Numero
1 luglio 2017
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La maggior parte delle persone viene a Firenze per vedere i musei e la città. L’ho fatto anch’io molte volte così posso affermare che la migliore arte in Italia è questa :) La mia auto preferita al mondo, se si può chiamarla auto
Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Serj Tankian cantante dei System of a down che hanno chiuso la tre giorni di rock alle Cascine
Fuck Renaissance Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Siamo in una delle strade principali esterne al quartiere cinese e, come appare evidente, quest’uomo seduto sul marciapiede è un venditore di quotidiani cinesi. Sono quasi certo che non si trattasse di quotidiani della Repubblica Popolare di Mao Tze Tung. Uscivo spesso assieme ad alcuni amici che ormai si erano adeguati a sopportare i miei frequenti “stopand-go” legati alla necessità di scattare foto. Soffrivano in silenzio e con molto stoicismo non mi dicevano più nulla. Da non crederci, si erano anche resi conto che non dovevano mai entrare nel campo di ripresa! Amici così ormai non se ne trovano più. Consapevole del loro sforzo disumano ho sempre regalato loro delle belle stampe e credo di essere stato perdonato anche per questo.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
1 luglio 2017
291
224
Riunione di famiglia Campeggio democratico Le Sorelle Marx
Addio, viola, addio Il figlio di Pietro Gori
Viva soddisfazione I Cugini Engels
In questo numero Sauro Cavallini Una tensione plastica e vitale di Francesco Gurrieri
Vetrina delle meraviglie, piano terreno di Claudio Cosma
Lo spettro del turismo globale di Simone Siliani
Chris Killip In flagrante di Danilo Cecchi
Storia di qualcosa di molto di piu’ di un concerto... di Matteo Rimi
Archeologi cercasi in Uk di Barbara Setti
Diem25 e il Terzo Spazio di Domenico Villano
Pubblico-folla andata e ritorno di Melia Seth
Pontormo e Cappella Capponi, i restauri storici (2a parte) di M. Cristina François
Un sognatore incallito di Angela Rosi
Mappe di percezione di Andrea Ponsi
e Massimo Cavezzali, Aldo Frangioni, Lido Contemori, Laura Monaldi, Dino Castrovilli, Mariangela Arnavas, Alessandro Michelucci...
premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Direttore Simone Siliani
Il racconto Pancia Piena è a pagina 16 Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
Sauro Cavallini Una tensione plastica e vitale
di Francesco Gurrieri Umberto Baldini fu, forse, il critico che più profondamente intese la tensione civile e creativa di questo maestro toscano. Ne scrisse, nel parterre con Berti, Graziosi, Guasti, Innocenti, Vivarelli ed altri, nel suo volume Scultura Toscana del Novecento (Firenze, Nardini 1980). Oggi che, a poco meno di un anno dalla scomparsa (luglio 2016) i figli aprono un Centro Studi a lui intitolato, con una mostra permanente, è importante ricordarne la presenza e il ruolo nella scultura del secolo passato. Una plastica, quella di Cavallini, autonomamente postata fra il raffinato realismo di Antonio Berti e lo sperimentalismo di ricerca di Marcello Guasti. “Dalle superfici scabre e martoriate dei ‘ferri’, tutte chiuse in se stesse, a quelle lucenti e morbide, scattanti dei ‘bronzi’, aperte, quasi in continua dilatazione o movimento via via che su di esse si appunta e si muove il nostro sguardo, c’è come un’attenzione e una disponibilità creativa che da centripeta diviene centrifuga, nel senso cioè che sempre più la forma, ricomposta e ritrovata nella sua verità di volume, si dispone nello spazio, non già ferma ma in continuo moto con esso e per esso, vera e propria materia vivente”. “Una creazione quella di Cavallini – è ancora Baldini – che finisce col segnare le sculture come dati e fatti di natura, ove la materia pare come assente per meglio far sentire la bellezza della loro forma…”. Cavallini ha realizzato molti “monumenti” pubblici, non solo in Italia. Il Monumento alla Vita di Strasburgo, la Fraternità davanti alla stazione del Principato di Monaco, il Volo di gabbiani della sede RAI-Firenze, sono opere davvero eccellenti. Personalmente, lo ricordo, in particolare, per il Crocifisso del cimitero delle Porte Sante, per la collocazione del quale, sul finire degli anni Settanta, ebbi a constatare quanto amasse profondamente il suo lavoro e quanto desiderasse ambientarlo nello spazio urbano con la maggior efficacia possibile.
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Le intrusioni di Sauro Ben 18 opere dello scultore Sauro Cavallini - spezzino di nascita, ma fiorentino e poi fiesolano d’adozione – hanno lasciato il suo studio recentemente aperto alle visite e alle attività culturali, per dare vita ad artistiche “Intrusioni” in alcuni dei luoghi simbolici di Fiesole. . Dal 15 giugno fino al 15 ottobre, 15 bozzetti in bronzo e ferro saranno ospitati all’interno del Museo Archeologico di Fiesole (ingresso alla mostra gratuito), un’opera in bronzo formata da due “Titani” inediti nel giardino antistante il Museo, mentre nella centrale Piazza Mino sono collocate due grandi opere inedite, mai uscite dallo studio dell’arti-
sta, “Balletto a Tre” e “Amore e Universo”. E’ la prima volta che le opere dell’artista vengono collocate in mostra a Fiesole, il luogo dove – esattamente 50 anni fa – Cavallini aveva scelto di vivere e lavorare dopo aver vissuto a Firenze. Un’occasione per poter ammirare alcuni inediti, compreso un Autoritratto realizzato 40 anni e un altro gruppo di importanti opere. La mostra vuol rendere omaggio al noto artista, a un anno dalla sua scomparsa, avvenuta il 27 luglio 2016, le cui opere pubbliche sono visibili in varie parti d’Italia e d’Europa: il Consiglio d’Europa di Strasburgo, il Principato di Monaco e l’ex-Palazzo del
a Fiesole Governo a Bonn. L’esposizione è promossa dal Centro Studi Sauro Cavallini e dal Comune di Fiesole col il patrocinio del Comune di Firenze, della Città Metropolitana, della Regione Toscana e della Fondazione Michelucci, e con il contributo del Rotary Firenze Ovest, della Fonderia del Giudice e di Ars Movendi Logistica. Sauro Cavallini ha sempre mostrato una personalità eclettica, confrontandosi con diverse forme di espressione e riuscendo sempre a ottenere risultati eccellenti, che gli sono valsi riconoscimenti e commissioni di grande rilievo.
Nella fiesolana casa-studio di Cavallini – sede dell’omonimo Centro Studi - oggi è possibile ammirare alcune grandi sculture collocate nel parco, mentre all’interno della villa, su vari livelli, è tutto un susseguirsi di bronzi e bronzetti di varia dimensione e di opere di grafica, in grandissima parte inedite; le sculture sono tutte fusioni a cera persa realizzate tra la metà degli anni Sessanta del Novecento e i primi anni Duemila. Le opere di grafica invece sono composte in larga parte da disegni eseguiti con la sanguigna e da più di cento dipinti inediti realizzati nei suoi ultimi anni che accompagnano il percorso nello Studio Cavallini intervallando le sculture in bronzo. L’opera più nota di Sauro Cavallini, è il Monumento alla Vita, il cui bronzo di oltre 3 metri di altezza si può ammirare a Strasburgo nel parco del Palazzo del Consiglio d’Europa, mentre il modello in scala fu do-
nato a Papa Wojtyla durante una cerimonia ufficiale nel 1992. Di notevole suggestione sono anche i due monumenti in bronzo di circa 3 metri appartenenti alla collezione privata del Principato di Monaco, ovvero il Passo a Due che dagli inizi degli anni ‘90 si può ammirare nel giardino dedicato a Grace Kelly nel quartiere di Fointeville e la scultura Fraternità che si trova dal 2000 davanti alla stazione ferroviaria del Principato inaugurata dal Principe Ranieri III. Senza dimenticare che nel 1963 la scultura raffigurante il Ritratto di Konrad Adenauer fu collocato nel Palazzo del Governo di Bonn. In Italia le sue grandi sculture in bronzo sono visibili in varie città. A Genova troviamo il Monumento a Cristoforo Colombo (8 metri di altezza) realizzato per l’Expo e dedicato all’anniversario della scoperta dell’America; a Diano Marina, in provincia di Imperia è invece sistemato il Monumento ai Caduti della seconda guerra mondiale (alto circa 2 metri e mezzo). A Firenze le sue opere pubbliche monumentali si possono ammirare in numerosi luoghi pubblici. Nel giardino di piazza Ferrucci (il gruppo di cinque sculture dal titolo Fontana della maternità), presso la sede Rai TV della Toscana (Volo di gabbiani), al Palazzo degli Affari di piazza Adua (Monumento alla pace), a Villa Favard (Icaro) e presso la Basilica di San Miniato al Monte (Crocifissione). Nel parco del suo Studio si possono ammirare diverse sculture di grandi dimensioni tra le quali un monumentale David (alto 4 metri), e la serie completa di “Passi di danza”. Sauro Cavallin ha lasciato ai figli Teo e Aine il compito di curare la sua attività artistica e la totalità del suo archivio, per questa ragione il 19 gennaio 2017, in quello che era il suo “regno”, ovvero nella sua casa-studio-laboratorio a Fiesole, viene fondato il Centro Studi Sauro Cavallini che ha da subito dato luogo a un programma di visite e attività culturali. Da segnalare inoltre, che sabato 7 ottobre 2017 alla Fortezza da basso di Firenze, nell’ambito dell’XI edizione di “Florence Biennale – Mostra internazionale di arte contemporanea”, agli eredi di Sauro Cavallini sarà consegnato il “Premio alla Carriera”.
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Le Sorelle Marx
I Cugini Engels
Campeggio democratico Quest’anno abbiamo deciso di fare una vacanza nuova per noi, il camping. Così abbiamo affittato un bel bungalow in un camping dell’Appennino toscano, veramente carino: “Democamp”. Il proprietario e gestore è un simpatico giovine, tanto chiacchierone, ma gioviale: racconta barzellette, parla un inglese un po’ improbabile, ma ha tanta inventiva e ottimismo. Non si fa scoraggiare da nessun problema. E poi organizza ogni sera dei bellissimi spettacoli di intrattenimento con i suoi collaboratori e talvolta invita degli ospiti speciali, come l’altra sera quando ha invitato un suo amico, un simpatico nonnetto dell’hinterland milanese, anche lui esperto in barzellette e cantante confidential. L’unico difetto è che talvolta diventa irascibile perché non sopporta che qualcuno faccia qualche osservazione sul suo operato. Pochi giorni fa, per esempio, ha maltrattato un professore bolognese. L’anziano signore si era lamentato perché un altro giovine campeggiatore con la
Il figlio di Pietro Gori
barba arrostiva salamelle e luganega sulla brace e faceva entrate il fumo e il puzzo nella sua tenda. Allora il padrone del camping gli ha urlato contro dicendo che la maggioranza assoluta dei campeggiatori non aveva niente da ridire sul barbecue, che lui era stato eletto proprietario e gestore del camping e che, dunque, se non gli andava bene, poteva spostare la sua tenda un po’ più in là; anche fuori del camping. L’anziano professore bolognese si è un po’ risentito, ha borbottato qualche frase in dialetto e ha smontato la tenda, l’ha ripiegata, infilata nello zaino ed è ripartito sul sentiero verso Bologna. Qualche altro campeggiatore ha iniziato a bofonchiare qualche frase sconnessa di disapprovazione, ma il giovine proprietario li ha minacciati di sbatterli fuori dal camping e allora loro si sono rimessi calmi e sono tornati nelle loro tendine. Noi ce ne stiamo buon buonine nel nostro bungalow ad aspettare che le acque si plachino.
Addio, viola, addio
Addio, viola, addio: la grana se ne va; se non vendessi anch’io sarebbe una viltà!
A Roma sono andato e il Colosseo mi da’ son soldi che ho sudato viva la libertà!
Ti lascerò da sola, farai quello che vuoi e se non sarai più viola saranno affari tuoi.
Non piangere città io non ritornerò ho già dato in quantità non ti rimpiangerò
Non è fraterno amore che mi ha dato la città le ho dato tutto il cuore e tutto è finito qua.
Saran tremende l’ire, dalle curve dei tifosi delusi a non finire dai grandi facoltosi
Le scarpe, le cinture li ho sempre con me: all’apparir del sole mi partirò da te!
L’antica rivalità grava su Firenze ancor io vado in libertà senza portare rancor
Squilla la tromba... Addio... Della Valle se ne va... Dice il Nardella: “oddio lo stadio non si fa”.
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Viva soddisfazione Siamo in grado di consegnarvi in anteprima una intervista con il segretario regionale del PD onorevole Dario Parrini. Onorevole Parrini buonasera come va? Direi bene. Sono soddisfatto del risultato elettorale sia in Italia sia in Toscana. Onorevole Parrini sono stupito. Mi sembra che il PD abbia subito alcune sconfitte importanti. Genova, L’Aquila e in Toscana Carrara e Pistoia avranno sindaci di destra e lei si dichiara soddisfatto? Guardi che nelle scorse elezioni abbiamo perso in Toscana anche Arezzo, Grosseto, Cascina, Sesto Fiorentino, Montevarchi, San Sepolcro. E prima ancora Livorno, Fiesole, Anghiari e Orbetello. Appunto e come fa ad essere soddisfatto? Vede dipende dai punti di vista. Io mi ero ripromesso di cambiare la scena politica in modo radicale rottamando tutto quello che c’era prima e mi sembra che il progetto politico sia in fase di attuazione. Anzi le dirò che dal mio punto di vista siamo solo a metà dell’opera. Cioè vuole spiegarsi meglio. Certo. Vede in Toscana inspiegabilmente, nonostante il nuovo corso del PD a trazione completamente renziana, resistono alcune sacche nelle quali il centro sinistra continua a vincere. Ma vedrà che fra qualche tempo riuscirò anche in quei luoghi a fare passare la rottamazione del passato. E’ infatti inspiegabile come il sindaco Nardella abbia ancora un buon consenso e che la regione Toscana sia ancora governata da una giunta di centro sinistra. Vuol dire che sta pensando a intervenire direttamente anche in questi territori? Certo. Con l’aiuto indispensabile di Stefano Bruzzesi, il responsabile regionale del PD per gli Enti Locali detto “belli capelli”, penso che da qui alle prossime elezioni anche Firenze e l’intera Toscana saranno “normalizzate” e tutti quelli che hanno governato in questi anni saranno rottamati. Una nuova stagione di vittorie per il nuovo che avanza da destra è alle porte. Finalmente avrò concluso il mio compito e potrò tornare a fare il sindaco di Vinci. Per il centro destra naturalmente.
Nel migliore dei Lidi possibili
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Va bene così, signor Matteo, o le taglio ancoro un po’ più di sinistra?
Segnali di fumo di Remo Fattorini Così va l’Italia. A Livorno un disabile di 46 anni perde il lavoro e non riesce più a pagare il mutuo della casa. I soldi della moglie, anch’essa disabile, non bastano per vivere. Figuriamoci per pagare il mutuo. Così la banca decide di mettere all’asta la casa. All’inizio non si presenta nessuno. Poi arrivano due potenziali clienti, per acquistarla. E con loro arriva la disperazione, quella vera. E l’accanimento non finisce qui: la malattia si aggrava e l’uomo viene colpito da un aneurisma celebrale. Ricove-
rato d’urgenza i medici riescono a salvarlo. Una vita, la sua, vissuta sul filo di lana, tra l’invalidità, la disperazione e la morte. Le banche quando devono avere sono intransigenti e passano all’incasso. Ma quando devono restituire si ne dimenticano. Lo sanno i clienti di Banca Etruria e non solo. Altra storia, altro dramma. Sempre in questi giorni a Viareggio un uomo di 56 anni perde il posto: la piccola azienda per cui lavorava fallisce. Lo so, di questi tempi non fa notizia. Succede a molti. Ma quando uno vive senza soldi e senza speranza usa i pochi spiccioli che gli rimangono per sopravvivere. Lui e la sua famiglia devono sbarcare il lunario con soli 290 euro al mese: la piccola pensione di invalidità della moglie. Come può riuscire a pagare un affitto di 700 euro? E infatti dopo qualche mese arriva l’ufficiale giudiziario per lo sfratto. Si dice, “morosità incolpevole”. Sarà anche incolpevole ma di sicuro è disumana. Lo sfratto è solo rinviato: l’ufficiale tornerà il
27 luglio. Lo scorso gennaio a Torino - lo avrete di sicuro saputo - una donna di 46 anni perde il lavoro e sei mesi dopo, non avendo ancora ricevuto il sussidio della disoccupazione, si dà fuoco davanti agli sportelli dell’Inps. Domanda: senza stipendio, senza Tfr, senza indennità di disoccupazione, senza un euro come si fa a vivere? Come si pagano le bollette, l’affitto? E come si fa la spesa? Da tempo c’è gente che non arriva alla fine del mese. Adesso c’è anche chi non arriva a buio. Le persone in difficoltà sono abbandonate a se stesse e non c’è nessuno che si occupi di loro. Costrette a fare i conti con una burocrazia sempre più invasiva e accanita, tanto che, anche chi ne ha diritto, viene lasciato senza soldi, per mesi. Questo è il paese in cui viviamo. Un paese in cui regna la sfiducia verso tutto e tutti, dove ognuno pensa sempre più solo a se stesso. Un paese senza lavoro è un paese senza futuro.
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Ketty La Rocca Segnaletiche, 1968 Smalto su tavola, trittico cm 60x109 Courtesy Carlo Dani, Montespertoli
di Laura Monaldi Nel suo quindicesimo anno d’età la rivista d’autore BAU Contenitore di Cultura Contemporanea torna con la quattordicesima edizione del periodico artistico più innovativo e ricco di spunti di riflessione di sempre. Da sabato primo luglio fino al 10 settembre la GAMC di Viareggio ospiterà l’esposizione multimediale legata a questa nuova pubblicazione, arricchita dalla grafica dei Gumdesign e dagli originali contributi di artisti e critici. La mostra, in continuità tematica con la rivista e arricchita dalle opere dell’Archivio Carlo Palli, propone delle particolari prospettive sul tema del viaggio e della globalizzazione, come sistema di relazioni inscindibili tesi a un progresso senza fine Quest’anno la rivista riscopre la sua vena sperimentale e intermediale proponendo non solo un «sistema di partecipazione globale» in grado di abbracciare i più disparati linguaggi estetici di artisti provenienti da tutto il mondo, ma anche quel tocco di originalità che la contraddistingue come antologia e come strumento di analisi dell’attuale stato dell’arte contemporanea: la forma circolare e il cofanetto cilindrico vestono un BAU tematico rivisitato in nome della condivisione di percorsi e obiettivi comuni e incidentali e del dialogo collettivo, in quanto partecipazione di massa agli esiti e agli stimoli dell’estetica contemporanea. Introdotto dal Direttore Scientifico della GAMC Alessandra Belluomini Pucci e dai membri della redazione BAU, l’evento comprenderà proiezioni e per-
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La segnaletica di Bau
formance sonore di Maicol Borghetti, Le Forbici di Manitù, Brigata Topolino, My Cat Is An Alien. Alle 19.00 verrà offerto un aperitivo sulla terrazza della GAMC, seguito alle ore 21.00 dal concerto Tinnitus Tales delle Forbici di Manitù, con ospite il gruppo Deadburger. Gli autori di BAU 14: Paolo Albani, Nino Alfieri, Silvia Ancillotti, Nora Bachel, Enrico Baj, Calogero Barba, Riccardo Bargellini, Hilde Bauer, Diego Bertelli / Marlynn Wei, Antonella Besia, Giovanni Bianchini, Maicol Borghetti, Antonino Bove, Brigata Topolino, Luca Brocchini, Giuseppe Calandriello, Gloria Campriani, Cinzio Cavallarin, CCH, Gian Luca Cupisti,
Luca Da Silva, Gabriele Dini, Gillo Dorfles, Bicio Fabbri, Gionata Francesconi, Benna Gaean Maris, Carlo Galli, Cristina Gardumi, Massimo Gasperini, Delio Gennai, Gumdesign, Andrea Hess, Barbara Höller, Margherita Labbe, Gianni Landonio, Le Forbici di Manitù / Emanuela Biancuzzi, Jikke Ligteringen, Lello Lopez, Luciano Maciotta, Dieter Maertens, Manuela Mancioppi, Gualtiero Marchesi, Vincenzo Marsiglia, Vincenzo Merola, Vito Mollica, Rachel Morellet / Till Riecke, Maria Mulas, Mario Mulas, Sabine Müller-Funk, My Cat Is An Alien, Francesca Nacci, Giulia Niccolai, Michela Nosiglia, Guido Peruz, Luisa Protti, Ptrzia (TicTac), Ina Ripari, Margherita Levo Rosenberg, Stefano Ruggia, Massimo Salvoni, Caterina Sbrana, Luca Serasini, Max Serradifalco, Skemp (Marcus Homatsch), Lino Strangis, Maria Cristina Tangorra, Paolo Tarsi / Fauve! Gegen A Rhino, Romeo Traversa, Tommaso Vassalle, Giacomo Verde, Simona Vignali. Archivio Carlo Palli: Roberto Barni, Lapo Binazzi, George Brecht, Umberto Buscioni, Luciano Caruso, Giuseppe Chiari, Henri Chopin, I Santini Del Prete, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Stelio Maria Martini, Eugenio Miccini, Alessandro Poli (Superstudio), Gianni Ruffi, Sarenco, Franco Vaccari, Ben Vautier, Andy Warhol.
Musica
Maestro
Tango universale
di Alessandro Michelucci Il tango è una musica, o per meglio dire una filosofia musicale, nata in Argentina e in Uruguay alla fine dell’Ottocento. In questa forma espressiva sono confluite influenze molto diverse, fra le quali il tango andaluso, la habanera cubana e la payada argentina. Il suo stretto legame col mondo ispanofono è quindi incontestabile, ma anche l’Italia ha giocato un ruolo rilevante nel suo sviluppo. Lo attesta Xena Tango, le strade del tango da Genova a Buenos Aires, (CNI Unite) il bel lavoro che gli ha dedicato Roberta Alloisio nel 2014. La cantautrice genovese, scomparsa prematuramente nel marzo scorso, aveva scelto questo titolo per sottolineare il ruolo degli emigrati genovesi come Roberto Firpo, pianista, compositore e direttore. Ma il contributo italiano alla storia del tango non è da ricercarsi soltanto a Genova: i nomi di Alfredo Bevilacqua, Juan D’Arienzo e Osvaldo Pugliese parlano da soli. Di origine italiana (padre pugliese e madre toscana) è anche il musicista che più di ogni altro gli ha dato un rilievo internazionale: Astor Piazzolla. Non tanto in termini di visibilità, perché questa musica godeva già di ampio seguito anche prima di lui. Ma rimaneva sostanzialmente una musica argentina. Il grande merito del compositore italoamericano, scomparso venticinque anni fa (4 luglio 1992), è stato quello di dare al tango un respiro universale, facendolo entrare fra i classici. L’opera di Piazzolla (1921-1992) copre oltre mezzo secolo. Artista curioso e sensibile, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, il compositore collabora con gli artisti più diversi: dallo scrittore Jorge Luis Borges (El tango, 1976) a jazzisti come Gerry Mulligan (Summit, 1974) e Gary Burton (El nuevo tango, 1986), dal cantante argentino Roberto Goyeneche (Balada para un loco, 1969) al compositore Manos Hadjidakis. Insieme al musicista greco, conosciuto in Italia nel 1981, incide l’ultimo disco, intitolato appunto L’ultime concert (Warner Jazz, 2012). Il musicista argentino non è importante soltanto come compositore, ma anche come virtuoso del bandoneón, lo strumento principale delle orchestre di tango. Inventato dal tedesco Heinrich Band (1821-1860), il bandoneón so-
miglia alla fisarmonica, ma se ne differenzia per la mancanza dei tasti, al posto dei quali ha dei bottoni. Figura centrale del Novecento musicale, Piaz-
SCavez zacollo
zola ha stimolato la sensibilità dei musicisti più diversi, che gli hanno dedicato numerosi omaggi. Basti pensare a Five Tango Sensations (Nonesuch, 1991), inciso dal Kronos Quartet insieme allo stesso autore; Hommage à Piazzolla (Nonesuch, 1996), realizzato dal violinista lettone Gidon Kremer; Milva canta Astor Piazzolla (Tre Colori Media, 2008), inciso dalla celebre cantante col Quintetto Argentino di Daniel Binelli. Il più recente, realizzato da Giampaolo Bandini (chitarra) e Cesare Chiacchiaretta (bandoneón) ha per titolo Escualo (Decca, 2017). In questo lavoro elegante i due musicisti rielaborano vari brani del musicista argentino, come il celebre “Libertango”, “La muerte del angel” e la “Suite troileana” dedicata ad Anibal Troilo, figura centrale del tango argentino e maestro di Piazzolla.
disegno di Massimo Cavezzali
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di Andrea Ponsi Prosegue la pubblicazione di una serie di brevi racconti di Andrea Ponsi tratti da una raccolta uscita negli Stati Uniti dal titolo Florence-a Map of Perceptions(University of Virginia Press, 2010). Gli scritti, affiancati a disegni ed acquarelli dell’autore, si concentrano sugli aspetti percettivi e sensoriali del paesaggio urbano alternando riflessioni estemporanee di tipo diaristico a considerazioni più generali sulla struttura fisica e concettuale della città. In bicicletta
Data la naturale predisposizione del centro storico di Firenze all’uso della bicicletta, si elencano qui di seguito i più comuni tipi di fondi stradali con relativi giudizi sulla loro adattabilità al mezzo a due ruote. Lastre di pietra grigia irregolari per forma e dimensioni. Memoria dell’antico “opus incertum” romano, sono spesso sconnesse e quindi causa di sobbalzi. Comunque non andrebbero mai sostituite con pavimentazioni alternative ma solo riparate, rimpiazzando via via i pezzi alterati. E’ la pavimentazione più in sintonia col carattere di Firenze, resistente nel tempo, filologicamente corretta e dunque la migliore in assoluto. Conci di pietra tagliati in parallelepipedi regolari, quasi sempre disposti a spina di pesce. Per eliminarne la scivolosità in caso di pioggia, vengono picchiettati. Prima veniva fatto a mano dallo scalpellino, ora in loco col martelletto pneumatico o in fabbrica con macchinari a controllo numerico. Fondo sufficientemente liscio, specialmente quando è formato da blocchi tagliati di recente. Sulle ruote della bicicletta crea una vibrazione costante associata a un suono a trillo continuo e piacevole. Sanpietrini. Blocchetti di porfido, dunque pietra di importazione, con cui furono ripavimentate nell’800 e ‘900 molte strade del centro storico “a vita nuova restituito”. Per la bicicletta si rivela un fondo passabile se ben mantenuto,
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penoso in caso di scarsa manutenzione, pericoloso quando vengono a mancare due o più sanpietrini adiacenti. Nella piccola voragine vi si inficca la gomma con conseguente instabilità del mezzo. Le strade a sanpietrini fino a una quarantina di anni fa mostravano ancora le rotaie dei tram. Binari fatali per le biciclette. Il copertone sembrava fatto apposta per entrare perfettamente nella larghezza della cesura e il maldestro tentativo di girare il manubrio per riprendere l’equilibrio risultava in un’inevitabile caduta . Il problema non si pone più, almeno da quando l’idea del tram in centro é stata rimandata ad un indeterminato futuro e le vecchie rotaie sono state ricoperte con nuovi manti di asfalto. L’asfalto. Il migliore dal punto di vista di scorrimento veloce, con conseguente minima usura del copertone. Come suono un fruscio continuo, una specie di sibilo che lascia udire il parallelo rollio della ruota sul mozzo o l’ingranaggio della catena in pedalata. Comunque un’ esperienza anonima. L’asfalto é il fondo più deleterio per la città, per la sua memoria, per la percezione della sua bellezza. Materia prima di un operazione di riempimento a colata di marciapiedi e carreggiate ritenuta appropriata negli anni sessanta e settanta dobbiamo ora riconoscere che l’asfalto ha creato un seppur riparabile danno ad alcune delle strade più belle della città : via Cavour, via Romana, via della Vigna Nuova e decine d’altre. Cemento. Pavimentazione che sebbene limitata a non più di due o tre strade del centro assume egualmente un altissimo valore simbolico. Anche il giudizio rispetto alla ciclabilità é totalmente irrilevante in relazione all’oltraggio fatto a Firenze quando furono negli anni trenta distrutti interi isolati storici del quartiere di Santa Croce con la scusa del “risanamento” urbano. Le nuove strade furono fatte, con stile coerente col tutto, in lastroni di cemento, come le autostrade tedesche. Comunque durissime e probabilmente costosa l’operazione della loro sostituzione.
Il volo
A volte volo sulla città. Dall’alto vedo le forme dei campanili, gli ottagoni puri delle cupole, le aste coi leoni rampanti di rame, talmente vicine da poterle toccare. Quando volo riconosco i piccioni addormentati sotto i coppi, seguo il movimento delle teste dei turisti saliti sulle torri. Sul fiume si riflettono le nuvole e le automobili diventano colorati rettangoli di domino. Sfioro le antenne, riprendo quota, sento le vertigini, volo altissimo, fino a farmi girare la testa. Perfino le colline sono basse e lontane. Scorgo a malapena i filari dei cipressi, le ville sparse, le case coloniche, mentre il fiume é divenuto un luccicante rivolo di sole.
Mappe di percezione
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di Matteo Rimi Eppure ricordo che ogni mio esame è stato molto più leggero rispetto a come ho vissuto in questi giorni quello di mia figlia! Sarà stato per questo, per l’idea che un evento del genere, nella nostra Firenze, lo avremmo dovuto vivere insieme o non viverlo per niente, o per il fatto che dopo aver dovuto rinunciare a molti concerti dei Pearl Jam, non mi sarei “accontentato” di quello da solista del loro cantante, ma l’intenzione di partecipare all’esibizione di Eddie Vedder l’avevo archiviata già nel nascere. Poi arriva il messaggio di Sachja, amico che abita ad una distanza che sembra infinita ma a volte è solo uguale a quella di una mano che si tende: “ Senti un po’ che ti propongo: mia moglie aveva preso i biglietti per i Cranberries per lei e per Vedder per me, ma da quando loro hanno annullato non vuole più venire. Ti regala il biglietto: vieni tu sabato sera?”. Ne discutiamo a casa e sembra assurdo a tutti che rinunci a questa offerta, proprio io che credo così tanto nel caso! Così, mentre tra una birra e l’altra parliamo dei nostri ultimi vent’anni, di amici passati e presenti, dei figli e delle nostre relazioni coniugali, il cielo comincia a scurirsi ed i fuochi di San Giovanni si spengono in lontananza, il silenzio fa da corteo ad un uomo solo, circondato da vari strumenti a corda su di un palco mastodontico amplificato da maxi schermi che ne aumentano le aspettative, che, leggendo alcuni stentorei ringraziamenti in italiano, si siede e da inizio ad una magia. Magia, sì! Incantesimo, estasi… E’ stato chiamato in molti modi ma ci si allontanerebbe comunque da quello che realmente è stato: l’incontro tra un uomo, un uomo dotato solo di voce e chitarra, e cinquantamila persone che lo aspettavano pazientemente, coccolati da un’organizzazione impeccabile. Tutto il resto lo abbiamo fatto insieme: dal ridere alle battute nel suo inglese biascicato a fargli non da band, ma da orchestra per i pezzi nati per i PJ e che sarebbero dovuti presentarsi così scarni quella sera senza le armonie e la ritmica di uno dei gruppi più importanti del mondo. Invece, qualsiasi nota intonasse era un atto collettivo ed anche se io non ho bevuto dalla bordolese che, dopo Glen Hansen, Eddie ha passato ad uno spettatore delle prime file indicato alla security, né lo abbia avuto sulle spalle o tra le mani quando, sospeso, cantava “Song of good hope”, mi sono sentito parte di qualcosa che travalicava i miei fisici confini. Ero io, eravamo noi, a sol-
Storia di qualcosa di molto di piu’ di un concerto levarlo, a dargli sostegno con un’unica voce quando l’emozione (ed il vino!) gli annodava la gola e la prima cosa che gli usciva era un efficace “Affanculo”. Basterebbe risentire la sua flebile invocazione all’ormai troppo lontano Chris con quello strozzato come back in “Black”, per intuire che il turbamento non era solo per noi, migliaia irrigiditi di fronte a tutta questa umanità… Anche San Giovanni lo deve aver capito, visto che ha conservato per più di un’ora dalla fine dei fuochi l’ultimo brandello incendiato affinché si spengesse, correndo nel cielo, so-
pra le nostre teste… Se volete sapere se ho ripagato il biglietto a Sachja, la risposta è no: un po’ perché anche lui, eccitato dalla serata e dal nostro rapporto rinfrescato, non se la sarebbe sentita di riscuotere, un po’ perché quelle decine di euro che gli dovevo non avrebbero ripagato ciò che mi aveva regalato… non credo che riuscirò, ma posso giurare su questa pagina che cercherò in ogni modo di cogliere una unicità la prossima volta che capiterà e regalarla a lui ed ai nostri cari che sarebbero dovuti essere con noi.
e di me che non ci sarei dovuto essere 11 24 LUGLIO 2017
di Danilo Cecchi Se vivi in un luogo per un mese farai certe fotografie. Se vi vivi per due anni, farai delle foto diverse. Se vi vivi ancora più a lungo, farai delle foto ancora diverse. Il crescente grado di conoscenza e di comprensione di una determinata realtà influenzerà in maniera determinante il tuo modo di rappresentarla e di raccontarla. Queste semplici considerazioni sembrano essere alla base del pensiero e del lavoro del fotografo Chris Killip, nato nel 1946 nell’isola di Man, situata fra l’Irlanda e l’Inghilterra, ma di fatto quasi completamente autonoma. A diciott’anni Chris riesce a lasciare la sua isola per andare a Londra a lavorare come assistente presso lo studio di un noto fotografo commerciale. Dopo avere preso visione in alcune esposizioni del lavoro dei maestri della fotografia documentaria, come Paul Strand, August Sander, Robert Frank, Eugène Atget, e soprattutto Walker Evans, decide di abbandonare la fotografia commerciale, e nel 1969 torna nell’isola di Man, dove realizza una serie di immagini in bianco e nero che vengono raccolte nel portfolio “The Isle of Man” pubblicato nel 1973. Questo suo primo lavoro ottiene numerosi riconoscimenti e gli apre la strada per la realizzazione di una serie di indagini fotografiche sul nord-est dell’Inghilterra, nella stessa epoca in cui la politica punitiva di Margaret Tatcher smantella le basi economiche di quella regione. Chris rimane a Newcastle per quindici anni, e nel 1988 pubblica il libro “In Flagrante”, in cui mostra, con il suo stile immediato ed asciutto, ma altrettanto diretto ed eloquente, quelle che sono le difficili condizioni di vita e di sopravvivenza delle classi lavoratrici nell’epoca tatcheriana. Con queste opere, lungamente meditate e maturate, frutto della profonda conoscenza dei luoghi, delle persone e delle diverse difficili situazioni, Chris conquista un posto fra i grandi fotografi della seconda metà del Novecento, guadagnando un nome che non sfigura accanto ai nomi di coloro che sono stati i suoi ispiratori ideali. Nelle sue immagini Chris alterna i volti e le figure dei personaggi alle visioni urbane ed ambientali, sottolineando la continuità fra i residenti e l’ambiente in cui vivono, strade e case di abitazione, abitazioni popolari e fabbriche, cantieri e magazzini, tutti nelle stesse condizioni di precarietà, abbandono e mancanza di prospettive future. Piuttosto permeate da stanchezza, fatalismo, trascuratezza e rassegnazione che da disperazione o rabbia, le immagini di Chris mostrano un mondo che paga pesantemente le scelte della politica economica “liberista” degli anni Ottanta. Politicamente ed inequivocabilmente schierato, Chris utiliz-
12 1 LUGLIO 2017
Chris Killip In flagrante
za il linguaggio della fotografia per raccontare gli effetti della depressione industriale meglio di qualsiasi trattato di economia politica o di sociologia, e per questo suo impegno e questa sua franchezza viene in un certo senso messo ai margini. Nel 1991 Chris si trasferisce negli USA, a Cambridge nel Massachussets, dove insegna arti visive ed ambientali presso l’Università di Harvard, ma continua nelle sue indagini visive, come quella estremamente incisiva
sull’Irlanda rurale. Nel 2015 viene pubblicato il libro “Isle of Man Revisited”, una seconda edizione ampliata del suo libro del 1973 dedicato ai “Manx”, gli abitanti dell’isola, e nel 2016 viene pubblicato il libro “In Flagrante Two”. Per queste riedizioni Chris riprende in mano il proprio archivio, riscoprendo la validità di una serie di immagini, scartate anni prima per i più diversi motivi, o perché ritenute eccessivamente “forti” in un’epoca di accesi contrasti sociali, o viceversa perché ritenute troppo “coinvolgenti” nei confronti delle persone raffigurate. Immagini che vengono recuperate ed aggiunte rispetto alle edizioni precedenti, e che a distanza di venti o trent’anni mantengono la loro potenza espressiva e trovano la giusta collocazione in un nuovo contesto narrativo. Che non è più cronaca, ma storia.
di M. Cristina François Il 9 dicembre 1840 Domenico Del Podestà e Anton Maria Marini conclusero il restauro delle pitture della Cappella Capponi. Il legnaiolo Giuseppe Colzi con l’aiuto di “12 Òmini” fece rientrare la “Tavola, e Suo Cornicione” ricorrendo alla stessa movimentazione eseguita otto mesi prima “per restaurarsi dal Pittore”. Il Colzi “riportò e [fece] rimontatura di tutto al posto; E più Smontatura e rimontatura delle quattro Tavole tonde che sono nelle quattro cantonate della Volta di detta Cappella, le quali sono state parimenti restaurate dal Pittore” [A.S.P.S.F. - Ms.349, c.156r]. Quanto alla cancellata della Cappella, se ne occupò il magnano Mazzeranghi,: “Smontato l’Architrave della Cappella, e frontone del Cancello per passare la Cornice dell’Altare, e fatte alcune staffe, e viti con dado, per fermarle al palo del Cancello accomodato” [Ms.350, c.272v]. Dopo il 1840 i primi nuovi lavori documentati risalgono al 1860: dal 15 marzo il Governo Provvisorio aveva dichiarato l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna e la Chiesa di S. Felicita, Parrocchia di Palazzo, per l’occasione rifece in marmo bardiglio il pavimento della Chiesa, abbellì il Coretto Granducale per l’arrivo di Vittorio Emanuele II, restaurò il sottoportico e le prime due Cappelle in controfacciata: la Canigiani e la Capponi. Nel 1860 si cominciò con il “loggiato” della Chiesa: i telai nuovi e “sagumati” delle due finestre corrispondenti alle due Cappelle furono tinti “di Bigio”; Jacopo Chirigi di Porta Rossa mise i vetri nuovi e in aggiunta “fu fatto un pezzo di vetri finti” perché così le finestre “restavano sotto allargate” [Mss.371, 383, 389]. Queste notizie ci confermano implicitamente che la splendida
Pontormo e Cappella Capponi, 2 parte i restauri storici a
vetrata del Marcillat raffigurante la Deposizione, si trovava presso i Capponi a Palazzo delle Rovinate in via de’ Bardi. Al sottoportico “fu dato tre mane di color calcina, dato di color pietra forte ai due cornicioni di legno [la cancellata del portico era ancora lignea], mostre delle finestre e fascie degli archi”. All’interno della Cappella Capponi si provvide a “togliere il vecchio pilastro consunto” e venne incassato il nuovo “zoccolo di pietra alto soldi 19, largo Braccia 1.2.4. con rivolta”. Lo “scarpellino Angiolo Giorgi” arrotò e pulì gli scalini e fece “due basi nuove di pietra simile a quella del tronco o fusto dei pilastri di mezzo […] e quelle dei pilastri laterali”. Il “legnajolo Pietro Spighi” accomodò la mensa dell’altare e ne “lustrò” la cornice ferma-tovaglia e la pedana; il magnano fissò due “ferri con gancio per le due lampane del detto altare” [Ms. 371] e, infine, fu smontato e spostato dalla sua sede - la Cappella Guidetti sotto l’organo - tutto l’altare della Madonna del Buon Consiglio e rimontato nella Cappella Capponi [Ms.371, c.134r]. A questo proposito, è lecito supporre che i Conti Capponi avessero in quell’occasione ritirato due dipinti che erano egualmente esposti per il culto nella loro Cappella così come si legge nelle Memorie Istoriche manoscritte dell’Antiquario Filippo Brunetti: “Sopra i gradini dell’Altare è collocato il Quadro con pittura allusiva al Sacro Cuore di Gesù” [Ms.728, a.1819, p.185]; “Nella parete in Cornu Evangelii è collocato un Quadretto colla Pittura esprimente S. Girolamo Eremita, sotto al quale seguono due Iscrizioni in Marmo nero” [ibidem, p.187]. Intanto era finita la nuova pavimentazione della Chiesa e si erano conclusi i restauri per gli “ammodernamenti al Coretto dei
Sovrani”. I restauri al Coretto erano stati realizzati alla fine degli anni ’60 in onore del Principe ereditario Umberto di Carignano che aveva sposato Margherita di Savoia a Torino e che veniva a trascorrere una breve vacanza a Firenze. Nei successivi anni ’70 ricominciarono nuovi lavori alla Cappella Capponi. Per questo gli Operai dell’Opera di S. Felicita, il Cav. Del Turco e il Segr. Roti, ebbero una “Sessione […] col Sig. Cav. Poggi e [fu] stabilito per la tinta più adatta per la cancellata della detta Cappella” [Ms.383, Ricev.149]. I Nobili Sigg. Operai decisero pure di posizionare diversamente i quattro tondi degli Evangelisti e “concertare i Signori Capponi con l’Arch. Roster dove esser migliore la positura de’ 4 tondi e passarne ordine al Giorgi” [il muratore; cfr. c.s. nel Ms.387]. Fu pure “messo un Crocifisso in Cappella Capponi. Fermato con viti” [Ms.386, Ricev.137]. Nel 1872 il pittore Gaetano Bianchi fece “più pulito Per quanto era Possibile” l’affresco dell’Annunciazione. Tra il ’76 e il ’77 fu restaurato da capo a piedi il “Monumento Capponi” che si trovava nell’“Atrio”. Nel 1879 la Ditta “Francini, mosaico e pitture di vetri” di Piazza Duomo 16, fornì “n°12 Lastre decorate con stemmi ed emblemi [dei Capponi e dei Canigiani] per le due finestre sotto il Loggiato” [Ms.388, Ricev.12]. Gli interventi realizzati nel 1905 si limitarono a rinfrescare i colori originali del sottoportico: bianco per il loggiato e grigio per la pietraforte. Dei saggi effettuati nel 1936 sull’architettura della Capponi dall’architetto Niccoli sopravvivono tracce a matita nella parete interna del piccolo “matroneo delle Monache impedite” attiguo alla Cappella dove, peraltro, sono visibili i resti brunelleschiani della Cappella Barbadori, con residui cromatici da me a suo tempo segnalati a Francesco Gurrieri che ne pubblicizzò l’esistenza [vedi figura]. Inoltre, alcuni documenti tra quelli finora citati sono stati da me trasmessi a Jack Wasserman. Lo studioso americano ha consegnato le interessanti ipotesi che ne ha tratto in alcuni recenti articoli che nascono dal proficuo incontro di uno storico dell’arte con le notizie d’archivio. La diffusione della documentazione archivistica presentata in questo mio testo è soprattutto rivolta agli attuali restauratori delle pitture del Pontormo e della Cappella Barbadori-Capponi in S. Felicita.
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Da Duchamp a Cattelan passando per Pettena a cura di Aldo Frangioni Nella mostra Da Duchamp a Cattelan. Arte contemporanea sul Palatino, curata da Alberto Fiz, si confrontano arte contemporanea e archeologia attraverso 100 opere provenienti dal museo ALT creato dall’architetto Tullio Leggeri, tra i maggiori collezionisti italiani, che fin dagli anni ’60 ha avuto un particolare rapporto con gli artisti, sviluppando i progetti insieme a loro con suggerimenti sia tecnici che creativi. In questo particolare contesto è stato ricostruito su grande scala Archipensiero di Gianni Pettena, opera ideata e costruita per la prima volta in altre dimensioni nel 2001. Gianni Pettena è presente con un suo intervento anche nel catalogo, curato anch’esso da Alberto Fiz e edito da Electa. Foro Palatino, Roma., fino al 29 ottobre a Roma
Foto di
Pasquale Comegna
Mitoraj a Pompei
14 1 LUGLIO 2017
di Claudio Cosma Riassunto delle 2 puntate precedenti: “Una vetrina immaginata come un museo lillipuziano, composto di tre piani, ciascuno popolato di oggetti d’arte che costituiscono una collezione, scimmiottando una raccolta scientifica”. Il piano terreno è sempre il più affollato, poi le cose si vanno assottigliando. Questo nella vita ordinaria, sebbene si debba intendere alla rovescia, per il mio modo di vedere, dato che in questo periodo assistiamo alla collocazione alta dei meno meritevoli con il bene placido delle moltitudini. Considero che, come scrive il filosofo Mario Perniola, dell’arte contemporanea è valido solo quello che l’opinione pubblica rifiuta. Mi riferisco, per esempio, alle grandi mostre che tutto trasformano in spettacolo. La facilità d’accesso sembra essere la caricatura di una caccia al tesoro male organizzata, a sua volta metafora dell’esistenza. Nella vetrina condominio, invece, esiste una parità sovra democratica, sebbene non venga prevista la possibilità di scambi con gli altri piani, qui ogni oggetto deve stare dove è stato messo, cosa che sarebbe bene esportare anche nella vita reale, trasferendo il concetto alle persone, naturalmente. Un personaggio della “Recherche” di Proust diceva di amare le cose assai più delle persone, come dargli torto, sebbene, vedendo a volte gli interni di alcune abitazioni e alberghi e luoghi pubblici e la maggiorana degli oggetti nei negozi, mi domando chi e cosa abbiano determinato il così detto gusto dominante. Al personaggio di Proust, non esente da difetti, comunque piacevano due o tre chiese, una baia già per metà bretone, il chiaro di luna, la giovinezza, nulla da ridire. Dunque la vetrina applica un certo rigore, delle regole di precedenza, il rispetto della prospettiva e della spazialità, non in assoluto, ma in relazione allo stato dato e agli oggetti prescelti. Esiste una scatolina di legno che contiene spine di rosa ed un unico petalo, il tutto essiccato. Il lavoro dell’artista Maurizio Pettini, consiste nello stato di quiete nella scatolina stessa, nello stato dinamico un’opera ambientale in miniatura. Prevede un’azione, ovvero il rovesciare su di un piano il contenuto della piccola scatola ed assistere alla disposizione casuale delle spine e del petalo. E’ una scultura del 1986. Importante, quindi, non è l’opera, ma la riflessione che induce a fare. Dietro a questa si vede una penna di pappagallo,
opera di Fabrizio Corneli, questa è posizionata su di una base in rame che ha un alloggiamento ed una vitina per fermare la penna, ma potrebbe anche ospitare un foglia, volendo di magnolia. Dietro, a far da fondale, una foto Vittorio Messina rappresentante una scultura in ferro neon e cotone, prototipo di una edizione, poi realizzata. Accanto, sempre come quinta, una coppia di carte ossidate fermate da due vetri tenuti stretti da un listello di piombo, come le antiche vetrate delle chiese, anche questi del Pettini. La realizzazione di queste rimane un mistero, forse, ha l’artista realizzato il disegno, di un uomo col turbante e un testo scritto con una macchina da scrivere manuale, su di una lastra di ferro, sulla quale ha posto un foglio di carta e lasciando che questo si ossidasse all’aperto. Un curioso oggetto di Fabrizio Corneli rappresentante una pinza, realizzato in rame e alluminio, da usare in una immaginaria cerimonia del tè giapponese. Fa riferimento ad un episodio di vita comune fra me e l’artista, senza conoscerlo rimane un oggetto impossibile, ma tale è la maestria dell’esecuzione che ha un suo senso compiuto ugualmente. Una ultima opera è una scultura in piccole lamine di ferro composte e saldate e in parte dipinte di blu, dell’artista Willi Weiner, in quel periodo, fine anni ‘80, era ospite di Villa Romana a Firenze, con uno studio a disposizione. Questo rappresenta una forma naturale, l’alveo
di un lago alpino, rendendo reale una forma vuota, che dobbiamo immaginare riempita d’acqua. La scultura è appoggiata su di un fianco, ma dovrebbe essere mostrata come un cono in bilico sul suo vertice con la superficie blu di acqua calmissima verso il cielo, ma è sempre stata usata così. Quando guarderete, in futuro, un lago glaciale in montagna, d’ora in poi saprete cosa si nasconde sotto il pelo dell’acqua, a parte eventuali mostri di Loch Ness. Il piano terreno mostra opere in cui la progettualità e il “saper fare” si uniscono dando una dignità speciale alla manualità dell’esecuzione, facendomi tornare ad ammirare il “manufatto”, se così si può dire, invece dell’idea o concetto che abolisce la forma. La vetrina rappresenta il mio gusto personale sia negli oggetti sia nella loro disposizione, ricordo che la sistemazione degli oggetti è stata curata dal critico Pier Luigi Tazzi, costruendo una triangolazione fra opere, spazio e contesto. In questo vive la mia collezione, sia questa nella verina sia quella dalla quale gli oggetti provengono, ripartendosi in parte uguale pregi e limiti. Nel contesto comprendo le relazioni di amicizia con gli artisti che si estendono alle opere, in questo caso molte sono dei regali e molte sono state fatte apposta per me di modo che tanti lavori d’arte non esisterebbero senza di me, il tutto senza clamori, con grande semplicità.
Vetrina delle meraviglie piano terreno
15 24 LUGLIO 2017
premio letterario
I migliori 10
PRIMA EDIZIONE 2017 di Elena Mariottini Un tubo al neon, rosso, fluorescente. Una linea sinuosa e invitante. L’insegna si vedeva da lontano, dall’altra parte del quartiere. “Pancia Piena” l’aveva chiamato. Quando si era trattato di scegliere il nome del ristorante che stava per inaugurare, Gavino Pilleddu non aveva avuto dubbi. E dopo aver trascorso settimane ad assaporare il suono di quelle parole, adesso che le ammirava in bella mostra sopra la porta d’ingresso, era ancora più soddisfatto mentre, con le mani in tasca del cappotto, si rigirava un pezzo di michetta. Da dentro il “Pancia Piena” venivano le risate degli invitati, la musica e l’aroma delle pietanze preparate con attenzione per la serata di apertura. Sopra tutto, spiccava il profumo del porceddu che lui stesso aveva cucinato secondo la tradizione. Lo spiedo posto in verticale, la cottura lenta davanti alla brace non troppo calda, il lardo fatto colare goccia a goccia per mantenere la cotenna croccante e la carne tenera. Fu quell’odore a strapparlo dalla piazza alla periferia di Milano e a riportarlo nella sua Sardegna. Gavino non rimetteva piede a Orgosolo da anni, ma aveva ben impresso in mente il ricordo di quando sua madre preparava il maialetto arrosto e altri piatti tipici. Donna instancabile e caparbia, tutte le mattine si alzava presto e cominciava subito a cucinare. I malloreddus allo zafferano, che erano i preferiti di suo figlio, i culurgiones di ricotta e menta, oppure il suo piatto forte, le lumache al sugo piccante. Poi, soddisfatta, portava in tavola tutte le pietanze, profumate con foglie di mirto, di alloro e condite con l’abbamele, di cui Gavino era ghiotto e che lei utilizzava per aromatizzare ogni portata, dal primo al dolce. A vederla, si sarebbe detto che cucinasse almeno per sei persone. E invece, Maria Antonia, moglie del Ministro Pilleddu che viveva a Roma e tornava a casa soltanto un paio di volte al mese, cucinava per il suo unico figlio. Gavino spazzolava via tutto fino all’ultima briciola. Non protestava mai per le porzioni troppo abbondanti e faceva quasi sempre il bis. Del resto, lui sapeva quanto male facessero i morsi della fame e mandare sprecato quel ben di Dio messo in tavola, gli sembrava un peccato mor-
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Pancia piena
Illustrazione di Aldo Frangioni
tale. All’età di nove anni, il nome di Gavino Pilleddu aveva riempito per settimane le pagine della cronaca nazionale. Un giorno di fine aprile era stato rapito mentre tornava a casa dopo la scuola. I due malviventi che avevano chiesto il riscatto alla famiglia, intercettati dalla Polizia, erano stati uccisi un mese dopo in un conflitto a fuoco ai piedi del Gennargentu. Gavino era rimasto intrappolato in una capanna in mezzo alle rocce per quattro giorni, prima che un pastore e il suo gregge di capre, si imbattessero per caso in quell’ammasso di rami e foglie. Senza i suoi carcerieri, il bambino non aveva mangiato né bevuto. Lo trovarono quasi morto. Dopo la degenza in ospedale, Maria Antonia aveva riportato suo figlio a casa e aveva deciso che l’unica cosa che avrebbe potuto guarirlo, fosse nutrirlo senza interruzione. Alla soglia dei vent’anni Gavino pesava centocinquanta chili. Realizzò che per tutto il tempo dopo la sua liberazione aveva mangiato di tutto, ma non si era mai saziato di niente. Il giorno del suo compleanno, facendo appello
a quella stessa forza che undici anni prima l’aveva tenuto in vita, fece la valigia, baciò la madre e, senza badare alle sue proteste, partì per il “continente”. Scelse Milano perché gli sembrava una città abbastanza grande da contenere la sua mole. Affittò un appartamento all’ultimo piano di un palazzo senza ascensore e contattò una psicologa esperta in disturbi dell’alimentazione. Durante i sedici anni di terapia che erano seguiti, Gavino aveva perso una cinquantina di chili. Aveva anche cominciato a lavorare come lavapiatti in un ristorante dietro casa. Dopo qualche mese, dimostrando una dimestichezza ai fornelli che neppure lui sapeva di possedere, era stato promosso aiuto cuoco. Si era così reso conto che, a furia di guardare sua madre cucinare, aveva finito per assorbirne la passione e aveva deciso di iscriversi a una scuola di cucina. Adesso che fissava l’insegna del suo ristorante, tuttavia, sentì le gambe cedere. D’istinto, come ogni volta che l’ansia lo sorprendeva, strinse più forte il pezzo di pane che aveva in tasca. Lo strofinò tra l’indice e il pollice, grattando con l’unghia la crosta sottile. Percepì la michetta sbriciolarsi e si calmò. Il “Pancia Piena” era una scommessa, Gavino lo sapeva bene. In quel locale aveva investito tutti i suoi risparmi, senza chiedere niente alla famiglia che, oggi se ne rendeva conto, l’aveva sì sfamato, ma mai nutrito. Frugò meglio nel cappotto e si accorse che la michetta era ormai completamente sminuzzata. Entrò nel “Pancia Piena” per andare a cercarne un altro pezzo. Gli invitati lo accolsero con un applauso. Nota biografica:
Elena Mariottini nasce nel 1983 ad Arezzo, dove tuttora vive e lavora. La passione per la scrittura la accompagna fin da giovanissima. Per assecondarla, dopo aver conseguito la maturità scientifica, si iscrive alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, scegliendo il corso di Laurea in Media e Giornalismo. Dopo la laurea, collabora per quattro anni con “Il Corriere di Arezzo” come redattrice sportiva e di cronaca cittadina. Anche al termine di questa esperienza professionale, continua a scrivere, soprattutto racconti brevi, per passione e passatempo. La partecipazione al premio Racconti Commestibili è la sua prima volta a un concorso letterario.
di Barbara Setti L’archeologia britannica combatte per la sua sopravvivenza. Questo il titolo di un articolo uscito sul Guardian martedì 20 giugno. Il 22 giugno in Gran Bretagna si è celebrato la prima “Giornata dell’archeologia universitaria” allo University College di Londra. L’evento aveva lo scopo di promuovere l’archeologia come materia di studio universitaria e come prospettiva di carriera lavorativa per gli studenti, riunendo i dipartimenti universitari di archeologia di tutto il paese e numerose organizzazioni che impiegano laureati in archeologia. L’intenzione era di presentare l’archeologia come un eccitante campo di studi che apre le porte di numerose opportunità lavorative, ma lo University Archaeology Day rappresenta anche una risposta alla crescente crisi dell’archeologia britannica, sia nel settore universitario che professionale. Questa crisi sembra avere ripercussioni ben oltre il mondo accademico. In UK ci sono sempre meno studenti che si iscrivono a questo corso di studi e i dipartimenti di archeologia in tutto il Regno Unito vedono crollare anno dopo anno il numero degli iscritti. Il problema alla fine si riduce a un mix di percezioni e fattori finanziari. Il calo del numero degli studenti è iniziato dopo la crisi finanziaria del 2008, ma è cresciuto a causa dell’aumento delle tasse di iscrizioni all’università e al ritiro dei prestiti agli studenti per la laurea magistrale. A differenza delle precedenti generazioni che vedevano l’università più come un’occasione per sperimentare ed esplorare, per gli studenti oggi è piuttosto un investimento economico che ha bisogno di una decente prospettiva di ricompensa finanziaria per avere un senso. Materie di studio come l’archeologia, che ovviamente non porta a carriere ben pagate, hanno sofferto le conseguenze di questo atteggiamento fortemente pragmatico verso la formazione universitaria. L’archeologia è molto più sensibile alla calo del numero di studenti che altre materie. L’archeologia, infatti, è una materia costosa da insegnare, perché necessita di attività di laboratorio e di una vasta gamma di formazione pratica sul campo. Tuttavia, l’archeologia in Inghilterra non è classificata come materia STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) o come SIVS (materia di studio vulnerabile strategicamente importante), ambiti che sono stati aiutati da finanziamenti governativi e politiche di ammissione facilitate. Quindi i corsi di archeologia sono diventati rapidamente non economici per le università, se i corsi proposti non vengono riempiti. È un problema che era da un po’
Archeologi cercasi in Uk
che era stato riconosciuto, ma solo adesso è diventato ben visibile. Quindi, se gli studenti non vogliono studiare archeologia, l’argomento non è economico e il governo non lo considera importante abbastanza da proteggerlo, perché non lo si dovrebbe fare morire? Perché, oltre alla perdita di posizioni della Gran Bretagna nel quadro della ricerca archeologica internazionale, c’è una disperata, crescente carenza di archeologi nel Regno Unito. L’archeologia rientra nel processo di progettazione esecutiva e realizzazione di infrastrutture ed edilizia. La recente crescita dell’edilizia sta mettendo in crisi gli organici limitati delle realtà archeologiche private, ed è difficile vedere come grandi progetti infrastrutturali in fase esecutiva, come l’incremento dell’alta velocità e la terza corsia per l’aeroporto di Heathrow, possano essere gestiti. Un recente studio di Historic England stima che il Regno Unito necessiti tra il 25% e il 64% di archeologi in più nel 2033 per rispondere alla domanda commerciale. La Brexit rischia di rendere la situazione ancora peggiore, dal momento che molte unità archeologiche dipendono fortemente da cittadini dell’Unione Europea. Potrebbe sembrare strano che, viste le circostanze, gli studenti non sono più attratti dall’archeologia come carriera lavorativa quando ci sono così tanti posti di lavoro vacanti. Il problema è che fino a oggi l’archeologia privata da campo è stata per lo più piuttosto orribile. Gli stipendi e le condizioni di lavoro nell’archeologia privata sono francamente sconcertati
per un laureato professionista. Un neo laureato non guadagna più di 16.000/18.000 sterline l’anno (cioè tra i 18.000 e i 20.000 euro) e anche un responsabile senior o un direttore di progetto non guadagna più di 25.000 sterline (28.000 euro) l’anno, compresi i lavori che hanno base a Londra e nel sud-est dell’Inghilterra, che sono aree decisamente più care. In cambio, il lavoro dell’archeologo professionista è fisicamente pesante e avviene in tutte le condizioni atmosferiche (della Gran Bretagna!). La sicurezza del lavoro è scarsa; impieghi a tempo indeterminato non sono facili da trovare e molti archeologi sono assunti su singoli progetti. Tradizionalmente, la maggior parte dei giovani archeologi non rimane nell’archeologia privata per più di un anno o due prima di fuggire in qualche altro settore lavorativo dei beni culturali o portando le loro competenze verso carriere economicamente più soddisfacenti. Tuttavia, l’archeologia privata sta finalmente iniziando a rispondere a questa incomprensibile carenza di competenze. Nel 2014 l’Institute for Archaeologists (CIfA) ha cercato di ottenere la Royal Charter (riconoscimento professionale) per la professione, che dovrebbe fare iniziare il processo di crescita dell’archeologia dalla sua tradizionale immagine amatoriale di fanatici ragazzi con la barba e strani pantaloncini corti in unità di professionisti con elevati standard professionali. Quindi, tra la mancanza di archeologi professionisti e i nuovi sforzi del settore privato di migliorare la professione dell’archeologo, ne dovrebbe derivare un incremento dei compensi e un miglioramento delle condizioni di lavoro, specialmente se le imprese di costruzioni vogliono costruire case e le infrastrutture ferroviarie e stradale devono rispettare i tempi di consegna. Alla fine, non ci potrebbe essere momento migliore per diventare archeologi; se ci saranno ancora dipartimenti universitari che potranno insegnarlo.
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Bizzarria degli
oggetti
Brolio
di Cristina Pucci Rispetto alla bizzarria è fuori tema, non è nè oggetto nè bizzarro, è di Rossano. Sta fra le opere artistiche e preziose, non perché la sua quotazione attuale supera i 4000 euro, ma perché tiene fili di molte storie. Grande manifesto del 1938, a firma Filippo Romoli, pubblicizza il “Brolio”, Chianti della Casa Vinicola Barone Ricasoli. Comincio da Romoli, nacque a Savona nel 1901, dopo studi artistici fu assunto da una Società Elettrica, ma disegnava... dipingeva... Consigliato da amici, ammirati dalla sua bravura, presentò i suoi lavori alla Barabino e Graeve, un importante centro di Litografia, fondato a Genova nel 1909. Visto e preso. Divenne un valente ed apprezzato cartellonista pubblicitario, bellissime ed eleganti le sue opere dèco dedicate ad alcune stazioni balneari liguri. I suoi manifesti per il Diana Park di Alassio e per Rapallo, del 1929, erano esposti, insieme a quello sul Carnevale di Finale Ligure, fra altri capolavori di grafica pubblicitaria, a Forlì, nella ricchissima mostra”Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia”. Nel 1936 la Barabino e Graeve passa alla S.A.I.G.A, nel nostro manifesto si leggono i tre nomi a sinistra in basso, in alto, a destra, la firma dell’autore. Esiste, a Genova, un Archivio della Pubblicità, nato nel 1993 grazie proprio al fondo storico di queste, antesignane, stamperie tipografiche, consta di circa 20.000 reperti, per ora è visitabile solo per motivi di studio. Il nostro Romoli, nel 1932, aveva iniziato una collaborazione, stabile fino alla sua morte, con la Società Lazzi GranTurismo, ne ideò logo, divise di Hostess ed autisti, ed arredi. Una mini digressione, questa Ditta di Trasporti, fondata da Vincenzo Lazzi nel 1919 per avviare la comunicazione su gomma dalle Montagne Pistoiesi alla pianura, aumentò raggio di azione ed importanza in epoca fascista quando le fu permesso di sostituire, con proprie autocorse, la Tranvia della Versilia, grazie ai buoni auspici di Costanzo Ciano, padre del più noto e potente Galeazzo. Ha smobilitato a quasi 100 anni dal debutto. Nel manifesto di Rossano compare uno scorcio , stilizzato e un po’ sbilenco, del Castello di Brolio, pro-
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dalla collezione di Rossano
prietà dei Ricasoli e un loro stemma. Il nome deriva dal termine longobardo “brolo”, spazio verde chiuso, è una costruzione che risale al 1100, anche se del suo primo impianto non resta molto, nel corso dei secoli è stato più volte danneggiato e vi si sono stratificati restauri, modifiche ed abbellimenti. I Ricasoli, direi l’unica antica famiglia nobile fiorentina rimasta integra e vivace, lo posseggono dal 1141. Salto molti secoli, alcuni dedicati dai nobili virgulti di cotanta genia a disperdere le non irrilevanti rendite e ricchezze, ed arrivo al Barone Bettino, che eredita la tenuta e una mole di debiti, con una rigorosa politica economica e imprenditoriale, rimise in sesto il patrimonio di famiglia. Dopo avere viaggiato, studiato cantine e soggiornato in Francia, si ritirò a vivere in quel di Brolio, iniziò a produrre e a vendere vino. Intorno al Castello 230 ettari, dei più di 1200 della proprietà, a vigneti. A lui si deve la “ricetta” del Chianti, la cui formula è illustrata in un suo scritto del 1872, solo minimamente, e da poco, modificata . La Casa Vinicola Ricasoli è fra le 4 più antiche del mondo, la più antica d’Italia. Bettino, nome suggestivo di immancabili carriere politiche, detto il “Barone di ferro”, fu protagonista del Risorgimento e fu Primo Ministro del secondo Governo della neonata Italia Unita. In foto una camera ric-
camente decorata. Castello, giardini, tenuta e cantine sono visitabili.
di Melia Seth Cinquantamila. Folla o pubblico? Pubblico. Non è questione di numero. Siamo qui con uno scopo. Lo stesso scopo. Folla è quando si riuniscono persone non omogenee né per nazionalità né per razza né per età né per classe né per professione né per genere né per religione né per cultura né per altro. Folla è raggrupparsi a caso, fare qualcosa insieme, disperdersi. Pubblico è quando ci si raggruppa per un motivo, quando l’intenzione precede l’incontro. Al Visarno ci sono tutte le caratteristiche del pubblico e nessuno dei difetti della folla: siamo ordinati, pazienti (in 50.000 è necessario essere pazienti), disciplinati, solidali malgrado le difficoltà (gente che si sposta, gente che ti urta, sete, fame, pipì, tutto difficile da raggiungere, file ovunque, deflusso molto lento). Ma. Ma basta un nulla perché il pubblico diventi folla: se scoppia un petardo, se scoppia un incendio, se scoppia un tubo, se qualcuno scoppia. Quando è folla, prova emozioni forti. Sente e agisce all’unisono. Non ragiona. Si suggestiona. Divora l’individuo. Divora differenze e distanze. Prova amore. Prova odio. Prova paura. Corre senza far caso a chi si lascia indietro, chi calpesta, chi uccide. Stasera. Stasera il pubblico esulta, salta, si esalta. Ascolta. Riconosce. E’ riconoscente e lo dimostra. Canta. Segue il ritmo con il corpo. Applaude. Grida. Ne vuole ancora. Ringrazia. Si solleva sulla punta dei piedi. Risponde alle frasi del capo della band, alle sue due parole in cattivo italiano. Grruazzi firruenzi. I love you all. Si avvia verso casa. E’ felice ed è triste. Fa tutto questo, è tutto questo, insieme. Anche folla è insieme, ma annullando la personalità di ognuno. Come
Pubblico-folla andata e ritorno
pubblico, restiamo noi stessi malgrado emozione, partecipazione, intensità. Restiamo separati: evitiamo (per quanto è possibile) il contatto. Primo grande concerto all’aperto, per me, dopo l’esplosione alla fine dello spettacolo di Ariana Grande a Manchester, dopo il panico di massa in piazza San Carlo a Torino, dopo l’allarme bomba al raduno rock di Berlino, dopo i molti casi, negli ultimi tempi, di strage diretta contro un insieme più o meno grande di persone. Prima, far parte della folla era rassicurante: potenti, protetti, liberi di compiere qualunque gesto con la quasi garanzia (e comunque la sensazione) dell’impunità. Dopo, pericoloso. Molto pericoloso. In più, il nostro tempo - di Manchester, di piazza San Carlo, di Berlino, di stragi - non riconosce più la folla. Si stupisce quando la folla si comporta come folla. Non sa più che cos’è. Come si
forma. Che cosa la muove. Come si scioglie. Di quali disastri è capace. Qual è il suo rapporto con il leader. Radiohead formidabili come sempre. Tom York carismatico (e un poco stonato) come sempre. Pezzi eseguiti in modo intimo (solo chitarra acustica e voce). Ascoltati in perfetto silenzio. Faccio parte di un pubblico di cinquantamila che ascolta in perfetto silenzio. Karma police. This is what you get. This is what you get. This is what you get. When you mess with us. Karma police. Phew, for a minute there I lost myself. I lost myself. Qui io non ho perduto me stessa. Sono rimasta me malgrado emozione, partecipazione, intensità. Sono rimasta me proprio per emozione, partecipazione, intensità. Questi cinquantamila mi sono piaciuti tantissimo. I love you all. Radiohead, Firenze, Arena del Visarno, 14 giugno 2017, ore 21
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di Domenico Villano Lunedì 19 giugno Lorenzo Marsili era a Firenze, ospite dell’Associazione il Giardino dei Ciliegi, per presentare il suo nuovo libro “ Il terzo spazio - Oltre establishment e populismo” edito da Laterza, scritto a quattro mani con l’ex-ministro greco Yanis Varoufakis. Affrontando il caldo di una sala priva di aria condizionata, più di 30 coraggiosi hanno partecipato all’evento. Come al solito ero il più giovane di tutti (io di anni ne ho 24), il secondo era l’autore (classe 1984), ad occhio e croce l’età media della platea si aggirava intorno ai sessant’anni. Tra domande che domande non erano, ma interventi fiume di decine di minuti, ascoltati con coraggioso stoicismo dall’autore; tra richiami più o meno anacronistici alla rivoluzione socialista armata, l’abbandono della NATO e l’instaurazione di un nuovo dispotismo illuminato, mi sono fatto un’idea dei temi trattati nel saggio di Marsili. Innanzitutto va detto che Marsili è la figura di riferimento del movimento paneuropeo progressista “Diem25”, fondato poco più di un anno fa da Varoufakis e che ha visto l’adesione di figure illustri del mondo politico e dell’industria culturale occidentale (tra gli altri Slavoj Žižek, Saskia Sassen, Ken Loach, Julian Assange), e di oltre 80 mila cittadini in giro per l’europa. Il progetto del libro e del movimento è di creare un “terzo spazio”, per l’appunto, tra l’estremismo di centro pro-Austerity rappresentato dai principali governi europei e dalle istituzioni comunitarie ed il revival populista dei partiti di estrema destra. Uno spazio progressista che unisca tutte le felici esperienze di questi anni, da Podemos in Spagna a Razem in Polonia, che seppur non arrivando mai al potere hanno ottenuto consensi che, con programmi simili, la sinistra radicale “classica” poteva solo sognare fino ad un paio di anni fa. Diem25 propone un New Deal per l’Europa, un programma di investimenti pubblici per stimolare l’economia verso la crescita, una profonda democratizzazione delle istituzioni europee, l’equiparazione dei diritti sociali a livello comunitario. Marsili e Varoufakis non credono che l’UE sia la sola responsabile della stagnazione delle economie comunitarie, in fin dei conti essa altro non è che un apparato burocratico e politico forgiato dai governi dei paesi membri; se ci fosse la volontà politica, gli stessi trattati europei potrebbero essere modificati in chiave progressista. Per questi motivi, essi non credono in una “Exit” dall’Unione Europea come panacea di ogni problema, né nella possibilità di una “Exit” da sinistra: in un mondo in balia della finanza speculativa e del capitale
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Diem25 e il Terzo Spazio
transnazionale, un singolo stato (seppur con le migliori intenzioni) avrebbe poco potere negoziale rispetto alle forze in campo e scarsa autonomia nell’implementare riforme di stampo progressista, dovendo garantire allo stesso tempo la famigerata competitività del proprio apparato produttivo sui mercati globali. Invece una UE seriamente impegnata in una trasformazione progressista dei suoi trattati, essendo la più grande potenza economica mondiale, potrebbe cambiare gli equilibri globali da protagonista. Tutto molto bello, ma ho serie perplessità sulla strategia di Marsili & co. per raggiungere obiettivi non proprio di poco conto. Sito web, incontri, libri e promotori hanno uno stile accademico e “radical chic”, per coinvolgere anche solo l’1% dei 500 milioni di cittadini europei
bisogna avere una strategia di comunicazione che utilizzi linguaggi inclusivi e non esclusivi. Come dicono dalle mie parti, alle pendici del Vesuvio, bisogna parlare in modo semplice “a Pane ‘e puparuol” (pane e peperoni). Inoltre, alcune prese di posizione “infelici” in occasione delle ultime elezioni in diversi paesi europei dovrebbero essere oggetto di autocritica: sostenere 8 partiti e partitini diversi, compresi i Libdem invece di appoggiare con forza la candidatura di Corbyn alle ultime elezioni U.K.; una adesione in negativo al primo turno delle elezioni francesi “votate chiunque voi vogliate esclusi Le Pen e Fillon” e l’appello per il voto a Macron al secondo turno. Se vogliono perdere l’appoggio di quei pochi giovani di buona volontà, che hanno voglia impegnarsi in politica, sono sulla buona strada.
di Angela Rosi Per entrare nel caos di una vita creativa Poesia in Tè_a Voi poesia in performance con l’artista Luca De Silva. Un fine pomeriggio nel cuore delle colline fiesolane tra proiezioni video, musica e letture dal suo libro Mareacion, racconti di un sognatore incallito ma soprattutto tanta vita creativa per non dimenticare che nel nostro quotidiano non deve mai mancare la speranza che ci spinge a vivere e a creare. Essa ci porta curiosità e conoscenza di noi stessi e di ciò che ci circonda, è energia per e verso il cambiamento. La speranza l’abbiamo vissuta nei volti giovanissimi del Quartetto Contr’Arco e nella loro musica. Se non ci fermiamo alla speranza e andiamo oltre, superando la ragione, entriamo nel mondo della follia che ci appartiene cioè nel nostro spazio immaginativo spesso difficile da raggiungere Forse la realtà è solo un modo per vedere le cose (performance di Luca De Silva in collaborazione con Alessandra Borsetti Venier). Si apre, così, la possibilità di vivere il nostro personale Mareacion, dallo spagnolo marear (soffrire di mal di mare), approdando ad una realtà che si presenta in infiniti modi a seconda di come la interpretiamo. Mareacion, termine sciamanico, è l’ondeggiare tra la propria immagine e la percezione del proprio corpo fisico, questo mal di mare permette di immergersi nella nostra follia per poi riaffiorare mediante la forma artistica. E’ l’oscillazione tra buio e luce, tra nero e bianco tra sogno notturno e sogno diurno perché siamo fatti di sogni. Luca De Silva rivela il suo intimo con l’arte perché per lui l’arte è vita e la vita è arte e entrambe concorrono alla crescita individuale. Nel video Il mio percorso artistico l’artista racconta le sei fasi del suo lavoro, al centro è il corpo. La prima fase è un corpo ideale/ astratto poi il corpo si fa antropologico con richiami alla natura e al mito diventando corpo psicologico cioè percorso intimo che va verso l’esterno e ancora corpo virtuale dove il corpo è assente ma c’è la presenza, ancora corpo d’arte con impronte sulla pelle ed infine il corpo di sogno dove non esiste più la realtà fisica ma immaginazione. I video delle sue performance comunicano chiaramente il suo percorso artistico che richiama la collettività e alcuni suoi riti. Luca De Silva dà voce e forma alle nostre immagini interiori e c’è sempre un continuo dialogo tra l’individuo e il cosmo in un incessante stato di Mareacion.
Luca de Silva a La-Barbagianna- Pontassieve
Un sognatore incallito
Luca de Silva e Alessandra Borsetti Venier - alla Montanina - Fiesole
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di Dino Castrovilli Giovedì 16 giugno, alla Libreria Brac di via de Vagellai, specializzata in arte contemporanea (resa più gustosa da una cucina raffinata), è capitato di assistere ad un esperimento letterario, ma sarebbe meglio dire culturale in senso pieno, di inusitata novità e fascino. Protagonista l’insegnante e attrice Mariangela De Crecchio. Ispirata da una puntata speciale di “Scaffale aperto” - lo spazio periodico che la libreria riserva ai “lettori speciali” che presentano i “libri della loro vita” - nella quale l’artista toscano Luca Pancrazzi, in occasione della sua mostra Art books chosen by artists allestita per Scripta Festival, ha chiesto a dieci colleghi di condividere le proprie bibliografie di formazione (“per coloro che ne avessero voluto fare nutrimento”, Mariangela De Crecchio ha prima operato la propria personalissima selezione dei libri della sua vita, individuando ben cento testi, e quindi composto per vie misteriose e per necessaria riduzione, un florilegio costituito di “lacci drammaturgici” raccolti sotto il titolo assolutamente adeguato di Memoriale. Gli autori e i libri che De Crecchio aveva scelto erano stati annunciati nel comunicato diffuso dalla libreria, ma l’attrice li ha interpretati in
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sequenza e senza annunciarli, creando in pochi secondi, e, condividendo col pubblico, un flusso di coscienza di rara intensità e bellezza: pur avvertendosi le differenza di stile, e di contenuti, tra un autore/brano e l’altro, quello che ha preso consistenza è stata una sorta “di libro dei libri”, un libro universale nel quale si sono riversate prosa, poesia, saggistica, suggestioni, invenzioni letterarie, formalmente distanti tra loro, a volte sideralmente, per secoli, ispirazione, interessi, umori. Perché Memoriale, come ha avvertito la letterata e attrice, è “un’operazione che spetta a chi segue e scruta i più nascosti e improbabili legami di senso tra le lettere, sulla scia di suggestioni che s’affollano senza trovare una immediata collocazione”.
Il Libro d’Ombra
Tecnicamente De Crecchio compulsando i molti libri ha enucleato dei frammenti, “depositandoli” poi nel suo inconscio e lasciando che si sedimentassero e interagissero tra di loro. Ha avuto luogo quindi una sorta di processo psicanalitico e alchemico (“trasformativo e liberativo”, diceva Jung), che per portare l’uomo alla “luce”, cioè al riconoscimento del Sè, deve partire e confrontarsi con l’Ombra (la morte, essenzialmente). Dopo qualche tempo di azione inconscia ma costante, la coscienza di Mariangela De Crecchio ha recuperato i testi “giusti” e li ha posti nella sequenza con cui li abbiamo ascoltati e vissuti. Autori e testi disparati - da Il rituale del serpente di A. Warbourg alla Camera chiara di R. Barthes, dalle Dimore filosofali di Fulcanelli a Il funambolo e altri scritti di J. Genet, dal Bataille di L’èrotisme al Canetti di Massa e potere, e poi ancora Cèline, Giacinto Scelsi, il Lenz di Buchner, La nascita della tragedia di Nietzsche, Paul Valery, Borges, - flusso unico, temi di fondo: l’uomo, meglio l’artista, a confronto con il tempo e lo spazio. Come aveva già scritto Dino Campana, naturalmente presente con i suoi Canti Orfici, e come abbiamo vissuto l’evento, “salgo, nello spazio, fuori del tempo”.
di Mariangela Arnavas La ragazza del ‘58 è il “testo mancante, sempre rimandato. Il buco inqualificabile” e ancora” la vedo, non la sento...la memoria trascrive in forma muta le parole che siamo stati noi a pronunciare”, così parte il viaggio nella memoria di Annie Ernaux. Attraverso fotografie e appunti e soprattutto nuotando nei ricordi, Annie Ernaux insegue e raggiunge, a tratti, questa se stessa giovane, al primo impatto con il mondo esterno dei coetanei, fuori dal cerchio protettivo della famiglia, in cui è stata figlia unica, “sorvegliata con apprensione” dopo la morte della sorella maggiore bambina. La scrittrice vede se stessa diciottenne come un’altra, “un’estranea che mi ha lasciato la sua memoria in eredità “; così magistralmente descrive l’esperienza di molti, per esempio al ritorno in case abitate qualche anno o decennio prima; la sensazione di poter incontrare all’improvviso se stessi più giovani, entrando o uscendo da una porta o da un ascensore; è un tempo “granulare” quello di Ernaux, vicino concettualmente agli ultimi sviluppi della teoria dei quanti; non c’è un fluire o rifluire, ci sono spazi bianchi, pause, c’ è quella “ragazza là ,quella del ‘58, capace di manifestarsi a cinquant’anni di distanza e di provocare un tracollo interiore”. Proprio per questa modernissima concezione del tempo e della memoria come fonte di conoscenza, l’autrice non parla mai di passato ma di “presente anteriore”, trascinando chi legge, attraverso una scrittura lucida e potente in una riflessione inevitabile sulla prima generazione di donne che ha fronteggiato la libertà sessuale; la paura, la vergogna, la totale impreparazione e insieme la vertigine e l’orgoglio di scoprirsi oggetto di desiderio, l’incontro con la dimostrazione del proprio potere seduttivo e, non molto dopo, l’approccio con le prime scritture filosofiche femminili, la lettura del “Secondo sesso” di Simon De Beauvoir, la coscienza della diversità che comincia a farsi strada in un percorso parallelo a quello della comunicazione non verbale con l’altro sesso. È uno sguardo da entomologa di se stessa quello di Ernaux, senza nostalgie, senza autocompiacimento né autocommiserazione; la guarda vivere, la ragazza del ‘58 e non la giudica, anche se a tratti è impossibile non percepire venature di antica sofferenza, che rendono sottilmente poetico il racconto. Poi lo sprofondo nella patologia, in quelli che oggi si chiamano disturbi di personalità, anoressia, bulimia:
negli anni ‘60 nessuno le nominava; erano malattie sostanzialmente sconosciute e le donne di quel presente dovevano cavarsela da sole, trovarsela la strada per uscirne; erano crepacci nei quali si precipitava ma che sembravano inesistenti o inconsistenti appunto perché non avevano neanche un nome, figurarsi una cura. Annie Ernaux, come tante di quella generazione, ha scoperto il nome della sua malattia molti anni dopo la sua guarigione, quella che troverà nello scrivere: “procedo verso il libro che
scriverò come due anni prima procedevo verso l’amore”; non è certo un caso che da questo momento l’autrice abbandoni la scrittura in terza persona; la ragazza di S e la scrittrice tornano ad essere una sola persona. “Memorie di ragazza” è un bellissimo percorso letterario, intellettuale, poetico; un testo da leggere e rileggere per scoprire, di volta in volta, i tanti strati del tessuto finemente intrecciato dei presenti anteriori, fino alla fusione con la stagione “ presente e viva e il suon di lei”.
Il testo mancante 23 24 LUGLIO 2017
di Simone Siliani Uno spettro si aggira per l’Europa, ma non è quello del comunismo. È invece una potente, inarrestabile e invisibile forza che spinge milioni di esseri umani a prendere d’assalto le capitali e le città d’arte del continente, armati di smartphone e stick per selfie per immortalarsi davanti ai monumenti più famosi di cui non sanno e non riterranno niente, per poi fiondarsi nella strada dello shopping (dove potranno acquistare prodotti identici in tutti i negozi in franchising del mondo) ed infine risalire sul bus per una nuova tappa del viaggio oppure andare per movida e rincasare a tarda notte nell’appartamento AirB&B. Questa potente forza eversiva è il turismo globale. E, come per il comunismo di Marx e Engels, anche il turismo globale appare irrefrenabile e ingovernabile, se non dalle oscure e imperscrutabili leggi della libera intrapresa e della massimizzazione dei profitti. Allo stesso modo del comunismo quasi due secoli fa, iniziano a levarsi contro il turismo globale le (per ora deboli) forze della reazione, che “si sono alleate in una santa caccia spietata contro questo spettro”. Io mi iscrivo a queste, così da anticipare le prevedibili critiche a queste note. Il primo motivo per il quale ritengo che chi può dovrebbe avviare una lotta senza quartiere a questo spettro è che esso banalizza, svilisce e volgarizza l’esperienza culturale che dovrebbe costituire la visita ad una città d’arte. E siccome il valore di un monumento storico, di un’opera d’arte, di una architettura, di una biblioteca, ma anche di un concerto o di uno spettacolo teatrale, è dato sì dalla materialità di quell’opera dell’ingegno umano (che tuttavia è o dovrebbe rimanere immutabile nel tempo), ma anche in modo incrementale dall’esperienza significativa che ne fanno le persone, è evidente che tanto più questa è povera e banale, tanto più anche l’opera si immiserisce. Le opere del passato, così come quelle contemporanee, parlano ma acquistano valore solo se trovano chi le ascolta e se il ricevente è in grado di assorbire quel linguaggio (ovviamente a diversi livelli), comprenderlo e rielaborarlo criticamente, cioè di farne esperienza e condividerla nella comunità di cui fa parte. Niente di tutto ciò avviene nel modello del turismo massificato globale che infesta le città storiche: ciò che in esso conta è il consumo e il significato economico (misurato in termini di PIL o di ricavi per gli esercenti o ancora di tassa di soggiorno per il Comune). Quelli che intendono attribuire a questo tipo di turismo un valore latamente “culturale” rispondo a questa critica in due modi: dicendo che così si permette ad un vastissimo pubblico di avvicinarsi all’arte o alla
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Lo spettro
storia e, di contro, accusando i critici di questo tipo di turismo di essere degli elitari, di propugnare una fruizione delle città d’arte solo per gli addetti ai lavori e per i ricchi che si possono permettere servizi turistici di più elevato livello. A questi rispondo dicendo che “vedere” un monumento non significa di per sé “capirlo” e farne esperienza culturale (basterebbe citare qui il tanto spesso esaltato Dante che nel suo Paradiso V, 41-42 ci ricorda che “non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso”, ma temo che per i più si ricordi Dante sanza averlo mai letto o inteso) e che dopo aver “visto” questi monumenti il turista globalizzato resta esattamente quello che era prima, mentre ogni esperienza davvero culturale ci cambia in qualche modo. Dall’altro lato è assolutamente possibile ed auspicabile una “democratizzazione” della fruizione culturale e si può fare con una formazione a monte e strumenti che aiutino e rendano piacevole la fruizione, ma questo implica impegno, investimento nel sistema scolastico e nei servizi culturali di supporto al turismo di qualità, che in Italia ben pochi, e meno che mai gli enti pubblici, sembrano voler fare. Gli effetti deleteri del turismo globale non si fermano qui, anche se ho voluto mettere in evidenza questo che non sempre viene evidenziato e che, al contrario, viene ritenuto talvolta secondario. Un breve regesto di questi danni collaterali può essere utile. Un turismo di massa e senza qualità induce anche servizi di medesimo livello, tutti tesi alla massimizzazione del profitto immediato. Quindi, prodotti di bassa qualità, basso costo di produzione, breve durata, standardizzati per acquirenti che hanno poco tempo, non pretendono qualità ma solo l’icona di quel luogo (per poter dire, al ritorno, “io ci sono andato”; ma pochi saprebbero rispondere alla domanda “cosa hai visto?” e ancor meno a “com’era?”). Un
parte significativa di questi beni sarà anche fuori dal circuito legale, di produzione e di commercializzazione, proprio per intercettare meglio una domanda distratta e frettolosa. Si potranno fare tutte le campagne anti-fake del mondo (come l’ultima invenzione fiorentina di una calcomania realizzata sul selciato del centro storico per avvertire dei rischi di comprare prodotti contraffatti), ma è il tipo stesso di turismo e di fruizione dei centri storici delle città d’arte ad attirare e far crescere questo genere di attività illegale. Il moltiplicarsi di “servizi” di basso profilo per il turismo globale non conosce limiti e si sviluppa con una fantasia che talvolta meraviglia. Per combattere questo florilegio che, indubbiamente, squalifica la città, non può funzionare la dichiarazione di guerra (spesso più annunciata che praticata) contro questa o quella categoria (a Firenze, di volta in volta, i venditori ambulanti abusivi, i compro-oro, i risciò, ecc.); occorre una strategia organica diversa sulla città, forse anche una cultura urbana e urbanistica alternativa. Nel caso di Firenze, purtroppo, questa oggi è poco credibile avendo negli anni scorsi sacrificato una pianificazione urbana armonica di tutta la città ad una idea di sfruttamento esasperato del centro storico a fini turistici: dallo stop al passaggio della tramvia dal centro storico a favore della rendita di posizione dei negozi (molti di infima qualità) fino all’investimento sui dehors, dall’aumento delle licenze di somministrazione alimentare (il “mangificio”, come viene volgarmente chiamato, che prima si è facilitato in tutti i modi e che ora si pretenderebbe, invano, di contenere) fino all’eventismo tutto concentrato nel centro storico (fino all’ultima, esiziale e senza alcun valore aggiunto, trovata dell’arena del cinema all’aperto nel cortile degli Uffizi). Purtroppo, in questo quadro, diventa poco efficace anche il Piano di valorizzazione del centro storico sito UNESCO, sia perché strumento debole amministrativamente rispetto alla forza dei fenomeni che intende contenere, ma anche perché non concepito come uno strumento di una strategia che riguarda l’intera città. La sua condizione di “norma speciale” avrebbe potuto farne un pivot per una diversa idea del centro storico dell’intera amministrazione, ma così non è stato. Così, purtroppo, oggi Firenze – come altre città storiche e d’arte – è prigioniera di questo turismo, il quale ne condiziona
del turismo globale
complessivamente (cioè, oltre il centro storico) la vita. Il turismo globale è una straordinaria forza omologatrice, che tende a manifestarsi con le stesse modalità, finanche con le stesse forme, in tutto il mondo: da San Pietroburgo a Roma (dove le damine del ‘700 che ti propongono una foto insieme equivalgono ai centurioni romani), da Toledo a Venezia. Assistiamo, ovunque, ad una progressiva “espulsione” degli “indigeni” da questi centri, le cui abitazioni diventano sempre più fonte di ricavi per i loro proprietari attraverso piattaforme informatiche (da AirB&B a Wimdu, da VRBO a OnlyApartments). Naturalmente, a questa produzione di reddito, fa riscontro un mancato ricavo per le autorità cittadine (dal momento che è elusa la tassa di soggiorno) e una riduzione di reddito per Agenzie di viaggio e intermediari fisici. I posti di lavoro che il turismo globale produce sono, per la gran parte, poco qualificati e ovviamente scarsamente tutelati: anche qui vi è un problema di qualità. Al turismo globale sono legati di solito mezzi e infrastrutture di trasporto inquinanti, come i bus turistici e i voli low-cost, che hanno sostenuto (o indotto) una accresciuta domanda di mobilità, che però richiedono consumo di suolo e di carburanti in una quantità finora sconosciuta. Insomma, tutti output poco desiderabili, ma inesorabilmente legati a questo tipo di turismo. Un processo di “gentrification”, in cui i centri storici si svuotano di residenti (sempre più spinti verso la periferia) e diventano “vetrine” per il turismo di massa. A Firenze quasi il 20% delle case nel perimetro delle mura è disponibile su AirB&B, piattaforma che – come indica www.insideairbnb.com – produce una concentrazione di ricchezza proveniente dalla rendita immobiliare anziché distribuirla (a Firenze l’incasso medio degli oltre 8 mila host è stato di 6.500 €, secondo i dati della stessa AirB&B, e uno di loro è arrivato da solo a 700 mila €). E’ la fine dell’urbanistica, intesa come programmazione da parte dell’ente pubblico del territorio in vista dell’interesse generale. E’ possibile combattere questa deriva? E, qualora lo si volesse, con quali strumenti? Qualcuno lo sta facendo e si trova in plaza de San Jaime in Barcellona, dove ha sede la Casa della Ciudad, l’Ayuntamiento e l’alcalde Ada Colau. In molte città spagnole e a Barcellona in particolare l’insofferenza verso il turismo
di massa ha raggiunto il limite e ha dato vita addirittura a manifestazioni popolari di rigetto. Dopo gli anni della tumultuosa crescita turistica (a Barcellona per effetto delle Olimpiadi del 1992), si sta diffondendo la convinzione che questo tipo di turismo alimenti un modello di città fondato su uno sviluppo squilibrato territorialmente e socialmente. In primo luogo sul fronte del lavoro, con salari bassi e servizi a bassa crescita di produttività; un depauperamento della qualità della vita in alcuni quartieri (Ramblas e Barceloneta in particolare, con lo sviluppo della “movida”); la saturazione degli spazi pubblici dedicati solo all’offerta commerciale; soprattutto la questione della casa (la crisi economica ha indotto un notevole trasferimento delle case dalle famiglie alle banche e la crescita del turismo ha portato alla mobilità forzata di molti abitanti verso quartieri più periferici a causa dell’aumento dei canoni: nel Barrio Gotico i prezzi a mq. sono aumentati dal 2012 del 67% e la popolazione residente è scesa dell’8%). A Barcellona nel 1991 i turisti erano circa un milione; oggi se ne stimano circa 25 milioni l’anno a fronte di una popolazione residente di 1,6 milioni. Sempre nel 2016 l’offerta di appartamenti turistici ha quasi raggiunto quella degli alberghi (69.000 posti letto contro gli 82.000 in albergo), concentrandosi perlopiù nel centro storico, dove la popolazione residente è in continuo calo. A Barcellona il movimento per la casa ha contribuito non poco al successo elettorale di Ada Colau (che era portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca, Piattaforma vittime dei mutui) e lei ha affrontato il problema del turismo che è avvertito, secondo recenti sondaggi, come il primo problema da parte dei cittadini di Barcellona, anche prima della disoccupazione. E cosa ha fatto nei primi due anni di governo Ada Colau? Intanto una politica di acquisto e realizzazione di nuove case popolari per ripopolare il centro, l’acquisto da parte del Comune di edifici che stavano per essere comprati da fondi speculativi, multe alle banche che non sbloccavano i loro appartamenti sfitti, finanziamenti per la ristrutturazione di case con l’obbligo di non espellere per almeno un biennio gli inquilini. Ma, soprattutto, ha approvato un Plan Especial Urbanistico de Alojamiento Turistico per regolamentare gli alloggi turistici gestiti soprattutto da piattaforme come AirB&B. L’obiettivo dichiarato del Piano è
quello di decongestionare la zona centrale. In questa Zona 1, il Piano vieta di concedere nuove licenze per appartamenti turistici nonché di rinnovare quelle scadute. Nella Zona 2, adiacente al centro si concedono licenze solo se il rapporto complessivo degli appartamenti per residenti con quelli turistici di un isolato è inferiore all’1,48%. Solo nella terza e quarta zona, più lontane dal centro, si possono ottenere nuove licenze. Poi la Colau ha aumentato la tassa turistica anche per chi alloggia in appartamenti turistici da 0,65 a 2,25 € per notte. Ma soprattutto ha multato AirB&B per 600.000 € (anche se la società americana aveva già ignorato due precedenti multe da 30.000 €). E’ importante ricordare che altri portali on line, come Homeaway e Nine Flats (già multati dal Comune di Barcellona) abbiano deciso di adeguarsi alla legge in vigore nella città. Il caso di Barcellona dimostra non solo che la politica può, se vuole, mettere in campo degli strumenti per governare (o tentare di farlo) il fenomeno globale del turismo, ma anche che si può (anzi, si deve) inserire questo tentativo in un progetto di governo urbanistico e sociale della città nel suo complesso. La Colau ha posto, infatti, a base del suo Piano quattro pilastri: alleviare la pressione turistica su alcune aree della città, rispondere alla domanda dei cittadini di ridurre gli impatti negativi del turismo, riequilibrare e diversificare le funzioni per rendere compatibile il turismo con le altre attività della città, garantire il diritto alla residenza e alla qualità della vita nella città. Quello della Colau a noi sembra un esempio da seguire. Di recente il sindaco Nardella ha siglato un accordo con AirB&B che, da quanto si sa, avrà come caposaldo l’instaurazione di un meccanismo di riscossione automatica della tassa di soggiorno dagli host di AirB&B, nonché l’aiuto di AirB&B nei confronti “degli host a capire come rispettare le regole nazionali e locali per affittare la propria abitazione in modo legale.”. E’ certamente un passo avanti da apprezzare, purchè lo si concepisca come un passo di un percorso concreto e parte di un progetto complessivo nuovo di città da parte dell’Amministrazione Comunale, che ancora non vediamo. Intanto, ci basti segnalare che Ada Colau non si è limitata ad auspicare che AirB&B aiuti i suoi host a capire che... bisogna pagare le tasse e dunque agire legalmente, ma ha costituito un’unità di ispettori – i vigiladores – composto da 40 persone che si occupano di localizzare gli appartamenti turistici senza licenza ed intervenire di conseguenza. Ora, a Firenze, chi e come vigilerà che gli host di AirB&B abbiano davvero capito come fare a pagare la tassa di soggiorno? Il dibattito è aperto.
25 24 LUGLIO 2017