Numero
10 giugno 2017
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Viva viva viva l’Inghilterra
«Corbyn? Ai laburisti piace perdere... Hanno reso felice Cameron con un leader che non canta l’inno» Matteo Renzi nel 2015 Ma non è solo
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
«Con Corbyn i laburisti si avviano a 20 anni di sconfitte. Si vince al centro, non con la vecchia piattaforma di sinistra». (T.Blair) «Corbyn rappresenta la certezza che i laburisti non dovranno battersi per il governo almeno fino al 2020. È autolesionismo di ritorno di un grande partito che potrà dedicarsi a coltivare in solitudine le fantasiose ricette di Corbyn». (A. Romano) «Corbyn è stato eletto da chi si illude nel sogno di un Labour selvaggio e invece perderà a manetta». (G.Riotta) «E così Corbyn il Rosso si è preso il Labour Party. Chi sarà più felice, Ken Loach o Cameron?» (S.Staino). «Theresa May ha scelto il momento migliore per indire elezioni» (B. Guetta) «Il primo ministro non poteva scegliere un momento migliore in termini economici per convocare le elezioni» (A. Brummer) «La May apre un’opzione anche migliore di quanto previsto inizialmente» (G. Saravelos) «Per la May un rischio calcolato facilmente e i cui esiti andrebbero tutti a suo vantaggio» (D. Vernazza) «Corbyn è la sinistra che non vuole vincere mai» (M.Guandalini) «Dopo il Partito socialista francese, un altro grande partito della sinistra europea rischia di scomparire». (F.Gerace) «La sinistra inglese ha fatto una scelta semplice e suicida: l’internazionale dei Corbyn funziona solo nei talk show (C.Cerasa)
Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Cambio di scena. Ho deciso di spostarmi in un’altra area non troppo lontana, un quartiere abitato principalmente da cinesi. Ho cominciato a girare senza una vera meta e presto mi sono imbattuto in un gruppetto di ragazzini che si divertivano, come da noi del resto, ad arrampicarsi sulle pareti di questo edificio abitato quasi completamente da cinesi. Le condizioni dell’immobile, una volta sicuramente più che decoroso, non erano particolarmente degradate ma le strade in tutto il vicinato erano piuttosto mal tenute. Calcinacci e sporcizie varie, non tragiche come in altre zone, erano piuttosto visibili e caratterizzavano un pò questo angolo della città.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
10 giugno 2017
288
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Riunione di famiglia Le regole del gioco Le Sorelle Marx
Il mago dei numeri Lo Zio di Trotzky
Questione di bivacco I Cugini Engels
In questo numero La grande illusione di Paola Grifoni
Chi ha paura di un disegno della Dea Kalì? di Claudio Cosma
Questione di fisica di Mariangela Arnavas
Da Diana di Poitiers a Brigitte Trogneux di Simonetta Zanuccoli
Momentum: rebellious millennials di Domenico Villano
Il mediterraneo di Mimmo Lo Russo di Franco Camarlinghi
Ossessione latina di Alessandro Michelucci
Vecchi amici sotto lo stesso tetto di Giampaolo di Cocco
Inta Ruka gente di Lettonia di Danilo Cecchi
Capolavori dell’architettura per i fiori di Pescia di Mauro Cozzi
La chiesa di Rossi-Prodi di John Stammer
e Laura Monaldi, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Cristina Pucci, Remo Fattorini, Paolo Marini, Mario Cantini...
premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Direttore Simone Siliani
Sud. Bocca. Grovigli., il racconto terzo classificato è a pagina 16 Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
di Paola Grifoni Il recente pasticcio sulla legittimità delle nomine dei direttori dei musei, ci invita a considerare la riforma, voluta dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi applicata dal Ministro Franceschini sotto altri aspetti, meno evidenti e di minor risonanza mediatica delle nomine dei direttori “stranieri”, ma sostanziali per i contenuti, primo fra tutti quello che con un colpo di spugna, ha stravolto il sistema di tutela del nostro paese senza che i media e i non addetti ai lavori ne riuscissero a valutare la portata. Da più parti si è analizzata, criticata, lodata, la riforma MiBACT ma da nessuno, ad oggi e stata colta l’essenza vera di questa metamorfosi, così come è stata percepita e vissuta dai dipendenti del Ministero tutti: personale, funzionari e dirigenti. Infatti i contenuti della riforma hanno non solo stravolto, ma completamente annullato il ruolo del Ministero nell’attività di tutela storico, artistica, monumentale, archeologica e paesaggistica. E’ stata una riforma di carattere prevalentemente amministrativo, studiata a tavolino, senza che venissero acquisite e preservate la storia, le vicende e le scelte che avevano portato all’istituzione del Ministero, condotta da “esperti” individuati al di fuori della struttura e che con gli uffici periferici, vera anima del MiBACT, non si sono mai confrontati. Non si sente più parlare di Soprintendenze, di cui sono state annullate le esperienze scientifiche e l’autorevolezza, tanto odiate e vituperate dal nostro ex Sindaco ed ex Presidente del Consiglio, depauperate di ruolo, personale e competenze. Il MiBACT è ormai identificato come il Ministero dei Musei, ma solamente dei Musei già conosciuti in tutto il mondo, quelli che portano soldi e turismo; se poi
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La grande
illusione
ciò che rimane, ovvero quel patrimonio enorme, meraviglioso e diffuso che costituisce la peculiarità di questo paese va in rovina, non è più una priorità del Ministero. A fronte di una ventina tra Musei e complessi museali considerati le “eccellenze” del nostro paese, tra cui comunque si distinguono alcuni come gli Uffizi, l’Accademia, il Colosseo e Pompei ci sono, solamente in Toscana altri 44 Musei di grande rilevanza (è sufficiente ricordare tra questi le Ville Medicee recentemente inserite nel patrimonio UNESCO) e nelle altre Regioni 245 strutture di cui nessuno parla, neanche il nostro onnipresente Ministro. Sono Musei lasciati alla deriva dall’amministrazione centrale, diretti da funzionari nei ruoli dello Stato, gestiti ai limiti dell’umana possibilità (senza che possano esternarlo), da ottimi dirigenti dei Poli Museali Regionali: 17 nuove strutture istituite con la riforma avulse dal contesto territoriale. I Direttori dei Poli, sono dirigenti cresciuti nei ranghi della Pubblica Amministrazione, giunti a ricoprire quel ruolo attraverso selezioni durissime e la partecipazione ad un corso intensivo presso la Scuola Superiore della P.A., durato 8 mesi e con una prova finale, considerato fondamentale per quella formazione manageriale ormai ritenuta necessaria in ogni campo. Peccato che il manager, che opera nella P.A. non abbia la stessa autonomia di quello che opera nel settore privato. Lascia perciò perplessi il fatto che lo Stato, che ha impegnato risorse economiche ed i suoi migliori dirigenti per farne degli ottimi manager, abbia poi scelto, per dirigere i suoi Musei più importanti, soggetti di varia formazione (non entro nel merito della scelta dello “straniero”), con l’unico obiettivo di valorizzare il Museo sotto l’aspetto consumistico ed economico, concedendogli una autonomia mai consentita ai dirigenti di ruolo. Mai come in questi ultimi due anni il MiBACT è stato presente nei telegiornali di Stato, nei programmi divulgativi, culturali e turistici, mai Ministro è stato più intervistato di Franceschini. Ci chiediamo dove fosse il Ministero e i suoi vari rappresentanti negli anni precedenti, quando le Soprintendenze mandavano avanti la tutela monumentale e paesaggistica, venivano contattate da Ministeri, Università e studiosi di paesi stranieri, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Cina alla Germania, alla Francia e
ancora…. che riconoscevano il ruolo di supremazia ed eccellenza del nostro Paese e delle nostre Istituzioni, nel restauro e nella tutela; dove fosse quando i Musei svolgevano la loro attività educativa, scientifica e di ricerca attraverso iniziative e mostre di rilevanza internazionale. Per questo ci chiediamo cosa sia oggi questo Ministero, nato da una riforma costruita a suon di decreti e manovrine della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha dimenticato quella missione di tutela e restauro, quell’attività tecnico-scientifica per cui era stato creato nel 1975, dopo anni e anni di dibattito culturale e organizzativo svolto nelle aule parlamentari. Bisogna essere consapevoli che i grandi numeri di visitatori ed introiti dei biglietti, sbandierati in ogni occasione a supporto della bontà della riforma, sono il frutto non di formule magiche applicate dai nuovi direttori dei Musei, siano essi italiani o stranieri, ma situazioni evidenti: il terrorismo che ha colpito le mete turistiche privilegiate, ha portato gli italiani a preferire località più vicine e a visitare o rivisitare dopo anni, i nostri musei; l’equazione è semplice, il risultato sicuro, l’incremento dei visitatori dei soliti musei è proporzionale all’incremento del turismo in Italia; il conseguente aumento degli introiti è dovuto anche alle nuove disposizioni ministeriali (e non da una scelta individuale dei direttori dei Musei) che hanno reso gratuita la visita la prima domenica del mese a scapito dell’ingresso libero permanente concesso solamente ai pensionati …. e si sa il nostro è un paese di anziani. In conclusione, anche se ancora ci sarebbe tanto da dire, la riforma è più che una illusione: ha stravolto e annullato il sistema, i ruoli le competenze. Ha lasciato nel più totale disorientamento i dipendenti e l’utenza: è sufficiente scorrere la stampa cittadina, e non solo, dove quotidianamente ed inopinatamente viene intervistato un direttore di Museo sulle scelte che l’Amministrazione Comunale attua sul decoro di Firenze. Eike Schmidt ha esclusiva competenza sulla struttura che dirige: forse il Ministero non gli ha chiarito i limiti del ruolo che riveste, né quel ruolo è stato pienamente compreso all’esterno. Sono altri i rappresentanti del MiBACT sul territorio, che la riforma non ha ancora cancellato, i soli competenti in materia di cultura e tutela che debbono essere coinvolti ed ascoltati nelle scelte culturali della città.
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Le Sorelle Marx
Le regole del gioco
E’ tornata a farsi vedere la Mary Ellen Boschi che, come un cane da tartufi, ha un fiuto speciale per le elezioni e quando ne sente l’aroma si mette in cerca... di visibilità. Ma, durante una sua visita al Cottolengo di Torino, ha subito ingenerato qualche equivoco. Ha così sentenziato la Boschi: “Le regole del gioco è sempre bene
che vengano scritte insieme con una maggioranza ampia”. Ma come – si sono chiesti i più – o non era stata proprio lei a volere una riforma costituzionale e la legge elettorale “Italicum”, quest’ultima votata con la fiducia (a proposito di fare le regole insieme...), fondate sul principio che chi vince anche di un solo voto prende
Lo Zio di Trotzky
I Cugini Engels
Il mago dei numeri Qualche giorno fa il Messaggero aveva scoperto chi era la mente dietro la strategia sulla legge elettorale di Matteo Renzi: Dario Parrini da Vinci, in arte segretario del Pd toscano. È lui, ha svelato il quotidiano romano, il “mago dei numeri”, colui che analizza proiezioni elettorali dei sistemi tedeschi, lussemburghesi, finlandesi o congolesi; il fine analista e consigliere che da dietro le quinte interroga e interpreta serie storiche di dati elettorali e li proietta verso il renziano sol dell’avvenire. Invero, da segretario regionale del partito erede della tradizione del buongoverno toscano della sinistra, il Parrini detiene il record di amministrazioni locali perse a favore della destra, del M5S e di varie liste civiche. Ma tant’è… è il mago dei numeri. Ma restano memorabili i suoi commenti e le sue previsioni elettorali che ammannisce dal profilo facebook. Il 25 aprile, ad esempio, bacchettava i “penosi editorialisti italiani che arzigogolano sul primo turno delle presidenziali in Francia”. Per lui era evidente ciò che gli altri stentavano a dire: “il risultato ottenuto domenica da Hamon e quello che otterrà tra poche settimane Corbyn nel Regno Unito insegnano che se la guida di un partito del Pse si sposta troppo a sinistra quel partito perderà valanga le elezioni”. Che genio questo Parrini da Vinci! Per fortuna che Corbyn lo ha letto evitando così di spostarsi troppo a sinistra, altrimenti avrebbe perso a valanga. Ma evidentemente il Pd di Parrini si deve essere spostato troppo a sinistra visto la valanga di sconfitte subite. Troppo arzigogolano?
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l’intera posta? Ma poi si è chiarito l’arcano. La Boschi non si riferiva alla legge elettorale, bensì ad una richiesta di un gruppo di ospiti anziani del Cottolengo che, consci della sua grande perizia in fatto di diritto, le avevano chiesto di dirimere un contenzioso sulle regole del Tresette: siccome si avvicinano le elezioni, la Boschi non ha voluto scontentare nessuno e così ha suggerito che gli anziani giocatori di carte trovassero delle regole condivise. Che donna, la Mary Ellen: dalla Costituzione al Tresette ha sempre la soluzione pronta.
Questione di bivacco
A Firenze il valoroso sindaco Dario Nardella ne ha inventata una delle sue: l’idrante anti-bivacco contro “campeggiatori” improvvisati sui gradini di chiese e palazzi. La cosa ha suscitato polemiche accese, ma l’indomito Nardella, dalla sua Newsletter ha replicato con un sorriso: “Mi piace comunque ripetere che non è vietato stare seduti, è vietato bivaccare. Tutto qui. A chi continua a criticare e a prendere in giro, rispondo con il sorriso di chi almeno si ingegna e ci prova ad affrontare i problemi.”. … che poi, ingegno a parte (che non abbonda dalle parti di Palazzo Vecchio), affrontare i problemi non sarebbe niente di speciale per un sindaco. Ma l’applicazione dell’ordinanza ha mostrato subito la corda: spiegare la differenza semantica fra “sedere” e “bivaccare” si è rivelato più complesso del previsto. Ecco un dialogo sui gradini di S.Croce fra un vigile urbano e dei “bivaccandi” o “sedenti”. “Scusate, ma qui non si può bivaccare: dovete alzarvi!” “What? Excuse me, I non capire? What is bivaccare? You mean double cow? What the hell do you mean?” “Eh giovine, non facciamo tanto il furbo. Bivaccare nel dizionario Sabatini-Colletti significa passare la notte al bivacco, accamparsi. E tu mi pari parecchio abbivaccato. Alzarsi!” “But, excuse me, non è notte: sole, caldo, afternoon...” “Ah, ma mi vuoi far passare da scemo: tiè, beccati questa innaffiata”
Poco dopo: “Signora, qui non si può bivaccare! Dovete alzarvi! “Vivac... Pero ¿qué dice? Yo sólo estoy comiendo un sandwich. Estoy cansado” “No signora, lei la non si sta scansando: mi sembra invece che la si sia parecchio fermata. Per mangiare il panino, la può andare ai tavolini di’ bar all’aperto” “Lo siento, pero el bar es demasiado caro!” “Oh, bellina, a me caro ‘un tu me lo dici: sono un pubblico ufficiale. Vai, pigliati questa sistolata” Il sorridente Nardella ha presenziato personalmente, soddisfatto e gongolante, ai primi esperimenti anti-bivacco con l’idrante. Ai turisti bivaccandi pare abbia proposto anche un suo improvvisato concerto con il fido violino, ma la reazione non sembra sia stata particolarmente entusiasta.
Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Il Trump-ano per fare ottimi buchi nell’ozono
Segnali di fumo di Remo Fattorini Segnali di speranza. Ci siamo già occupati di uno dei temi che più di altri affligge il nostro paese: la crescita della disuguaglianza. Questione cruciale e sottovalutata. Da tutti. Nonostante che, ad ogni rilevazione, i dati ci segnalassero la crescita di squilibri e povertà. A fronte di una concentrazione della ricchezza in poche mani. E per di più sempre le stesse. Finalmente, in queste ultime settimane, abbiamo registrato alcuni segnali in controtendenza. Il primo è arrivato dall’appello a firma Anna
Falcone e Tomaso Montanari con cui ci invitano tutti a Roma sabato 18 giugno. Obiettivo: costruire un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza. Un altro segnale è arrivato con il “Piano inclinato”, il nuovo libro di Romano Prodi. In cui, papale palale, si dice che “ci siamo dimenticati dell’uguaglianza”. E senza uguaglianza la crescita rallenta, frana la coesione sociale, crescono i populismi e i rischi per la stabilità democratica. Prodi mette nero su bianco proposte concrete e indica le strade da seguire. Di questi tempi non è poco. Segnali di speranza arrivano poi dal recente voto britannico. Theresa May ha voluto il voto anticipato per rafforzare la sua maggioranza e gestire “meglio” l’uscita dall’Ue. Invece ha perso voti, seggi e con loro la maggioranza assoluta. La ricetta dei Tory, incentrata su rigore e austerità, è stata bocciata dagli elettori. In modo del tutto imprevisto, Corbyn, leader dei laburisti, ha invece fatto centro, aumentando voti e seggi. Grazie al
fatto di aver impostato una campagna con al centro la lotta alle disuguaglianze, la rinazionalizzazione di poste, ferrovie ed energia, poi la scuola, gli ospedali, i servizi pubblici. Conquistando ampi consensi tra i giovani. Segnali che ci dicono che la sinistra ha ancora ragioni da vendere. A condizione di superare le attuali - e sempre più anacronistiche - divisioni, insieme alla capacità di uscire dalla subalternità culturale in cui si è rifugiata in questi ultimi decenni, recuperando un’egemonia da troppo tempo smarrita. La cosa più importante da capire e dà fare è quella di costruire un’alleanza di tutte le anime della sinistra, partiti, movimenti, associazioni, fondazioni, gruppi, e impostare un lavoro serio sui contenuti, a partire da quelli più urgenti: “For the many not the few”. La strada è quella indicata dall’art. 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”. Quindi lotta alle disuguaglianze. È noto a tutti che più una società è coesa meglio vivono i suoi cittadini.
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di Laura Monaldi La scultura è un arduo processo composito che non solo plasma la materia seguendo la mano saggia ed espressiva dell’artista, ma è soprattutto una pratica intellettiva che permette di assaporare attraverso la terza dimensione la ricerca estetica dello scultore che si muove oltre la bidimensionalità fino a giungere a un totale tangibile, in cui il pensiero si fa oggetto stagliandosi nello spazio con tutta la sua corporeità evocativa. Le sculture di Sergio Monari hanno il pregio di muoversi sapientemente fra l’astratto e il figurativo, fra l’immaginifico e il reale, fra il mondo umano e il mondo naturale, in una sintesi perfetta di concetto e oggetto, sfidando l’ignoto e facendo leva su una dimensione irreale e poetica dall’alto slancio mistico. Le forme scultoree percorrono le forme del mito, analizzando nel profondo le origini misteriose di un’esistenza sfuggente ma che, allo stesso tempo, si presenta sempre uguale a se stessa nell’eterno ritorno del tempo. Sergio Monari crea e plasma immergendosi nel mondo circostante e facendo della scultura uno spazio di riflesso introspettivo per lo spettatore. Contemplare un’opera di Monari significa lasciarsi andare alla poetica della metamorfosi e della riflessione, là dove il principio catartico si tramuta in una presa di coscienza sulla realtà: dal surreale all’attualità la ricerca artistica di Monari è un viaggio nella forma dell’apparenza teso a riscoprire la sostanza dell’oggi. L’arte di Monari è un’epifania continua, sempre diversa da sé, dotata di una dialettica viva e complessa, da sempre volta alla scoperta e al risveglio di quell’innocenza perduta del tempo e nello spazio esistenziale dell’uomo nell’eterna ricerca delle proprie origini. Le linee plastiche e mitologicamente citazioniste di Sergio Monari saranno ospitate nelle sale dello Studio Tommasi di Firenze dal 10 giugno al 1 luglio, in un’inedita mostra curata da Niccolò Lucarelli dal titolo “ODHR”, in cui sarà esposto l’ultimo ciclo scultoreo dell’artista, incentrato sul concetto del “dono” e della rinascita universale, in un percorso di metamorfosi e trasfigurazione fra ciò che è e ciò che è inevitabile riscoprire, in nome di un mutamento che non è solo progresso ma anche il simbolo di avvicinamento alla verità celata dal mondo e del mondo.
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Sergio Monari e il mito contemporaneo
Musica
Maestro di Alessandro Michelucci Certe volte la diffusione di una lingua può indurci a fare di ogni erba un fascio. Pensiamo al cinema. Cary Grant era un inglese di Bristol, Russell Crowe è neozelandese, Simon Baker australiano: eppure ci sembrano tutti americani (o per meglio dire statunitensi). Lo stesso accade con la musica. Non soltanto con i musicisti anglofoni, ma anche con quelli latinoamericani (ispanofoni e brasiliani). Un ottimo antidoto contro questa confusione geo-musicale è il CD Obsesión (IRD, 2017), dove la voce di Connie Valentini e il bandoneón di Daniele Di Bonaventura propongono una ricca antologia di pezzi latinoamericani. Accanto agli autori più noti, come Carlos Gardel (“Soledad”) e Astor Piazzolla (“Chiquilin de bachin”), trovano spazio nomi meno conosciuti ma non meno importanti. Ecco quindi il costaricense Pedro Flores, autore del brano che intitola il disco; Sil-
Foto di
vio Rodriguez, esponente autorevole della nueva trova cubana; l’argentino Felix Luna, singolare figura di storico, poeta e musicista; Cacho Castaña, anche lui argentino. Di quest’ultimo viene proposto uno dei pezzi più celebri, il tango “Garganta con arena”.
Non manca un sentito omaggio a Victor Jara, l’indimenticabile cantautore cileno che fu ucciso dai militari golpisti nel 1973 (“Te recuerdo Amanda”). Ciascuno dei 13 brani viene riproposto con grande raffinatezza: la voce e il bandoneon dialogano, si intrecciano e si potenziano a vicenda. Il CD conferma ulteriormente la validità dei due artisti, che ci conducono in un viaggio insolito e affascinante attraverso la varietà musicale dell’America latina.
Ossessione latina
Pasquale Comegna
Mitoraj a Pompei
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di Domenico Villano Nella notte tra giovedì 9 e venerdì 9 Theresa May non ha dormito sonni tranquilli, l’inarrestabile rimonta del barbuto sessantottino del Wiltshire nelle elezioni da lei indette appena sette settimane fa, le ha fatto perdere il sonno e la maggioranza. Theresa non si è resa conto del fatto che qualcosa nel Labour è cambiando: a partire dalle elezioni generali del 2015, dopo che Corbyn è stato eletto segretario, si sono iscritte al Partito laburista circa 300.000 persone, rendendolo il più grande partito d’europa, con più di 517 mila membri. Un ruolo cruciale nel portare Corbyn alla guida del Labour è stato svolto da Momentum, il movimento di giovani Millennials (e non solo) nato dalla sua campagna per le primarie, esso oggi conta 23 mila membri e 200 mila sostenitori. L’azione di Momentum, in queste ultime settimane di campagna, è stata decisiva per portare al voto i giovani, da sempre primi della classe tra gli astensionisti. Sono i dati a parlare: innanzitutto il tasso di partecipazione degli aventi diritto tra i 18 e 34 anni è aumentato di 12 punti rispetto al 2015, raggiungendo il 56%, di questi oltre il 60% ha votato Labour. Il dato è ancora più netto per i giovani tra i 18 e 24 anni (il 36% dei quali ieri è andato a votare per la prima volta), qui le preferenze per Corbyn si assestano al 66%. A questi inaspettati risultati hanno sicuramente contribuito una serie di iniziative innovative portate avanti dai ragazzi di Momentum, ispirati dai loro coetanei del comitato elettorale di Bernie Sanders e della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Innanzitutto Momentum ha tenuto più di 20 sessioni di training per militanti in tutto il paese, in collaborazione con i Senior Campaigners di Bernie Sanders, venuti per l’occasione dagli States. Prendendo spunto dai “Sanderistas” hanno affinato l’utilizzo dei social network quali piattaforme mediatiche alternative, ove pubblicare video-selfie brevi, accattivanti e sottotitolati, in stile youtuber. Passando a strumenti più sofisticati, i ragazzi di Momentum hanno attivato la Phone canvassing app ed il peer-to-peer texting: software che permettono ad ogni militante di contattare centinaia di concittadini a titolo personale, amplificando la portata della tradizionale campagna porta a porta. My Nearest Marginal, un sito web (utilizzato da 70 mila militanti) che, mappando in dettaglio tutti i collegi elettorali in bilico tra Tories e Labour, permette a chiunque, una volta inserito il proprio codi-
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Momentum: rebellious millennials
ce postale, di trovare il collegio in bilico più vicino al proprio indirizzo di residenza; a questo punto, si viene indirizzati ad un servizio di carpooling per militanti, tramite il quale ci si può organizzare per raggiungere insieme i luoghi dove svolgere la campagna porta a porta. Invece, il sito web callyourgrandfolks.com propone ai giovani elettori laburisti alcune argomentazioni puntuali per convincere i propri nonni, e gli anziani in generale, a votare per Corbyn; essi infatti sono i più esposti ai media tradizionali che fanno muro contro il Labour. L’ultima azione promossa dai militanti, per il giorno
delle elezioni, è stata la “Election Day Pledge”. Una grande mobilitazione per convincere porta a porta i cittadini ancora indecisi. Anche in questo caso l’azione è organizzata tramite una piattaforma che indica ad ogni volontario target e area di azione. Infine, non direttamente legata a Momentum, ma altrettanto utile alla causa, è stata la diffusione della canzone di Captain SKA, hit numero uno di iTunes, Liar Liar (bugiarda, bugiarda), dedicata a Theresa May. Come disse Sanders nel 2015 “They have the money, but we have the people”, che la spuntassero questi ultimi per una volta?
di Mariangela Arnavas Solo quando si è padroni davvero di una materia si riesce ad esporla con chiarezza e a renderla comprensibile ai non iniziati; se si aggiunge a questo presupposto un vero talento per la scrittura ed una gradevole inclinazione alla poesia, si può comprendere il fascino di quest’ultimo saggio di Carlo Rovelli, “L’ordine del tempo”, Adelphi 2017. Rovelli è un fisico teorico di fama mondiale, docente all’Università di Aix- Marsiglia che ha già conquistato un vasto pubblico con “Sette brevi lezioni di fisica”, sempre di Adelphi 2014 e che qui si pone un obbiettivo estremamente ambizioso: rendere disponibili ai non iniziati i principali risultati della fisica moderna in relazione al tempo, proponendo la propria teoria ovvero che il tempo non esiste, che è solo la forma con cui interagiamo con il mondo, la sorgente della nostra identità, mentre nella maggior parte delle equazioni elementari del mondo, la freccia del tempo non compare, appare solo quando c’è il calore, in particolare nella seconda legge della termodinamica. In questo senso, i risultati della fisica moderna sono in sintonia con il pensiero filosofico sul tempo da Agostino a Heidegger passando per Kant che definisce lo spazio e il tempo come forme a priori della conoscenza, universali soggettivi, quindi. Anche se nella nostra esperienza personale il tempo è elastico, il senso comune diffuso concepisce il tempo come oggettivo, “uniforme, indipendente dalle cose e dal loro moto” ma questa non è “un’intuizione antica e naturale per l’umanità. È un’idea di Newton”, filtrata dalle scuole di tutto il mondo, per divenire il modo comune di pensare il tempo, anche perché la fisica di Newton “ha funzionato maledettamente bene”. Solo che ,da almeno un secolo, la concezione del tempo con Einstein ha fatto un grande salto e Rovelli con sapienza leggera, con accenti poetici ci consente di seguire questa danza del pensiero, di seguire quello che ha compreso sul tempo la fisica moderna: “è come tenere fra le mani un fiocco di neve; man mano che lo studiamo ci si scioglie tra le dita fino a sparire”, e soprattutto con grande chiarezza ci apre il sentiero per la comprensione di una concezione del tempo che supera quella assoluta e matematica di Newton. E subito introduce due affermazioni scientifiche, non presenti nel senso comune: il tempo scorre più veloce in montagna e più lento in pianura, in basso tutti i processi rallentano e anche per tutto quanto si muove il tempo passa più lento ovvero per un oggetto in moto il tempo è contratto; se immaginiamo due amici che hanno stile di vita diverso, vivranno anche durate diverse: quello che si muove invecchia meno, il suo orologio segna meno tempo, ha meno tempo per pensare, la pianta che porta con
Questione di fisica
sé ci mette di più a germogliare, e così via. Queste sono state inizialmente intuizioni di Einstein, oggi concretamente misurabili. Rovelli ci porta così, per gradi dentro le scoperte più recenti fino ai suoi studi ancora in corso: “l’incessante accadere che affatica il mondo non è ordinato da una
linea del tempo, non è misurato da un gigantesco tic tac... è una sterminata e disordinata rete di eventi quantistici..., più come Napoli che come Singapore”. E ancora “è il crescere dell’entropia dell’universo che trascina la grande storia del cosmo”. Crediamo nel tempo secondo Rovelli, solo perché non riusciamo a vedere tutte le configurazioni dell’universo, vediamo sfocato. Occorre dire che avanzando nel testo arriviamo alle ultime considerazioni dove l’autore, con onestà intellettuale, ammette di passare dal campo di ciò che è ormai scientificamente dimostrato a idee plausibili e affascinanti; questo rende il percorso di lettura ancora più interessante, anche perché si ha l’impressione di passare dal nuoto in acque limpide e tranquille ad un mare mosso e limaccioso, in pieno libeccio dove l’autore stesso confessa di aver paura di perdere i suoi lettori. Si tratta però di un viaggio che davvero vale la pena di intraprendere, anche con riletture successive. Forse potrebbe essere d’aiuto ai non iniziati, soprattutto per la parte finale, un glossario che permetta di identificare l’area semantica di alcuni dei termini usati che nel senso comune è diversa da quella dei fisici; qui, invece, il ricco apparato critico e bibliografico si rivolge ai più introdotti per liberare il campo della vera e propria narrazione da un eccesso di orpelli scientifici. Comunque una bellissima lettura.
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di Danilo Cecchi Si può parlare di una geografia della fotografia? Si può parlare di una geografia dell’arte o della musica, riferendosi almeno all’ultimo secolo? La risposta dovrebbe essere no, perché arte, musica e fotografia sono considerate dei linguaggi “universali”, che oltrepassano facilmente le frontiere, sia nazionali che linguistiche, senza alcun bisogno di traduzioni. In realtà ci sono state, e permangono ancora, alcune difficoltà nel superare certe frontiere di tipo culturale, politico ed ideologico, che non sempre coincidono con quelle nazionali e linguistiche. Nel caso della fotografia, in tempi non lontani, troviamo alcune “scuole”, o gruppi di tendenza, legate al territorio in cui si sono sviluppate. Ad esempio la “photographie humaniste” tipicamente francese, un certo tipo di paesaggismo tipicamente “americano”, una fotografia geometrica ispirata alla “Bauhaus”, tipicamente tedesca o mitteleuropea, e così via elencando. Sono esistite in Europa tre grandi aree, francese, tedesca ed inglese, ciascuna con autori ed opere facilmente riconoscibili, tali da formare delle unità, anche se certamente non prive di disomogeneità al loro interno. Le più giovani fotografie italiana e spagnola, caratterizzate in maniera più debole, hanno invece giocato un ruolo marginale nel quadro europeo. Alle aree europee si è contrapposta l’area “americana”, che ad un certo punto ha preteso di diventare un modello e di imporre il proprio “stile” anche agli autori europei. Poi, improvvisamente, sono arrivati gli autori giapponesi, con uno “stile” ancora diverso ed ancora imitato da molti. In ordine di tempo, troviamo poi gli autori sovietici e post-sovietici, e successivamente i latino-americani ed i cinesi, nessuno dei quali riesce a configurarsi come “scuola” o “modello”, sia per la mancanza nel rispettivo passato di grandi autori di fama internazionale, sia perché dopo una certa data nessuna area geografica riesce più ad esprimere né unitarietà né coerenza. La rapidità degli spostamenti e delle comunicazioni, unitamente alla immaterialità delle opere digitali, rende gli autori e le opere quasi totalmente svincolati dalle aree di produzione o di residenza. Con qualche vistosa eccezione. Nella piccola repubblica baltica della Lettonia, ad esempio, vive ed opera la fotografa Inta Ruka, nata nel 1958, giovane moglie del fotografo lettone Egons Spuris (1931-1990). Inta Ruka inizia a fotografare in epoca sovietica, fra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta, con una vecchia Rolleiflex, realizzando soprattutto dei ritratti ambientati, e scegliendo i suoi personaggi fra la gente dei villaggi della Lettonia. Fortemente radicata nel proprio ambiente e nel proprio paese, Inta Ruka ritrae i
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volti, gli atteggiamenti, i gesti e gli abbigliamenti degli abitanti della sua regione natale, Balvi, archiviando con cura il materiale raccolto, ed organizzandolo a partire dal 1982 in vista della realizzazione del progetto “Gente del mio paese”. Il lavoro, svolto discretamente nel corso di un decennio, ed ignorato sia dal pubblico che dalle istituzioni, viene rivelato dopo la disgregazione dell’URSS e l’indipendenza della Lettonia. Nel 1998 Inta Ruka ottiene una borsa di studio da parte della Fondazione Hasselblad e prosegue il suo lavoro di documentazione dei cambiamenti sociali in corso nel suo paese, con il progetto “Gente che ho incontrato”, ottenendo numerosi riconoscimenti in patria ed all’estero. Nel 1999 partecipa alla Biennale di Venezia e pubblica il suo primo libro fotografico “Gente che cono-
Inta Ruka gente di Lettonia
sco”, ripubblicato nel 2012. Nel 2002 ottiene una borsa di studio tedesca, e nel 2007 passa due mesi in una residenza d’artista a Stoccolma, mentre si susseguono le sue partecipazioni alle esposizioni internazionali. Nel 2004 inizia a lavorare sul progetto “Amalia Street 5” sui residenti di un edificio popolare della periferia di Riga, pubblicato come fotolibro nel 2008, e dal 2006 affronta il progetto “Vicini di casa”. La maggior parte delle sue immagini vengono realizzate con la fotocamera sul cavalletto, e questo conferisce loro un’austerità analoga a quella delle opere di August Sander, ma anche di Walker Evans o di Dorothea Lange. In realtà appartengono tutte, se vogliamo, ad uno stile personale che forse potremmo definire “lettone”.
di John Stammer La facciata concava raccoglie il sole e lo porta dentro alla grande aula dove una copertura di forma paraboloide si adagia sulle forme rettangolari dei muri. In questo gioco di curve, di interni che dialogano con l’esterno e di colori tenui tutti giocati fra il bianco delle murature, il colore chiaro del travertino, e il legno dell’ingresso principale e degli arredi, si riconosce la mano ferma e sapiente di Fabrizio Rossi Prodi. La chiesa di Santa Maria Santissima Madre di Dio a Calenzano è stata “dedicata” il 14 maggio alla presenza del Cardinale Giuseppe Betori. Il complesso raccoglie in volumetrie lineari e sobrie la chiesa e gli edifici parrocchiali in un unico complesso che si adagia tranquillo nella parte centrale del nuovo insediamento di Calenzano a pochi metri di distanza dal polo universitario per il Design e dalla biblioteca pubblica. Un sistema di edifici pubblici e di pubblico interesse che, insieme al grande spazio verde davanti alla biblioteca e ai giardini vicini alla nuova chiesa, costituisce di fatto un nuovo polo centrale nella recente espansione urbana di Calenzano. Una nuova chiesa che ha nella facciata il suo elemento distintivo, come è classicamente “raccontato” dalle chiese del passato, e che quindi si colloca nello scenario storico delle chiese italiane, in questo discostandosi da una tendenza dell’architettura contemporanea a progettare chiese senza facciate. Basta pensare alle chiese di Michelucci (sia quella di San Giovanni Battista a Campi Bisenzio-la chiesa dell’Autostrada- o quella di Longarone ad esempio) per capire come la differenza sia fondamentale. Nella chiesa progettata da Fabrizio Rossi Prodi siamo di fronte ad un “classico” dove la facciata riprende il suo ruolo di racconto e di rappresentazione e si apre su un vasto spazio libero, in parte pavimentato e in parte a prato. La facciata “accoglie” il fedele invitandolo ad entrare attraverso la grande fessura verticale centrale in asse di simmetria con la facciata stessa e con il paraboloide di copertura interno. E l’interno, che in alcuni particolari come la organizzazione delle aperture non appare all’altezza dell’immagine esterna dell’edificio, è tutto giocato sull’effetto creato dalla sovrapposizione della copertura con i muri perimetrali e dalle fessure di luce che da questa sovrapposizione derivano.Un interno scarno, quasi “sterile”, che però nel pomeriggio, e fino a sera, con la lama di luce solare che, dalla croce aperta sulla facciata rivolta ad ovest, penetra fino all’altare, ha una sua forza evocativa e suggestiva.
La chiesa di Rossi-Prodi
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di Melia Seth Canzonissima e Studio uno, Iva Zanicchi e Milva, Mina e Ornella Vanoni, la Carrà e Patty Pravo. Marina Ripa Di Meana c’era allora e c’è adesso. Bruno Vespa c’era allora e c’è adesso. La Goggi (una delle Goggi) c’era allora e c’è adesso. Alla Fondazione Prada si parla inglese. Nutriti gruppi di giovani americani già in pantaloncini e infradito, molti orientali, gli italiani presenti in sintonia con l’ambiente: capelli rosa, pantaloni larghi tagliati al polpaccio, abiti stropicciati in tessuti artificiali da sottosviluppo o da reduce di qualche guerra in corso, e per questo così trendy, stuoli di assistenti “may I help you?”, al bar panini piccoli e costosi. Nessuna delle opere, rigorosamente nessuna, ha il cartoncino con nome e cognome dell’autore, titolo dell’opera, anno di composizione, museo o istituzione o privato che la possiede. Una brochure in carta grezza riciclata, fatta come un vecchio quadernino dalle pagine forate, indica numerandoli tutti i nomi degli autori, tutti i titoli e tutte le sedi delle opere: peccato che le opere esposte non rechino alcun numero, e allora non si sa come contarle, e la corrispondenza con la descrizione salta. Lo riconoscono pure gli assistenti “may I help you?”. Ma non è un difetto della
foto Elzbieta Bialkowska OKNOstudiophotography
14 10 GIUGNO 2017
No, non è la Bbc mostra: è proprio la sua cifra. Non distinguere, non giudicare, non condannare, non separare alto e basso, cultura e pop, intrattenimento e informazione. Il telegiornale con le notizie degli assassini, rapimenti, stragi, depistaggi, non è uno spettacolo diverso da quello delle Kessler, di Amanda Lear o Alberto Lupo. Mai come in questo caso la televisione è stata tanto flusso. Funziona? Non so. Di certo funziona per chi c’era. Avevo i codini ed ero paffutella quando la tivù è arrivata. L’apparecchio veniva dato in prova: ci mettevi 100 lire e si accendeva, sul più bello le 100 lire finivano e dovevi metterne altre 100. Mio nonno mi accompagnava al bar per vedere gli sceneggiati. Alla casa del popolo la televisione era minuscola e collocata in alto perché tutti potessimo vederla. Io ero piccola. Forse è per questo che ne ho un ricordo favoloso. O forse è perché nei bar allora si fumava: fra me e le immagini – bianco-e-nero, lontane lontane - fluttuava una nuvola di fumo. La famiglia decide che l’acquisto va affrontato, come prima il frigorifero e poi
la lavatrice. Io e mia nonna passiamo il primo pomeriggio in compagnia della televisione a guardare l’inaugurazione delle olimpiadi. E’ il 1960. La TV dei ragazzi, il pomeriggio a casa dopo i giochi fuori, Lassie con Liz Taylor, poi senza Liz Taylor, il Maestro Manzi e Chissà chi lo sa, il mago Zurlì e Zorro, ma anche i film di Jean Vigo buttati là senza introduzioni o precauzioni. All’inizio gli intellettuali condannano e sono tentati. Poi partecipano. Poi scrivono la sceneggiatura del Grande Fratello lavandosi la coscienza con romanzi veri e spietati. Prima ero bambina, poi adolescente, poi adulta, e la televisione cambiava con me. Dopo si privatizza, si moltiplica, esplode; internet la sfida, la modifica e la contagia. Eppure la televisione sopravvive e resta lì. Ma non è la Bbc, e neppure la Rai, la Rai tivì. Negli anni Settanta la televisione coincideva con la Rai; in seguito non più. Oggi possiamo concederci il lusso di guardare con affetto ciò che prima guardavamo con sufficienza, se non proprio con disprezzo?
di Claudio Cosma Ivana Spinelli con le sue Global Pin Up, a cui appartiene anche il disegno argomento di questo articolo, ha voluto ridisegnare una particolare femminilità contemporanea, mescolando simboli ed icone del recente passato. L’antecedente lo troviamo nel fumetto di John Willie “The adventures of Sweet Gwendoline” e nella modella Bettie Page, perennemente legata come un salame. Negli anni ‘50 l’immagine della pin up rappresentava un diversivo per gli uomini, ancora soldati, attaccavano le immagini di queste bellissime donne, magre ma con vistosi attributi sessuali, nei loro armadietti o le disegnavano sulle fusoliere degli aerei. Succinte, con gambe lunghissime si connotarono di una sensualità disinnescata e addomesticata nei disegni di Alberto Vargas, riprodotti su Playboy come santini sessuali. Tutti i disegnatori di pin up erano straordinariamente bravi, tanto che la loro ricercata perfezione liberava queste “donnine” da calendari profumati regalati dai barbieri fin da gli anni ‘60, da ogni sospetto di pornografia, rimanendo perpetuamente in un limbo soft, caramelloso, con una punta fetisch appena accennata. La nostra pin up mantiene queste credenziali, sopravvissute anche nelle ondate vintage successive che recuperano costantemente la moda anni ‘50. L’artista pop inglese Allen Jones ne evidenzia l’aspetto di donna oggetto, ma con disincantata ironia sebbene vittima degli improperi delle femministe. Ivana Spinelli aggiunge la pericolosità, trasformandole in guerrigliere sovversive e dinamitarde. La silhouette costruita con un segno continuo di china nera, mantiene l’eleganza disarmante dalla falsa ingenuità. Pur belle e perfette le pin up della Spinelli non sono delle protagoniste, ma conducono nel loro stato d’eccezione, una vita qualsiasi, spingono un passeggino con un bambino anche lui esplosivo, si abbracciano a replicare le tre grazie, si muovono mimando le giovani donne che partecipano ai concorsi di bellezza, oppure si trasformano nella Dea Kalì, sempre comprese dell’ovattato desiderio di cui possono essere oggetto. Eppure queste donne, nella loro irreale bellezza, appaiono estranee a quel mondo del quale non riescono a fare parte, rimangono come i disegni che le rappresentano, privi di qualsiasi riferimento di grandezza o di
appartenenza, isolate, loro stesse contorno e non essenza, occupando il foglio bianco in silenzio, col garbo discreto di chi non vuole apparire, immobili nel gesto che stanno compiendo, un attimo prima di dissolversi. Rimane l’aspetto inquietante dell’anonimato serbato dal cappuccio nero, della nudità del corpo, della essenzialità dei gesti, della solitudine irreparabile, della eclatante contraddizione del suo mostrarsi, di rappresentare, infine, la fase terminale di una femminilità sognata dagli uomini ad uso degli stessi, diffusa dai comic, dai film, dalla televisione, dalle patinate riviste di moda, dai romanzi d’appendice, in un processo in tono minore che, inarrestabile, a partire dalla fine degli anni ‘40, si è rassegnato all’inconsistenza col trascorrere del tempo, autoconsumandosi. Questa fine l’ha decretata, come è giusto,
una donna, l’artista Ivana Spinelli, mescolando insieme tutti gli elementi che hanno costituito questa particolare visione della femminilità, del desiderio di essere desiderate, di una fragilità nascosta, della incostante attrattiva della giovinezza che può solo implodere, mai esplodere, come costantemente minacciano di fare le kamikaze pin up, anche per mano di una delle numerose mani della Dea Kalì. Le mani di questa dea casalinga e vanitosa stringono uno specchio, un rossetto, un ramo di mimosa, e in comune con la vera dea indù, una spada. Le braccia sono così numerose da simulare un movimento circolare che riassume le innumerevoli capacità e attitudini femminili, rappresentazione grafica dell’energia condensata in un eterno passo di danza.
Chi ha paura di un disegno della Dea
Kalì?
15 10 GIUGNO 2017
premio letterario
Terzo classificato - ex aequo
PRIMA EDIZIONE 2017 di Valentina Formisano Odio toccare il cibo con le mani. Sporcarmi oltre il necessario. Mostrare come mangio. Ma oggi papà ha fatto le linguine coi polipi. C’è qualcosa di atavico in questo celenterato a pezzi nel pentolone. Il sugo è scuro, quasi violaceo, una consistenza acquosa che sa più di brodo che di salsa. È eccitante, quasi volgare. C’è una pentola apposta a casa mia per preparare il polpo. Una terracotta smaltata. Il coperchio affonda sulle teste degli animali che si arrendono ai bollori. Carta forno che sbuca dai bordi. È così da quando ho memoria, non può essere altrimenti. Polipi: animali da congelare affinché le loro carni si sfibrino e siano tenere in bocca. Cotture prolungate in cocci a fuoco lento. Bestie che non si concedono facilmente, pescati di fiocina, battuti a violenza, si arricciano a fatica, più ardui degli scogli ai quali s’aggrappano. Il piatto è enorme e nonostante la ridotta capienza del mio stomaco non lascio che poche ventose morte e qualche pelle di pomodoro. Ritorno a essere un animale del sud: forchetta che arrotola più del dovuto e dalla bocca un ricciolo capriccioso sbuca, non lo riesco a infilare subito dentro, mi vince, non lo governo, come se fosse ancora vivo, mi sporca un po’ la guancia. Oh…! Pepe: spezia vietata. Ce la mettiamo quella polvere nera io e papà, come due ladri, di nascosto, come un segreto per essere complici io e lui, portatori di Verità intenti a beffare l’autorità. Ma mamma ci vede lo stesso, fa una brutta faccia. Non dice niente. Si torna alle origini, nei modi, nelle sensazioni viscerali, nella voracità con cui a questa tavola oggi si consuma il pranzo. Mi sento nella scena degli spaghetti al nero di seppia del film Via Castellana Bandiera. Una scodella immonda al centro della tavola da cui attingono in tanti: padroni di casa e ospiti si trascinano scie nere in piatti di plastica e mangiano come se stessero partecipando a una guerra. Sporchi in volto, con
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Sud. Bocca. Grovigli.
arie feroci; bambini completamente imbrattati. Il boss di quartiere adesso appare come un lattante dimenticato dalla maestra, con la vergogna spalmata in faccia e i denti neri; un sorriso marcio (invero è marcio da molto tempo prima del pasto). Non c’è dialogo in questa lunga scena ma solo uno sferragliare di posate e rumori si saliva, risucchi e lingue che leccano quella tinta plumbea che fa spavento. Così come in Fuocoammare dove un adulto mangia come fosse un bambino e un bambino impugna la forchetta come un vecchio di tremila anni: succhiano gli spaghetti e sembrano mostri marini, cannibali, divoratori della propria stessa specie. Non vedo l’ora che questa scena termini. Disgustosa. Infinita. Eppure è la prima che mi torna in mente. Lampedusa: c’è qualcosa di intoccabile. Allora comprendo e li lascio mangiare, disgustata e allo stesso tempo benevola. Ho capito. Un sud magico e ne ho memoria anch’io. Cento anni fa c’erano i miei zii che mangiavano frutti di mare crudi. Li prendevano dalla grande ciotola piena d’acqua. Li vedevo consumare quell’atto osceno in mezzo a tutti noi, a capo della tavola a cui mangiavano vecchi, donne, bambini. Nonna era l’unica femmina ammessa a quel rito: come una sacerdotessa, per privilegio d’anagrafe, assieme ai più valenti tra gli uomini adulti beveva molluschi dai loro gusci. Succhiavano bestie rosse, molli, purificate dal rito del limone che disinfetta, organismi ancora viventi e mi sono sempre chiesta dove avessero gli occhi quelle masse informi: erano pur sempre animali eppure non mi sembrava affatto.
La natura demoniaca delle creature del mare. Giallo di Napoli, grigio, bianco lattiginoso, bave, filamenti, schizzi, rumori e ingoi. Erano in pochi a poterlo fare. Serve lo stomaco forte. Una volta mio zio ha preso il tifo. Certe cose hanno una valenza sessuale. Lo capisci dal modo in cui si mangiano. A quel tavolo, ogni domenica si compiva un baccanale. Come vorrei essere grande anche io. Sacerdotessa anche io. Vorrei essere ammessa a quella mensa. Ma è evidente: sarò ancora una bambina fino a che non saprò ingoiare molluschi crudi senza vomitare e senza essere tradita da viscere delicate. Un giorno provai le ostriche. Sembrava di leccare uno scoglio sul quale avesse appena pisciato qualcuno. Decisi di poterne fare a meno e tornai a sedere dal lato del tavolo di quelli che non contano niente. Adesso il sud è lontano. È lontano anni e chilometri. Nel frattempo ho imparato a prendere il numero giusto di maccheroni, a bere dal cucchiaio senza rumore, masticare a bocca chiusa, a non mettere pane dove non ci vuole. Ho imparato l’eleganza. Ma oggi è domenica, papà ha fatto le linguine con i polipi. Ho ingurgitato zampe, sono tornata acqua del Golfo di Napoli, urla nei mercati ittici alle cinque del mattino. Sono tornata chi non sono stata mai ma il cibo mi chiama, mi chiama a scendere a patti con la dignità. E il tovagliolo ripiegato a triangolo su questa tavola è la sola, unica traccia di un’umanità ancora non del tutto dimenticata. Nonostante i polipi, nonostante i miei avi. Nonostante.
Motivazione della giuria tecnica:
Ode alla tradizione, al ventre come terra obbligata per traghettare il piacere, perché questo è il cibo, orgiastica essenza da divorare e onorare alla maniera degli avi. Mediterraneo, verace, la scrittura produce visioni che catturano alla stregua di un film. La stanza del gusto è la sala di un cinema dove passano davanti divoratori dell’ultim’ora, tanto di parole che di grovigli di cibarie, e chi scrive non può non testimoniare la voluttà con cui un uomo o una donna del Sud possono collegare il territorio alla bocca e questa letteralmente al pasto. Il cibo funge anche da cerniera a un pensiero che scivola come una pellicola su piani temporali diversi e in cui il passato, con i suoi valori, serve a giustificare l’azione presente. La narrazione incalza, le parole si rincorrono facendo dell’autrice un valido prestigiatore dell’immagine e un autore che distilla humor e “gusto” con originalità. Sandra Salvato Nota biografica:
Valentina Formisano, nasce in provincia di Napoli nel 1987. Si trasferisce nelle Marche all’età di 11 anni dove vive, studia e lavora fino al 2016. Si laurea con lode e menzione per la pubblicazione della tesi in Grafica d’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata nel 2013; svolge la sua attività di artista e di assistente di laboratorio presso l’Accademia di provenienza per gli anni seguenti al conseguimento del diploma. Sviluppa nel corso del tempo l’interesse per la scrittura. Ha partecipato alla realizzazione del libro Il senso delle nuvole, progetto di scrittura collettiva edito da Ensemble (2014) e ha in cantiere vari romanzi a 4 mani e collaborazioni. A breve registrerà un programma radiofonico di suoi audio racconti a seguito della selezione da parte dell’emittente svizzera Radio Gwendalyn per il programma Onair B&b. Nel 2017 si trasferisce a Firenze dove attualmente vive frequentando la scuola di specializzazione di incisione Fondazione Il Bisonte grazie al conseguimento di una borsa di studio annuale.
Il mediterraneo di Mimmo Lo Russo
di Franco Camarlinghi Non sempre, quando leggiamo o guardiamo l’opera di un autore famoso, ci viene in mente di domandarci che mestiere abbia fatto prima di diventare un creatore d’arte, o se quel mestiere parallelo abbia continuato a farlo per tutta la vita. Può succedere, ad esempio, con Rabelais, con Cechov, Bulgakov, Celine o, per scendere più vicino, con Carlo Levi, Mario Tobino e ancora, per quanto riguarda uno degli artisti italiani più grandi del secolo scorso, Alberto Burri. Quelli che mi è venuto di citare senza tanto pensarci, curiosamente, erano tutti medici. Ci sarà un motivo, un legame che unisce il giuramento di Ippocrate con la ricerca parallela di un’altra espressione di vita che è l’arte e, infine, la poesia. Credo che la relazione si possa trovare nel senso di una professione che richiede il massimo della dedizione nel capire la natura sofferente dell’uomo e, improvvisamente e poi per sempre, nel cercare le ragioni dell’intelligenza e della fantasia che possano dare una dignità superiore ad uno stato di precarietà permanente, dalla nascita alla morte, che definisce la vita stessa. In fondo bisogna affidarsi ad un’ illusione per giustificare la realtà dell’ esistenza e chi lo può fare meglio di un medico che entrambe le cose le può toccare con mano quotidianamente? I’illusione, in senso positivo, la capacità di s’eni-
vrer, come dice il grande poeta: “Il faut étre toujours ivre, pour ne pas sentir le fardeau du Temps qui brise vos épaules ... Mais de quoi? De vin, de poesie ou de vertu” Nessuno può capire meglio di un medico tale realtà e nessuno come lui può s’enivrer de vertu (è il suo giuramento) e poi andare oltre, nel territorio stupefacente della poesia. Mimmo è sempre stato astemio, quindi non ha mai cercato la consolazione del vino, ma ha fatto proprie le altre due possibilità: la virtù del suo mestiere e, avendone l’istinto e la professionalità necessari, la ricerca della poesia attraverso la pittura. Gli è riuscito sempre e il suo lavoro di artista e di medico lo ha dimostrato chiaramente: ,gli riesce ancora una volta con le opere sui migranti in quel Mediterraneo che, da calabrese, tanto bene conosce. Volti di dramma e di speranza, di sofferenza e di poesia, dipinti per anni nella lontananza del suo studio fiorentino e ora giustamente visibili a tutti in un luogo straordinario come San Marco.
17 10 GIUGNO 2017
Bizzarria degli
oggetti
Manifesti di una volta
di Cristina Pucci Grande manifesto, che pubblicizza la cantante Michèle Dorlan, originaria interprete della canzone “Ah! Le petit vin blanc”, 1940 circa. E qui dobbiamo osservare che, pur non trattandosi di un oggetto, l’estro, inconsapevole e bizzarro, di Rossano supera se stesso. La Dorlan, nata a Parigi nel 1916, si chiamava in realtà Eurélia Loffredo, sia pur laureata in medicina e specializzata in odontoiatria, scelse di fare la cantante e l’attrice di Music Hall. Famosissima dopo il 1937, fu poi completamente dimenticata in quanto ritenuta una “collabò”. Fu la prima interprete della canzone “Ah! Le petit vin blanc”, che, purtroppo per lei, fu scelta come sigla di una trasmissione della tv di occupazione. Il suo autore in verità, Jean Dréjac, cantante e compositore appena ventenne in odor di fama, non essendosi presentato alla leva, fu ricercato dalla Gestapo per diserzione. Ritiratosi dagli impegni pubblici, approfittando forse della forzata inattività, mentre soggiornava a Nogent, in un albergo lungo le rive della Marna, di fronte all’Isola dell’Amore, complici primavera e vino bianco, scrisse questo pezzo, che propose per la musica a Charles Borel-Clerc, più anziano ed esperto, molto famoso per alcune sue composizioni cantate da Chevalier. Il successo di questa canzonetta fu immediato e assolutamente duraturo, dopo la guerra venne riproposta da Lina Margy, alla quale viene, quasi esclusivamente, ascritta, che ne decretò un vero e proprio exploit, ne vennero vendute più di 1 milione e mezzo di copie. Il ritmo e le parole sono frizzanti e gioiose, tali da essere apparse confortanti al tempo della pesante occupazione e da diventare, alla fine della guerra, un vero e proprio inno alla ritrovata leggerezza e un invito a riappropiarsi dei piaceri della vita e della felicità delle piccole cose.”Ah! Le petit vin blanc” si inserì subito fra le canzoni francesi immortali, patrimonio e simbolo della Nazione. Essa, nel tempo, ha dato fama a Nogent sur Marne, il luogo dove fu scritta e che vi vien più volte nominato. Trattasi di un piccolo Comune nella regione dell’Île de
18 10 GIUGNO 2017
dalla collezione di Rossano
France, a sud-est di Parigi, allora famoso per le trattorie disseminate lungo la Marna, che, per esprimere gratitudine nei confronti e della canzone e del suo autore, ha promosso una festa, con balli, canti, fisarmoniche, orchestrine e fuochi d’artificio, ed ha dedicato a Dréjac un viale e al Vin Blanc una piazza. Dréjac è morto nel 2003, è stato al servizio dei più famosi cantanti, Reggiani, Piaf , Ives Montand... Sua la canzone “Sous le ciel de Paris, scelta dal regista Julien Duvivier per l’omonino film che narra storie di varie per-
déco, fin du siècle, e poi libri dedicati sia a quelle antiche che alle più recenti, anni ‘60, ‘70 ed oltre. In una di esse una anziana Michèle Dorlan ripropone il suo dimenticato successo, ma più interessante ancora direi è stato scoprire che il giovane René Magritte si guadagnava da vivere disegnando cover di dischi. Ve ne mostro due, bellissime ed originali ovviamente!
sone ed eventi , anche infausti, in un’unica e qualsiasi giornata parigina. Questa canzone diventata famosissima e simbolo della città stessa, è stata incisa e cantata da tutti, ma proprio tutti, gli chançonniers francesi e non solo, di allora e di oggi. E ancora non è finita con questo, immagino rarissimo, manifesto, cercando notizie riguardanti la firma che vi si legge, Anton Girbal, apprendo che si tratta di un disegnatore di copertine di dischi, ne trovo una sola a firma sua, ma mi si apre un ignoto ed affascinante mondo! Schiere di “cover” di 45 giri dalle deliziose illustrazioni liberty,
di Susanna Cressati Il mio mappamondo era di vetro, con dentro la lampadina. La mappa era di carta colorata, ritagliata in spicchi e incollata. Diffondeva una luce calda e intima e faceva sognare viaggi e avventure, come una lanterna magica proustiana. Poi sono arrivate le regioni italiane che si studiano alle elementari, ricalcate e colorate con i pastelli. Più tardi le carte topografiche 1:25.000 per la gite in montagna: le tavole quadrate dell’Istituto Geografico Militare segnavano anche i piccoli crocifissi al margine dei sentieri e per coprire tutte le Pale di San Martino ce ne voleva un pacco intero. Dopo ancora le carte stradali per i primi viaggi, da ridisegnare con i pneumatici della Cinquecento o dell’R4. Insomma la geografia e la cartografia ci accompagnavano un tempo, fin dai primi passi, la nostra curiosità del mondo, il nostro spirito di avventura, magari anche di ribellione. Ora non so. L’evoluzione tecnologica, con i sistemi satellitari, ha “coperto” l’orbe terracqueo e illuminato le zone un tempo vuote, dove, si favoleggiava anticamente, regnavano solo i leoni. Così che oggi, smartphone alla mano, crediamo di sapere sempre (ci illudiamo) dove ci troviamo e di conoscere facilmente il mondo. Esaurite le zone inesplorate, dagli abissi oceanici alle altezze siderali degli ottomila, abbiamo compiuto il salto cosmico, verso le lune e i pianeti. Altri mondi, altre geografie. Progressivamente la geografia, disciplina dagli incerti confini, che in Italia è diventata autonoma solo nel 1878, si è ripiegata su se stessa, è stata espulsa dal ventre protettivo della scuola e si sta coprendo di polvere. Complici tanti fattori: forse anche, dice lo storico Giovanni Cipriani, un progressivo indebolimento dell’unità del paese indotto dal regionalismo, o una progressiva rinuncia alla conoscenza del nostro territorio, che però confligge con la proclamata ed enfatizzata attenzione all’identità; o forse anche, suggerisce la professoressa Adele Dei, per averla confinata a lungo nel novero delle materie umanistiche, oggi in declino, pur non essendolo affatto. La gloriosa Società Geografica Italiana, che celebra quest’anno il suo 150° anniversario, nasce a Firenze. La prima riunione si tenne il 12 maggio 1867 nella sala del Buonumore dell’attuale palazzo del Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini”. Nei cinque anni durante i quali la sede rimase a Firenze, prima del trasferimento a Roma (1872),
Le mappe perdute della geografia il sodalizio fu uno dei protagonisti del panorama culturale fiorentino ed ebbe modo di consolidare i legami con le altre istituzioni culturali della città. E’ per questo che alcune delle interessanti iniziative organizzate per questa ricorrenza da Margherita Azzari (vicepresidente della Società) hanno interessato Firenze. Tra esse una sezione della mostra “Geografie di una storia”, il cui catalogo, per i tipi del Consiglio Regionale della Toscana, è stato presentato mercoledì scorso al Gabinetto Vieusseux con sconcertante ritardo, essendo la mostra allestita nell’Archivio storico della città di Firenze in via dell’Oriuolo rimasta aperta solo fino al 9 giugno. Ha invece ancora un po’ di tempo chi volesse visitare la sezione romana della mostra nella bella sede di Palazzetto Mattei (fino al 16 giugno). Anche se le celebrazioni sono ormai agli sgoccioli (il programma si può consultare sul sito della Società http://societageografica.net/wp/it/) il catalogo è comunque uno strumento utile per chi volesse non solo aggiornarsi sulle attività attuali della Società o conoscere le opportunità offerte dal suo vastissimo patrimonio documentario, ma anche riappropriarsi di una storia scientifica, politica, economica, coloniale e militare assai complessa. Si comincia con la missione interdisciplinare del 1870-72 nella regione dei Bogos nell’Eritrea settentrionale, a cui partecipò quello stesso Orazio Antinori che, dieci
anni dopo, descrisse la tormentata esplorazione dei Laghi equatoriali. Si prosegue a nord (il giaggio di Giacomo Bove, nel 187879, sulla nave svedese “Vega” da Carlskrona a Yohohama; la spedizione polare del 1928), a sud (1881-1884, sempre Bova in Patagonia e Terra del Fuoco), nelle Americhe (1887, Ermano Stradelli alle sorgenti dell’Orinoco) e in Africa (1893 Vittorio Bòttego alle Sorgenti del Giuba), in Albania (1940, Bruno Castiglioni) come sul Karakorum (1954, Ardito Desio). Storie di scienziati, cartografi, naturalisti, geologi, etnologi, ma anche di uomini avventurosi e spietati (pur di avanzare verso il suo obiettivo Vittorio Bòttego, racconta un suo subordinato, “fucilava a man salva”), di episodi popolari e drammatici (la contestata tragedia del dirigibile Italia di Umberto Nobile, l’altrettanto discussa conquista del K2), di popolazioni vessate e tormentate. Quella stessa etnia Mursi, che abita una valle remota nella regione etiope che circonda la capitale Addis Abeba e che fu così duramente violata da Bòttego, vede oggi l’acqua dell’Omo, e con essa le speranze di sopravvivenza, ormai asciugarsi nella sabbia, drenata dalle grandi dighe in costruzione. Acqua che viene convogliata in altre zone del paese, e utilizzata tra l’altro per far funzionare un immenso zuccherificio cinese. Sarà fuori moda, ma non c’è dubbio: la geografia ci porta lontano
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di Paolo Marini Ai primi di giugno di 34 anni fa iniziava per Enzo Tortora un autentico calvario, una vicenda che non avrebbe mai dovuto neppure sfiorarlo e che invece lo travolse - come un fiume in piena, improvviso e devastante -, cambiando per sempre il corso della sua esistenza. La sua immagine di persona dabbene, integra, fu come capovolta e pochi presero la parola per difenderlo, per parlare cioè dell’uomo che conoscevano e che effettivamente era. Fu sbattuto sulle prime pagine dei giornali come una belva-trofeo: era la soverchiante pressione dell’esigenza dello spettacolo, dei circenses da dare in pasto all’opinione pubblica; era la celebrità della sua faccia pulita, nella quale si dovevano avidamente rintracciare i segni del criminale incallito, del camorrista dissimulato. Non ci fu alcuna pietà. Il fango, inevitabilmente, si accanisce vieppiù contro il giusto, che si domanda: “Che è quest’uomo che tu ne fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo metti alla prova?” (Giobbe, 7, 1718). Una vicenda giudiziaria e umana che non tardò a sollevare una questione politica (dal caso-Tortora prese le mosse la campagna referendaria del 1987 per una “giustizia giusta”, dove il quesito centrale riguardava proprio l’abrogazione delle norme del codice di procedura civile sulla “(ir)responsabilità civile dei magistrati”) e che si offre ad una riflessione ancora più ‘alta’ - simbolica, quasi escatologica. Emerse in pieno la disputa tra garantisti e manettari, oggi tutto sommato irrisolta e, semmai, degenerata: deprivata di istanze coerenti, motivate – ancorché contrapposte - di politica del diritto. Piuttosto infuria - ma a ondate - una strisciante guerra per bande, dove la forca è sempre per l’avversario, mentre per gli amici è pronta a priori una parola di indulgenza. Ciò che, in particolare, i ‘neo-garantisti’ non sanno è che la loro ‘battaglia’ dovrebbe avere a che fare con la libertà, non con l’impunità. Enzo Tortora combatté, all’opposto, con fondamento e ragione e a viso aperto: forte della propria innocenza e della propria indignazione, riuscì a vedersi riconosciuta la totale estraneità alle accuse e denunciò le aberranti condizioni di vita dei detenuti. La battaglia referendaria - condotta dai radicali insieme a liberali e socialisti - fu in compenso una vittoria di Pirro o, più esatta-
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Solo i bimbi, i pazzi e i magistrati non rispondono dei loro crimini
mente, non fu mai davvero vinta, a dispetto dei risultati del voto. Risultano per ciò importanti e utili, ancora oggi, iniziative come quella del circolo Gobetti di Firenze che, per il giorno 13 giugno, alle ore 17.00 presso la Libreria Todo Modo, in via dei Fossi, ha organizzato un incontro di presentazione del libro “Lettere a Francesca” (Pacini Editore), che raccoglie una selezione delle lettere che Tortora scrisse alla compagna dall’inferno del carcere nel quale era stato sbattuto “per ‘pentito’ dire”. In copertina, un poco sotto il titolo, è una frase del Nostro ancora attuale e, al limite, incompleta: “solo i bimbi, i pazzi e i magistrati non rispondono dei loro crimini”. Il libro sarà presentato dalla stessa Francesca Scopelliti e al dibattito – che sarà moderato da Francesco Giubilei, del circolo Gobetti - parteciperanno anche Marco Taradash e l’avvocato Eriberto Rosso, membro della locale Camera Penale.
di Angela Rosi Ero piccola, era la mia infanzia C’era un’auto, una Fiat 600 color avana, mio padre guidava, mia madre al suo fianco, nei sedili posteriori io e mio fratello. Nelle lunghe e calde serate estive andavamo a far visita a zii, cuginetto e nonno a Sesto Fiorentino. Una strada stretta alle pendici di monte Morello, dei nomi buffi Sesto, Quinto, Quarto, Colonnata e poi le Ville Medicee della mia infanzia Castello, La Petraia. Mi seduceva quel percorso estivo, solo una cosa non mi piaceva, un lungo e alto muro di cinta perché qualcuno mi aveva detto che dietro c’era un collegio femminile. M’inquietava sapere che ci fossero bambine “rinchiuse” lì, m’impauriva “l’abbandono” in collegio. L’auto costeggiava quel muro e l’ingresso era proprio sulla strada, via di Boldrone, cioè l’entrata a Villa La Quiete, di origini quattrocentesche, anticamente chiamata Palagio di Quarto. Pochi giorni fa l’ho visitata e, forse, perché legata ai miei affetti e ricordi infantili, ho immediatamente subìto il fascino della sua storia seicentesca. Ho scoperto che nella mia infanzia era una scuola paritaria ma nel 1650 fu acquistata dalla “Signora” Eleonora Raminez de Montalvo da Vittoria Della Rovere Medici, per trasferirsi con le Ancille della SS. Trinità, la seconda congregazione laica da lei fondata. Nel 1930 la congregazione diventò ordine religioso. L’educazione per le giovani nobili era molto severa ma innovativa per l’epoca perché ricalcava quella gesuita. L’attuale chiesa commissionata da Vittoria nel 1886 custodisce le spoglie di Eleonora. Antecedentemente esisteva un passaggio sospeso, ”corridore di Boldrone” variante in piccolo del Corridoio Vasariano, che permetteva alle nobildonne di assistere alle funzioni re¬ligiose nella chiesa del monastero di via di Boldrone senza uscire all’aperto. Nel corridoio d’ingresso principale alla villa si possono ammirare i vasi a cratere in maiolica realizzati dalla manifattura Ginori alla fine dell’Ottocento. Il cortile coperto dalla lanterna è il cuore della villa e la parte più antica, al di sotto ci sono le cucine. La farmacia seicentesca e il giardino degli aranci, dove crescevano le piante officinali, sono testimonianza della vita non solo contemplativa delle Signore Montalve. Di nuovo all’interno della villa si visita il Salone delle robbiane con due lunette di Giovanni e Marco Della Robbia e la Sala del teatro. Sala Ville Medicee, Sala Giardino onirico e il giardino all’italiana ci testimoniano di
Villa La Quiete, il corridore di Boldrone e l’Elettrice Palatina un’altra padrona Medici, l’ultima della famiglia, Anna Maria Luisa detta Elettrice Paladina che tornata a Firenze scelse Villa La Quiete come luogo di ritiro. Fu lei che fece affrescare le due sale nel 1726 da Benedetto Fortini e realizzare il giardino d’impronta sacra con una rara ragnaia. In-
teressante nella Sala delle Ville Medicee l’affresco di Villa Poggio Imperiale perché ben diversa da come la conosciamo. Le mie fantasie infantili si sono incontrate con una storia tutta al femminile e con un luogo che trasuda bellezza, da vedere e godere ora che i restauri l’hanno reso alla città.
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di Simonetta Zanuccoli Dopo l’elezione di Emmanuel Macron i giornali francesi si sono riempiti di articoli sulla sua lunga storia d’amore con Brigitte Trogneux di 24 anni più anziana di lui, con interviste a psicologi, sociologi, persone che vivono la stessa esperienza...Secondo Marie Reynaud a capo degli studi sociali IMSEE questo tipo di unione, che ribalta il modello tradizionale e pressochè universale della coppia con l’uomo più vecchio della donna, è ancora abbastanza insolito ma la tendenza ad esserlo sempre meno sembrerebbe riflette un importante cambiamento sociale in atto. Scrive la Reynaud Il divario di età è sempre stato in tutte le società un segno di superiorità dell’uomo, quasi la rappresentazione della sua dominazione. Ma ora un sondaggio ha rilevato che in Francia le coppie eterosessuali con l’uomo più giovane sono il 14% (scende però al 2% se la differenza supera i 15 anni), percentuale in continua crescita. Studi e statistiche, non limitati naturalmente alla sola Francia ma fatti in società occidentali ormai abituate a tollerare coppie e nuclei familiari che escono dai canoni tradizionali e quindi anche un fenomeno che solo qualche anno fa sarebbe stato oggetto di derisione e scandalo, hanno il merito di sottolineare alcune delle motivazioni molto interessanti alla base di questo cambiamento. Lo scarto d’età tra la donna più giovane rispetto all’uomo si mantiene nelle società tradizionali, si annulla o addirittura s’inverte in ambienti dove si tende alla parità di genere con la donna istruita e economicamente indipendente. Naturalmente ci sono ancora tanti tabù a riguardo, alcuni culturali, come i ruoli stereotipati già accennati, del maschile e del femminile in una coppia dove l’uomo è la parte forte che protegge, ha più potere nella società e per questo guida, altri di carattere filogenetico che si reggono sulla possibilità dell’uomo di essere fertile anche in età avanzata al contrario della donna. Ma ormai la procreazione non è più l’unico scopo per formare una coppia, le donne si mantengono giovani più a lungo rispetto al passato e, secondo le statistiche, muoiono anche più tardi degli uomini, e questi tendono a non nascondere più la loro fragilità........ Diana di Poitiers fu per lungo tempo l’amante ufficiale di Enrico II nonostante lui fosse sposato a Caterina de Medici e avesse avuto da lei numerosi figli. Diana aveva 20 anni di più di Enrico, era intelligente, intrigante e cosciente del proprio prestigio agli occhi
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Da Diana di Poitiers a Brigitte Trogneux del re. Influenzò in maniera determinante la sua politica, si fece nominare duchessa, si circondò di una corte adulante e sicura della propria bellezza si fece ritrarre nel 1571 da Francois Clouet nel quadro Dama al bagno con i seni nudi, ritenuti i più belli della sua epoca (la tradizione vuole che sul suo seno sia stata modellata la coppa per degustare lo champagne). Alla morte di Enrico II Caterina de Medici scacciò Diana dalla corte e questa si ritirò in uno dei suoi possedimenti.
Morì molti anni dopo. Una recente autopsia sul corpo ha dimostrato che la sua morte fu provocata per avvelenamento da oro liquido, un rimedio alchemico che da anni beveva quotidianamente e che prometteva lunga vita e bellezza. In effetti morì alla veneranda età, per l’epoca, di 66 anni e l’anemia, ormai cronica e devastante causata da tutto l’oro bevuto, le aveva dato quella meravigliosa tinta pallida descritta con ammirazione da Brantome poco prima della sua morte.
di Mario Cantini Nel numero 210 del 25 marzo 2017 di Cultura Commestibile, compare la rievocazione di Giovanni Barzanti dello scultore Giovanni Duprè di cui ricorre quest’anno il bicentenario della nascita avvenuta a Siena il 1 marzo 1817. L’articolo rievoca e presenta l’attività dello scultore sotto l’aspetto artistico e autobiografico e del suo operato che si svolge principalmente a Firenze. Non senza un po’ di campanilismo vogliamo con questa piccola ricerca evidenziare il rapporto intenso e duraturo che il Duprè ebbe con Fiesole, dove abitò a lungo. Trasferitosi definitivamente a Firenze nel 1826 circa, acquistò successivamente a Fiesole l’antica villa Le Pergole nell’allora Via delle Coste posta sul lato ovest della collina, che divenne la sua abitazione di campagna, dove rifugiarsi nel riposo e nella meditazione, ma partecipando anche alla vita locale, tanto che nel 1865 “Duprè cav. Prof. Giovanni” fu eletto nel primo Consiglio Comunale di Fiesole nella riunione del 22 maggio 1865. La villa, ancora oggi di proprietà degli eredi, assunse allora il nome di Duprè ed ospita nella ex-limonaia la gipsoteca di molte opere dello scultore. Morì a Firenze il 10 gennaio 1882. Un’altra sua presenza a Fiesole è testimoniata dalla costruzione, ancora in vita, di una cappella gentilizia nel loggiato del cimitero Monumentale di Fiesole, che risulta già completata in una planimetria del 1879, ove riposano in particolare, insieme con la sua salma, quelle della moglie Maria Mecocci deceduta nel 1875 e della figlia Luisa scomparsa prematuramente nel 1872 a 22 anni. Il sepolcro di Giovanni Dupré e di sua moglie è ornato da una copia in marmo, eseguita dallo stesso Duprè, della famosa Pietà esistente nel camposanto della Misericordia a Siena, mentre quella della figlia Luisa, riproduce, pure in marmo, una giovane donna adagiata col capo sorretto da un guanciale, opera dell’altra figlia dello scultore Amalia, anch’essa scultrice. Oltre a vari medaglioni opera sua e della figlia Amalia, nella cappella è presente un olio su tela con il Cristo risorto opera del pittore Antonio Ciseri, eseguita nel 1884. A ricordo di Giovanni Duprè il Comune
Il riposo terreno ed eterno di Giovanni Duprè a Fiesole
intraprese varie iniziative per la commemorazione dello scultore. Con la deliberazione consiliare n. 163 del 14 aprile 1885 fu stabilito, fra l’altro, di collocare una lapide commemorativa “al grande artista Giovanni Duprè da porsi nella di Lui villa”. La targa di marmo fu collocata il 7 giugno 1885, festa dello Statuto, sulla parete della villa al n. 19, con il seguente testo: questa villa fu grato soggiorno di giovanni duprè ai suoi tempi principe della scultura che le ridenti colline fiesolane ebbe ognor predilette ed anco il riposo della tomba volle nel vicino cimitero della vetusta città erede dei suoi affetti il comune di fiesole questo ricordo pose nel vii giugno mdccclxxxv Il Comune di Fiesole ricordò inoltre l’artista intitolando a suo nome, con la deliberazione n. 317 dell’11 aprile 1898, la vecchia via delle Coste ove è situata la villa, strada che inizia da Piazza Mino da Fiesole e termina in Via Vecchia Fiesolana costeggiando il colle di San Francesco.
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Capolavori dell’architettura di Mauro Cozzi Può apparire sorprendente che la floricoltura pesciatina, nel suo impetuoso sviluppo, produca in meno di cinquant’anni tre diverse strutture per la commercializzazione dei fiori, possa accreditarne ben due come capolavori dell’architettura, candidandoli quasi a rappresentare la categoria stessa di “Mercato dei fiori”.Nelle fertili campagne pistoiesi, non estranee peraltro a secolari tradizioni industriali, ad officine del ferro e fonderie artistiche accreditate nell’ornato ma anche nella meccanica (come per le officine degli Orlando o per la società San Giorgio divenuta poi Breda) e a rinomati opifici per la produzione della carta, appunto quelli di Pescia, l’ortovivaismo e la floricoltura sono attività recenti, solo dalla seconda metà del Novecento, oggetto di vigoroso sviluppo. Intorno alla fine degli anni Trenta, la giovane industria del fiore, con 40/50 milioni di garofani, di gladioli, di crisantemi, di tuberose, e via dicendo, vendeva nella stessa Piazza del Grano, sotto una tettoia di calcestruzzo armato di seicento metri quadri che era stata realizzata su progetto di un tecnico comunale. Quasi da subito è palese l’insufficienza di quel paesano show-room, rispetto al trend di crescita di tale attività che già alla fine degli anni Quaranta può dirsi esplosivo. Conta il clima della ricostruzione che da subito investe il Pistoiese e la bassa valle dell’Arno, con la Breda appunto, o la Piaggio con la celebre creatura di Corradino D’Ascanio, emblema del futuro miracolo italiano. L’ariosa, elegante struttura progettata nel 1949 dal gruppo “Quadrifoglio” guidato da Giuseppe Giorgio Gori e del quale fanno parte altri allievi di Giovanni Michelucci come Ricci e Savioli, appartiene pienamente allo spirito, alle speranze, perfino alle forme morbide di questi anni. Volta arditamente gonfiata a coprire lo spazio di una piazza-mercato, sorretta da contrafforti sottili sufficienti tuttavia a contrastare la spinta, cui è stata giustamente attribuita una essenzialità brunelleschiana, si offre come“Una creazione architettonica nobilissima, limpida ariosa (…) che genera una vibrazione lunga d’aria e di luce”, potrà scrivere Ernesto Nathan Roger. Come risulta dalla mostra che è in corso, e dal catalogo ETS con gli scritti di Claudia Massi,
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di Lorenzo Mingardi, con le testimonianze di François Burckhardt, di Francesco Gurrieri e di Adolfo Natalini, e in particolare dal saggio di Ezio Godoli che conclude la pubblicazione, questo Mercato dei fiori non viene subito riconosciuto nella sua qualità architettonica. Forse a causa della collocazione provinciale e in generale della minore visibilità delle opere e degli autori toscani rispetto all’area milanese o romana, sarà necessaria la ‘scoperta’ di un fotografo e critico inglese Kidder Smith e il deposito delle immagini nel prestigioso archivio del R.I.B.A., per determinare il premio
alla II Biennale di architettura di San Paulo in Brasile nel 1954 e quindi un altro premio a Napoli e la presenza alla Triennale del ’57, per sancire la qualità di un’opera sicuramente tra le migliori di quel decennio. Un’architettura coerente rispetto ad un bando di concorso che perspicacemente richiedeva una piazza coperta flessibile ad usi diversificati, e una sensibile attenzione al paesaggio delle colline circostanti. Contò forse in quel frangente la minore qualità del gruppo guidato da Michelucci che pure agiva nei luoghi del suo esordio e all’opposto, l’impegno di Gori del quale si
per i fiori di Pescia sono in genere sottostimate le molte qualità di progettista e di coordinatore. Un Gori che si trovò impegnato, prima della sua prematura scomparsa nel 1969, oltre che in svariate altre opere pesciatine e fiorentine (il Vespucci, ad esempio, il più bello dei ponti moderni cittadini), in un tentativo di ampliamento di quel medesimo mercato, resosi presto necessario a causa delle progredienti fortune nel commercio del fiore. Se quella vela ariosa potrà collocarsi tra le architetture più apprezzate della ricostruzione e fornire qualche suggestione – penso in particolare alla ‘tenda’ bel-
lissima della chiesa del Cuore Immacolato di Maria che Michelucci progetterà nel ’59 per il villaggio Belvedere di Pistoia – i progressi dell’industria florovivaistica e del commercio del fiore reciso, escludevano la possibilità di un ampliamento. Cresciuta la produzione da 60 a 200 milioni di unità all’anno e quadruplicato il numero dei banchi di vendita, s’impone tutt’altra collocazione: si sceglie un terreno subito a sud della stazione ferroviaria; si pensa in grande ad una struttura modulare che nel tempo possa ulteriormente accrescersi e perfino si ipotizza un incarico a Nervi, autore di
Nella pagina accanto G.G.Gori, E.Gori, L.Ricci, L.Savioli, E.Brizzi, Mercato dei fiori, Pescia, 1949-1951, prospettiva inviata al concorso. Sopra L.Savioli, D.Santi, G.Corradetti, P.L.Marcaccini, G.Dallai, S.Di Pasquale, B.Leggeri e T.Marcelli, Mercato dei fiori di Pescia, 1970-1981. Sotto G.G.Gori, E.Gori, L.Ricci, L.Savioli, E.Brizzi, Mercato dei fiori, Pescia, 1949-1951
grandi spazi coperti come quelli della cartiera Burgo presso Mantova. Ma alla fine nel 1969, si decide nuovamente un concorso che da più parti d’Italia fa convergere su Pescia più di settanta concorrenti. Saranno premiati progetti di vario orientamento, come “Chiaromondo” del gruppo guidato da Marco Dezzi Bardeschi e Giovanni Battista Bassi (una grande tavola fantasticata d’irte geometrie, può vedersi nella mostra allestita nella gliptoteca Libero Andreotti) che coinvolge l’intera cittadina con una metaforica proposta floreale. Prevale tuttavia il progetto del gruppo guidato da Leonardo Savioli e Danilo Santi, che seguendo più da vicino il bando, congegna una macchina modulare, una piastra di più di un ettaro di superficie, sostenuta da dodici torri a traliccio e dagli stralli dei cavi. Una architettura tecnomorfa che nel suo concepimento, anticipa il celeberrimo Centre Georges Pompidou, come scriverà Natalini in “Domus” dodici anni dopo, quando finalmente il Mercato pesciatino sarà terminato, un’opera che tempestivamente s’era ispirata alle megastrutture di Konrad Wachsmann, di Cedric Price, di Peter Cook, alle fascinazioni costruttiviste e futuriste che agitavano le avanguardie radicali inglesi o metabolisti come Arata Isozaki. Savioli, al pari dei suoi giovani assistenti, è ora emozionato dalle strutture ”ferrigne”, dalla serialità rapidamente assemblabile dell’acciaio, ma osserva giustamente Burkhardt, senza dimenticare l’accuratezza del disegno e la cura plastica dei particolari. Alla fine si può osservare come ambedue questi mercati, pur così diversi, sono riusciti a fondere la qualità, la creatività compositiva con una chiara intelligenza strutturale: quella di Emilio Brizzi nel primo caso e di Salvatore Di Pasquale nel secondo. Due capolavori architettonici, dunque, meritevoli di assoluta tutela, nei termini di un riuso congruo il più possibile anche rispetto alla città che nel frattempo è cresciuta intorno al primo; nei termini di una manutenzione e di un restauro richiesti dal secondo ancora attivo nelle originarie funzioni ma comunque disponibile anche ad accoglierne altre. Due capolavori ora messi in mostra e in catalogo, da un gruppo di specialisti i quali in una già istruita alleanza tra l’Amministrazione comunale di Pescia e la Fondazione Michelucci di Fiesole, hanno avviato un Centro di documentazione sull’architettura del Novecento in Toscana, sostenuto da un comitato scientifico internazionale e finalizzato alla valorizzazione e alla tutela dl un ragguardevole patrimonio che deve essere meglio conosciuto in Italia e in Europa.
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di Giampaolo di Cocco Sembra ieri da quando cinque anni fa ho fatto la prima inaugurazione al mio centro culturale Abaco Space a Kunow, 80 km a nord ovest di Berlino. Oggi, 27 Maggio 2017, siamo alla settima apertura, dato che nel 2012 ne feci due, e devo dire che questa è stata forse l’inaugurazione più riuscita, sole splendido, temperatura sui 30°, gente allegra, curiosa ed anche numerosa, pubblico giovane, bellissime ragazze, il che non guastava. Oltre a me stavolta c’erano tre artisti italiani “di chiara fama” per così dire: Aroldo Marinai, Angelo Barone, Mariateresa Sartori. Quest’ultima purtroppo c’era solo in spiritu, dato che impegni didattici l’hanno trattenuta a Venezia. Con Aroldo e Angelo nel lontano 1985 avevamo già fatto una mostra insieme al BBK di Colonia, allora ci fu anche Stefano Benedetti, il quale stavolta non è potuto venire. Trovarsi con i vecchi amici sotto lo stesso tetto per qualche giorno è stato comunque rigenerante e piacevole, parlare d’arte, scambiarsi opinioni, anche in maniera accesa mi ha fatto tornare in mente il motivo per cui conduco questa attività accanto alla mia personale ricerca artistica. Montare delle mostre assieme agli amici artisti è sempre molto eccitante ed istruttivo, si impara a conoscersi meglio, escono fuori con più chiarezza le motivazioni dell’operare; come già ho avuto occasione di scrivere sulle pagine di Cuco, sono contrario alla politica del “no tu no” che si pratica nelle istituzioni ed occasioni pubbliche dell’arte a Firenze: la politica dell’esclusione sistematica di quegli artisti che non fanno parte del giro “bene” ha impoverito e banalizzato oltremodo il panorama dell’arte fiorentina. Preferisco essere aperto e non chiudere, tanto meno per puro pregiudizio e incapacità di comprendere. Aroldo Marinai ha presentato ad Abaco Space un lavoro compiuto appositamente per l’ occasione, un “tappeto” dipinto di circa un metro di altezza e lungo dieci, “dieci metri di pittura e cinquant’anni di vita”, come lo definisce Aroldo. Il “tappeto”, che qualche spettatore disattento ha interpretato davvero come tale, camminandovi sopra, riporta la pittura venata di comic strip e di citazioni colte propria di alcuni periodi della produzione di Aroldo, mi ricordo il suo piccolo Frog men che vivacizzava le pareti di Firenze negli anni ’80. Aroldo ha rimesso in campo per questa inaugurazione, tralasciando momentaneamente la propria sapienza pittorica, la sua vena provocatoria e irriverente, fatta quasi di graffitismo e colori primari, dati con voluta rapidità e nonchalanche. Angelo Barone a sua volta ha preso sul serio l’impegno ad Abaco Space, inviando due casse
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Vecchi amici sotto lo stesso tetto che contenevano decine di piccole tavolette su di un supporto industriale che le rendeva perfette alla vista e pesanti a volerle sollevare. Le tavolette sono dipinte di rosso vivo e le figure che vi si distinguono sono di un rosso di tonalità diversa ma non troppo sicchè i lavori ne risultano quasi monocromatici. Angelo ha disposto le sue tavolette direttamente sul pavimento, sull’assito di legno all’ultimo piano di Abaco Space, formando una superficie movimentata ed elegante. Completava l’installazione una coppia di quattro modelli di bunker, o se si preferisce quattro piccole raffinate sculture astratte. Angelo infatti in questi ultimi tempi si è dedicato allo studio dei bunker in quanto architetture della difesa, fisica come psichica, seguendo in ciò gli studi del filosofo francese Paul Virilio e ripercorrendo sulle tracce del suo mentore la linea dei bunker tedeschi della Normandia lungo il vallo atlantico. Mariateresa Sartori non era presente, siamo riusciti comunque a far apparire sul pc il suo video In Sol maggiore, in Sol minore, intervento sul film tedesco Heimat (Patria). Interessata dalle teorie scientifiche sulla percezione umana e dalle scienze neurologiche, l’artista rielabora le immagini del film attribuendo ad esse una musica diversa ed invertendone a tratti il flusso direzionale, fino ad ottenere un effetto di spaesamento e di risignificazione del racconto
filmico. Infine il mio proprio lavoro. Pensata in origine per essere collocata sulla tomba negletta e abbandonata dell’umanista Benedetto Varchi al chiostro di Ponente, via Alfani, Firenze, L’Apoteosi di Benedetto Varchi , rifiutata dopo essere stata accolta dall’addetta dell’Università, è allestita ora negli spazi di Abaco Space. Dalla riproduzione della lastra tombale (stampa su plexiglas) delle stesse dimensioni dell’originale, si libra il “corpo etereo” del Varchi, fatto di foto con valore più di ri-creazione che di memoria; da questo si sviluppa come terzo elemento il “corpo astrale” dello scrittore, ovvero il caproserpente, mentre i suoi libri ricreati su plexiglas stampato riportano i suoi colloqui con i massimi artisti dell’epoca, Pontormo, Bronzino, Michelangelo.Tra i numerosi visitatori, lo scultore berlinese Frank Dornseif, ospite a più riprese della Villa Romana a Firenze e della Villa Massimo a Roma, il gallerista Andrea Sassi di Berlino e Reggio Emilia, la gallerista Chiara Erika Marzi, attiva tra Berlino e Roma e molti altri.
Angelo Barone
Mariateresa Sartori
Aroldo Marinai
Giampaolo di Cocco
di M. Cristina François Tra Piazza S. Felicita e Vicolo della Cava seguivano in ordine tre Monasteri di clausura femminile: quello Benedettino Vallombrosano di S. Felicita, quello delle Clarisse dei SS. Girolamo e Francesco e quello Benedettino Vallombrosano di S. Giorgio allo Spirito Santo. Confinavano tra loro coi rispettivi orti e giardini recintati da mura claustrali e formavano un perimetro poligonale che si configurava spazialmente come segue. A ovest le Benedettine di S. Felicita con la piazza omonima, la Chiesa e la Colonna; a nord la Costa S. Giorgio su cui si affacciavano in salita le mura con la chiesa delle Clarisse e le mura con la chiesa delle Benedettine di S. Giorgio allo Spirito Santo; a est il Vicolo della Cava che d’angolo con la Costa formava le case dei fattori del Convento di S. Giorgio e proseguiva poi fino alla Cava che era proprietà di S. Felicita; a sud le mura dei tre Monasteri confinavano con la collina di Boboli (che dal 1550 diventerà proprietà granducale). Le Cave di pietraforte sulla collina di Boboli furono due: una Cava dei Granduchi che fornì il pietrame per Palazzo Pitti e che si stendeva in galleria sotto il Palazzo, parte della piazza Pitti e di fronte all’odierna Meridiana; vi si arrivava dalla Via del Ronco che – prima del 1550 – si chiamava Via della Cava e che, dopo aver girato intorno al Palazzo, sbucava in Via Guicciardini. La Cava granducale fu finita di sistemare tra il 1766 e il 1777 dall’arch. dello “Scrittojo delle Regie Fabbriche e Giardini” Niccolò M. Gaspero Paoletti. Esisteva poi, come dicevamo, una Cava delle Monache di S. Felicita detta anche Cava del Monastero a cui si giungeva attraverso due strade: la prima fu l’attuale Vicolo della Cava che nel corso dei secoli cambiò più volte nome, “Via della Cava delle Monache” per distinguere questa strada dalla via nominata sopra (a.1296), “Chiasso alla Cava” (a.1379), “Via della Cava” (a.1810), “Vicolo della Cava” (dal 1871 ad oggi); la seconda strada fu la Via Nuova, documentata almeno dal 1379, di cui si dirà più oltre. Già dal 1217, in un Instrumentum datato 12 giugno [cfr.A.S.P.S.F.- Ms.728, Diplomatico stilato da Filippo Brunetti nel 1819, doc. n. LIII], viene definita “la Cava del Monastero”. All’interno di questa Cava fu erroneamente ipotizzata da numerosi eruditi, la presenza di catacombe pertinenti al Cimitero Paleocristiano annesso alla Chiesa e Monastero di S. Felicita. La presenza di cunicoli, passaggi e perforazioni delle masse di pietra poteva far immaginare antiche sepolture cristiane.
La cava di pietraforte delle monache di S.Felicita Lo ricorda anche Piero Sanpaolesi: “Presso Santa Felicita erano numerose le cave […] che troviamo citate in vari contratti. La stessa chiesa dette il nome ad una di tali cave detta appunto Cava di S. Felicita (A.S.F.- Diplomatico, Atto del 9 febbraio 1296). […] Ma si pensi quanto disagevole apparisce lo scavare comuni sepolture in pareti di pietraforte” [Piero Sanpaolesi, La chiesa di Santa Felicita, in “Rivista d’Arte”, XVI, 1934, p.306]. L’attuale Vicolo della Cava fu per questa ragione detto anche Via della Cava delle Monache e altrove anche Chiasso alla Cava, come si legge in un documento del 6 settembre 1379 [A.S.P.S.F. Ms.728, p.129] in cui la Badessa Costanza de’ Rossi concesse licenza di costruire una casa e di fabbricare sul muro del Monastero del Chiasso alla Cava, “murus [qui] vadit usque ad viam novam”. Questa Via Nuova era la strada interna che collegava il Monastero di S. Felicita a ovest con la Cava di sua proprietà sita a est come si vede nella Carta del Bonsignori (1584); fu detta Via Nuova [cfr. Stradario storico e amministrativo della Città e del Comune di Firenze, Firenze, 1929, p.82]. Un altro documento relativo a una lite incorsa nel 1606 fra le Monache e Bastiano del Turco, ci informa che al n.18 di Via della Cava le religiose avevano una casa di loro proprietà [A.S.P.S.F. –
Ms.720, c.105v.]. Le Leggi di Soppressione napoleoniche sanzionarono nel 1810 la chiusura del Monastero di S. Felicita. Via della Cava passò così alla Mairie di Firenze, cioè divenne strada comunale, mantenendo questa denominazione [cfr. Piante napoleoniche del 1808 dell’Arch. Giuseppe Del Rosso nell’ASC, cart.72, Tav.13, f.31- vecchio num.XX e XXI]. Nel 1808 era già stato soppresso l’attiguo Monastero dei SS. Girolamo e Francesco. Nel 1866 le “Leggi eversive” [A.S.F. - Monasteri Soppressi n.84 e Segreteria Regio Diritto, n.5978] soppressero il Monastero di S. Giorgio alla Costa e la Via della Cava assunse il nome attuale di Vicolo della Cava [cfr. Deliberazione della Giunta Comunale, 11 dicembre 1871, Sindaco Ubaldino Peruzzi, in Stradario storico e amministrativo della Città e del Comune di Firenze, Firenze, 1929, p. 24, nota 1]. A conclusione di questo excursus storico-documentario mi auguro che – nel nuovo assetto che con le attuali vendite immobiliari sembra essere previsto per la Costa S. Giorgio e le sue adiacenze – venga preservata la memoria di questi luoghi espressa, oltre che da monumenti artistici e religiosi, da tutto un sistema viario che ci permette ancora di procedere sulle tracce del grande passato fiorentino.
27 10 GIUGNO 2017
Maschietto Editore Siamo lieti di invitare alla presentazione della collana Iconologia
Venerdì 16 giugno, ore 18 Biblioteca delle Oblate, Sala Conferenze Via dell’Oriuolo 24, Firenze
MICHELANGELO AGLI UFFIZI, DENTRO E FUORI Letture del David e del Tondo Doni di Antonio Natali
UN MOSTRO GRAZIOSO E BELLO Bronzino e l’universo burlesco del Nano Morgante di Sefy Hendler Relatore Vincenzo Farinella Saranno presenti gli autori
La collana Iconologia, ideata e diretta da Antonio Natali, si propone di scoprire e raccontare i significati e i pensieri sottesi a importanti opere del passato, intese come testi poetici compiuti attraverso il linguaggio figurativo. La lettura è condotta a partire da fonti artistiche e letterarie e da documenti storici spesso ignorati dalla storiografia artistica. Le due opere di Michelangelo analizzate da Antonio Natali rivelano aspetti sorprendenti che portano a spiegare le fattezze inusuali, da “gigante”, del David e a spostare la datazione del Tondo Doni, chiarendo le circostanze della sua realizzazione. Il Nano Morgante, singolare tela del Bronzino dipinta sul recto e sul verso – riproposta nella sua figurazione antica e nel tempo travisata da Antonio Natali nel 2010 – esprime, nella lettura inedita di Sefy Hendler, un intero catalogo di riferimenti burleschi e allegorici che legano l’arte venatoria alla sfera sessuale, nell’ambito dell’universo simbolico della corte medicea. La collana proseguirà gli studi di Vincenzo Farinella su Piero di Cosimo e di Andrea Baldinotti sulla Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci. Corredati di un ricco apparato iconografico e realizzati in veste pregiata, i volumi della collana Iconologia escono in doppia edizione, in italiano e in inglese.