato elevato e per entrambe le giurie (quella di selezione, composta dai redattori della rivista e della casa editrice, e quella dei letterati, che ha decretato i vincitori) non è stato facile operare le scelte e le inevitabili esclusioni. I dieci racconti arrivati in finale saranno pubblicati su queste pagine, a partire da questo numero con il primo classificato. Hanno partecipato: Vincitori: Giacomo Aloigi – primo classificato
16 27 MAGGIO 2017
Serena Barsottelli – seconda classificata Francesca Mazzotta – terza classificata ex aequo Valentina Formisano - terza classificata ex aequo Finalisti: Elena Mariottini Fabrizio Vanni Giacomo Miniussi Paolo Cocchi Paolo Marini Vincenzo Striano Gli altri partecipanti: David Bargiacchi Sonia Barsanti Alessandro Bonanni Alessandra Borsetti Venier Bianca Cacioli Ugo Caffaz Andrea Caneschi Sofia Chilleri Francesca Ciraolo Maurizio Corradini Francesco Cusa Angela D’amario Leonardo D’aprile Giampaolo Di Cocco Lucia Evangelisti Rosanna Farmeschi Sergio Favilli Federico Giachini Roberto Giacinti Cristina Giuntini Antonella Imbriani Rahma Kouki Elena Lampugnani Lida Lombardi Neri Noemi Lombardi Francesca Lorimer Maria Grazia Lotti Vanessa Lucarini Nicoletta Manetti Giada Matteucci Valentino Moradei Maria Cristina Nascosi Riccardo Neri
Lucrezia Pei David Ponti Cristina Pucci Tania Puglia Alessandra Raddi Angela Rosi Laura Saba
di Giacomo Aloigi Raul Petrini era un uomo all’antica. Apparteneva a quella generazione che voleva i mariti fuori a lavorare e le mogli a casa a occuparsi dei figli e delle faccende. Però a Raul e alla Ester i figli non erano venuti. Così aveva voluto Dio. All’inizio c’erano stati male, erano anche andati da un professore di quelli bravi che gli aveva spiegato che la Ester aveva un problema dalla nascita che non si poteva riparare. Erano tornati a casa con le lacrime agli occhi. Poi si erano abbracciati e avevano proseguito la vita insieme. Una vita lunga, quasi cinquantacinque anni di matrimonio. Erano stati bene, lui e la Ester. La gente li nominava sempre in coppia, Raul e la Ester, come fossero una persona sola. Dicevano che col passare del tempo si assomigliassero anche d’aspetto. La Ester – la chiamavano tutti così, con l’articolo senza apostrofo – s’era dedicata interamente a Raul, curandolo in tutto. La mattina si alzava per prima e gli portava il caffè a letto, poi andava a preparare la colazione. Mentre lui mangiava gli stirava la camicia e gli metteva gli abiti stesi sul letto. “Cosa ti preparo oggi?” gli chiedeva ogni volta quando lui stava per uscire e ogni volta lui rispondeva “Fai te”, che tanto sapeva che la Ester era una cuoca eccezionale. Poi però la Ester se n’era andata. In pochi giorni, senza lamentarsi, come per non disturbare. “Che faresti se rimanessi da solo, non sei buono a niente!” gli diceva a volte per prenderlo in giro. Ora Raul era rimasto solo per davvero. Lui e la Ester non parlavano molto, ma soltanto adesso la casa gli sembrava piena di silenzio. Erano passate due settimane dal funerale. Non aveva ancora rifatto una volta il letto e mangiava solo frutta e tagliatelle che comprava a porzioni già pronte al negozio di alimentari del paese. Quella mattina stava cercando un fil di ferro nel cassetto della credenza, quello dove ci si butta ogni ben di dio: spago, fermagli, nastro isolante, guarnizioni e via dicendo. Stava tirando fuori tutto quanto a suon di sacramenti e senza accorgersene urtò un vaso che era sopra la credenza, facendo cadere a terra l’Artusi della Ester che era appoggiato proprio al vaso. Il libro finì a terra e si aprì come un ventaglio, facendo volar via un foglietto di carta. Lo raccolse e riconobbe subito la scrittura rotonda della Ester. “Anniversario”, c’era scritto, “Torta di mele all’anice stellato”. Lei gli faceva sempre una torta in occasione del loro anniversario di matrimonio, che per l’appunto sarebbe stato il giorno successivo. La Ester, prima d’ammalarsi, aveva già pensato che dolce preparargli. Raul lesse la ricetta: farina, zucchero, uova,
L’anice stellato burro latte, lievito, mele, anice stellato. Non sembrava difficile, a parte per quell’anice stellato che lui non sapeva cosa fosse. Si mise la giacca e andò dall’Alda, all’alimentari. Comprò tutto l’occorrente, a parte quell’anice stellato che anche l’Alda non conosceva. “Dev’esser roba esotica” gli disse “qui in paese non ce l’abbiamo, devi andare in città”. Raul salì in macchina e prese la provinciale, anche se era un bel po’ che non guidava. Non si ricordava che ci fossero così tante automobili in città. Le guardava di qua e di là che gli passavano a pochi centimetri. E alla fine si dimenticò di guardare davanti e tamponò un furgoncino che lo precedeva. L’autista scese e cominciò a urlargli contro che era un vecchio rimbambito e che gli dovevano levare la patente. Raul era mortificato, in fondo non gli aveva fatto quasi
premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Primo classificato niente al furgoncino. Rimase zitto e firmò un foglio colorato che quell’altro gli mise sotto al naso senza neanche capire che cosa fosse. Risalì in macchina e lì per lì non si rammentava nemmeno perché era sceso in città. Poi si ricordò che era per via di quell’anice stellato. Lì vicino c’era un supermercato. Entrò e cominciò a domandare un po’ a tutti i banchi e ogni volta lo mandavano da un’altra parte. Dopo vari tentativi trovò quello giusto e uscì soddisfatto con la bustina di anice stellato in tasca. Una volta a casa si mise a preparare la torta. Versò in una ciotola farina, zucchero, lievito e uova. Aggiunse latte e burro. Tagliò le mele e le mise in una padella dove aveva sciolto zucchero e burro e aggiunse quell’anice stellato. Quando le mele furono caramellate le sistemò nella teglia, ci versò sopra l’impasto e quindi infornò. La ricetta diceva per 30 minuti. Si sedette ad aspettare. E si addormentò. Fu svegliato dall’odore di bruciato che aveva invaso la cucina. Corse a tirare fuori la torta che era ormai solo un disco nerastro. Buttò tutto nell’acquaio e andò a letto. La mattina dopo si alzò presto. Sulla tavola era rimasto un mucchietto di stelline di quell’anice. Se le mise in tasca e uscì. Nel cimitero non c’era ancora nessuno. Sistemò le stelline di anice intorno alla foto della Ester. La carezzò con un dito. Forse era il vento, ma gli sembrò di sentire una voce che gli diceva “Lo vedi che non sei buono a niente?”.
Motivazione della giuria tecnica:
Nota biografica:
Una breve storia, dal sapore romanzesco, che in poche righe riesce a creare un’atmosfera magica, raccontando con delicatezza un profondo legame d’amore che la morte non può interrompere. Una scrittura di efficace semplicità, senza inutili virtuosismi, al servizio della storia, ci accompagna con leggerezza nel mondo dei due protagonisti, in una corrispondenza di amorosi sensi che si rivela attraverso un ingrediente dal nome suggestivo: l’anice stellato. Marco Vichi
Giacomo Aloigi è nato e vive a Firenze. Ha scritto di cinema sulle riviste “Amarcord-Il lato oscuro del cinema” e “Selen”. Sua è la sezione “Omicidi in prima serata-Il thrilling nella fiction e nei film tv” nel libro Sotto gli occhi dell’assassino (Edizioni Profondo Rosso, 2001). Ha collaborato al volume Sexy Eroine-Erotic Heroins in Movies (Edizioni Glittering Images, 2003). Nel 2005 pubblica il suo primo romanzo, il noir Buio, a cui fa seguito, nel 2007, il thriller Sabbia in bocca (Polistampa). Nel 2009 prende parte alla raccolta Delitti a regola d’arte con il racconto Silvia e il quadro (Del Bucchia). Nel 2014 esce Gotico Fiorentino, giallo ambientato nella Firenze “dark” dei primi anni Ottanta (Mauro Pagliai). Da sempre si occupa di delitti e fatti di cronaca nera, di cui ha pubblicato numerose schede e profili.
17 27 MAGGIO 2017
Ceramiche Déco a Faenza di Cristina Pucci Vorrei dedicare qualche parola, ed immagine, alla mostra “Ceramiche Dèco, il gusto di un’epoca”, presso il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, che, come in altre occasioni, collabora con i Musei di San Domenico di Forlì dove è in corso la magnificente esposizione “L’Art Dèco,gli anni ruggenti in Italia” di cui poi parlerò. Faenza approfondisce il tema che gli è proprio esibendo manufatti della sua collezione insieme ad altri presi in prestito per l’occasione. Si ammirano statuette, donne, volti, uno piccolo e delizioso Lenci, damine, danzatori e danzatrici, animali sinuosi, oggetti d’uso, tipo serviti di piatti e da caffè, uno da bambino, (se chi li possiede ne rompe un pezzo si suicida direttamente), vasi bellissimi di ogni forma e dalle più varie decorazioni, alcuni di Giò Ponti e di Galileo Chini, acquerelli, manifesti. Una intera e ricca sezione è dedicata ad artisti che si sono formati alla scuola di Faenza, un’altra agli italiani in genere ed infine una anche agli stranieri, alcuni mai visti e comunque da noi meno noti, oggetti originali e molto belli, “la scultura di atleta” di colore verde si muove con linee futuriste, un ibis e una faraona hanno piume così realistiche che sembrano morbide ed arrivano da Copenhagen, vasi, altre teste di donna ed altri pericolosi serviti di tazze. Fra tutti scelgo di parlare e di mostrarvi le opere di Francesco Nonni, artista a me del tutto ignoto e davvero interessante. Impara giovanissimo l’arte dell’intaglio presso l’Ebanisteria Casalini e la Scuola di Arti e Mestieri di Faenza. Disegnatore ed incisore fino alla prima guerra, si dedica alla ceramica fra il 1920 ed il 1930, modella piccole plastiche che vengono realizzate da Melandri, Zoli e soprattutto Bucci. Le sue statuine rappresentano raffinatissime ed eleganti damine, Pierrots dalle larghe bavere bianche e i larghi costumi rotodeggianti dalle delicate decorazioni, danzatori in pose plastiche a cavallo di leopardi, fanciulle in ceramica nera con splendidi riccioli d’oro in tono con i grandi fiori gialli dei loro abiti. Deliziosa “la fanciulla con levrieri”, l’abito della ragazza, bianco con delicate roselline laterali svolazza, intorno a lei due levrieri neri, uno cammina l’altro come se saltasse per farle le feste, un
18 27 MAGGIO 2017
albero frondoso si inchina intorno al gruppo e insieme all’erba di un prato le fa da cornice. Qui, a Faenza, si può ammirare un inedito esemplare del suo “Corteo Orientale” complessa e luccicante composizione in cui sono rappresentati al meglio elementi esotici ed orientali tipici del gusto Déco. Un grande elefante ricoperto di drappi dalle ricche decorazioni dorate ed azzurre trasporta, seduta su un cuscino appoggiato sulla sua groppa, una donna, vestita solo con un copricapo a ventaglio, un corteo di, immagino, schiavi neri e schiave danzanti, con turbanti, flabelli ed anfore di profumo lo scortano , tengono al guinzaglio flessuosi e sottili levrieri, un ghepardo ed un leopardo, l’insieme è al contempo chic e kitsch, mosso e fantasioso,
bellissimo. Domenico Rambelli, scultore esimio di cui abbiamo da poco ammirato a Brisighella l’imponente ed originale monumento ai caduti che rappresenta un soldato addormentato, espone alcuni vasi decorati con fiori ed un elegante ciotolone a due strati separati da sfere dorate in pendant con analogo vaso. Due parole per il poliedrico architetto Giovanni Guerrini, di cui compaiono bellissimi manifesti, coppe di vetro ed oggeti d’uso fra cui geometriche scatole di radica , specchiere dorate dalle appuntite decorazioni, e coppe da gelato in maiolica ed argento così belle da esibire alla vista degli ospiti in una apposita vetrina e mai e poi mai usare!
di Simonetta Zanuccoli
Cannes mon amour
Domenica 28 maggio finisce la grande kermesse del Festival del Cinema di Cannes 2017. Quest’anno è stata un’edizione speciale perchè si è festeggiato i 70 anni dalla sua nascita. L’idea di creare un festival in opposizione a quello di Venezia nacque a Philippe Erlanger, allora direttore dell’ Association Francaise d’Action Artistique. Secondo lui e a un gruppo d’intellettuali francesi la manifestazione italiana risentiva troppo dei legacci del regime fascista che aveva imposto, ad esempio, nell’edizione del 1938 la proiezione del documentario nazista Gli Dei dello stadio di Riefenstahl e Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini. Dopo aver selezionato 10 città francesi che potessero, almeno in parte, competere con il fascino di Venezia, fu scelta, in un primo momento, Biarritz ma poi Cannes fu ritenuta la più adatta per le sue spiagge e il clima incantevole. Il Festival doveva iniziare i primi di settembre del 1939 ma il progetto fu drammaticamente interrotto perchè proprio in quei giorni Hitler invadendo la Polonia faceva precipitare il mondo nella Seconda Guerra Mondiale. Così il debutto della manifestazione fu rinviato al 1946 con 49 film di 19 nazioni, la giuria composta di personalità solo francesi (e rimarrà tale fino al 1954), la Croisette vestita a festa e una parata di leggende del cinema, già affermate o pronte ad esserlo, su quello che diverrà il mitico tappeto rosso. Il Festival è stato punteggiato di figure simbolo di diversi tipi di femminilità che cambiavano con lo scorrere degli anni: dalla tragica bellezza di Anna Magnani che con Roma città aperta di Rossellini vincitore del Grand Prix come miglior film (1946) divenne una delle attrici italiane più famosa a livello internazionale, all’ ingenuamente maliziosa Brigitte Bardot, giovanissima, che nel 1953 sulla spiaggia di Cannes faceva i primi passi da diva coperta solo del suo famoso bikini. E poi Claudia Cardinale che, splendida Angelica nel Gattopardo di Visconti del 1963, fece sognare la platea ballando con il bellissimo Tancredi (scusate sono della generazione per la quale Alain Delon era l’uomo più affascinante nel mondo) nel salone di palazzo Gangi a Palermo sotto gli occhi gelosi del principe di Salina (famoso divenne, a sua insaputa, un ghepardo che nei giorni del Festi-
val passeggiava sulla Croisette tenuto a guinzaglio. Tutti credevano che fosse la pubblicità del film di Visconti e invece era del circo Franchi appena arrivato in città). La bionda eleganza di Catherine Deneuve che dopo il suo debutto nel 1964 con Les parapluies de Cherbourg di Demy, diventerà una presenza fissa a Cannes (quest’anno è stata vice presidente nella giuria). E ancora, nel 1992 la bionda Sharon Stone si confermerà sex symbol con torbida scena cult in Basic Instinct di Paul Verhoeven e la bruna, mediterranea Monica Bellucci che nel 2000 fece il suo debutto a Cannes e quest’anno, per la seconda volta dopo il 2003, è maitresse de cérémonie del Festival. A l’oro di 18 carati della Palma, che rappresenta il simbolo della città impresso un po’ dovunque, e che non è stato disegnato da Cocteau, come vuole la tradizione, ma da Suzanne Lazon, quest’anno saranno aggiunti diamanti per un valore complessivo di 20.000 euro. Il prestigioso trofeo in edizione lusso fatto da Chopard, gioielliere ufficiale del Festival, sarà duplicato anche in versione più piccola da 2.000 euro per i premi minori. Ogni anno il Festival di Cannes è un incontro artistico e mondano che attira molti produttori, attori, registi e agenti da tutto il mondo. La spiaggia
viene letteralmente allestita per accogliere feste serali il cui costo per partecipare varia dai 5.000 agli 11.000 euro. I prezzi degli appartamenti e degli alberghi salgono a cifre da capogiro. Una suite di 1000 metri quadri sul tetto del Martinez costa 38.000 euro a notte, mentre è sconosciuta la cifra di quella più costosa di Cannes, al 7° piano del Hotel Majestic, con piscina in terrazza e sala di proiezione privata. I 60 metri di tappeto rosso, immortalato da migliaia di fotografi, viene cambiato 3 volte al giorno. La popolazione di Cannes triplica durante il Festival. La Croisette è invasa da migliaia di curiosi e ammiratori che cercano di vedere, anche con l’aiuto di altissimi scalei, il passaggio degli attori che dagli alberghi vanno al Palais des Festivals et des Congres. Per la preparazione e nei 12 giorni della durata del Festival sono assunte più di 3000 persone adibite agli allestimenti, alla ristorazione e all’ospitalità. Su tutto quest’anno campeggiano da settimane i manifesti del Festival che ritraggono la foto del 1959 di una giovanissima Claudia Cardinale mentre balla in una terrazza sui tetti di Roma. Un manifesto da collezione, ma nessuno, nemmeno l’attrice, ricorda il nome del fotografo che scattò l’istantanea.
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di Gabriella Fiori 28 aprile 2017: l’Affratellamento di Firenze, luogo storico della città perché, nato come Società di Mutuo Soccorso per i lavoratori e le lavoratrici il 1° luglio 1876 in una casa colonica secentesca, ha durato sempre allo stesso posto dal 1888 nell’evolversi della zona a ridosso del Viale dei Colli in rapporto a Firenze capitale. Reso poi nel 1944 dopo la Liberazione di Firenze ai suoi legittimi proprietari, i soci, come Società Ricreativa,è oggi teatro, sala di concerti in collaborazione con il Conservatorio Cherubini,cine-forum,aula di seminari, conferenze e presentazioni,e accoglieva Esther Basile con il suo “Pasolini indomito corsaro”, Homo scrivens 2016, pubblicato con l’egida dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Facevano gli onori di casa fiorentini il Presidente della Società Luigi Mannelli, Gabriella Fiori e Maria Ester Mastrogiovanni. Pier Paolo Pasolini, PPP (Bologna 1922-Ostia 1975):ogni contatto con la sua opera polifonica (saggi, poesie, romanzi, film, un’antologia unica nel suo genere come il “Canzoniere italiano” della poesia popolare) è stato per me bruciante, una sfida all’emozione e alla riflessione, un insegnamento sul piano espressivo della mia lingua materna, l’italiano e i suoi dialetti, sui luoghi d’Italia, dal Friuli alla Sicilia, sui raccordi fra passato e presente(Giotto e Masaccio suoi pittori prediletti e il cinema più ardito, “la lingua scritta della realtà” come diceva) e sul piano profetico, data l’attenzione della sua sensibilità, in tutti i pori della pelle direi, alla mutazione in atto nel mondo. Il tono di questo libro che vedo come una biografia-diario di Pasolini ci invita fin dalla foto di copertina, (archivio privato del poeta Elio Pecora, risale al Premio Viareggio 1957 da PPP ottenuto per il poemetto “Le ceneri di Gramsci”) al dialogo con questo artista-profeta, dalla radicalità dolorosa dipinta nello sguardo nero interrogante. Esther Basile ha familiarità con l’opera di PPP dall’adolescenza, quando iniziò la sua formazione filosofica con Gerardo Marotta,da poco scomparso, presidente del glorioso Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli,fondato nel 1975 da illustri membri dell’Accademia dei Lincei fra i quali Elena Croce, che chiamarono Marotta avvocato a quel ruolo. Tale familiarità nutre i 6 capitoli del suo saggio introduttivo dove ogni capitolo denso e sobrio si accosta a un lato di PPP e per noi lo sigilla con una sua pagina. Rispondono come echi in armonia gli altri sag-
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Ritrovare Pasolini gi di analisi puntuale (PPP e Calvino; e la Calabria; e Napoli; e l’arte; e lingua e dialetto; e teatro);testimonianze d’incontri, poesie evocative e documenti inediti o mal reperibili come articoli della Fallaci e l’intervista di Dacia Maraini. Completa l’avventuroso viaggio la visita con fotografie alla Torre di Chia, rifugio nei boschi di Pasolini cercatore di silenzio e di verde per scrivere e dipingere, non più visitabile. Impossibile dirvi uno per uno come vorrei gli apporti suggestivi di quest’opera che è”corale” (Mastrogiovanni) come lo esigeva la natura “corale” della Basile e la polifonia di PPP. Mi limiterò a due citazioni da Esther Basile grazie alle quali siamo portati nel cuore di questa vita inquietissima e insieme pacificata dal proprio ideale di liberazione della realtà, la prima sul tema “scomparsa delle lucciole”(“Corriere della Sera” 1.2.1975) : imprevisto “fenomeno fulmineo e folgorante” opera dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua, è in PPP
“allegoria per esprimere la sparizione della bellezza dal mondo e della tendenziale trasformazione di ogni esistenza vivente”. La seconda ci offre la chiave della sua vita spirituale,con la poesia “Supplica a mia madre”(da “Poesia in forma di rosa”, Garzanti 1970, p. 125). Qui egli lamenta la sua solitudine e la sua “fame d’amore” per “corpi senza anima” perché “la mia anima è in te, sei tu, ma tu/sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l’infanzia schiavo di questo senso/ alto, irrimediabile, di un impegno immenso.” L’impegno è quello , del pedagogo, cosa che PPP è, “ mentre scrive, prima e più di uno scrittore” ben dice la Basile. Lo confermano questi pochi versi, che traggo da “La realtà”: “Oh fine pratico della mia poesia!/Per esso non so vincere l’ingenuità che mi toglie prestigio,/per esso la mia lingua si crepa nell’ansietà [...] Cerco nel mio cuore solo ciò che ha!” (Ivi, p. 126)
Dimore sacre
di Ines Romitti Il progetto espositivo “Dimore Sacre” non poteva partire che da qui, nella meravigliosa “periferia” toscana, dal Mugello, ricco di paesaggi e percorsi, legato strettamente a Firenze quale culla della casata dei Medici. Non c’era luogo più adatto del Palazzo dei Vicari, cittadella trecentesca di pietra e mattoni, presenza imponente nel borgo di Scarperia, dove installare l’interessante lavoro a quattro mani della pittrice Chiara Crescioli e dello scultore Carmelo Cutuli. La mostra è curata dal professor Adriano Bimbi, docente di pittura all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze, con cui i due artisti hanno da alcuni anni intrapreso e sviluppato in questa realtà territoriale un formativo percorso culturale. Dislocate nel cortile possente le opere, sei tabernacoli alti oltre due metri, come un concerto si articolano dal punto privilegiato da cui sono percepibili tutte insieme - in una ricerca della perfezione come avviene nelle composizioni delle pietre nei giardini zen – in uno spazio armonico che induce ad un’esperienza immersiva, alla ricerca della prospettiva in movimento da più punti di vista e scorci privilegiati. Le strutture in legno inglobate nella schiuma poliuretanica, in cui la “misura” fisica ed intellettuale è rappresentata dalla figura umana e dalle sue proporzioni, nell’originale sperimentazione materica di Carmelo che consolida e definisce le sue creazioni con smalto bianco riflettente, accolgono ed inglobano i disegni di Chiara in una sintesi semantica e compositiva perfettamente riuscita. Diventano “dimore” con pieni e vuoti, pause e accenti, scabrosità e luce per i volti, le figure antropomorfe, i segni iconici, i simboli autobiografici che vi si rafforzano e insediano indissolubilmente. L’innesto creativo della poetica intimistica dei graffiti sfumati, che Chiara patina fino a rendere traslucidi nei tabernacoli evocativi crea chiasmi, incroci immaginari tra due entità, tra due concetti speculari. L’importanza attrattiva nel territorio mugellano della mostra ambientata nello storico palazzo, raffigurato da Vasari sul soffitto di Palazzo Vecchio, è stata sottolineata dal Sindaco di Scarperia e San Piero Federico Ingesti e dall’Assessore alla cultura Marco Casati durante l’inaugurazione, occasione in cui la storica dell’arte Valentina Filice ha evidenziato la chiarezza ed il valore del racconto spazio-temporale delle opere, con cui gli artisti “riflettono sul tema della costruzione, perdita e reinterpretazione di codici iconografici e valori iconologici nell’arte del secondo millennio”
e lo scultore Bimbi, esaltando “l’idea della purezza nel candore delle opere” che si stagliano in tutto il loro bianco accecante contro il rude paramento murario della pietra forte, ha posto l’accento sul percorso artistico spirituale che di Gianni Biagi
ingloba la memoria collettiva dei luoghi. La mostra è visitabile gratuitamente nell’atrio del Palazzo dei Vicari, sino a domenica 25 giugno, tutti i giorni nel seguente orario: 10:00/18:00.
Delle ringhiere e delle responsabilità
Quello che fa più male non è la brutta ringhiera apposta sul parapetto del più bel ponte della città, ma la resa alla stupidità. Bartolomeo Ammannati nel progettare il ponte a Santa Trinità, distrutto dalla mine tedesche nell’agosto del 1944 e ricostruito con passione e meticolosità dove era e come era da un gruppo di tecnici guidato da Riccardo Gidzulich e Emilio Brizzi nel primo dopoguerra, non aveva certo pensato alle possibili incongrue utilizzazioni di quelle pigne alte sul fiume e raggiungibili dal ponte scavalcando il parapetto. Perchè salire sul parapetto e scendere a sedersi sulle pigne, senza protezione e alti sul fiume di almeno una decina di metri, è un atto di intrinseca pericolosità come è fa-
cilmente percepibile da chi abbia provato a farlo. E la responsabilità delle conseguenze di quel gesto non dovrebbe ricadere sulla collettività, o sulle pubbliche autorità, ma solo su coloro che lo compiono. Nei grandi parchi e nelle riserve naturali australiane chi entra trova sempre un cartello che ammonisce “La vostra sicurezza è una nostra attenzione ma una vostra responsabilità”. Ecco un paese dove i cittadini sono trattati come tali, con diritti e anche con doveri, e non come bambini impauriti da portare per mano. La ringhiera sul ponte a Santa Trinità racconta purtroppo una storia diversa; quella di un paese alla continua ricerca di un responsabile altro da se stesso.
21 27 MAGGIO 2017
di Roberto Barzanti Il libro che Duccio Balestracci, medievista all’Ateneo senese, ha dedicato a “La battaglia di Montaperti” (Laterza, Bari-Roma 2017) sta riscuotendo un successo, almeno a Siena, da un singolare attaccamento civico a quella che una volta si sarebbe detta “storia patria”. E non è un patrimonio da buttar via o irridere. Semmai è essenziale chiamarlo ad una conoscenza critica nuova di snodi e avvenimenti che hanno costruito un’“identità” da ripensare e decostruire. Identità – si sa ormai – è parola accidentata, perché pretende di fissare atemporalmente una serie di elementi utili a identificare una volta per tutte realtà mobili e logiche tutt’altro che univoche. Ed è concetto imparentato molto con “ideologia”, con le deformazioni che questo comporta. La problematica è stata al centro del convegno su “Identità cittadine e uso della storia” organizzato dall’Accademia degli Intronati svoltosi il 19 e 20 maggio . Che è stata una vivace e partecipatissima occasione per approfondire questioni con le quali, anche senza accorgersene, ci imbattiamo ogni giorno nel discorso pubblico sulle perenni risse toscane. Perché il nome stesso di Montaperti esercita su molti tanta attrazione? Il fatto è che l’imprevista vittoria ghibellina di quel 4 settembre 1260 è stata percepita e tramandata nel popolare sentire come fatale svolta, dalla quale son derivati amari rimpianti, arrovellate ipotesi, deprecazioni accorate e scherzose rivalità. Orgoglio e delusione: quella battaglia non si è mai conclusa. Il libro di Balestracci, che ha il piglio d’una piacevole lezione, lo spiega bene. Il paradosso è che della battaglia in quanto tale si sa poco o nulla. Le testimonianze dirette e coeve sono state distrutte per servilismo filofiorentino. Resta qualche frammento di lettera trascritto assai più tardi, ma serve a ben poco. Ed il “romanzo” di questo scontro immaginabile a piacere, questa sorta di vuoto misterioso, ha favorito l’amplificante mitizzazione e collocato l’insperato trionfo del composito esercito fatto da animosi senesi, fiorentini fuorusciti, esperte truppe inviate da Manfredi e perfino dai saraceni di Lucera, in una luce che rende indecifrabile il confine tra realtà e fantasticheria. Suscita domande senza risposta, accende idee senza riscontro. Nonostante questo incolmabile deficit “si può cercare di capire – scrive l’autore – che cosa abbia rappresentato la battaglia di Montaperti, a patto, però, di liberarla dalla ‘camicia di forza’ localistica: la stessa che ha fatto di questa giornata una tappa fondamentale della costruzione della memoria condivisa di una città fino ai giorni nostri”. Il piano della narrazione leggendaria e il grumo di passioni che lo sostie-
22 27 MAGGIO 2017
Lo snodo di Montaperti
ne s’intreccia di continuo con l’esplorazione delle mosse strategiche e i documentati disegni diplomatici che prepararono il sanguinoso scontro. E quanto agli effetti il discorso resta criticamente aperto, perché la storiografia non ha il compito di chiarire tutto e di illuminare per filo e per segno il passato, ma di sollecitarne una consapevolezza interrogativa, non ostile a arricchimenti e a revisioni. Che la battaglia sia stata letta e vissuta come scontro tra le città – Siena e Firenze – che capeggiavano le opposte coalizioni è del tutto naturale ed il problema vero per una reinterpretazione aggiornata – avviata da tempo – non è ridurre il peso avuto nel quadro della lotta per l’egemonia in Toscana. È, piuttosto, intendere il ruolo che la “guerra” di Montaperti ebbe in un panorama europeo, che coinvolse Papa e Impero, Regno della Sicilia, Francia e Castiglia. Le due dimensioni non confliggono, sono semplicemente il risultato di punti di vista diversi. Che, malgrado l’exploit in riva d’Arbia, Siena non avesse alla lunga le potenzialità per prevalere su Firenze è fuori discussione. A Montaperti, però, si apre uno spiraglio. Se l’offensiva contro Firenze fosse
proseguita più dura e decisa che sarebbe accaduto? La linea di Farinata degli Uberti, alimentata da un indefesso amor patrio, concorse nel frenare ambizioni troppo audaci. La morte nel febbraio 1266 di Manfredi, re di Napoli, l’alleato determinante, “grande amico – si legge in una pagina di anonimo – di parte ghibellina” fa tutt’uno col declino di un sogno che non fu solo spezzato sui campi di battaglia di Benevento (1266) Tagliacozzo (1268) e Colle (1269). Lo stesso anonimo scrive che nel settembre del ’65 era comparsa in cielo una cometa con una lunga coda che gli astrologhi decriptarono come annuncio delle “morte di grande signore”. E come un rapido transito di una cometa si eclissò e scomparve la breve prevalenza ghibellina. Se le terre del centro Italia fossero state unite a quelle del sud chissà che corso avrebbe avuto la storia della penisola. E la “questione meridionale”? Si perdoni l’anacronismo. Montaperti induce a inquietanti quesiti. Non è vero che la storia non si fa con i se. La storiografia non può ignorare le alternative possibili o meno. E negli interstizi che permangono tra quanto accadde e quanto forse sarebbe potuto accadere s’insinua una curiosità che non mette fine alle diatribe. I miti – hanno teorizzato antropologi illustri come Bruce Lincoln – tornano ad avere più capacità mobilitante di una laica e fredda storiografia. Il fenomeno merita una considerazione che va al di là di un colpo editoriale. Il libro di Balestracci non si inserisce nella cultura del post-moderno, che nega i fatti e lascia spazio solo all’ interpretazione di quanto non si sa bene sia avvenuto. Montaperti sopravvive proprio per questo situarsi in bilico tra realpolitik e immaginario, tra “verità” e probabilità. Non hanno torto quanti argomentano che il trionfo ghibellino, accelerando l’alleanza tra Chiesa e Angiò, produsse conseguenze opposte a quanto ci si poteva attendere. L’effimero trionfo ghibellino aprì davvero la strada all’estesa affermazione guelfa. E qui conviene mettere punto per non rischiar d’ingigantire (in negativo) il mito di Montaperti più ancora di chi la considera (impropriamente) l’occasione perduta per assicurare a un futuro di Siena assai diverso da quello che le è toccato. Chissà se migliore.
di Roberto Mosi “Il Catalogo di Pittopoesia” riporta la rassegna delle esperienze e dei lavori realizzati negli ultimi sette anni da Enrico Guerrini e Roberto Mosi, nel corso di eventi e perfomances legati a recital di poesia e alla pittura all’impronta, con il supporto del cavalletto e dei gessetti colorati. Sette un numero mitico, già richiamato dal titolo dell’Antologia “Poesie 2009-2016”, Giuliano Ladolfi Editore, che riprende raccolte di poesie e poemetti pubblicati da Mosi nello stesso periodo di tempo; Antologia che la Rivista “Cultura Commestibile” ha affidato al commento critico di Mariangela Arnavas (n. 200/2017). Il Catalogo presentato alla Gadarte richiama il versante pittorico e poetico dell’Antologia, come se la forma e il colore dei disegni esaltassero la sonorità dei versi, non sono illustrazioni delle poesie ma un completamento e un arricchimento delle stesse. Si compone di venti capitoli che non sono altro che la scansione degli incontri per la presentazione nei caffè letterari, nelle librerie e gallerie, di libri ed e-book illustrati, video, opere uniche “d’artista” . Ogni capitolo è, per così dire, di carattere multimediale, una materia viva con un rinvio costante alla rete. Lo stesso Catalogo è disponibile nel formato video youtube (si veda all’indirizzo: https://youtu.be/Zx8T5j1sGbg) e può essere richiesto agli autori nel formato pdf. Nella premessa si rende omaggio alla poesia visiva degli anni cinquanta e sessanta – ad iniziare da Eugenio Miccini – fonte costante, e attuale, di ispirazione. Nell’introduzione al Catalogo, poi, che è, come si diceva, il diario di un lavoro comune di Mosi e Guerrini, iniziato con la presentazione nell’ottobre del 2009 della raccolta “Nonluoghi” alla Biblioteca del Palagio di Parte Guelfa, ci si chiede quali sono le ragioni di questa consonanza. Riteniamo che sia rilevante l’interesse di Enrico Guerrini per la narrazione mitica , la passione del comporre per fumetti, la capacità di approfondire e assimilare testi letterari (e musicali), la curiosità naturale per nuove tecniche e materiali, gli studi all’accademia e la preparazione nella scenografia, in particolare. Contano, dall’altra parte, i caratteri della poesia di Roberto Mosi, una poesia dal linguaggio semplice e immediato, composta spesso da immagini, rivolta alla narrazione, dal quotidiano agli episodi del mito, rivissuti come passaggio per interpretare fatti della nostra contemporaneità, una narrazione svolta con mano leggera, senza mai prendersi troppo sul serio, con guizzi sul versante dell’ironia.
Nel percorso fatto dagli autori, i caratteri ora richiamati, dell’uno e dell’altro, si sono incontrati in vario modo, hanno, per così dire, comunicato, in questa società liquida, secondo l’espressione di Baumann, si sono fatti piccoli ma concreti passi, sulla strada di un pensiero creativo, legato alla pittopesia.
Pittopoesia
23 27 MAGGIO 2017
di Romolo Perrotta Ognuno dà di un testo letterario l’interpretazione che vuole. Almeno così si illude. Quando hai vissuto, per una ragione o per l’altra, la dimensione dell’emigrato, allora leggi il testo di Rino Garro con occhi diversi. Anzi, con animo diverso. Vi si parla di valigie perché la valigia è la sintesi iconografica del viaggio. L’autobiografia fa il resto: Rino va a trovare un conterraneo, ristoratore, emigrato in Inghilterra. Lì, tra l’entusiasmo dell’incontro – da una parte –, e il desiderio di raccontarsi reciprocamente – dall’altra –, càpita un incidente di percorso (poiché si è in automobile), ma non contro un’altra auto, un muro o un passante; contro un poliziotto che interpreta al massimo, anzi molto più del dovuto, il suo ruolo di controllore e censore, dell’istituzione che – quando non è espressione della libertà di ciascuno (come auspicavano gli illuministi) – diventa limite e oppressione… Anch’io ne ho riempito e svuotato, scaricato e caricato di valigie: ma nell’uno o nell’altro caso non sono mai riuscito a portarci ciò che restava, da una parte e dall’altra, ogni volta, a una nuova partenza. Quello che resta: ecco cos’è l’“invaligiabile”, l’incontenibile materiale che sfugge a ogni controllo (dell’innocente, figurarsi del poliziotto…). E puoi anche continuare a girare il mondo da un capo all’altro, riempire e svuotare valigie e svaligiare della tua presenza luoghi e appartamenti, auto o bistrò, il risultato non cambia: c’è sempre qualcosa che resta lì da dove sei partito, fino all’ultima volta. Figurarsi poi quando l’esperienza del viaggio migratorio la si vive almeno in due. Allora è inevitabile riempire di senso i banali e fugaci incontri della dimora stanziale, cortocircuitare eventi e parole, provare a raccogliere nello spazio breve di qualche ora o di una notte l’intero vissuto della vita. Non si può leggere questo breve racconto senza provare un forte, nostalgico e ciononostante esplosivo senso di grandezza e provvisorietà nel contempo. Grandezza per la misura stessa del viaggio, che implica coraggio, abbandono, determinazione, voglia (espressa, ma soprattutto interiore) di fuggire, incontrare l’altro e l’altrove, il nuovo, l’entusiasmante, il decisivo: incluso il potenzialmente più nuovo e decisivo al massimo che è la morte. Provvisorietà per il riflesso inderogabile che il viaggio rappresenta della vita, perché imprevisti e incidenti di percorso caratterizzano e danno senso all’uno e all’altra, perché la vita stessa è un viaggio nel
24 27 MAGGIO 2017
tempo, nei giorni, nella quotidianità. Grandezza e provvisorietà insieme perché anche la stanzialità di una galera non può impedire di viaggiare. E poi, migrante o meno, sai che la valigia della vita si riempie e si svuota anche quando non vuoi: e sempreché in un momento di follia, di ubriachezza o di paura, di rabbia o di disperazione, tu non intenda darle fuoco, sai che hai da portartela con te, comunque, dovunque; tenuta forte con lo spago in aggiunta, quando la forza delle cerniere predisposte non basta. Per questa ragione, il breve racconto di Rino
non solo attrae per come è scritto, ma continua a tenerti in sé, custodendo il tuo passato da migratore, grazie al quale hai compreso la vita, e invitandoti a non arrestarti, anzi a proiettarti verso nuove mète, affinché la vita continui a essere vissuta (per parafrasare Kierkegaard). Rino mi ha raccontato che la doppia versione del testo trova una sua spiegazione nel fatto che lì, a Hazel Grove, Stockport, nel ristorante di Mario, gente di passaggio, consumatori fugaci e frequentatori assidui, ne trovano sempre a disposizione delle copie, che portano con sé, prima d’essere presi a loro volta dal racconto…
L’invaligiabile & altre riflessioni