Cultura commestibile 223

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Numero

24 giugno 2017

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Con la cultura non si mangia

Il gregge del signore può bivaccare dove gli pare

Giulio Tremonti (apocrifo)

Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Com’è evidente siamo ancora all’interno del quartiere cinese ma in un momento stranamente tranquillo per gli standard abituali della zona. In generale si aveva sempre l’impressione di muoversi a fatica in mezzo a un brulicare incessante di persone che vanno e vengono, quasi sempre correndo. L’impressione che avevo in quei giorni era quella di essere in mezzo a un formicaio senza riuscire a capire quali fossero le sue dinamiche! Mi sono quindi stupito nel vedere la scena più familiare di quest’uomo che, come accade anche da noi, sta leggendo un giornale sui gradini di un negozio sotto lo sguardo curioso di un passante.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

24 giugno 2017

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Riunione di famiglia Idrante benedetto Le Sorelle Marx

Papà Silvio Lo Zio di Trotzky

Sex and the Pd I Cugini Engels

Quella sua maglietta fina (troppo stretta al punto che) La Stilista di Lenin

In questo numero Pericolo epidemia in Toscana: stanno morendo i festival di Mariangela Arnavas

Vetrina delle meraviglie, secondo piano di Claudio Cosma

Barbagianna in rassegna di Laura Monaldi

Dall’Appennino alle Ande di Simone Siliani

Addio Lolini, poeta della città della muffa di Roberto Barzanti

Il difficile destino delle Gualchiere di Rèmole di Francesco Gurrieri

Pigna, una magia che si rinnova di Alessandro Michelucci

Newton e Pippo di Fiesole di Mario Cantini

Pontormo e Cappella Capponi, i restuari storici di M. Cristina François

Lo storico tastierista dei Litfiba e il gioco del Chianti Classico di Giacomo Aloigi

Mappe di percezione di Andrea Ponsi

e Massimo Cavezzali, Aldo Frangioni, Lido Contemori, Cristina Pucci, Danilo Cecchi, Paolo della Bella, Monica Innocenti...

premio letterario

PRIMA EDIZIONE 2017

Direttore Simone Siliani

Il racconto De mutatione mutandorum, è a pagina 16 Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


di Mariangela Arnavas A Cecina è stata soppressa dallo scorso anno la rassegna jazz che costituiva in estate un punto di riferimento culturale per la costa Livornese, sbaracca il festival teatro/ Azione a S. Casciano VP che aveva portato creatività, internazionalità, coinvolgimento attivo della popolazione, ma soprattutto quest’anno si chiude l’esperienza di connubio tra il Festival Teatro di Volterra e la Compagnia della Fortezza: Armando Punzo, con un lungo intervento pubblico molto chiaro registra che non ci sono più le condizioni per la realizzazione del festival estivo con le caratteristiche di elevata qualità culturale che lo avevano caratterizzato negli ultimi anni. Ho ancora molto definite nella memoria le immagini e le emozioni della prima rappresentazione del Marat Sade con la regia di Armando Punzo e i detenuti attori nel carcere di Volterra: erano gli anni ‘90 e il pubblico di soli critici e autorità, accuratamente selezionato dalle forze dell’ordine per motivi di sicurezza, rimase folgorato dall’intreccio esplosivo di realtà e finzione, dall’energia impressionante quanto la bellezza; da allora tutta la stampa nazionale, compresi i critici teatrali più spocchiosi cominciarono a seguire il lavoro di Armando e della sua compagnia nell’antico carcere di Volterra e l’esperienza si mosse da lì per contagiare felicemente molte altre realtà, sia da un punto di vista sociale che culturale. L’incontro con il festival VolterraTeatro aveva permesso negli ultimi anni di rendere pubblico il desiderio di esplorare le zone del pensiero che portano a scelte”estreme”, di riportare a Volterra per restituirle a tutti, cittadini e turisti, le punte più avanzate della sperimentazione nel teatro, nella musica, nell’arte, nella letteratura”, così racconta Armando Punzo la sua esperienza ventennale e non c’è dubbio che sia riuscito in questi anni a proporre il carcere, strutturalmente antico come le sue mura, come una cittadella teatrale, punto di riferimento per tutta la cultura di questo paese. Vediamo di capire che succede: certo le maglie dei bilanci comunali, soprattutto dei comuni medio/piccoli sono strette, ma quello a cui si assiste non è il doloroso taglio, è piuttosto una correzione di rotta che sposta le risorse oppure ne modifica le modalità di assegnazione; a Cecina il festival

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Pericolo epidemia in Toscana: stanno morendo i festival

musicale estivo, di alta qualità culturale, che si svolgeva presso la Villa Cinquantina viene semplicemente cassato, ma non per indirizzare risorse verso emergenze sociali o simili: una metà del budget va a finanziare la direzione artistica di quattro

spettacoli di Paolo Ruffini nella stagione invernale, affidata allo stesso Paolo Ruffini che quindi, invece di pagare il teatro per svolgere le sue anteprime da portare poi in giro per l’Italia, viene lautamente retribuito per dirigere se stesso e tutto ciò senza


Foto di Stefano Vaja

nessuna procedura ad evidenza pubblica, tanto più che la vera direzione artistica, cioè quella della stagione teatrale è affidata e ben condotta dalla Fondazione Toscana Spettacolo, con contributi regionali; il resto del budget va in intrattenimenti di tipo

commerciale (notti bianche, blu, etc.). A Volterra, invece, si usa la tecnica dell’asfissia; il budget non è alto ma con una programmazione almeno triennale la direzione artistica potrebbe integrare risorse da sponsorizzazioni e fondi europei, avendo la possibilità, come è avvenuto negli ultimi anni, di intercettare produzioni d’avanguardia e sperimentali; invece il Comune decide di far partire il procedimento ad evidenza pubblica (qui comunque almeno c’è), meno di un mese prima dell’inizio degli spettacoli e per un solo anno, perdi più con requisito fondamentale quello del massimo ribasso, che forse va bene per il taglio dell’erba, sempre con qualche aggiustamento sulla qualità ovviamente. Terminano così esperimenti importanti di valorizzazione del territorio e del turismo attraverso le rappresentazioni e produzioni culturali; sappiamo che la Toscana è bella per natura e per ciò che la storia ha felicemente stratificato nel suo territorio, ma se queste risorse sono viste solo come giacimenti da sfruttare, si offrono al pubblico interno ed esterno come qualcosa di statico, privo di energia; solo il confronto culturale aperto e l’espressione contemporanea della bellezza artistica possono rendere vivo e davvero attraente il tessuto ricchissimo di questa regione, così com’è avvenuto per anni e in modo diffuso. Speriamo che il contagio si arresti, perché questa provincia permeata e resa viva da rassegne culturali di qualità elevata non corra il rischio di un progressivo impoverimento; ci sono realtà che resistono, invero: pochi giorni fa a Castiglioncello si concludeva un breve festival del cinema organizzato dal comune di Rosignano Marittimo con un’intervista pubblica a Toni Servillo e Carla Signoris che il pubblico ha ascoltato per due ore in piedi o seduto sui gradini, nonostante il caldo soffocante, dato che i posti a sedere erano tutti occupati e in questa settimana parte un altro breve festival di qualità. Comunque, visto le attuali modalità di orientamento dei responsabili amministrativi di alcuni Comuni, speriamo che non si diffonda su facebook la richiesta dal “popolo” di spettacoli di gladiatori, magari suffragati da sondaggi d’opinione più o meno farlocchi, perché rischieremmo di ritrovarceli nelle arene estive, magari con qualche estemporanea partecipazione dei sindaci più audaci o più dotati, almeno secondo la loro opinione di se stessi.

Programmazione, questa sconosciuta di Emiliano Bacci Prima premessa. Per onestà bisogna dire che VolterraTeatro non morirà quest’anno. Formalmente l’ultratrentennale festival di teatro di ricerca continuerà con una nuova direzione artistica (ancora da scegliere, in ballo ci sono due proposte...), che per la prima volta da decenni non vedrà Armano Punzo al timone. Né un altro protagonista del teatro di ricerca che ha fatto del Festival un appuntamento fondamentale per appassionati, spettatori, addetti ai lavori. Seconda premessa. La direzione artistica di Punzo negli ultimi tempi non è stata particolarmente brillante, concentrando gran parte delle risorse (economiche, fisiche, mentali) nello spettacolo della Compagnia della Fortezza e lasciando le briciole al “contorno”. Si è spezzato così l’idillio festivaliero, complice anche l’unicità dello spettacolo della Compagnia, lontano dal libero accesso per obbligo e non per scelta. E forse un cambio al vertice poteva essere salutare, tenendo però come punto fermo il lavoro di Punzo, ormai inscindibile dai destini del Festival. La “morte” di VolterraTeatro è, scontato e banale, una morte annunciata. Non ancora arrivata, ma incombente da un paio d’anni, cioè da quando l’Amministrazione Buselli ha scelto di mettere a bando la gestione del Festival. L’errore non è nel bandire, ma nella tempistica. Un errore figlio della scarsezza sia nella conoscenza della macchina amministrativa, sia nel funzionamento di un evento culturale. L’ignoranza di un termine come programmazione è alla base di una decisione di indire un bando a maggio per qualcosa che andrà in scena a fine luglio, qualcosa che ha bisogno di mesi e mesi di cura per riuscire. E soprattutto cercare di mantenersi, visto la difficoltà di accedere a finanziamenti non più munifici come decenni fa. Quest’anno poi è stato toccato il fondo: solo il 6 giugno è stato chiesta una manifestazione d’interessse per dirigere il Festival... Anche a Firenze per l’Estate tutto non è filato liscio, tra finanziamenti variabili e altre incertezze. Quindi la domanda da porsi è: negli enti pubblici c’è qualcuno, politica in primis ma non necessariamente, che riesce a programmare culturalmente? Non un evento oneshot, né un cartellone da cinema di provincia (cioè semplicisticamente io Comune ci metto il luogo, te distributore ci metti i film). Un Festival, come VolterraTeatro, ha bisogno di essere “pensato”, costruito dietro un’idea, assemblato di conseguenza, partecipato, promosso, finanziato e infine, dopo lavoro di mesi, messo in atto. Altrimenti muore prima ancora di nascere.

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Le Sorelle Marx

Idrante benedetto

L’ordinanza del sindaco Nardella per l’uso degli idranti contro i bivacchi (“sia chiaro, ha precisato dalla sua newsletter, bivaccare non vuol dire sedere”...) ha già dato i suoi sacrosanti effetti. L’altro ieri, il buon Dario si aggirava furtivo per Firenze con l’idrante pronto all’uso, quando è incappato in un bivacco di suore; mica due o tre; una trentina, con tanto di croce. Sedute davanti a Prada in piazza del Duomo a mangiare un panino e bere un po’ d’acqua. Nardella si avvicina intimidito: “Scusate sorelle, sia lodato Gesù Cristo”, e loro tutte in coro “Sempre sia lodato!”. Il sindaco: “Vedete sorelle, non si potrebbe bivaccare qui in centro...”. “E loro: “Ma, bel giovine, per

Lo Zio di Trotzky

carità, si sieda qui con noi che diciamo un po’ di rosario e cantiamo una canzoncina al Signore”. “Grazie sorelle, ma purtroppo vado un po’ di fretta... vedete, io sono sindaco... e ho gravi impegni tutti i giorni... e proprio da sindaco ho emanato un’ordinanza che...” “Nooo, sindaco? Ma chi l’avrebbe mai detto... un così bravo ragazzo.... ci sembrava così educato... Ma, scusi, che cosa avrebbe ordinato? Lo sa che solo il Signore Altissimo può ordinare qualcosa? Infatti, ha ordinato l’universo” “Beh, le ordinanze sono degli atti amministrativi con cui l’organo monocratico del Comune stabilisce che si facciano determinate cose....” “O come parla strano, signor sindaco: ma lei crede davvero che se lei scrive una cosa questa si farà senza che il Signore misericordioso lo voglia?” “Non so... in effetti le mie ordinanze non se

Papà Silvio

Chi vede nelle affermazioni di Berlusconi a difesa di Renzi e Boschi perché avrebbero parlato di cose riservate ai loro rispettivi genitori una captatio benevolentiae nei confronti dei leader PD in vista di larghe intese future sbaglia di grosso. Non era certo il Berlusconi politico che parlava ma il padre amoroso di tanti figli. L’uomo ritratto sulla copertina di Chi per il cenone di Natale con la famiglia che ha le dimensioni e i legami del clan. Era l’iperitaliano che parlava, il miliardario che da una vita fa credere a tutti noi di essere come noi, diverso nel portafogli ma uguale nello spirito. Parla coi figli come tutti noi, ammicca al sedere della signorina come quelli seduti sulle seggiole del bar, dice le barzellette sconce che ci raccontiamo in ufficio. Silvio ha la capacità di entrare in empatia con il cuore profondo del Paese e dove Renzi e Boschi si distaccano, televisivamente, dal padre lui rivendica, da padre, l’amore dei figli che gli raccontano i segreti. Poco importa che invece dell’ultimo fidanzatino possano raccontare le vicende di una banca o del calciomercato del Milan. Silvio blandisce, corteggia: come quando parla dei cinquestelle, dove la sinistra accomuna in un racconto moralista dirigenti e votanti, lui distingue, condanna i dirigenti ma consola e perdona gli elettori, che in questo modo si sentono accolti e potranno votare per lui. Dice che Silvio sia tornato, il Paese reale sa che non se ne era mai andato.

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La stilista di Lenin

le fila nessuno... voi dite che il Signore non è d’accordo? Comunque, ma voi siete suore vere? Non è che per caso siete delle modelle di Prada messe qui per fare pubblicità al negozio?” “Oh Signore santo! Ma vuole scherzare? Noi siamo suore Francescane Immacolatine e siamo in pellegrinaggio verso Roma per andare in udienza dal Santo Padre” “Ah, volevo ben dire. Allora, facciamo così: io non vi annaffio con l’idrante, ma voi portate una preghierina a Papa Francesco per me, chiedete che interceda per me verso il Signore perché qui a Firenze o mi aiuta Lui, oppure io non ne vengo a capo”. “Ma certo, signor sindaco: lo faremo senz’altro. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta” “Laudata sempre! Giovanni, prendi ‘sto idrante e riportalo in Comune”

Quella sua maglietta fina (troppo stretta al punto che)

La parte della Costituzione in cui viene affermato che i parlamentari, e qui aggiungiamo i membri del governo, rappresentano la Nazione è ormai, più che un pungolo morale a tenere una condotta proba, un consiglio di abbigliamento per la pratica dell’attività sportiva. Come scordarsi infatti di Renzi che scia con il completo della nazionale di sci (che invero ricordava più Fantozzi olimpionico di sci che Tomba) o corre sulle strade de l’Avana strizzato tipo salsicciotto in una tuta da atleta olimpico, oppure Alfano e Lupi ritratti a fare Jogging con la maglia Italia. Naturalmente stesso meccanismo si ingenera quando i nostri rappresentanti si sfidano in partite di calcio spesso per beneficenza. La muta scelta è quella della nazionale maggiore, che però è pensata e realizzata per giovani atleti professionisti dai fisici scultorei e modellati. Non sfugge all’ingrato compito nemmeno Andrea Manciulli che nelle scorse settimane, in quel di Merano, ha sfidato con una rappresentativa di politici e amministratori vecchie glorie del calcio tra cui Zidane. Il confronto col campione, seppur ex, ed il deputato insaccato nella maglia azzurra dobbiamo dircelo non fa proprio fare una gran bella figura ai nostri colori.


Nel migliore dei Lidi possibili disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Il letto a due piedi

I Cugini Engels

Sex and the Pd

Come le quattro signorine di Sex and the City, anche Alessandra, Maria Elena, Debora e Marianna si concedono momenti di relax e divertimento dalla stressante vita lavorativa di ogni giorno. Secondo Alessandra (al secolo Moretti, candidata trombata alla presidenza della Regione Veneto per il Pd), in questa foto le quattro girls, non stavano commentando il 7 e mezzo che Virginia Raggi si è data, ma “ci stavamo rilassando dopo una riunione. Però mi è venuta in mente questa foto leggendo sui quotidiani il voto che la Sindaca di Roma si è data. #lamanicalargadei5stelle”. Come Carrie nella serie newyorkese, Alessandra è l’io narrante

del quartetto; l’intellettuale del gruppo. Come Carrie, è alla ricerca «dell’amore totale, ridicolo, scomodo, spossante, che ti consuma e non ti fa pensare ad altro”, ma purtroppo ancora non l’ha trovato e Matteo l’ha scaricata dopo i recenti insuccessi. Infatti, lui preferisce Maria Elena, la

Miranda del gruppo: avvocatessa di successo, con una visione molto cinica degli uomini e delle relazioni; donna tenace e concreta, sempre in sella, anche dopo il non sfavillante risultato del referendum costituzionale. Certo che anche Marianna, Charlotte York dello sceneggiato, non ha fatto sfaceli di recente: è la più tradizionalista tra le quattro, crede fermamente nel vero amore ed è alla ricerca costante del Principe Azzurro, sembra fragile ma nasconde un lato forte e volitivo. Dopo che la Corte Costituzionale le ha falcidiato la sua riforma della pubblica amministrazione, non si è fatta né in qua né in là, restando ferma al suo posto ministeriale, con un semplice batter di ciglia. Ma è Debora, la Samantha del gruppo, la più spregiudicata e trasgressiva: seduttrice e libertina, evita ogni coinvolgimento emotivo nei suoi appuntamenti con gli uomini. Ha deciso, forse, di lasciare la vita politica per dedicarsi a quella privata: visti i risultati, forse meglio. Insomma, che voto si darebbero le quattro amiche? Almeno 8 per star sopra la Raggi: #adentistrettipd.

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di Laura Monaldi L’instancabile attività de “La Barbagianna: una casa per l’Arte Contemporanea” torna con due appuntamenti imperdibili: il primo - organizzato il 1 luglio dalle 17.00 alle 22.00, con il patrocinio di: Regione Toscana, Città Metropolitana Firenze, Comune di Firenze, Comune di Pontassieve, la collaborazione di: MultiMedia91, Archivio della Voce dei Poeti, Morgana Edizioni, Area N.O., FIDAPA Firenze, MILANOCOSA, Agricult Firenze, Collettivo SUPERAZIONE, Kunstbalkon Kassel, curato da Alessandra Borsetti Venier, dal titolo XXVI Rassegna internazionale “Incontri d’Arte” - sarà una vera e propria festa dell’Arte in occasione del ventiseiesimo anno di immancabili eventi. Come espresso dalla curatrice «lo spirito che anima da tanti anni questi “Incontri d’Arte” si origina dalla consapevolezza che serve per prima cosa rifiutare ogni separatezza e frantumare i codici tradizionali di comportamento per mettersi a repentaglio, nel tentativo di produrre arricchimento reciproco in un sistema integrale dove arte e scienza, impegno morale e politico coincidano. È così che questa casa diventa il luogo ideale d’incontro tra i diversi linguaggi artistici e l’operosità, il luogo che accoglie e ospita. Davvero una prova di forza, amore e resistenza che merita di essere festeggiata insieme ai tanti amici poeti, scrittori, intellettuali, musicisti, artisti visivi con i quali in questi anni si sono condivisi progetti, idee e passioni. Un invito speciale a chi vorrà essere presente e partecipe per la prima volta perché chi condivide questi pensieri è un ospite gradito! ». Un compleanno ad arte in cui gli ospiti potranno ammirare la mostra “Labirinti senza regole” di Ines Lenz, commentata da Cristina Acidini, da Giuliana Videtta e dal relativo catalogo monografico edito da Morgana Edizioni. Nel clima di festa e di riflessione artistica si inserirà anche l’esposizione “Entropia” di Carola Ruf e Nils Klinger, nata dalla collaborazione decennale tra l’associazione MultiMedia91di Firenze e il Kunstbalkon di Kassel. La serata seguirà con i consueti “Incontri con la poesia” che, per questa Rassegna, si avvalgono della collaborazione con l’Associazione MILANOCOSA che presenta l’Antologia Passione Poesia. Letture di poesia contemporanea. 1990-2015. CFR Edizioni, a cura di Sebastiano Aglieco, Luigi Cannillo, Nino Iacovella. Conduce Adam Vaccaro. Tra i saggisti e i poeti presenti nel volume interverranno Luigi Cannillo, Alessandro Ceni, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Mia Lecomte, Rosaria Lo Russo, Valeria Serofilli, Andrea Sirotti, Adam Vaccaro. Le letture sono intervallate dall’ascolto delle voci originali registrate di Piero Bigongiari, Alda Merini e Mario Luzi, presenti nell’Antologia,

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Barbagianna in rassegna

conservate nell’Archivio della Voce dei Poeti. L’evento si concluderà con la performance interdisciplinare “Sintonia, dialogo fra discipline” di Gloria Campriani, realizzata in collaborazione con la vocalist Filomena Menna e la scrittrice Sandra Landi, con un intervento della terapeutica bioenergetica Paola Dondoli, a cura di Ilaria Magni.


Musica

Maestro

Pigna, una magia che si rinnova

di Alessandro Michelucci Tornare a Pigna è sempre una gioia. Ma anche soltanto riparlarne. Questo paese della Corsica nordoccidentale ospita da molti anni Festivoce, uno dei festival musicali più interessanti e più vari del continente. Lo conferma l’edizione di quest’anno (10-13 luglio). Il festival ideato e diretto da Toni Casalonga dedica molto spazio alle musiche mediterranee, ma non limiti geografici né stilistici. Non a caso nasce in un paese dove convivono artisti di ogni tipo: cantanti, costruttori di strumenti, pittori, scultori. Quindi è restrittivo definirlo una festival musicale, anche se la seconda arte gioca un ruolo fondamentale. Una delle caratteritiche salienti del festival è l’attenzione per i muiscisti italiani. Nelle scorse edizioni sono passati da Pigna artisti lombardi, pugliesi, sardi, toscani: da Enrico Fink a Nando Citarella, da Fabio Biondi al gruppo femminile Assurd. Sono proprio quattro artisti ben noti al pubblico di Pigna che costituiscono il piatto forte della nuova edizione. Stiamo parlando di Giandomenico Di Gennaro, Orlando Forioso, Antongiulio Galeandro ed Enza Pagliara. Già attivi singolarmente in vari contesti, i quattro italiani si esibiscono insieme per la prima volta. Un tempo li avremmo definiti un “supergruppo”, anche se la loro collaborazione è limitata allo spettacolo a Ombralux, le voyage au dehors de la caverne, lo spettacolo originale creato appositamente per l’occasione. In questo caleidoscopio di suoni, voci e colori si intrecciano e si potenziano a vicenda Jérôme Casalonga (canto, clarinetto e percussioni), Giandomenico Di Gennaro (canto, flauti e viella), Enza Pagliara (canto), Antongiulio Galeandro (fisarmonica), Toni Casalonga (scenografia) e Orlando Forioso (recitazione e regia). Nel programma di martedì 11 spiccano due appuntamenti dedicati alla musica tradizionale turca. Il primo è la conferenza di Kenan Oztürk e Savas Zurnaci. Il secondo è il concerto dove si esibisce il trio formato da Bülent Ustaoglu (sax, percussioni), Serdar Aygün (voce, liuto) e dallo stesso Zurnaci (clarinetto). Il gruppo propone un repertorio vario e stimolante che alterna musica popolare e colta.

Pigna non è soltanto spettacolo, ma anche impegno didattico: ecco quindi i laboratori di lingua corsa, canto polifonico, arti plastiche, teatro, etc. Questi ateliers sono attivi tutti i giorni del festival, gratuiti e aperti a tutti. Lo spazio a nostra disposizione non ci permette di esaminare dettagliatamente il ricco programma che spazia dalla musica contemporanea di Heinz Holliger ai suoni del Rajastan, dalle

canzoni corse di Lea Antona al jazz del trombettista Flavio Boltro. Il programma completo si trova su www.centreculturelvoce.org Esplorando questo sito scoprirete che il festival fa parte di un impegno musicale e didattico molto articolato che dura tutto l’anno. Ma la magia che si rinnova ogni anno con Festivoce rimane il modo migliore per cnoscere questo mondo affascinante.

SCavez zacollo disegno di Massimo Cavezzali

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di Andrea Ponsi Prosegue la pubblicazione di una serie di brevi racconti di Andrea Ponsi tratti da una raccolta uscita negli Stati Uniti dal titolo Florence-a Map of Perceptions(University of Virginia Press, 2010). Gli scritti, affiancati a disegni ed acquarelli dell’autore, si concentrano sugli aspetti percettivi e sensoriali del paesaggio urbano alternando riflessioni estemporanee di tipo diaristico a considerazioni più generali sulla struttura fisica e concettuale della città. Muri

Cammino lungo una strada del centro. Alzo un braccio per sfiorare il muro al mio fianco. Percepisco con la punta del dito il caldo attrito sulla pietra porosa. Arrivo a un pluviale di rame. Un battito sordo e la mia mano é già oltre, posata su un intonaco a calce cosparso di granelli di “velo”. La corsa é interrotta da uno stipite freddo. Un breve contatto sulle scanalature e il salto sullo stipite opposto. Nel balzo ho appena toccato la porta di legno. Si avvicina un anello di ferro conficcato sul muro per assicurare i cavalli. Impossibile resistere alla tentazione di agganciarlo e lasciarlo cadere per sentire il suono metallico. Sto passando su lapidi in forte rilievo. Il palazzo é importante. Sono cuscini di pietra da carezze rotonde. Si avvicina un altro portone. Stacco la mano per saltare la placca di bronzo dei campanelli. Il portone é aperto e mi slancio in due metri di volo. All’atterraggio la pietra é più calda. E’ ancora sotto i raggi del sole. Un pò frastagliata, si squama. Il gelo invernale e la pietra serena non vanno d’accordo. Solo le resine acriliche possono fermare le scaglie. Non eccedo nella pressione e proseguo leggero. Uno stacco e di nuovo l’intonaco liscio. Contribuisco alla patina con la polvere del mio polpastrello. Sono alla fine del blocco di case. Mi preparo all’incontro con l’angolo acuto dello spigolo estremo. Come ogni buon limite é stato trattato come ornamento. Una semicolonna incastrata del diametro di pochi centimetri sale fino in cima al palazzo. Un tocco finale. Continuo il cammino e riprendo il naturale movimento del braccio.

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Mappe di percezione La luce di striscio

Vi è un’ora precisa in cui conviene fermarsi a ammirare la facciata di Palazzo Vecchio. E’ il momento in cui i raggi solari la colpiscono di profilo mettendo in massima evidenza la trama dei suoi conci di pietra. In quei brevi minuti la facciata, evidenziata dall’ombre sulla sua superficie scabrosa, acquista una splendente tridimensionalità. Quell’ora precisa è esattamente intorno alle 12.30 di ogni giorno durante il periodo invernale, e un’ora più tardi, le 13.30, quando è in corso l’ora legale. Ciò accade per due ragioni. La facciata è rivolta a ovest per cui a mezzogiorno i raggi del sole, che in quel momento si trova perfettamente a sud, colpiscono la facciata di striscio. Questo evento si manifesta ogni singolo giorno , purchè non nuvoloso, alla stessa ora: d’inverno, d’estate, di primavera e di autunno. In estate il sole è più alto sull’orizzonte e in inverno più basso. Si potrebbe pensare che in inverno gli edifici addossati alla piazza della Signoria occultino i raggi del sole. Ma ciò non avviene. Infatti, e questa è la seconda ragione, gli Uffizi, con il loro andamento nord-sud, sembrano disegnati apposta per lasciare passare a mezzogiorno quei raggi del sole. Concepiti in pianta come una “U” allungata il cui lato aperto è quello rivolto al Palazzo Vecchio, gli Uffizi diventano una imbuto per i raggi del sole che esattamente alle 12.30 di ogni giorno , o alle 13,30 durante il periodo dell’ora legale, vanno a illuminare il lato meridionale di ogni singola pietra della facciata. Anche in altri casi si potrebbe definire quale è la migliore ora del giorno per ammirare una certa architettura. Si potrebbe stabilire un orario raffinato e speciale come se suggerito da un bravo allestitore di mostre che sa esattamente quale è la luce migliore per illuminare un prospetto, una guglia, una cupola, un loggiato o anche solo una statua. Sarebbe una “guida alle ore del giorno”. Vedo già un simbolo grafico associato ad ogni monumento: un piccolo sole splendente con accanto indicata l’ora più adatta per gustarsi la visita.


di Roberto Barzanti Attilio Lolini ci ha lasciato, giusto a ottant’anni. Era nato a Radicondoli in provincia di Siena nel 1937, non nel 1939 come sta scritto in Wikipedia. Un po’ per vanità scherzosa, un po’ in segno di disprezzo per le sciocchezze che circolano in Rete non aveva mai voluto correggere l’errore. Lolini è stato un poeta istintivo, viscerale. La sua rabbiosa ispirazione ha avuto una continuità eccezionale: basta riaprire l’autoantologia “Notizie dalla Necropoli”, uscita nella bianca Einaudi nel 2003, dove era raccolta la selezione di una trentina d’anni di scrittura, per rendersi conto della coerenza e della forza della sua opera complessiva. Da ultimo viveva appartato, solitario, coltivando il beffardo sarcasmo che sempre l’ha distinto, anche nelle corrosive prose di costume che dedicò a Siena, “città della muffa”. Fu attivo organizzatore di cultura costruendo riviste come “Il gallo silvestre” (con Antonio Prete). Le preziose Edizioni Barbablù diffusero testi di rara finezza. Fu autore di plaquettes che hanno lasciato il segno e son rarità di difficile reperimento. Veniva fatto di considerarlo erede colto e feroce di quel maledettismo che ha in Cecco il suo archetipo e che dalle nostre parti si è manifestato in tanti autori. In Attilio, musicologo appassionato, la stilettata di maniera si congiungeva con un umor nero non artificioso. Privilegiava il mondo dei reietti, degli abbandonati, dei rifiutati dalla società, del scarti anonimi , il frusto grigiore del quo-

Segnali di fumo di Remo Fattorini Vaccini sì. Vaccini no. Vaccini forse. Non sono un esperto, né ho approfondito più di tanto la questione. Tuttavia, anche da semplice osservatore, provo a dire la mia. Premessa: penso di non avere pregiudizi, né in un senso, né nell’altro. Sono padre di due figlie, cresciute nei primi anni ’80, regolarmente vaccinate e cresciute, sane, forti e belle. Ma la decisione del governo di rendere obbligatori i 12 vaccini non mi piace. Diffido per principio di uno Stato che impone senza convincere. Perché si vuole obbligare? Per farlo dovremmo essere

Addio Lolini

poeta della città della muffa

tidiano. La cattiveria del suo sguardo non era disgiunta da un senso di compassione che derivava dalle origini cristiane della sua rivolta. Fu lodato con entusiasmo da Pasolini, che scrisse per lui una pagina da rammentare. Si cimentò con la traduzione dell’“Ecclesiaste”, dando la misura di un nihilismo di alto respiro : “Un vuoto nulla / ascolta / un infinito / niente” . Aspro nei giudizi, non indulgente neppure con se stesso, trovò gli accenti più suoi nella poesia breve, in cadenze stringate da amaro epigramma: “abbiamo lasciato / tracce in giro / frammenti / si spegne il millennio / muore goffo / estraneo / anche la nostra giovinezza si spegne”. Il veleno dei suoi haiku era distillato con perfida sapienza. Spesso esibivano la disinvoltura di una ritmata imprecazione. E non nascondevano dietro giri di frase il grumo sapienzale di chi aveva scelto di vivere ai margini , ma guardando lontano con disincanto . In “Carte da sandwich”(2014) si leggono versicoli che esprimono con triste euforia la sua poetica: “Lasciamo / che le parole / danzino felici / non metterle in fila / non sappiamo / da dove

arrivano / dove vanno / come grilli o lucertole / appaiono senza ragione / chi le ordina le mette in prigione”. Le rime spuntano a immetere un’ironica musicalitá da scapigliato Metastasio anticortigiano. Quanti scambi di idee, dissensi e diverbi mi tornano in mente. Attilio militava da ragazzo nelle file di un cattolicesimo non distante da mamma DC. Una volta mi capitò di dargli del clericale da socialista sinistrorso qual ero. Ho capito più tardi che lui stava da quella parte perché era un modo di prender posizione contro l’élite dominante. C’era più anticonformismo nella sua scelta che nell’alterigia della gioventù progressista dei buoni Licei di cittá. Poi son venute le collaborazioni con i fogli della sinistra o con riviste come “Il Grande Vetro”. Ma la sorgente non inaridita della sua contratta pronuncia va ricercata in quegli anni, nel suo furore di autodidatta, nel suo odio per le culture alla moda, nella disillusione della sua fede. Loredana gli è stata accanto fino all’ultimo con affetto protettivo insieme ad un ristretto cenacolo di amici che ne condivisero invettive e abbandoni.

tutti convinti che oggi molti genitori siano disinteressati alla salute dei loro figli. Cosa che non credo. Tra l’altro uno studio commissionato dall’Europa ad Asset ci dice che non c’è nessuna relazione diretta tra l’obbligo a vaccinarsi e gli alti tassi di immunizzazione. Tant’è che in Svezia non c’è alcun obbligo, ma c’è un’alta percentuale di vaccinati, così in Finlandia. Nei paesi dell’Unione solo 13 su 28 hanno obblighi vaccinali. Gli altri ne fanno a meno. Il fatto è che le vaccinazioni diminuiscono nei Paesi dove c’è poca fiducia nelle istituzioni e nei sistemi sanitari. E la fiducia, come si sa, non si conquista con un decreto. Allora la strada da seguire – almeno quella che io avrei preferito - dovrebbe essere un’altra. Ho letto del modello inglese, dove le vaccinazioni non sono obbligatorie. Lì ci sono campagne informative capillari, medici di base mobilitati, siti internet completi con tutte le informazioni e anche i pediatri possono vaccinare. Che poi sono proprio loro, più

di altri, ad avere un rapporto fiduciario con i genitori. Lì, non ci sono obblighi, ma grazie a questa costante attività la copertura arriva al 95%. Da noi questa relazione, tra paziente e medico, manca. Il rapporto dovrebbe essere fondato sulla qualità, invece è tutto impostato sulla quantità, sulla velocità delle relazioni; si visita per telefono; si dedica poco tempo all’ascolto; i medici vanno sempre di fretta; ti dimettono dagli ospedali senza le necessarie indicazioni pratiche. Conseguenze: sempre più pazienti non seguono le terapie prescritte. La Pgeu ha calcolato che questa ritrosia dei pazienti causa in Europa la morte di 194mila persone ogni anno. Come insegna la medicina narrativa, la relazione terapeutica non è un monologo ma un dialogo. Dobbiamo sapere che in sua assenza prenderanno sempre più campo le cure alternative, quelle cha guardano all’interezza del paziente. Troppi obblighi e poca fiducia non produrranno niente di buono. Cambiamo strada.

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di Danilo Cecchi Ultima arrivata fra le “grandi” epopee fotografiche, la fotografia cinese si caratterizza, un po’ come tutta l’arte figurativa cinese, per essere poco conosciuta, se non in ambito più che specialistico. Se la pittura cinese, spesso confusa con quella giapponese, si è fatta notare fino dalla seconda metà dell’Ottocento, influenzando anche i post-impressionisti, e se la fotografia giapponese si è fatta prepotentemente notare fino dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, anche in conseguenza del boom dell’esportazione verso USA ed Europa della sua articolata produzione industriale legata alla fotografia (fotocamere, obiettivi, pellicole, etc.), influenzando non poco la produzione fotografica occidentale, per conoscere la fotografia cinese si è dovuta aspettare la fine del millennio. Mentre erano note le opere dei fotografi europei sbarcati in più occasioni in Cina (da Cartier-Bresson a Marc Riboud, da Caio Garrubba a Giorgio Lotti), erano praticamente sconosciute le opere dei fotografi cinesi, ed ancora nel 1968 Renzo Chini lamentava come la “straight photography” imposta dal regime maoista, in contrapposizione alla fotografia pittorialistica del periodo precedente, avesse prodotto immagini prevedibili ed enfatiche, quando non banali e ripetitive. Con l’apertura, o la riapertura, di nuovi canali di comunicazione e con la sempre maggiore curiosità nei confronti di quello che fu il Celeste Impero o il Regno di Mezzo, gli studi sugli autori cinesi si sono moltiplicati, fino alla pubblicazione nel 2011 del pregevole libro “Storia della fotografia in Cina” di Meccarelli e Flamminii. Fra gli autori cinesi più o meno “moderni” spiccano il nome e l’opera di Don Hong Oai (1929-2004), non tanto per l’originalità della visione o per la novità dei temi trattati, quanto per la assiduità e per la fedeltà con cui è riuscito a replicare con il mezzo fotografico gli stessi motivi, gli stessi generi, le stesse composizioni e lo stesso spirito caratteristici della pittura cinese di parecchi secoli prima. In particolare Don Hong Oai replica opere risalenti alla dinastia Sung, fra il 1000 ed il 1279, ed alla successiva dinastia Yuan, fra il 1279 ed il 1368. Ovviamente non si tratta di semplici “copie” ma di opere fortemente ispirate, fortemente volute e fortemente condivise, realizzate con perizia e con un lungo lavoro di ricerca e di montaggio, assemblando insieme diversi negativi per ottenere in camera oscura quello che i pittori di sei, sette ed otto secoli prima ottenevano semplicemente con inchiostro e pennelli. Se nelle inquadrature verticali Don Hong Oai riesce a ripetere lo spirito dei “Kakemono” appesi, nelle inquadratu-

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re orizzontali deve limitarsi a replicare solo una piccola parte dei “Makemono”, lunghi rotoli da visionare lentamente e progressivamente. Nato a Canton, si trasferisce ancora bambino con la famiglia a Saigon, dove vive e cresce e dove impara a fotografare. Lascia il Vietnam una prima volta nel 1974 per la Francia, e lo abbandona definitivamente nel 1979 per San Francisco. La lontananza dalla Cina lo mette, in un certo senso, al riparo dagli eventi militari, culturali e politici della sua patria, e gli fornisce quel distacco dalla “contemporaneità” che gli permette di approfondire la conoscenza, fino ad una totale identificazione, delle radici stesse dell’arte cinese. Con un procedimento che

è solo in parte “fotografico” e molto “parafotografico” Don Hong Oai crea le sue immagini essenziali, prive della prospettiva centrale tipica della fotocamera, giocate su quella profondità immateriale e su quella alternanza di pieni (pochi) e di vuoti (molti) tipica dell’arte figurativa ispirata ai principi compositivi della filosofia zen, ma senza quella immediatezza e freschezza necessarie alla realizzazione di opere zen. Le immagini di Don Hong Oai non sono “trovate” ma “costruite”, persino “progettate”, ma costruite e progettate con grande perizia e sensibilità. Sono un omaggio perfetto ai sommi maestri della pittura cinese, il cui spirito viene delicatamente trasferito dalla seta alla carta sensibile.

Don Hong Oai Dalla Cina con stupore


di M. Cristina François Dedico questo mio articolo documentario a Jacopo Carrucci detto il Pontormo, in occasione degli importanti restauri che – nella Chiesa di S. Felicita – stanno interessando i suoi dipinti su tavola e a fresco e l’intera Cappella Barbadori-Capponi che li ospita. Fra il 1736 e il 1739, in “occasione della fabbrica del Coretto Superiore soffrirono le Pitture della Cupola, per il che è stata modernamente [nel corso dello stesso XVIII sec.] dipinta a ornato dal professore Domenico Stagi” [A.S.P.S.F. – Ms.728, p.182]. Lo Stagi, “pittore teatrale” di architetture e prospettive, dipinse “d’azzurro la cupoletta”, ma non toccò le opere del Pontormo né, tantomeno, l’affresco dell’Annunciazione “rovinato” dal restauro di Vincenzo Tagli, dei cui ritocchi imperiti così si lamentava il Conte Capponi da Roma: ”mi dispiacque poi il sentir che si fusser messi due garzoni a ritoccarle [le opere a fresco], io sperava che il mio ordine arrivasse a tempo che non si toccasse né la Madonna S.ma né l’Angelo […] e si siano sprezzati dei miei ordini” [in “Granducato”, n.10, a.1978, p.45 di Gigi Salvagnini]. Nel 1822 il pittore Giuseppe Servolini, che era già impegnato in S. Felicita al restauro di alcune tele e a realizzare un affresco per l’altare dei Maccabei, rinfresca con la sua ‘ricetta segreta’ di colori al latte l’Annunciazione del Pontormo (cfr. G. Servolini in M. Bencivenni, Il Magistero della tutela dei Beni Culturali, in Accademia delle Arti del Disegno, I° vol , Olschki, 2015, p.434). In una lettera del 7 dicembre 1839, inviata dagli Operai dell’Opera di S. Felicita a G.B. Capponi, affinché il Conte partecipasse alle spese di restauro della Cappella e delle sue opere, si legge inoltre quanto segue: Illustrissimo Signor Conte, portato quasi a termine il restauro delle Cappelle di questa Chiesa di S. Felicita […] ci permettiamo di manifestare a Vs. Sig.a Ill.ma che pure alla cappella sotto il titolo della Pietà di Suo Patronato occorrerebbe restaurare, e rinfrescare la Bella Tavola del Pontormo rappresentante una Pietà e gl’affreschi delle pareti [...] che in parte sono già deperiti e di invitarLa frattanto ad esaminare, e prendere in considerazione tali restauri ed esternare quindi il di Lei sentimento in proposito. In rapporto poi alla esecuzione dei lavori e alla relativa spesa che andiamo progettarLe che quando non si sentisse inspirato di supplire nella sua integrità non ci sarebbero difficoltà di accettare quella conveniente offerta

Pontormo e Cappella Capponi, i restauri storici che credesse di porre a disposizione […] e di assicurare noi la totale assicurazione con tutto quel di più di spesa che potesse occorrere per rendere più decente la Cappella. [Ms.245, Affari Diversi, Fasc. n.5 del 7 dicembre 1839, c.1272]. A questa lettera segue la risposta affermativa e anche la soddisfatta conferma circa la scelta dei restauratori nelle persone di Domenico Del Podestà e Antonio Maria Marini. Il Conte Capponi così risponde il 16 dicembre 1839: Ill[ustrissi]mi S[igno]ri Operaj, […] mi è stata partecipata la determinazione da Loro presa di restaurare le Tavole, e Pitture delle Cappelle della Chiesa di S. Felicita e sono stato invitato a voler prendere in considerazione i restauri occorrenti non tanto alla Tavola che agli Affreschi delle Pareti della Cappella di mio Patronato […] facendomi nel tempo stesso la gentile esibizione, che l’Opera stessa supplirebbe a quella porzione della spesa, che non avesse io creduto di accollarmi. […] Io sono rimasto soddisfatto della scelta da Loro fatta dei Pittori Sig. Del Podestà per la Tavola, e Sig. Marini per gli Affreschi, e che vengono da me incaricate di fare eseguire dai medesimi i Lavori commissionati necessarj per render più decente

la Cappella stessa con rimettermene dopo l’ultimazione del Lavoro le rispettive note giacché intendo assumere a mio carico la totalità della Spesa.” [ibidem, cc.1271e1273]. Nel gennaio del 1840 presero subito avvio i lavori. Questo restauro e i successivi (dal 1860 al 1890) sono documentati nella ‘Sezione Amministrativa’ dell’A.S.P.S.F. [Mss. 194, 245, 330, 344, 349, 350, 371, 383, 386, 387, 388, 389, 400, 713] e nella ‘Sezione Biblioteca delle Memorie’ di questo stesso Archivio [Mss.728, 729, 730]. Vi si legge tra l’altro che il 15 maggio 1840 fu “tagliata dabbasso la Pietà de Capponi” e che i falegnami furono pagati per questo con “beveraggio”. Oggi resta traccia di tale ‘risanamento della parte guasta’ nella zona inferiore della cornice che sopravanza la tavola di alcuni centimetri. Dagli stessi documenti apprendiamo che Domenico Del Podestà non apprezzò la posizione della ferita del costato di Cristo e la spostò più in alto. Tra il 1841 e il 1842 si intervenne anche all’altare brunelleschiano al di sotto della tavola del Pontormo: il muratore Casimirro Giorgi rifece ex novo due dei quattro “pilastrini”, inserì una nuova pietra sagrata e allargò la mensa in proporzione alla larghezza della “Pietà”, come chiamavano in quegli anni la tavola del Pontormo. Quanto alla “pila vecchia” del Brunelleschi, già restaurata nel 1834 dal marmista Ciottoli, si trovava in quegli anni all’interno della Cappella, in posizione centrale sopra la lastra sepolcrale circolare ancora in situ. Nel 1841 la ritroviamo in Sagrestia in mezzo ad “altri pietrami no capaci a Rimettersi innopera [insieme alla] Pila di lavabo antica Rotonda e Rotta”. A proposito degli interventi di restauro pittorico effettuati in questi anni ’40 dell’Ottocento, Carlo Pini, nel suo Inventario del 1862, ricorda che “a ragione del restauro fattovi” il Pontormo era “alquanto sfiorito” [Ms.713, Amministrazione e Inventari, c.7v]. A causa della ‘sfioritura’ delle pitture, i restauri riprenderanno alla Cappella e alle sue opere venti anni più tardi: gli interventi dal 1860 al 1890 saranno da me riferiti in un prossimo articolo.

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di Simone Siliani C’è voluto oltre un secolo, la globalizzazione e il dramma della Grande Migrazione verso l’Europa per poter tornare a leggere “Cuore” di Edmondo de Amicis senza provare lo stucchevole senso della retorica di una prosa di maniera, anzi per sentirlo potente, tragico e a noi contemporaneo. Ci sono riusciti Federico Tiezzi (curatore e regista) e Sandro Lombardi (attore) che hanno messo in scena, nel cortile monumentale del museo del Bargello a Firenze, “Dagli Appennini alle Ande... quando migravamo noi...”. La lettura scenica di uno dei racconti più intensi del diario di Enrico Bottini, realizzata da Sandro Lombardi accanto a David Riondino, accompagnati dai canti (vividi e profondi) di Francesca Breschi e dalla fisarmonica di Massimo Signorini, si è riproposta alla memoria di chi come il sottoscritto aveva dovuto leggere “Cuore” sui banchi di scuola fra gli anni ‘60 e i ‘70 con l’indifferenza e forse anche un po’ di fastidio che si provano per quei testi che senti lontani dalla vita che ti circonda; ed è stato uno shock, un pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato, quasi stordito. Chi ricorda l’incipit del racconto mensile che Bottini deve copiare? “Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio, andò da Genova in America, da solo, per cercare sua madre. Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina, per mettersi al servizio di qualche

Foto di

Pasquale Comegna

Mitoraj a Pompei

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Dall’Appennino alle Ande casa ricca, e guadagnar così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà e nei debiti. Non sono poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio per quello scopo...”. Cambiate nome e paese di partenza e destinazione e avrete la vicenda di milioni di migranti verso l’Europa. Oppure ricordiamo la descrizione del lungo viaggio di Marco attraverso l’oceano su un piroscafo stipato fino all’inverosimile di disperati alla ricerca di una nuova vita in un continente sconosciuto; le sue peripezie attraverso un paese ignoto, a contatto con popoli, “razze”, usi e costumi ignoti, salvato solo dalla solidarietà di migranti come lui e da qualche “buono” (sempre un po’ di troppo nella narrativa deamicisiana): non possiamo non sentire presente quel tempo lontano da noi di due secoli. I canti dei migranti, le milonghe argentine interpretati da Francesca Breschi, la lettura scenica di Lombardi e Riondino sono il medium attraverso cui questa storia ci sveglia

dai nostri sonni quieti ma ignari di persone sicure che il nostro è il migliore dei mondi possibili, che è sempre stato così e così sarà per sempre. “Dagli Appennini alle Ande... quando migravamo noi...” si incarica di suonare la campana e di dirci che il mondo è in movimento, da sempre; che gli eroi non sono i signori della finanza che muovono i fili di governi-burattini, o calciatori strapagati che indignati minacciano di lasciare il proprio paese perché costretti a pagare le tasse, oppure i personaggi televisivi che si sottopongono a talkshow sulle isole dei famosi in cui hanno provato l’ebrezza delle privazioni materiali. No, gli eroi di oggi come di un secolo fa, sono questi Marco delle tante Genove del mondo o gli Alì dagli occhi azzurri di Pasolini, “emigranti economici” o per disperazione (che è lo stesso), clandestini in patria come quasi ovunque nel mondo, che scuotono le nostre certezze e che prenderanno in mano il loro destino, cambieranno la loro vita e smuoveranno le terre dell’agio e dell’ingiustizia. Prepariamoci: tutto è in movimento e nessuno può – per fortuna – fermare, bloccare questa onda impetuosa. Prepariamoci tornando a questi classici, leggendoli con occhi e mente aperti sul mondo in movimento di oggi.


di Claudio Cosma Vetrina composta di 3 piani, il primo descritto nell’articolo della scorsa settimana, che segue in questo e terminerà la prossima settimana con il racconto degli oggetti contenuti nel piano terreno o terrestre. Al secondo piano di questa vetrina sono collocate opere per lo più grafiche e tipografiche, o che sembrano tali: due libri d’artista di Luciano Bartolini, pensati come mondi a sé stanti e realizzati a mano. Uno si intitola: “Tracce/Traces” e sulle pagine di cartapaglia l’artista ha lasciato dei minimi segni, ogni volta diversi, sempre ai margini, usando il vinavil diluito che scurisce il color tortora del foglio. Una impronta digitale (nel senso di un dito), una linea continua orizzontale o verticale, il tutto quasi invisibile con la stessa orientale disciplina usata per i suoi Kleenex e dello stesso periodo. L’altro in cartazucchero, è formato da pagine dipinte con una tempera turchese chiaro marca Morgan’s Paint (mi ha raccontato Luciano che in questa fase è stato aiutato dalla sua mamma, una minima catena di montaggio), alternate a sottili inserti di carta trasparente, ma non velina, piuttosto quella carta quasi oleata con la quale negli anni ‘70 i pizzicagnoli involtavano il tonno o le cipolline sottaceto. Questo libro, in edizione limitata, si intitola: “Prima come lettere poi come suono poi come sensazione sottilissima”. Titolo meraviglioso che contiene una ascensione scandita temporalmente da esperienze diverse che coinvolgono i sensi e l’anima. Curiosamente, descrivendo per filo e per segno un’opera di arte contemporanea, visti gli intenti e la vastità dei materiali usati, se ne tenta una interpretazione e si suggeriscono le associazioni necessarie o semplicemente possibili per affiancarsi alla creatività dell’artista e capirne il meccanismo di significato. Lo stesso metodo di procedere non funziona con l’arte tradizionale, infatti, spiegare che un pittore abbia usato un guscio d’uovo macinato per fare un colore a tempera, nulla aggiunge alla comprensione dell’opera. Ci sono dei lavorini tipografici di Maurizio Nannucci, che attraverso le frasi usate per illustrare un cartoncino di invito ad una mostra o un calendario tascabile o semestrino, esprimono con una domanda un rafforzativo concettuale su cosa bisogna aspettarsi dal visitare un mostra o evocare una relazione col trascorrere del tempo.

Vetrina delle meraviglie

secondo piano o meglio piano intermedio Per simpatia di contenuti e significati, queste tracce nannucciane, si allargano alle opere contigue e confinanti, pervadendole degli stessi interrogativi, per esempio, il motivo per cui tutte queste cose siano raccolte insieme in una vetrina che simula un museo in miniatura ed esposte in una mostra, seppure privata. Accanto si trova un orologio annuale da polso di Alighiero Boetti con la data dell’anno nel quale è stato realizzato (dal 1974 al 1994, anno della sua scomparsa, ne ha sempre creato uno, noto adesso che anche Luciano Bartolini è mancato proprio lo stesso anno), quadrante bianco e con numeri che compongono la data collocati ai punti cardinali. Una nota esotica è costituita da un vasetto in vetro, sigillato con gomma di caucciù e corda con piombo, contenente alcune matrioske di Sergei Volkov. Queste bamboline tipiche dell’artigianato russo che si sviluppano da una prima piccolissima, chiamata seme, alla più grande chiamata madre, una dentro l’altra come

scatole cinesi, nel loro sviluppo temporale, mi fanno pensare ad un gioco di pazienza e contemporaneamente ad una reclusione, sottolineata dal vaso di conserva sigillato e confermata dalla vetrina stessa, chiusa a chiave. Per esporla ho progettato una scatola di vetro con un piedistallo cubico, che a sua volta contiene una seconda scatola per conservarci qualcosa di segreto, una lettera, forse, una ciocca di capelli, o chissà. L’ultimo oggetto è una minuscola sfera d’oro adagiata su di un quadrato di carta velina nera, di James Lee Byars, artista con aspirazione all’immaterialità. In questo lavoro fa coincidere alcune delle sue icone ricorrenti, il nero, l’oro e la sfera. Raffinato dandy, ricerca nei suoi lavori una perfezione filosofica ed orientale, una bellezza, anche qui, senza tempo, eppure eterna. Direi che questo secondo ed intermedio piano della Vetrina Museo è governato dall’arte come idea e dal concetto del trascorrere del tempo, nella pazienza e nel suo esercizio, nell’osservazione e nella sua pratica, nei segreti in evidenza e in quelli celati, in quello che è utile e in quello che è disutile.

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premio letterario

I migliori 10

PRIMA EDIZIONE 2017 di Giacomo Matteo Miniussi Mi bastò un attimo per mandare tutto a puttane, lo ammetto. Ma non c’entra niente la malavita o quella storia di droga, come sicuramente cercano di farvi credere. Lasciate che vi racconti la verità sulla mia fuga da Berlino. Abitavo lì già da 11 anni e non avevo mai mangiato un kebab. La mia prima volta fu quella sbagliata: tirai la mia vita nel cesso insieme alla carta stagnola di quel maledetto kebab, che intasò pure il water. Quel sabato notte tornai presto: circa l’una. Ero stato al Madman come sempre, ma mi sembrava di essere come una bici alla quale è uscita la catena. Rientrai a casa e commisi il primo errore: fumai una canna e mi prese una fame abominevole. Mi accorsi di aver dimenticato la spesa, cosa inspiegabile per uno come me. Inspiegabile fu anche rimanere irrequieto nonostante la canna. A cose normali mi sarei fatto del sushi vegano da qualche parte, stavolta però volevo qualcosa di diverso. E questo fu il secondo errore. Edu poco prima mi aveva messo la pulce nell’orecchio: “Dai Fabio, esistono anche i kebab seri, fatti con un minimo di norme igieniche”. Scoppiai a ridere: “Norme? A Berlino puoi aprire un ristorante in uno scantinato. Mangiatelo te il ratbab. Anzi, infilatelo nella paella!” Nonostante la risposta rude, quella notte avrei cercato un kebab decente, ma non lo avrei mai detto a Edu. Col cazzo che gliene davo una vinta. Eppure quei due indizi, il sentirmi irrequieto e il frigo vuoto, avrebbero dovuto suggerirmi di starmene buono e non cercare novità. Quella era la tipica notte da guai. Mi era già successo quella volta che mi feci convincere e andai al Berghain. Odio la techno, odio le discoteche e in particolare quelle che fanno la selezione all’ingresso. Soprattutto, odio gli acidi. Mi svegliai la mattina dopo al Treptowerpark, disidratato e con un cazzo disegnato in fronte. Cominciai allora il kebabtour. Evitai Mustafa, il kebabbaro più famoso a Berlino. Un chiosco a Mehringdamm tra topi, piccioni e smog. Fila

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De mutatione mutandorum

di 40 minuti e 5 euro per una roba tagliata da un rotolo che potrebbe essere cartone macerato nell’aglio marcio. Non capisco come un’attività del genere prosperi, mentre quella di gente come me, attenta alla qualità e all’igiene, fallisce. La gelateria l’avevo chiusa dopo un anno dall’apertura. “Evidentemente alla gente piace la merda!” pensai. L’arresto del mio socio certo non aiutò gli affari. Ma è un’altra storia. Divenni rappresentante farmaceutico. Pagato bene per avvelenare quelli a cui prima davo gelato biologico. So cosa pensate e siete fuori strada. Da quel posto non fui licenziato: mi dimisi non appena quegli stronzi insinuarono che erano spariti dei prodotti. Volevano farmi fuori, ero troppo bravo per loro. Comunque... tra l’1:30 e le 2:30 sfrecciai per Kreuzberg con la mia Bianchi verde acqua. Un gioiellino su due ruote. Scesi per Bergmanstrasse e raggiunsi Hermannplatz. Ero quasi a Neukölln e non avevo visto un solo kebabbaro decente. Decisi di svoltare per Kotti e dopo la curva vidi sulla destra una specie di macelleria con dei tavolini. Alt! Niente rotoloni. Niente salse all’aglio all’ingrosso. C’era solo una bella vetrina, pulita, dove si sceglieva l’animale e il taglio. Il pezzo veniva grigliato e poi messo su del vero pane, fatto in casa, con un po’ di verdura. Anche le salse erano fatte in casa. I clienti si servivano da bere al frigo, o prendevano il té nero offerto dalla casa. L’avevo trovato: il kebab zero! Entrando incrociai un nero di due metri che usciva con un fagotto. Una cosa è uguale in tutta la Germania: i kebab “da portar via” vengono chiusi prima nella carta stagnola, poi nel sacchetto di plastica arancione. Non mi sorprenderebbe scoprire un decreto legge del-

la Merkel a tal proposito. Il nero lo avevo già visto, ma chissà dove. Contemplai la vetrina mentre la visione laterale registrava un movimento all’esterno del locale. Quando mi ripresi e focalizzai quel movimento mi girai di scatto: quel pezzo di merda mi aveva fregato la bici sotto il naso. Improvvisamente ricordai: il nero era un pusher di Görlitzerpark. Lavorava sempre tra le gradinate davanti alla discoteca Edelweiss. Lo giuro: andai là solo per la bici. Arrivai all’Edelweiss alle 3:20, che già albeggiava. Sugli scalini ecco il pusher che scartava il suo kebab zero. “Stronzo, dove hai messo la mia bici?”. Il nero in perfetto berlinese: “Ora mangio. Lasciami stare”. “Lasciami stare un cazzo! È una Bianchi da 2000 euro!”. Terzo errore. Una scossa partì dal mento e mi arrivò fino al culo. Dopo qualche ora, una brezzolina mi solleticò le palle e mi risvegliò. Il nero mi aveva corcato di botte e, a risarcimento per il disturbo arrecatogli, mi aveva lasciato completamente nudo in mezzo al parco. Mi guardai intorno: il sole era alto e i ragazzi uscivano dalla disco. Dei vestiti non c’era l’ombra. Sulle gradinate vidi il sacchetto arancione. Gettai il kebab e fabbricai delle mutande con la stagnola e il sacchetto. Eccola, la verità circa la mia ultima notte a Berlino. Nota biografica:

Giacomo Matteo Miniussi (Pietrasanta,1979). È ricercatore di filosofia presso la Philosophisch- Theologische Hochschule di Vallendar, in Germania. Dedica il proprio tempo principalmente all’insegnamento e alla scrittura. Dopo molti anni a Berlino nel 2016 è rientrato in Italia e collabora con gallerie d’arte e case editrici. Fra le sue recenti pubblicazioni si citano il saggio The Korvac Saga: Exiles from Reason and Fragments of a Contemporary Mythology nella raccolta The Ages of the Avengers (Boston USA, 2015) e l’antologia pubblicata da Aracne editrice I racconti della metro (Roma, 2016).


di Aldo Frangioni Dal 24 giugno al 22 luglio Mahalaballana, nome dalle sonorità orientali, pseudonimo di uno street artist fiesolano presenta le sue opere per la mostra d’estate di Quadro 096. Insieme ai grandi artisti legati a Fiesole che sono stati presentati nella decennale attività di Q 0,96, abbiamo scelto anche personaggi così detti impropriamente minori, come è il caso di Paolo Tellini, artista naif recentemente scomparso. Chi scrive non conosce questo esponente di una originale street art, che a Fiesole si esprime anche attraverso i rispettosi paesaggi urbani (spesso di una città che non c’è più) dipinti sugli sportelli dei contatori di acqua o gas come Francesco Lorenzini, anche lui ospite di Q 0,96. Mahalaballana presenta le sue tavolette di legno fatte di segni e disegni con richiami esoterici. Gli artisti di strada, amano rimanere nell’anonimato assoluto come il mitico Banksy, o comunque star fuori dai circuiti tradizionali dell’arte. Accade, così, che anche Mahalaballana viene conosciuto per alcune sue discrete presenze nei circoli ricreativi, sulle panchine dei giardini, “apparizioni di opere” non esposizioni, oppure, può succedere, che in un giorno di festa decida di regalare a tutti i partecipanti ad una serata ballante oltre cento dei suoi piccoli lavori. Spesso si tratta di grafici che ricordano contemporaneamente le incisioni preistoriche della Val Camonica e immaginari personaggi extraterrestri. Altre opere sono invece alfabeti sconosciuti (che solo il realizzatore, forse, sa leggere). In un suo scritto, che ci ha fornito per “non chiarirci” le origini del suo lavoro, ci dice che la sua è “una vita impiegata a scarabocchiare, imbrattare, viaggiare e sognare invitando creature impossibili nel tempo cartoni animati, fumetti d’ogni salsa, l’illustrazione tutta, la fantascienza, la grafica in generale”. Una bella dichiarazione per suggerirci, innanzitutto, di non essere distratti ai messaggi che lui lascia per la città, e di saper leggere, con maggiore attenzione, non solo i suoi, ma i tanti altri segni, volontari o fortuiti, che viaggiando, con la voglia non solo di guardare ma di vedere, noi possiamo decifrare nel quotidiano transitare per strada o nel fermarsi in un bar, messaggi, apparentemente strani, ma che possono invece essere indispensabili aiuti contro la momentanea o giornaliera noia, malattia mortale che prima o poi assale tutti.

kreature from no where

Incisioni preistoriche ed extraterrestri per le strade Mahalaballana a Quadro 0,96 a Fiesole

Conchiglie con figure incomprensibili in regalo ai parenti uova pasquali da decorare disegnini a complemento dei compiti alle elementari l’atteso TOPOLINO settimanale fogli bianchi e coloratissime confezioni di pennarelli CARIOCA ed un misterioso talento nel disegno forse questi, gli elementi scatenanti di una vita impiegata a scarabocchiare, imbrattare, viaggiare e sognare inventando creature impossibili nel tempo cartoni animati, fumetti d’ogni salsa, l’illustrazione tutta, la fantascienza, la grafica in generale mi hanno spinto in questa avventura creativa sostenuta dalla gioia nel riempire centinaia di fogli di segni e personaggi bizzarri e quant’altro potesse uscire da una penna o un pennarello ma tutto ciò, anche se estremamente piacevole mi lasciava spesso insoddisfatto insoddisfazione dovuta al fatto di inseguire qualcosa di già fatto da altri era necessario trovare la mia via un appagamento che non fosse il banale dire “che bel disegno” qualcosa che brillasse di vita propria, qualcosa che avesse un carattere (il mio) avevo meno di 20 anni, l’euforia notevole ma la pazienza per fare un canonico percorso di apprendimento pressoché assente quindi ebbi la sana intuizione di abbandonare qualsiasi modello e lasciar fluire libero il mio istinto con forza e scioltezza vivendo e “rischiando” ciò che stavo facendo ...e SBANG! come una sorta d’illuminazione, i risultati immediati furono impressionanti successivamente avrei conosciuto questa forma-pensiero in varie forme (action painting, calligrafia estremo-orientale) da quei giorni i miei personaggi potevano azzardarsi in qualsiasi forma espressiva... Inoltre hanno conosciuto le più svariate tecniche e mezzi d’esecuzione l’unico rammarico è la mia carenza narrativa ed ambientale difatti i mostrilli si presentano quasi sempre in una pseudo sospensione spaziale e privi di parola che non sia l’espressione emanata dalla loro immagine gestualità, dinamica, sintesi, armonia ed impatto sono elementi costanti della mia opera i mostrilli seguono una loro naturale ed inevitabile metamorfosi ed evoluzione sia nel tratto grafico sia nella forma fondendosi spesso con segni/simboli ignoti le mie creature sono apparse ovunque da comuni bar a gallerie d’arte, dai centri sociali a negozi di parrucchiere oltre che frequentare la più disparata oggettistica.... Mahalaballana

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Bizzarria degli

oggetti

Hatu

di Cristina Pucci C’è scritto, vedete, “fidarsi è bene, ma... Hatu è meglio”. L’oggetto, scovato da Rossano, serviva ad aprire scatole di latta contenenti preservativi, non è definita con certezza l’epoca di appartenenza, forse però anni ‘50, solo nel dopo guerra infatti furono commercializzati in astucci, prima si trovavano sfusi e, visto il costo, se ne comprava uno per volta! Da una parte ha la piccola lama, dall’altra una limetta, forse per limarsi le unghie onde non correre il rischio di bucarlo nel maneggìo del gran momento o, forse, per apparire un gadget come un altro. La Hatu fu fondata a Casalecchio di Reno nel 1922 da Franco Goldoni, produceva profilattici, tettarelle per biberon, “ciucci” e guanti di gomma. La leggenda vuole che Goldoni, fino ad allora solo rappresentante dell’oggetto, abbia costituito società con Maccaferri, potente industriale di siringhe e presidi sanitari, per avviarne la produzione in loco e che, temendo le Sacre ire della Chiesa verso chi osava fabbricare un oggetto così profano ed edonisticamente orientato, si siano recati insieme e con una raccomandazione di Mussolini in persona, dal Cardinale Nasali Rocca... Si narra che il Sant’Uomo, di fronte alla loro riverente ritrosia e timor di far peccato, abbia detto “pecca chi fa, non chi fabbrica” ed ancora “non si fa per contra accipere, ma per difendersi dalle malattie”! In onor dell’Eminenza quindi HAbemus TUtorem. E per ringraziare il Duce l’aquila littoria accanto al marchio di fabbrica! In alcune parti d’Italia questo oggetto è chiamato “goldone” in onore al Goldoni stesso? o, forse, perché i primi profilattici, giunti dall’America durante la guerra, portavano il nome di “Golden One”... Non si può certo tralasciare l’idea che le antiche civiltà, egizia e greco romana ne facessero uso, anche se, da documenti scritti, sembra che spettasse alla donna il come non restare incinta. Salto di palo in frasca, infinite le storielle intorno a tale meraviglia. Gabriele Falloppio, medico e studioso cui si devono descrizioni di organi ed apparati e che diede il suo nome alle tube uterine, scrisse un saggio, pubblicato nel

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dalla collezione di Rossano 1654, intitolato De Morbo Gallico, vi approfondiva la conoscenza della sifilide, il “mal francese”. In esso raccomandava l’uso di un dispositivo di sua invenzione, una guaina di lino imbevuta in una soluzione chimica e lasciata asciugare, che, legata in vita con un nastro, veniva applicata al glande prima di ogni rapporto. Nessuno dei 1100 uomini su cui la sperimentò fu contagiato. Una stampa ottocentesca di Eusebi Planas ritrae un tale che abbiglia il suo membro eretto con un tal marchingegno. Charles GoodYear, quello delle gomme, inventò la vulcanizzazione, aggiungendo zolfo al caucciù e riscaldando si otteneva un materiale elastico e resistente, dopo questa scoperta, nel 1865, fu prodotto il primo preservativo in lattice... Julius Fromm, un ebreo tedesco di origine russa, iniziò a produrre profilattici della attuale foggia, dopo il 1916 si arricchì provvedendo alla bisogna dei soldati tedeschi. In epoca fascista pare che Mussolini abbia ritenuto la Hatù responsabile della scarsa natalità in quel di Bologna e ancora non si poteva chiamar per nome l’oggetto, ma Eros, Afrodite, Espresso. La partita di quelli che accompagnarono le milizie in Abissinia si chiamava Stella. Combattete, divertitevi se potete, ma non incrementate le “faccette nere”! Nel 2010 chiuse definitivamente lo stabilimento originario, la cui insegna, mi si dice, si vedeva, imponente, dall’autostrada. Ah! Gli “Hatu” italiani lunghi 170 mm, in Giappone 70! quasi me ne dimenticavo...


di Francesco Gurrieri In questo splendido complesso paleotecnico c’è il momento sorgivo dell’economia di Firenze. Le Gualchiere di Rèmole sono una importantissima testimonianza di archeologia industriale; un esempio medievale di livello europeo. Le “gualchiere” , la cui energia veniva fornita dall’acqua dell’Arno, attraverso un sistema affascinante di ruote idrauliche, serviva per la “gualcatura” o “follatura” dei tessuti di lana. E l’attività laniera fu una delle fonti di ricchezza di Firenze e dell’area fiorentina. Si costituì persino l’Arte della Lana che fu tra le più potenti corporazioni dell’Europa dei secoli XIV-XVI. E proprio al mecenatismo dell’Arte della Lana si deve la realizzazione dei grandi monumenti fiorentini. Dunque, siamo di fronte a un monumento complesso, testimone prestigioso della intelligenza mercantile della grande stagione culturale che dalla prima configurazione comunale portò ai fasti dell’Umanesimo; che fece grande Firenze per il bacino del Mediterraneo e per l’intera Europa, attraverso le Fiandre, fino al Baltico. Le Gualchiere di Remole sono situate lungo la riva sinistra dell’Arno, nel Comune di Bagno a Ripoli, a pochi chilometri da Firenze, facilmente raggiungibili con la viabilità ordinaria e con servizi pubblici di autobus. Fanno parte di un piccolo borgo, nato intorno all’attività della follatura: una situazione paesaggisticamente e ambientalmente suggestiva, defilata dal grande traffico, a costituire una vera e propria “oasi” di quiete. Inizialmente riconducibili alle famiglie degli Albizzi e degli Alessandri (seconda metà del XIV secolo) , dopo numerosi passaggi di proprietà che vedono attori , l’Arte della Lana, (fino al 1770), la Camera di Commercio, l’Opera di Santa Maria del Fiore, la famiglia Casini, di nuovo la Camera di Commercio, sono oggi di proprietà del Comune di Firenze (ma nel territorio comunale di Bagno a Ripoli). In attività molitoria fino all’alluvione del novembre 1966, sono in abbandono da quella data (mezzo secolo). Nel 1998 un sussulto d’orgoglio: uno studio coordinato dai comuni di Firenze, Bagno a Ripoli e Pontassieve che portò ad un’utile pubblicazione (“Le Gualchiere di Remole e il Territorio del fiume Arno”, Polistampa 1999) a cura di Oberdan Armanni, con i contributi di Paolo Galluzzi, Enrico Bougleux, Paolo Pinarelli, Oberdan Armanni, Paolo Bottai e Giorgio Caselli. Ne seguì un diffuso impegno di sensibilizzazione locale, nazionale e internazionale che, tuttavia ad

Il difficile destino delle Gualchiere di Rèmole

oggi non ha sortito risultati apprezzabili. La lunga pausa da allora, comprensibilmente, ha provocato un degrado irreversibile per alcune parti costringendo le autorità responsabili a recingere il compendio con le consuete avvertenze di “pericolo di crollo”. A fronte del corpo delle Gualchiere vi sono volumi architettonici in altrettanto abbandono, fatta eccezione per uno studio d’artista (Piero Gensini) che va meritoriamente considerato come l’ultimo testimone dello storico opificio. Le più recenti notizie sembrano essere quelle di una vendita all’asta da parte del comune di Firenze: un’operazione che rientra nel quadro più generale dei “compendi sul mercato immobiliare” della città (Teatro Comunale, Caserme, Ospedali militari, Manifattura Tabacchi, ecc.). Certo è che, quale che sia la soluzione, c’è qualcosa di irrinunciabile nel compendio delle Gualchiere: la permanenza e il restauro e il pubblico accesso a quelle “ruote della fortuna” - come furono definite nella pubblicazione citata -, quale testimonianza culturale, storica e civile del territorio fiorentino. Con la coscienza che, come per il recupero-rigenerazione di Sant’Orsola, progetto e intervento non potranno che essere partecipati alla comunità e alla coscienza civile.

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di Giacomo Aloigi Con Antonio Aiazzi ho un debito di quelli che non hai modo di saldare. Gli sono debitore perché lui, insieme agli altri quattro Litfiba, Gianni, Piero, Ghigo e Ringo, negli anni Ottanta mi ha regalato delle emozioni così intense e irripetibili che ancora oggi, a ripensarci, le sento vive in me. Io ero un adolescente, loro un po’ più grandi, in quella Firenze dove si respirava un’aria di eccitazione continua, dove l’aggettivo per tutte le occasioni era “nuovo”: nuova musica, nuovi locali, nuove riviste, nuova moda, nuove tecnologie, nuovo tutto, insomma. E loro, i Litfiba, erano quelli di noi che ce l’avevano fatta, che erano balzati all’attenzione non solo italiana ma addirittura europea. Tra tutti quelli visti, il concerto che per me resta memorabile fu quello al parco delle Cascine, estate 1985, uno spettacolo travolgente davanti a migliaia di spettatori che non ne avevano mai abbastanza di bis. Lì capimmo che i cinque di via de’Bardi sarebbero andati lontano davvero. Così è stato, la strada percorsa assai lunga, piena di successi ma anche di ferite tragiche e profonde. Alcune rimarginate, altre impossibili da curare, come la morte di Ringo. Oggi Antonio si divide tra la carriera artistica, mai abbandonata (ultimamente è in tour con l’amico di sempre Gianni Maroccolo) e quella, forse meno nota ai fan dei Litfiba, di produttore di giochi da tavolo. Lo accompagna in quest’ultima attività la moglie, Nathalie Chaineux. È lei la mente creativa del duo, mentre Antonio si occupa prevalentemente della distribuzione e del marketing. È da poche settimane uscita la loro ultima creazione “Il gioco del Chianti Classico” (editore Giochi Briosi), presentato in occasione dell’ultimo Vinitaly e si avvale del patrocinio del Consorzio Vino Chianti Classico. È l’occasione per scambiare due parole con Antonio. Come e quando nasce il tuo interesse per i giochi da tavolo? Direi che il gioco in genere è una delle mie caratteristiche, anche gli scherzi. Poi sono sempre stato anche un appassionato i fumetti insieme a mia moglie Nathalie, lei è belga e quindi ha una cultura di fumetti enorme. Quindi da qui nasce l’idea anni fa di fare dei giochi da tavolo. Qual è stato il primo gioco che avete realizzato? Il primo gioco è stato creato nel 1992 ma è rimasto un prototipo. Poi abbiamo iniziato con la produzione vera e propria de “I Toscanacci” quindici anni con oltre 30.000 copie vendute, un successo che ci ha fatto conoscere questo mondo affascinante. Dopo I Toscanacci abbiamo realizzato altri quattro giochi sempre riguardanti dei territori (Italia & gli Italiani, i

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Lo storico tastierista dei Litfiba e il gioco del Chianti Classico

Romanacci, i Veneti & Veneziani e Milano). Poi abbiamo anche realizzato un gioco sulla vita di Gesù. Perché un gioco dedicato al Chianti Classico ? Perché il Chianti Classico è un prodotto che è tutt’uno con il territorio e ci affascinava andare a scoprire con le domande, tante particolarità e curiosità. Poi perché ci interessa molto l’argomento vino. Infatti questo gioco apre la porta ad una collana che stiamo realizzando dedicata appunto al vino. Usciremo anche con altre importanti denominazioni a brevissimo. Descrivimi in poche battute il gioco. È un gioco a domande con l’aggiunta di carte che fanno interagire i giocatori con piccoli dispetti e battaglie. Tutto per rendere più divertente la partita. A seconda del numero dei giocatori bisogna raggiungere un determinato punteggio di domande esatte. Ci sono quattro categorie di domande e il gioco è in italiano e inglese. Nathalie oltre alla parte concettuale di ogni gioco, crea le domande e tutto il lavoro di illustrazione con il nostro grafico. Io poi mi occupo più della parte distributiva. A che pubblico si rivolge? Dagli 8 anni in su, gli amanti del vino. Ma visto il costo molto contenuto è sicuramente anche un cadeau da portare al posto di una bottiglia, sempre di Chianti Classico si parla . Dove lo si può acquistare? Sul nostro sito: www.giochibriosi.it. Ora torniamo indietro nel tempo. Al netto delle nostalgie, ammesso che tu ne abbia, cosa ti manca di più degli anni Ottanta? Direi l’entusiasmo, tutto era molto più semplice ed era naturale aver voglia di fare. Oggi è tutto molto complicato e manca anche un po’ di coraggio nel voler proporre.

Cosa invece non rimpiangi affatto di quel periodo? Che dietro a questa festa continua, un giorno scopri che si nascondeva anche una distruzione totale, che ha mietuto molti amici. Una vostra canzone per te indimenticabile? “Bambino”, mi sembra di averla registrata ieri allo studio Emme. Ricordo ancora ogni istante di quella seduta di registrazione. Dopo trent’anni penso che rimarrà indimenticabile. E un concerto che ti è rimasto nel cuore? Il primo concerto dei Litfiba alla Rokkoteca di Settignano fa parte di quei concerti che ti rimangono nel cuore anche per l’anarchia di quello che artisticamente succedeva su quel palco. Aggiungerei anche però l’ultimo concerto di Trilogia che abbiamo fatto con Piero e Ghigo a Castelsardo per San Silvestro. Perché soltanto dei folli possono salire su di un palco che somigliava più ad un peschereccio atlantico, con il mare in burrasca e la temperatura intorno allo zero. Un’esperienza adrenalinica ed a quasi sessant’anni non capita spesso. Sei reduce da un tour con Gianni e se non sbaglio tra poco ricomincerete a suonare in giro. C’è della magia nelle vostre esibizioni, un’atmosfera particolare, di grande intensità. Cos’è che rende le vostre performance così emozionanti? È un concerto veramente particolare, quasi mistico. Un racconto che si svela piano piano, quasi non lo riesco a dividere in canzoni, ma in passaggi. Un percorso che tocca molti momenti della carriera di Gianni, alcuni comuni a tutti e due. E anche grazie ad Andrea Chimenti siamo riusciti a renderli come una sola lettura. Dovremmo riprendere questo autunno delle date. So che hai in cascina un disco solista. Dai, regalaci qualche anticipazione… L’unica anticipazione che mi viene da dire è che stupirà. Ho cercato un nuovo modo di approcciare la composizione e la concezione stessa di fare della musica e se non avessi avuto questo barlume non avrei fatto nessun disco. Non sarà un ascolto sempre semplice, ma sicuramente, nel bene o nel male, non credo che lascerà indifferenti.


di Mario Cantini Pochi conoscono questo singolare personaggio, il cui nome è Filippo Mangani, nonostante a lui siano state intitolate a Fiesole una strada, adiacente a Piazza Garibaldi, e la scuola elementare in Via Portigiani, ora trasformata in uffici e sede dell’Archivio Comunale. Una lapide a suo ricordo è situata nella Cattedrale, sulla parete all’inizio entrando dalla porta laterale destra, anche se poco visibile per la scarsa illuminazione e perché coperta dalla controporta in legno. Filippo Mangani nacque a Fiesole il 4 aprile 1679 a ore 16. Dagli stati d’anime della Cattedrale risulta che era figlio di Santi di Antonio Mangani, contadino, e di Margherita sua moglie, del Popolo della Cattedrale, con residenza in luogo detto ai Minerbetti. Fin da piccolo dimostrò una buona indole, tanto che i genitori, nonostante fossero poveri lavoratori a mezzeria di un magro poderetto, lo avviarono, appena grandicello, alla scuola per imparare a leggere e scrivere dandone probabilmente la cura ad uno dei Padri francescani del vicino convento della Doccia. La fortuna volle che in quella zona, come riferito dal canonico Angiolo Maria Bandini*, villeggiasse il “celebre Benedetto Bresciani Fiorentino, Poeta, Musico, Medico, Anatomico e Mattematico”, che passeggiando nella zona incontrò il giovane Filippo e conosciutone le capacità, come riferisce ancora il Bandini “si dette la pena di istruirlo e del quale poi molto si servì specialmente in far rilievi di terreni e di acque e che fu ancora favorito da Tommaso Bonaventuri, altro erudito gentiluomo fiorentino il quale teneva la Villa dei Sigg Capponi al Borghetto”. Anche il canonico Gio. Vincenzo Capponi, erudito che fece parte dell’Accademia Botanica Fiorentina dalla quale derivò quella dei Georgofili e membro della Società Colombaria e dell’Accademia della Crusca, padrone del podere lavorato dalla famiglia di Filippo, provvide ad educarlo somministrandogli libri e notizie. Il Bandini racconta anche di un singolare episodio in cui “essendosi nella Villa di detto Bresciani, posta in questi contorni, trasferito Enrigo Newton Inviato dal Re d’Inghilterra alla Corte di Toscana per visitarlo, e sopraggiuntovi il suddetto Mangani, questi alle varie interrogazioni fattegli dal Bresciani sopra più quesiti geometrici, rispose con tale prontezza e dottrina che il Newton credette che sotto quelle spoglie fosse fatto

Newton e Pippo da Fiesole nascondere per burlarlo qualche rinomato Professore, ma essendosi poi chiarito della verità, ne mostrò singolar godimento.” Il fatto è narrato non solo dal Bandini, ma anche da Domenico Manni nelle Notizie Istoriche dei contorni di Firenze e da Giuseppe Del Rosso nell’Itinerario per osservare gli antichi e moderni Monumenti della Città di Fiesole e suoi contorni. Si narra che il Mangani tuttavia, nonostante la fama acquisita, fu galantuomo e di una moderazione tale, che fattagli la proposta di toglierlo dal faticoso mestiere di contadino e di procurarli un impiego, rifiutò l’offerta affermando che nato contadino si contentava dello stato in cui era nato e nel quale era sempre vissuto contento, senza dover lasciare l’aratro. Morì il giorno di Natale del 1724 a ore 12 e in circa e fu sepolto nella Cattedrale Fiesolana nella sepoltura dei fratelli della Compagnia di S. Alessandro, posta davanti all’altare maggiore.

Dopo la sua morte fu posta una lapide commemorativa nella Cattedrale, dettata dallo stesso Bresciani, del seguente tenore: philippo manganio faesulano qui inter rusticae vitae munera quibus praecipue incumbebat industria labore optimoque usu temporis et desiderio banarum artium flagrantissimo in humanis litteris totaque philosophia et universa mathetis praeter agricolarum morem adeo profecit ut omnium amorem et admirationem sibi conciliaret et quod rarum est in maximarum rerum non vulgari intelligentia ingenii laudem morum candore probitate moderatione superavit optimi huius viri fautores in agro faesulano animi causa rusticantes ejus consuetudine orbati moerentes posuerunt obiit x kal. januarii an. sal. mdccxxiv. aetatis suae xlv (A Filippo Mangani fiesolano nelle occupazioni della vita agreste a cui principalmente si dedicava con diligenza, fatica e il migliore utilizzo della stagione e col più acceso desiderio di virtù e che, sia nelle lettere umane, come nell’intero campo della filosofia e della matematica compì tali progressi, fuori dell’abitudine dei contadini, da sapersi conciliare l’amore e l’ammirazione di tutti, e ciò che è raro, da superare col candore dei costumi, probità ed equilibrio, il merito della intelligenza nella non comune conoscenza della realtà suprema, gli estimatori di un tale ottimo uomo, che per diletto villeggiavano nella campagna fiesolana, privati della sua compagnia, questa lapide addolorati posero. Morì il 23 (sic) dicembre dell’anno della Resurrezione 1724, all’età di 45 anni anni.) L’Amministrazione del Comune di Fiesole lo onorò inoltre intitolandogli, con la deliberazione della Giunta Municipale n. 181 del 9 settembre 1879, la nuova strada che congiunge piazza Garibaldi con Via S. Maria, nonché, con la deliberazione consiliare n. 385 del 10 agosto 1904, la nuova scuola elementare di Via Portigiani ora sede dell’Archivio Storico comunale. *Bandini, Angelo Maria, Lettere XII ad un amico, Firenze, L. e B. Bindi, 1800,

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di Monica Innocenti Sono affascinata dal fatto che una cosa apparentemente frivola come la moda (oltre che essere ormai parte riconosciuta della cultura di questo Paese), costituisca anche un solido fondamento per la nostra economia. Così ho accolto con piacere, nel primo fine settimana di giugno, il privilegio di essere una delle quattro blogger italiane (a proposito: piccolo spazio pubblicità www.siatefate.com) che hanno potuto partecipare alla Settimana della Moda di Montecarlo manifestazione che, giunta alla quinta edizione, si è ormai a buon diritto ritagliata un ruolo di grande rilievo nell’ambito internazionale di settore. Contestualmente alla rassegna sono stati distribuiti diversi riconoscimenti ad alcuni importanti personaggi del mondo della moda: alla MCFW Ceremony Fashion Awards è stata premiata Naomi Campbell; il Made in Italy Fashion Award è stato assegnato a Chiara Boni, designer del brand La Petite Robe; la fotografa italiana Nima Benati, è stata consacrata nuovo talento emergente. La location che ha ospitato la manifestazione è stata la sede de “Le cirque de Monaco” e questo, concentrando gli eventi su un’unica passerella, ci ha consentito seguire le sfilate con grande piacere e nessuna fatica. Eravamo in prima fila, coadiuvate da un maxi schermo e con dietro le spalle circa venti stand delle maison impegnate nelle sfilate, che sono state aperte da una vera star della moda: la stilista toscana Chiara Boni. Abbiamo così potuto ammirare 25 abiti della sua collezione beachwear, tutti rigorosamente in bianco e nero. Si può affermare che la Toscana ha aperto la porta al mondo, perché le maison che si sono poi succedute in passerella provenivano praticamente da tutto il Vecchio Continente, con puntate fino in Africa e Centro-America, alternando griffe molto note a stilisti in piena ascesa e di cui sentiremo parlare in futuro. A questa categoria appartiene senz’altro la maison lucchese Edda Berg; la sua collezione, che ha sfilato accompagnata da una performance dal vivo della bravissima cantante Emma Morton (una voce davvero magica), era improntata su temi floreali, con borse di paglia e fasce piene di colori a raccogliere i capelli ed ha ricevuto unanimi ed entusiastici commenti (ho già descritto in un precedente articolo, i principi etici che stanno alla base dei criteri di produzione dell’azienda).

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Ma come detto, molti altri brand si sono succeduti nel week-end monegasco! Beach & Cashmere Monaco, il marchio creato da Federica Nardone Spinetta, in collaborazione con Rosanna Trinchese (direttore artistico della manifestazione). La guatemalteca Thelma Espina, con l’originale collezione ispirata alla civiltà Maya. La coloratissima francese Josephine Bonair. Dal Camerun le creazioni di ispirazione classica di Ester Mbia. Annalisa Queen e la sua collezione “Contrasto”. Luca Tatiana con una collezione in bilico tra romanticismo e aggressività. Il beach-wear di Banana Moon e l’Istituto Marangoni Paris, che ha chiuso la prima giornata. Il giorno seguente le sorelle turche Ezra e Tuba e le calzature Nanzo Muzi. E ancora: Fatima Danielsson, Annalisa Queen e Royal Beachwear. E’ stato davvero uno spettacolo indimenticabile, per gli occhi e per i sensi. Il modo migliore per goderne (oltrepassando così gli inevitabili limiti insiti in ogni descrizione) è gustarsi le immagini delle sfilate sul sito ufficiale della “Chambre Monegasque de la Mode”. Ve lo consiglio e vi auguro buon divertimento ...con la frivola solidità della moda.

La frivola solidità


di Ernesto Ferrero Il principio era il Colore. Poi è stato il Verbo. La parola ha cercato di dire l’infinita meraviglia dei colori che “fanno” il mondo, di reinventarli, evocarli, raccontarli, surrogarli, tentando eroicamente un equivalente fatto di analogie e metafore. Per Lino Di Lallo tra Colore e Parola, tra Arte e Letteratura non c’è opposizione, ma integrazione, corrispondenza d’amorosi sensi: la loro congiunzione astrale produce cortocircuiti fantastici, ininterrotti cimenti dell’armonia e dell’invenzione. Prima di corrispondere a un suono, ogni lettera è disegno, è una micropittura, un concentrato di possibilità. Di Lallo usa le lettere come prismi. Colpendole, la luce si scompone rivelando inesauribili tesori cromatici, che si compongono in una fuga di allegre geometrie, a suggerire un qui che è anche un favoloso altrove. Un Big Bang in perpetuo divenire, così come lo può registrare un caleidoscopio ben temperato. Vi possono restare impigliati volti, occhi, matite, scarpe, grattacieli, città (o sogni di città, le calviniane città invisibili), filamenti agitati da invisibili venti cosmici (lo Pneuma della creazione originaria?). Collages teneri, sorridenti, divertiti, in cui l’alba del colore, della parola e del suono coincidono. “I colori stimolano alla filosofia”, scriveva Wittgenstein, citato da Di Lallo in un suo libro di vent’anni fa, Quo lapis?, che dava conto dei suoi pirotecnici esperimenti didattici nelle scuole toscane, dove la Parola e il Colore diventavano le particelle subatomiche frullate da un acceleratore low cost e a km zero. Favorendone le collisioni, maestro e allievi ci introducevano agli stessi misteri gaudiosi della creatività che si celebrano in questo nuovissimo Alfabeto. Scriveva Goethe, che annetteva più importanza ai suoi studi sul colore che alla sua stessa arte poetica: “Se l’occhio percepisce un colore, viene subito messo in attività ed è costretto per sua natura, in modo tanto inconscio quanto necessario, a produrne subito un altro che insieme al dato includa la totalità della gamma cromatica. Ogni singolo colore stimola nell’occhio, mediante una sensazione specifica, l’aspirazione alla totalità”. L’esperienza del colore come aspirazione alla totalità accomuna arte, scienze, filosofia e lettere nella stessa sfida conoscitiva che ha coinvolto maestri come William Turner, van Gogh, Gauguin, Kandinskij, Klee, Albers. Di Lallo parla il loro stesso linguaggio. Se all’arte chiediamo di portarci un po’ più in là del punto dove stiamo, le sue invenzioni cromatiche e verbali sono altrettanti aquiloni che ci sottraggono alla forza di gravità. Mettono la stessa allegria che prova un bambino alla scoperta del mondo.

ALPHABETODILALLO Opere da un caleidoscopio ben temperato

Inaugurazione sabato 24 giugno 2017, ore 17 - Auditorium Terzani

Della Bella Biblioteca San Giorgio, Pistoia PISTOIA 24 giugno-26 agosto 2017 gente di Paolo della Bella

T O S C A N A Capitale Italiana della Cultura 2017

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