Cultura commestibile 225

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Numero

8 luglio 2017

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I vangeli secondo i Matteo

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Siamo sempre un po’ ai margini del Downtown e questa donna dall’aria pensierosa e con gli occhi quasi socchiusi era una fioraia ambulante che passeggiava lungo il marciapiede in attesa che qualcuno decidesse di acquistare i suoi fiori. L’ho seguita per un po’ e mi sono chiesto come mai continuave a camminare invece di sedersi a qualche incrocio dove forse avrebbe fatto migliori affari e con minor fatica. Dopo il primo isolato, senza che la signora avesse venduto alcunché, mi sono rassegnato e ho deciso di concludere così questo nostro fugace incontro.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

8 luglio 2017

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Riunione di famiglia Non aprite quella porta Le Sorelle Marx

Demolitinion man Lo Zio di Trotzky

Ransie la strega I Cugini Engels

In questo numero Cultura contro terrore Pareri a confronto

Il monastero di Stanfadi di Mariangela Arnavas

Gang bank di Sara Nocentini

Il corpo come linguaggio di Danilo Cecchi

Una lezione di governo stando all’opposizione di Luigi Sbolci

Shakespeare in Florence di Simone Siliani

Senso Comune e il populismo democratico di Domenico Villano

Lee Ungno al Museo del banchiere milanese-parigino di Simonetta Zanuccoli

Piazza dei Rossi pochi metri quadri per 15 secoli di storia (1a parte) di M. Cristina François

Un tunnel per il comune senso del pudore di Angela Rosi

Mappe di percezione di Andrea Ponsi

e Massimo Cavezzali, Aldo Frangioni, Lido Contemori, Roberto Giacinti , Melia Seth, Valentino Moradei Gabrielli...

premio letterario

PRIMA EDIZIONE 2017

Direttore Simone Siliani

Il racconto Trattoria “Da Isidoro” è a pagina 16 Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


Cultura contro terrore

Un sogno realizzabile: rispondere alla cultura della morte con quella del fare. Insieme si può. Manca poco meno di un anno al 27 maggio 2018, giorno del 25° anniversario della Strage dei Georgofili. Gallerie degli Uffizi, Corriere Fiorentino e Banca Federico Del Vecchio - Gruppo Ubi Banca, lanciano una campagna di crowdfunding, con l’obiettivo di riportare, per quella data, l’olio su tela “I giocatori di carte” di Bartolomeo Manfredi esattamente dove si trovava la notte del 27 maggio del 1993 prima dell’esplosione della bomba mafiosa che lo avrebbe ridotto in minuscoli pezzi. Per finanziarne il restauro, che sarà curato da Daniela Lippi, occorrono 22 mila 212 euro. Alla raccolta di fondi, che parte con una donazione di 1.000 euro della Banca Federico Del Vecchio (l’Istituto si assumerà anche l’onere dei costi di gestione del conto corrente) si potrà partecipare facendo una donazione sul conto corrente di Banca Federico Del Vecchio-gruppo Ubi banca, codice Iban IT57 T032 5302 8010 0000 0123 456, prendendo parte alla cena di gala organizzata a Palazzo Pitti il 20 luglio prossimo e ai vari eventi che saranno realizzati per illustrare i progressi del restauro seguiti passo passo dal Corriere Fiorentino. “In occasione della ricorrenza della strage di via de’ Georgofili, lo scorso 27 maggio - ha detto il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt - abbiamo ricordato che la mafia, oltre ad aver provocato la morte di 5 persone, vittime innocenti e indimenticabili, ha causato gravi danni al nostro patrimonio artistico e culturale. Adesso, dopo la constatazione iniziale della perdita di tre opere e i restauri di altre effettuati negli anni successivi all’attentato, si offre l’opportunità di poter restituire alla fruizione dei fiorentini e dei visitatori anche una tela di Bartolomeo Manfredi creduta in precedenza quasi irrecuperabile. Il lavoro di restauro previsto sarà molto difficile e non cancellerà del tutto le tracce dell’ attentato che rimarranno come cicatrici indelebili di un atto vile contro la vita umana e contro la cultura e il patrimonio di un’intera comunità. Sarebbe per me un vero piacere poter presentare il capolavoro di Manfredi riportato al godimento del pubblico in occasione del 25° anniversario della strage, quale segno tangibile della cultura che, seppur colpita, riesce sempre a vincere sul male, grazie

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allo sforzo e all’impegno comune.” “Con il recupero di questa opera - ha detto il direttore del Corriere Fiorentino Paolo Ermini - il giornale non vuole solo dare il suo contributo alla ricucitura di una grave ferita inferta al patrimonio artistico della città ad opera della criminalità mafiosa. L’intento è quello di fissare nella memoria di Firenze, attraverso la rinascita di un capolavoro offeso, la memoria di una pagina sconvolgente. La memoria di chi perse la propria vita, innanzitutto; e poi la memoria di quel moto di ribellione civile che portò tanti fiorentini a stringersi sotto Palazzo Vecchio alle vittime dell’attentato e alle istituzioni. È la bellezza dell’arte che simbolicamente può coprire l’orrore del terrorismo e della violenza”. “In quanto azienda fiorentina – ha concluso Aldo Calvani, direttore Generale Banca Federico Del Vecchio – siamo lieti di un progetto che contribuisce a tenere alta l’immagine della città e siamo orgogliosi di averlo promosso con le Gallerie degli Uffizi. Recu-

perare un’opera d’arte è un gesto importante per cittadini e visitatori, perché tutela la memoria e la proietta nel futuro. Lo è in particolare in questo caso, poiché testimonia il recupero della normalità per una città segnata dall’insensato atto terroristico di 25 anni fa”. Per procedere con il restauro Daniela Lippi farà uno studio preliminare dello stato in cui si trova oggi l’opera (divisa in centinaia di piccoli frammenti tenuti insieme da una velinatura giustapposta già nel 1993) e lo metterà a confronto con la ricostruzione virtuale della sua forma originaria grazie all’utilizzo dell’immagine in alta definizione del quadro così com’era prima dell’esplosione, concessa dall’Archivio fotografico Scala, agente ufficiale dei maggiori musei del mondo, realtà fiorentina nota per l’altissima qualità e la fedeltà cromatica dei suoi scatti d’arte. Oltre alla collaborazione di Scala Group, il progetto di crowdfunding e restauro si avvale della collaborazione di Once Extraordinary Events.


Questione di recupero, no di rianimazione di Gianni Biagi

© 2017. Foto Scala, Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo

Qualche giorno fa si è avuta notizia che è aperta una sottoscrizione pubblica per finanziare l’intervento per riportare in vita “I giocatori di carte” di Bartolomeo Manfredi, opera che fu distrutta dalla bomba che mani mafiose misero in via dei Georgofili il 27 maggio del 1993. Intervento meritevole si dirà. Forse, diciamo noi. Perché il sentire comune e le valutazioni degli esperti davano quest’opera come distrutta e anche il direttore delle “Gallerie degli Uffizi” nella sua presentazione dell’iniziativa parla di un’opera che era “creduta in precedenza quasi irrecuperabile”. Ora noi speriamo davvero che i 24 anni passati dall’esplosione che alle 1,03 di una fresca notte di primavera uccise cinque persone e devastò l’ala occidentale della Galleria abbiamo portato nuove scoperte e nuove tecniche di restauro che consentano di “riportare alla vita” quest’opera. Ma ci permettiamo di dubitarne. Le condizioni fisiche dell’opera non consentiranno di “riportarla in vita” a meno che non si facciano pesantissimi interventi di reintegrazione delle lacune dove il colore originale è definitivamente perso. Molto più probabilmente si tratterà allora di intervenire nello stesso modo con il quale

è stata “recuperata” molti anni prima la tela di Gherardo delle Notti “L’adorazione dei pastori”, anch’ essa distrutta dall’esplosione. Un recupero che lascia volutamente alla vista dello spettatore il dramma delle lacune di colore e della “illeggibilità” di gran parte dell’opera. Un’opera che fu esposta, insieme ad altre, nel 2003 a Santo Stefano di Sessanio nell’ambito delle iniziative “La città degli Uffizi” Le due tele a nostro parere dovrebbero, dopo essere state “recuperate” e non “riportate in vita”, essere esposte permanentemente all’inizio della Galleria a ricordo della strage mafiosa e a monito della fragilità del nostro patrimonio culturale. Una presenza fissa e che inquieti il visitatore. L’opera d’arte offesa a ricordo dei morti che non possono tornare in vita. Questo dovrebbe essere lo spirito che anima chi voglia avvicinarsi al recupero di queste opere d’arte distrutte dal terrore mafioso. Non altre valutazioni di convenienza e di immagine. Solo con questo spirito anche l’irrisorio contributo che la Banca Federico Del Vecchio mette a disposizione dell’iniziativa -1000 euro sui 22.000 necessari, ma il comunicato precisa che la Banca si accollerà anche i costi di gestione del conto corrente- ( sic!) potrebbe essere letto come una buona notizia.

La questione bancaria Il sistema bancario italiano è sottoposto a forti stress. Il povero Padoan non ripara: mette una toppa al Monte dei Paschi e gli si aprono le voragini ad Arezzo, Ferrara e Chieti; ripara lì e deve correre in Veneto. Quel ch’è certo è che ogni intervento costa al bilancio pubblico diversi miliardi di euro. Accanto a questa certezza, vi è l’altra: paghiamo noi tutti (the many) non i manager delle banche in crisi (the few). Ora, se non altro per questo, la Banca Del Vecchio poteva mostrare un filino di coraggio in più. Va bene che si comprano 2 banche (se venete) al costo di un caffè; va bene che con la Nuova Banca Etruria spa, la Del Vecchio è entrata nel gruppone Uni Banca e quindi la storica banca fiorentina non conta più una cippa; però se ce

lo dicevano che erano in difficoltà uno sponsor da 1.000 euro lo si poteva trovare! Forse anche il trippaio di piazza dei Cimatori per restaurare un quadro degli Uffizi danneggiato dalla bomba del 1993, 1.000 euro li devolveva volentieri. Magari non avrebbe gestito il conto corrente su cui gireranno diverse migliaia di euro necessari per l’operazione (come invece farà l’ineffabile Del Vecchio, recuperando così un po’ dell’ingente somma donata), però avrebbe offerto lampredotto e bollito in abbondanza al buffet di presentazione del restauro. Alla quale non sarebbe mancato il presidente del consiglio regionale Eugenio Giani: pregevole iniziativa! Insomma una pasticciata operazione d’immagine. Ma noi non ce l’abbiamo solo con la

banca, che pure avrebbe fatto migliore figura ad offrire un contributo dignitoso oppure astenersi, ma con gli organi della tutela che si prestano ad una operazione di così basso profilo culturale e sicuro significato commerciale. Insomma, possiamo capire che per cinque minuti di notorietà mediatica oggi si è disposti quasi a tutto, ma diamoci un limite! Il mecenatismo è certamente una cosa positiva, ma deve esserci una giusta proporzione nelle cose: se una banca che fa un utile netto di quasi 6 milioni di euro nel 2016 e che annovera nel suo CdA intellettuali del calibro di Cristina Acidini e Cosimo Ceccuti, non riesce a stanziare più di 1.000 euro per un intervento di restauro, qualche dubbio può legittimamente essere sollevato. O no?

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Le Sorelle Marx

Non aprite quella porta

Palazzo Vecchio, Quartieri di Eleonora, mercoledì 5 luglio, giornata “storica”. “Toc, toc” “Ki è?” “Sono Dario, Eike. Posso entrare? Ho qui una sorpresa incredibile per lei: Dario” “Ma Dario ki? Mi prendi per il kulo? Dario con sorpresa Dario? Che kavolo di sorpresa è qvesta?!” “Ma no, Eike, sono Dario Nardella... il suo vicino di casa... il sindaco di Firenze. E ho qui con me il Ministro della Cultura Dario Franceschini” “Sì, e io sono Napoleone! Ma ke skerzo è qvesto?” Il Ministro spazientito, sbotta: “Senti, dannato tedesco, apri ‘sto cavolo di porta e fai meno storie, ché altrimenti chiamo quelli del TAR e ti faccio cacciare a pedate dal suolo patrio e te ne torni nella tua Pomerania a mangiare crauti e wurstel!!!”

I Cugini Engels

Ransie la strega 1a puntata

Alla fine degli anni ‘80 andò in onda anche in Italia uno dei tanti cartoni animati giapponesi, basato sul manga “Batticuore notturno” di Koi Ikeno. Pochi lo ricordano perché surclassato dai più noti Capitan Harlock, Daitarn 3 o Dragonball. Ma si dovrebbe rivalutare oggi questo capolavoro assoluto della cinematografia d’animazione mondiale, se non altro in quanto esso prende in realtà ispirazione da personaggi politici italiani che avrebbero in seguito conosciuto un certo successo. Il titolo della serie era Ransie (che si pronuncia Renzi) la strega. La giovani Ransie (che ha una impressionante somiglianza con l’allora adolescente Debora Serracchiani) non vive in una famiglia molto normale: la mamma è una mannara, Shiira Lupescu, e il padre, Boris Lupescu, è un vampiro. Ma, in realtà,

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“Ah Scheiße! Mi skusi signor Ministro, ero impegnato a pulire e spostare la scrivania per farvi entrare. Ecco, si akomodi, anke lei signor sindaco. Volete un kaffè?” “No, Eike, siamo qui per un risultato storico: riapriamo ‘sta porta fra Uffizi e Palazzo Vecchio e d’ora in poi mettiamo un biglietto unico a 27 €, così anche noi del Comune ci prendiamo una parte del malloppo” “Ah, va bene. Prego passiamo da questo corridoio... ora faremo pulire e togliere le ragnatele... questa è la mia scrivania d’appoggio quando voglio stare in pace a meditare sul mondo e sull’arte, ma la faccio spostare subito... poi faccio mettere una lampada alogena, perché è un po’ buio... magari anche una pianta verde?...” “Va bene, direttore, faccia lei... Accipicchia, ho dimenticato il mio cellulare in sala di Clemente VII: torno indietro a prenderlo...” “Eh no, karo sindako: il percorso si fa solo

Boris altri non è che Dario Parrini (come le foto inequivocabilmente dimostrano). Oddio, neanche Ransie è proprio proprio normale: se morde qualcosa o qualcuno si trasforma nel morsicato, ma al primo starnuto ritorna se stessa. Debora Ransie si innamora di un ragazzo normale, Paul Bonifazi, che però è insidiato da Lisa Thompson, il cui padre Thomas è il massiccio capo della yacuza. Boris Parrini vorrebbe che Debora Ransie si sposasse con persone del suo mondo, cioè mostri. Per questo si rivolge a D’Alem Satan perché conceda in sposo il suo primogenito alla bella Ransie. Boris è un esperto di intrighi, strategie e... sistemi elettorali. Riuscirà a combinare questo orrido matrimonio contro la volontà della bella Ransie? Lo scopriremo nelle prossime puntate...

da Palazzo Vecchio verso gli Uffizi, non all’inverso. Se vuole tornare al suo ufficio, si fa tutta la Galleria, esce in piazza e rientra in Palazzo Vecchio: mi dispiace, ma kveste sono le regole della visita!” “Ma scusa, Eike, non si potrebbe fare un’eccezione? Come faccio a fare il selfie con Dario senza il mio cellulare...” “Niente eccezioni! Qvesta è mentalità da italiano! In Europa e in Tedeskia, niente eccezioni: le regole sono regole! Faccia il giro, l’aspettiamo qui! Intanto io parlo con il Ministro” “Va bene, uffa... posso portare anche il mio violino?” Restano a confabulare Eike Schmidt e Dario Franceschini. “Senta signor Ministro, ma quello è veramente un Dummkopf! Sempre con qvesto violino! Non kapisce niente! Ma qvando se ne va? “Tranquillo direttore, appena si vota quel c... di Renzi se lo riporta a Roma e smette di far danni a Firenze. Intanto, godiamoci questo risultato storico, prima che torni quel cretino”


Nel migliore dei Lidi possibili

La gloriosa Austria Felix mostra i muscoli

Lo Zio di Trotzky Demolition man Il sindaco Nardella non cessa di stupirci: noto per il suo tocco gentile da violinista, ha voluto mostrare il volto rude, maschio anzi macho. Così si è presentato in versione Demolition Man, mazza in mano, pronto a spaccare tutto, come mai prima era accaduto. Altro che rottamazione renziana: l’allievo ha superato il maestro! “Cominciano le operazioni di demolizione”, ha programmaticamente dichiarato. Lui voleva solo abbattere un immobile occupato abusivamente, ma ha ricevuto subito la telefonata di Renzi: “Icché tu fai, grullino? Demolizione? Sì, certo, non bastava quell’imbecille di Franceschini a volermi fare le scarpe; ora arriva anche Darietto da Firenze a demolire! Ora, sai cosa, Dario dei miei stivali? Tu prendi quella mazza e la riporti a Palazzo Vecchio, buono e calmo. Chiaro?!”. Nardella ci è rimasto male. L’hanno visto allontanarsi, fischiettando e cantando, per non dare nell’occhio: “macho, macho man....

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Segnali di fumo di Remo Fattorini Un futuro senza lavoro si aggira intorno a noi. Quello che sta avvenendo non assomiglia un granché a quell’idea di progresso intesa come un processo di avanzamento. Ciò che avviene è molto distante dallo sviluppo verso forme di vita più elevate, in grado di procurare all’umanità un miglioramento del benessere. Insomma quel passaggio, graduale ma continuo, dal bene al meglio. In realtà lo scenario che si sta preparando, nell’indifferenza della politica nostrana e non solo, si muove in ben altra direzione. Ba-

sti pensare – cito l’ultimo rapporto McKinsey – che il 49% delle attività umane è già soggetta a qualche forma di automazione. Tradotto, significa che nel mondo è possibile sostituire, già oggi, 1,2 miliardi di lavoratori con robot, algoritmi, intelligenza artificiale. La maggior parte di questi, ben 700 milioni di posti di lavoro, riguardano i paesi asiatici. Ma il fenomeno colpirà anche l’Europa. Sempre McKinsey ha calcolato che solo in Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito, salteranno 54 milioni di impieghi a tempo pieno. Una vera e propria rivoluzione che investirà l’intero mondo del lavoro. Qui sta la novità: le tecnologie distruggono più posti di quanti ne creano. Non solo. Per la prima volta interesserà tutte le professioni, manuali e intellettuali, compreso quelle legate all’azione del pensiero: come i medici, insegnati, giornalisti, avvocati, analisti, impiegati di banca e così via. In Germania stanno già lavorando ad un codice per definire i principi irrinunciabili ai quali

i tecnici dovranno attenersi nel programmare le automobili guidate dai robot. Per non parlare dell’ultima frontiera della robotica, quella sessuale. Robot come veri e propri partner, in grado di soddisfare esigenze e fantasie sessuali di uomini e donne, sono già in commercio al costo di 5.250 euro. Non è forse questo il tema dei temi, di cui la politica dovrebbe occuparsi giorno e notte? Non tanto per bloccare questa trasformazione. Il vento, infatti, non si ferma con le mani. Ma per trovare in tempo utile antidoti, soluzioni e regole in grado di non farci travolgere. Curiosità: sempre secondo il rapporto McKinsey a salvarsi sarebbero solo poche attività, quelle non ancora automatizzabili. Al primo posto tra queste professioni non a rischio ci sarebbe c’è proprio lei, la politica. Qui anche i robot alzano le braccia e si arrendono, lasciando campo libero agli umanoidi. Viene il sospetto che l’attuale colpevole disinteresse nasca proprio dalla certezza che la loro poltrona, per ora, non sarà messa in discussione.

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Un tunnel per il comune senso del pudore

di Angela Rosi La porta della galleria Tornabuoni di Firenze è diventata un “buco” da dove guardare “Il comune senso del pudore” mostra personale di David Pompili. Si entra in galleria attraverso un tunnel di immagini che per un attimo ci disorientano, le pareti ed il soffitto sono ricoperte interamente dalle opere dell’artista. Pompili mette in gioco ed in evidenza tutto ciò che è comune senso del pudore e che si può sbirciare da un foro, come quello dell’installazione al centro della galleria che guarda un video sulle case chiuse. Il foro diventa il nostro e l’altrui occhio in una società nella quale siamo contemporaneamente guardati e guardoni. In ogni momento della nostra vita tutto di noi può essere visibile in tempo reale, controlliamo e siano controllati con una nuova moderna “censura”. Addentrandosi nel cunicolo e uscendone abbiamo l’impressione di essere noi stessi comune senso del pudore perché avvertiamo che non c’è un vero e proprio confine tra noi spettatori e la mostra. Il senso del pudore è innato e personale, riguarda il corpo fisico e la nostra interiorità, è anche il senso di rispetto per sé e per gli altri che dovrebbe far agire in modo corretto e decoroso. La collettività lo definisce in schemi ben precisi ed è subordinato a cambiamenti sociali. David Pompili con le sue opere parla di questo e se ritagliamo e apriamo quel buco limitato dalla forbice della censura, l’artista dedica la sua ultima mostra-installazione a Pasolini, Salò e la censura, ci immergiamo in immagini più disparate di pubblicità, strappi di manifesti, scritte, personaggi del mondo del cinema, arte e musica e in mezzo a tutto ciò il volto di Pasolini, a lato la scritta TU, che ci indica. TU, chi noi spettatori? Si proprio noi, che ci vuole dire? Ci chiede il nostro ruolo in questa società? Quel TU ci scuote e immobilizza al contempo. Il gesto di Pasolini è chiaro e diretto, ci fa prendere coscienza di noi stessi di fronte all’opera e le domande sorgono spontanee: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Le stesse domande che Paul Gauguin si chiese nel 1897 con il quadro “Da

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dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” Il contesto è diverso, la società è cambiata, la tecnica non è pittura ad olio, il supporto non è tela ma le domande sono le stesse. Le opere dell’artista ci specchiano e ci conducono a riflettere su noi stessi e sulla società attuale. David Pompili lavora con materiale povero, cartoni ondulati come supporto e poi collage di immagini pubblicitarie e manifesti strappati e incollati, il

colore è sgocciolato e le brevi scritte, alle volte solo una parola, sembrano enigmi illuminanti perché sono dardi che ci feriscono aprendoci a squarci di consapevolezza.“Il comune senso del pudore” è una mostra che colpisce per la sua densità e denuncia sociale fatta attraverso icone e apre quel cerchio chiuso dalla censura perché è difficile censurare ciò che l’uomo stesso produce nel proprio intimo.


di Sara Nocentini Commentare il primo libro scritto da Gianluigi Paragone non è un’impresa facile. L’autore ha uno stile rapido, accattivante, capace di coinvolgere il lettore fin dalle prime battute, solleticando una diffusa sfiducia nelle istituzioni e trasformando (ovviamente intenzionalmente) alcuni aspetti della grande crisi politica ed economica che stiamo vivendo in un’appassionante intreccio di uomini e poteri da portare tranquillamente sotto l’ombrellone. Il titolo è provocatorio: Gang Bank, traducibile come l’orgia delle banche; il sottotitolo è indisponente: “Il perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita”. L’incipit inneggia all’antipolitica (“Perché non sopportiamo più i politici? Perché ci rubano lo stipendio”) e la chiusura apre a ipotesi nazionaliste tendenzialmente xenofobe. Nonostante queste premesse il volume offre spunti di riflessione interessanti su fatti, dinamiche ed equilibri che da tempo catturano l’attenzione di minoranze critiche e intellettuali, di attivisti e militanti, ma che faticano ad imporsi ad un grande pubblico. In questa impresa potrebbe invece riuscire il libro di Paragone (e lo spettacolo che da questo trae ispirazione) che da buon conoscitore delle tecniche di comunicazione, è capace di instaurare un rapporto diretto con il lettore, lo chiama in causa, si schiera dalla sua parte, fa intravedere una linea di separazione tra buoni e cattivi. Il tema di fondo è, per dirla con Luciano Gallino, ampiamente citato nel testo, il finanzcapitalismo, la mega macchina che macina soldi, distrugge diritti e welfare ed erode l’autonomia politica degli stati in nome di profitti sempre più concentrati, realizzati sul mercato globale della finanza da banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi comuni, con la compiacenza di uomini chiave nelle politiche nazionali, spesso consulenti tanto di governi quanto di grandi gruppi finanziari. Paragone denuncia la sproporzione tra i flussi dell’economia reale e quelli dell’economia finanziaria, la mancata difesa del risparmio privato dalle speculazioni finanziarie e le privatizzazioni che, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, hanno di fatto trasformato quest’ultimo in debito privato, soggetto alle condizioni del mercato creditizio, ostaggio di grandi interessi finanziari. Critica la retorica contro il posto fisso, contro il lavoro sicuro in senso ampio, finalizzata solo a giustificare l’attacco ai diritti del lavoro, ai principi democratici di uguaglianza ed emancipazione contenuti nella Costituzione e in ultimo, l’attacco stesso alla Costituzione. Nonostante le molte colpe che Paragone attri-

Gang bank buisce alla politica, dichiara infatti di aver votato contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi per la fiducia che ha nella politica e per le istituzioni. Quale possa essere però questa politica e con quale disegno progettuale non emerge dal libro. Paragone tende a soffermarsi su singole storie di uomini e (poche) donne della politica italiana ed europea denunciandone l’accettazione supina dei desiderata della finanza; non cita, neppure di sfuggita, i partiti politici quali soggetti protagonisti, oltre la risultante si singoli punti di vista e gruppi di interesse, evoca la necessità di trasparenza e competenza al servizio della politica, come se la selezione della classe dirigente in corso soffrisse di qualche difetto di funzionamento anziché rispondere a precisi obiettivi

SCavez zacollo

economici e sociali. Manca dunque un progetto politico da affiancare alla critica al sistema economico, politico e sociale prevalente in occidente, per molti aspetti condivisibile, al punto che l’evocazione di uno stato (regolatore e attore politico) forte e di una politica come risultante di contributi individuali può offrire l’appiglio a derive nazionaliste, autoritarie, xenofobe perfettamente conciliabili con la lettura critica iniziale. E’ un tema quest’ultimo di grande delicatezza e di non facile soluzione a sinistra. La battaglia referendaria per l’acqua pubblica che ha visto 27 milioni di elettori esprimersi contro le privatizzazione, il risultato referendario contro la riforma della Costituzione e altri temi, ad esempio la crescente ostilità verso l’Europa dei mercati, vedono costruirsi un fronte critico estremamente eterogeneo. Se la sinistra non riuscirà a ritrovare i luoghi e le forme di elaborazione che favoriscano l’inclusione sociale e la redistribuzione delle risorse (monetarie e naturali) del pianeta, le soluzioni di destra sembreranno più semplici, di rottura e, purtroppo, vincenti.

disegno di Massimo Cavezzali

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di Andrea Ponsi Prosegue la pubblicazione di una serie di brevi racconti di Andrea Ponsi tratti da una raccolta uscita negli Stati Uniti dal titolo Florence-a Map of Perceptions(University of Virginia Press, 2010). Gli scritti, affiancati a disegni ed acquarelli dell’autore, si concentrano sugli aspetti percettivi e sensoriali del paesaggio urbano alternando riflessioni estemporanee di tipo diaristico a considerazioni più generali sulla struttura fisica e concettuale della città. Piazza della Repubblica

Il centro di Firenze è come il torso di un corpo umano. Secondo questa analogia di anatomia urbana la piazza del Duomo corrisponde al cuore, centro dell’anima, dello spirito, della linfa vitale. Come un cuore la sua cupola rossa pulsa di vita. La testa è Piazza Signoria: razionale nella chiara geometria degli Uffizi, ambiziosa e potente nella mole rocciosa del Palazzo Vecchio e della sua torre. La pancia è l’attuale Piazza della Repubblica. Uno spazio dedicato al commercio, impregnato dell’aroma delle pasticcerie, dei caffè ottocenteschi, del gelato attuale. Un luogo che era pancia anche prima degli sventramenti di fine Ottocento: il posto dedicato alla carne, agli ortaggi, alla “loggia del pesce”. Il Mercato Vecchio, unto, sporco, vitale di odori fu distrutto e “ a vita nuova restituito” dotandolo di un nuovo menù, nuova tovaglia, bicchieri in cristallo e centrotavola con monarca a cavallo. Quel Re per una colpa non sua fu poi trasferito alle Cascine. La Piazza , o meglio, la tavola, al centro ora è vuota; si sente che manca un oggetto all’Altezza. La loggia del Mercato Nuovo

Stanno smontando le bancarelle su ruote che per l’intera giornata hanno riempito in un mercato rumoroso e scomposto lo spazio coperto della “ loggia del porcellino”; Mercato Nuovo, il suo vero nome. Il soffitto si rivela in tutta la sua ampiezza: un cielo di volte a “vela” che come nuvole bianche stanno sospese su una foresta di alberi in pietra serena. Poco alla volta , tra lo sferragliare dei telai ripiegati, lo stridio dei carrelli, lo sbattimento di tavole, le voci e le urla degli uomini che trascinano via questa carovana in qualche vicino garage, riappare il suolo levigato della grande loggia. Riappare la piazza coperta, i piccioni di nuovo si aggirano a passetti scattanti alla ricerca di briciole o pezzi di cono gelato. La loggia-palazzo-piazza-foresta-cielo solcato da dodici nuvole gonfie di nuovo re-

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spira, libera, silenziosa, levigata, pronta a ospitare la notte e quei pochi passanti che , camminando ai suoi lati, le offriranno uno sguardo ammirato. Piazza Santissima Annunziata

Come in un gioco vedo intrecciarsi sulla piazza una geometria di linee. Dello scooter che, sordo ai divieti, la taglia in diagonale. Dell’uomo col cappello che cammina in compagnia della sua ombra. Del piccione aereodinamico. Della lenta, solitaria, nuvola bianca. Degli sguardi tra studenti sulle scale. Non esistono reticoli reali ma intravedo una scacchiera potenziale implicata dal ritmo delle logge, dai quadrati verticali che hanno per lati le colonne. Le persone sono i fanti, gli alfieri le fontane, il re il principe a cavallo.

Mappe di percezione

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Piazza Signoria

Ora è solo una copia in formato reale, un uomo insieme a venti, trenta altri uomini e donne fermati nel marmo e nel bronzo. Nel 500’, quando fu posto in Piazza della Signoria , il David, autentico, era l’unico essere umano accanto ai leoni scolpiti della loggia dei Lanzi. Ora è uno dei tanti giganti: come il Nettuno un po’ bolso, come Ercole e Caco o come i gruppi impegnati in battaglie e disposti a misurate distanze gli uni dagli altri. Corpi bianchi come la pelle della Sabina rapita o polverosi di smog dei guerrieri che lottavano nella polvere vera. Corpi verdi di bronzo come quelli delle ninfe lascive della fontana, del Perseo o del Principe sull’enorme cavallo . Giù in basso, sul selciato della piazza, centinaia di corpi si muovono, camminano, si accovacciano a terra per scrutare mappe turistiche , si accalcano attorno alla guida che indica e spiega con l’altoparlante. Corpi vestiti di blue jeans azzurri, “t”shirt rosse, borse arlecchino, cintole, maglie. I giapponesi, perfino protetti dal sole da ombrellini colorati. Tutto si muove, ondeggia; capelli biondi, bruni, castani, cappelli di paglia da baseball, da golf; anche gli uccelli si muovono a scatti, picchiettano il suolo, si alzano a frotti. Metà piazza, quella più bassa, è viva, dinamica, scomposta, pacchiana; l’altra metà, quella alta, domina austera, immortale, pietrificata nei gesti bloccati nel tempo.


di Simone Siliani William Shakesperare è stato un cervello in fuga per un anno, dal giugno 1590 al giugno 1591? Cioè, ha davvero lasciato la sua brumosa Inghilterra per venire a Firenze, alla corte medicea per insegnare l’inglese ai figli di Ferdinando I e Cristina di Lorena (Cosimo ed Eleonora, in verità un po’ troppo piccoli per imparare una lingua straniera essendo appena nati)? Maria Rosaria Perilli, per i tipi di Nardini Editore (“Viaggio a Firenze di William Shakespeare”, Firenze, 2017) ha immaginato questa fantastica storia riuscendo nel periglioso tentativo di tenere in equilibrio fiction e storia in un gradevole e verosimile racconto di un anno vissuto pericolosamente del bardo inglese a Firenze. Plausibile racconto per la cura con cui viene rievocata la Firenze tardo rinascimentale, ma anche per la scelta del periodo. Infatti l’anno in questione fa parte degli “anni perduti” di Shakespeare: un periodo (1585-1592) del quale sappiamo poco della vicenda biografica di Shakespeare e che ha dato luogo a molte supposizioni e, appunto, fantasie. I suoi biografi lo hanno descritto in fuga da Stratford perché imputato per caccia di frodo, oppure impegnato nella carriera teatrale badando ai cavalli dei clienti dei teatri di Londra. O ancora insegnante di campagna o tutore da Alexander Hoghton di Lancashire. Quindi, perché non a Firenze? Ma la storia frutto della fantasia di Maria Rosaria Perilli è l’occasione per raccontare con gli occhi meravigliati di un intellettuale della Gran Bretagna la grandiosità di questo piccolo principato dell’Italia centrale, nel quale lavorano e hanno lavorato tutti i più grandi artisti del tempo. Ne emerge un tour artistico-storico per la Firenze di fine Quattrocento che potrebbe tranquillamente guidare un visitatore del XXI secolo interessato a capire qualcosa di più della città in cui si trova. E’ una Firenze certamente radiosa, baciata dalla luce, ma non di maniera, quando il Rinascimento non aveva ancora addosso la patina retorica con cui viene presentata oggi ai turisti. Una Firenze, però, anche con le sue ombre (le zone buie dove prostituzione, povertà e insalubrità albergano), il popolo, gli artisti popolani eppure grandiosi (come Bernardo Poccetti, nano, ubriacone, autore di scherzi crassi, ma sublime autore di grottesche e affreschi), le “zingarate” con gli amici (fra cui figura sempre Galileo Galilei e Virginio Orsini, che poi sarà protagonista della

Shakespeare in Florence commedia shakespeariana La dodicesima notte), le tradizioni popolari (lo scoppio del Carro), i proverbi, il calcio storico e le grandi mangiate (con tanto di Lode alla cucina fiorentina). Shakespeare scopre, estasiato, giorno per giorno questa città, luminosa e oscura, così diversa dalle brume nebbiose della sua Inghilterra. Si innamora perdutamente della città e di una bella popola-

na, Viola: città e ragazza sollecitano i sensi poetici di Shakespeare: scrive poesie, brevi commedie (“La cicalata”, con la quale entra a far parte dell’Accademia della Crusca, con tanto di pala e soprannome, Separato, capace di separare linguisticamente la farina dalla crusca), ammira le opere d’arte dei grandi artisti come le opere minori (come le carte da gioco del Rinascimento fiorentino, le Minchiate), assiste alla gestazione dell’opera o del recitar cantando e ascolta la musica contemporanea (su tutti Monteverdi), va per spettacoli teatrali (per strada e nei teatri), si incanta davanti alla straordinarie e ardite architetture del Rinascimento (da Palazzo Strozzi allo Spedale degli Innocenti), si inebria degli aromi nella farmacia di S. Maria Novella. Ma è un amore a scadenza: il Tempo scandisce, a rovescio, lo sgranarsi della sabbia nella clessidra e la separazione dalla città e da Viola, nonché dagli amici e dai sodali, ricopre tutto con un velo di tristezza, ma non cupa, anzi grata di aver potuto assaporare simili bellezze. Il piccolo libretto è abbastanza rigoroso dal punto di vista storico e stilistico e certamente può essere una guida intelligente alla visita alla città da parte di visitatori e cittadini, capace di stimolare la fantasia e l’intelligenza sovrapponendo la Firenze del Rinascimento con quella di oggi e ricercare le sopravvivenze di quella Firenze, investita dalla devastante marea della globalizzazione. Ma ciò che è massimamente apprezzabile è, accanto al linguaggio accessibile ai più ma mai banale, l’aver presentato con una buona dose di realismo, lasciando ogni stereotipo falso e ingannevole della città perfetta tutta arte e bellezza del Rinascimento, restituendoci uno scorcio di una Firenze già allora complessa e composita, bella e imperfetta. Un punto di vista che sarebbe assai utile ancora oggi.

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di Danilo Cecchi Nel frastagliato arcipelago della fotografia si distinguono, in base alla scelta dell’oggetto delle immagini, delle aree abbastanza definite. Una di queste aree, che confina strettamente con il campo della body art, è quello della rappresentazione di sé, ovvero della auto rappresentazione. Pochi fotografi hanno resistito alla tentazione di raffigurare se stessi, mossi sia dal desiderio di tramandare la propria immagine (desiderio comune alla quasi totalità degli esseri umani) che dall’inesauribile (e meno frivola) brama di conoscere il proprio io, di indagare fotograficamente il proprio essere profondo e di oggettivare le proprie riflessioni intime in immagini che sono altro da sé, ma che contengono molto di sé. Se la maggior parte dei fotografi si sono limitati all’imma-

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Il corpo come linguaggio gine del proprio volto, privilegiando la parte più “nobile”, esposta, condivisa e riconoscibile del corpo, altri hanno scelto altre parti, solitamente meno visibili e meno esibite. In bilico fra fotografia e body art, fra descrizione e performance, questi fotografi / artisti, o artisti / fotografi hanno lasciato non solo traccia del proprio corpo, o di parti del proprio corpo, ma del modo in cui hanno scelto di atteggiare, contorcere, flettere, deformare, plasmare ed infine raccontare i propri arti, la propria pelle e la propria carne, nell’impossibilità di indagare e di raccontare i propri organi interni. Fra i tanti, i due esempi più evidenti di questa area sono l’inglese John Rivers Coplans (1920-2003) ed il finlandese Arno Rafael Minkkinen (1945 - ), ambedue trasferiti a suo tempo negli USA. L’operazione compiuta da Coplans è quella di isolare con inquadrature, spesso strette, le singole parti del corpo, dalle mani ai piedi, dalla schiena alle ginocchia, dal collo al petto, ponendo il corpo su di uno sfondo bianco e neutro, e giocando spesso sull’accoppiamento visivo degli elementi uguali, le due mani, i due piedi, le due ginocchia, fra i quali interpone dei vuoti, degli spazi di aria che enfatizzano la simmetria delle parti creando curiosi effetti grafici. Le riprese ravvicinate, esaltate dalla stampa in grandi dimensioni, permettono di descrivere minuziosamente la struttura della pelle, le rughe, la peluria, i solchi che vengono sottolineati dalla posizione prescelta o dalla compressione delle mani, delle braccia o delle gambe attorno alle parti molli e deformabili, esaltando gonfiori e protuberanze, fatta eccezione per il volto, che non viene mostrato. Il corpo di Coplans non viene descritto quasi mai nella sua totalità, ma per parti, come se si trattasse di un mosaico o di un puzzle, che l’osservatore è chiamato a ricomporre, restituendo al corpo frammentato l’unità e la fisicità, ridotta nelle immagini ad un gioco grafico. Viceversa Minkkinen inserisce le parti del proprio corpo in ambientazioni sapientemente scelte, giocando con obiettivi grandangolari che esaltano la prospettiva e mettono mani, braccia, gambe, piedi e schiena in rapporto ad un paesaggio in cui spesso è l’acqua ad assumere l’importanza maggiore. Se Coplans lavora esclusivamente

in studio con luci artificiali, Minkkinen lavora in esterni con la luce naturale, sottolineando il rapporto fra la fisicità del corpo e l’ambiente in cui esso si colloca ed interagisce, si riflette e si mimetizza. Il corpo di Coplans si ripiega su se stesso, quello di Minkkinen si espande nello spazio e nella natura, quello di Coplans è autosufficiente, quello di Minkkinen assume ruoli diversi in funzione del contesto. In ambedue gli artisti il corpo assume un ruolo preminente, diventa oggetto artistico prima, o forse contemporaneamente al suo diventare oggetto fotografico. In una alternanza di ruoli linguistici in cui è difficile definire dove comincia il sé artistico e dove finisce il sé fotografico. Del resto, senza il primo non ci sarebbe il secondo, e senza il secondo non ci sarebbe il primo.


di M. Cristina François Piazza dei Rossi si apre sul fianco Nord della Chiesa di S. Felicita. Dalla fine del IV secolo alla metà del XIX questo luogo è teatro di memorie per la cui conservazione e diffusione scrivo questo testo in cui formulo anche alcune mie ipotesi relative ai reperti archeologici ivi rinvenuti. La vita che scorre oggi sulla Piazza ignora l’esistenza, sotto la sua area, di antiche vestigia. I movimenti e la sosta di automezzi per le consegne, i lavori in corso e il parcheggio minacciano questo sito archeologico purtroppo non segnalato e quindi pericolosamente a rischio. Risalgono al 1580 i primi ritrovamenti di un sepolcreto annesso alla Basilica Cimiteriale di S. Felicita, edificio paleocristiano della fine del IV secolo e degli inizi del V. Questo sito archeologico si estende su una superficie sotterranea che comprende la navata, il sagrato, parte della Piazza dell’omonima Chiesa e Piazza dei Rossi. Le ‘formæ’ per inumati furono ritrovate sia all’interno che all’esterno perimetralmente a questa antica Basilica. Dei sette scavi che si susseguirono nel corso del tempo, fu solamente durante gli ultimi sondaggi del 1948 che vennero portati alla luce a -2,40 metri sotto il livello attuale della Piazza dei Rossi, tre sepolcri e alcune fondamenta murarie di notevole spessore. Questi scavi della Sovrintendenza alle Antichità d’Etruria, condotti sotto la direzione di G. Maetzke, effettuarono “un’esplorazione dell’area esterna ed interna della chiesa” e ne risultò che la Basilica Cimiteriale aveva la facciata rivolta a ovest come la chiesa attuale; era rettangolare,

Piazza dei Rossi,

1a parte

pochi metri quadri per 15 secoli di storia divisa in tre navate, e misurava circa m.26 per m.40. Il pavimento della Basilica era costituito, almeno nella zona corrispondente alla controfacciata, dalle lastre tombali marmoree che ricoprivano le ‘formæ’ dei sepolcri. La lapide più antica del cimitero paleocristiano era datata 405. Sotto la Piazza dei Rossi non fu però possibile procedere a uno scavo completo a causa di problemi fognari e, perciò, tutto non è ancora emerso e molto giace ancora ignorato sotto la Piazza e gli edifici circostanti. Dei tre corpi di inumati (tombe n. 6, 7, 8), solo quello segnato col n. 6 conservava pochi resti dello scheletro di una donna adulta che, considerando le misure della tomba a fossa, ritengo alta circa m.1,60, con il cranio disposto a ovest e i piedi a est, in attesa quindi, come si può dedurre, della Resurrezione nell’ultimo dei giorni. La sua epigrafe - un frammento di tavola marmorea - ce ne ha trasmesso il ‘cognomen’ Maurilla.: “B(ONAE) (MEMORIAE) / MAVRILLA QV(AE) / VIXIT (ANNOS) [---] / DEPOSIT(A EST) [---]. La qualità del marmo e della ‘scriptura’ del lapicida mi fanno pensare a una donna di ceto medio/alto. Come le altre tombe del sepolcreto anche questa di Maurilla era alla ‘cappuccina’, cioè coperta da quattro tegoloni di buona fattura, ancora lucenti al

momento dello scavo. Al suo interno furono rinvenuti “resti di ceramica a vernice rossa corallina di tipo aretino”, resti, suppongo, di una lucerna della Fede che accompagnò la defunta nella sua dimora celeste. Le tombe 7 e 8 erano accostate, e se non possono considerarsi sepoltura bisoma, è comunque a mio avviso possibile che si trattasse di due defunti della stessa famiglia: scarsi i fragilissimi resti ossei come pure i frammenti dei loro teschi. Quanto alle fondamenta di opere murarie, una di queste fu identificata con il fianco Nord della Basilica. Per le altre fondamenta si pensò che la base di un muro con due lesene appoggiato all’edificio sacro fosse appartenuta a una costruzione annessa alla stessa Basilica, e che la struttura quadrilatera tardo antica fosse un ‘gardingo’ longobardo o una torre di guardia prossima al fiume, ma sarebbe più logico immaginarvi le fondamenta della torre campanaria pertinente alla prima Chiesa protoromanica (peraltro attestata come “parochia” fin dal 972). Sono questi i primi cinque secoli di storia di cui Piazza dei Rossi è segreto testimone e custode. I dieci secoli a venire saranno oggetto di una 2^ parte per la conoscenza e la difesa di una Firenze sotterranea e meno nota e per questo più facilmente minacciata.

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di Luigi Sbolci Ho conosciuto Giancarlo Carrozza sia nella sua attività di avvocato che in quella di amministratore pubblico e in queste due dimensioni posso ricordarlo. Giancarlo era un avvocato affermato quando iniziai la mia attività professionale. Poiché avevo conosciuto Giancarlo nella Democrazia Cristiana, fu naturale avviare una collaborazione nella gestione di alcuni contenziosi sia civili che amministrativi. Ebbi così in lui uno dei miei maestri di avvocatura. Maestro di professionalità, di studio scrupoloso del diritto, ma anche di deontologia, di correttezza. Ciò che di lui mi è rimasto più indelebile nella memoria riguarda però il rapporto che sapeva instaurare con la clientela. Carrozza aveva come clienti alcune aziende, ma soprattutto privati cittadini. Nei confronti di questi e dei loro problemi aveva un approccio umano che travalicava la mera assistenza tecnica, la semplice difesa giuridica dei loro diritti. Egli sapeva esprimere un atteggiamento di vera comprensione e condivisione umana che lo rendeva un amico, un sostegno psicologico nelle travagliate vicende che inducono a rivolgersi ad un legale. L’ambito in cui è nata e maturata una reciproca amicizia è stato principalmente quello della DC ed in particolare quello del Gruppo consiliare democristiano nel Consiglio comunale di Fiesole di cui ho fatto parte. Carrozza è stato consigliere e capogruppo per molti anni, dal 1960 al 1990. L’ho avuto così come maestro anche nella politica e nell’amministrazione pubblica. Giancarlo era attento ai contenuti amministrativi, alla soluzione concreta dei problemi. Allorché il Gruppo DC si confrontò con la maggioranza PCI-PSI sui temi dell’urbanistica e del Piano regolatore degli anni ’70, ne uscì un voto convergente di approvazione di uno strumento che si caratterizzava per promuovere l’edilizia pubblica e per salvaguardare l’ambiente da lottizzazioni come quella progettata in località Tizzano, nelle vicinanze di Castel di Poggio. La gestione dell’urbanistica a Fiesole in quel periodo e nei successivi anni ’80, quando venne approvata la variante sulle zone agricole, fu caratterizzata da atteggiamenti di aperto confronto fra le forze politiche. Il Gruppo DC, sotto la guida di Carrozza, si propose come obiettivo quello di rappresentare un’opposizione propositiva, credibile , capace di esprimere idee degne di essere accolte. Fummo certo accusati di tiepidezza nell’opposizione. Ma fu un’opposizione in grado di incidere sulle scelte dell’Amministrazione comunale. Non sarebbe accaduto se si fosse realizzato un

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Una lezione di governo stando all’opposizione muro contro muro. Giancarlo Carrozza era particolarmente attento anche ai temi dell’assistenza sanitaria. Egli intuiva che la chiusura di S. Antonino senza una sua immediata riconversione avrebbe condotto, come ha condotto, al suo completo abbandono. Una perdita che segnò l’inizio del declino del centro storico di Fiesole e della sua economia. Lo sviluppo sociale ed economico di Fiesole era pensato da Carrozza come fattore strettamente connesso alle scelte urbanistiche e alla destinazione delle strutture edilizie di maggior rilievo. L’attenzione di Giancarlo ai contenuti programmatici e alla loro realizzazione concreta andava di pari passo con la sua attenzione alla dignità dei mezzi utilizzabili per svolgere l’azione politica. Con il suo metodo dialogico e aperto al confronto con tutti ci insegnò che in politica assume valore non solo il merito delle iniziative, ma anche la correttezza dei mezzi con cui sviluppare quelle iniziative. Ci insegnò

Foto di

Pasquale Comegna

1975 -Luigi Sbolci e Giancarlo Carrozza durante l’insediamento del Consiglio comunale di Fiesole

l’importanza di un’etica degli strumenti politici. Questo è l’insegnamento più attuale che ci lascia Giancarlo Carrozza, questo si può definire il suo testamento spirituale per i politici, un messaggio che ci dà l’impulso a proseguire con coerenza per quella strada e ad assumerlo come criterio di giudizio della vita politica contemporanea.

Mitoraj a Pompei


di Mariangela Arnavas Un monastero bizantino bianco sospeso su una piattaforma rocciosa ricca di vegetazione e intorno l’Egeo per miglia e miglia. Sull’isola solo un volontario che ci fa da guida; l’edificio è mal ridotto, sono i ferri scuri di rinforzo a te tenere in piedi la struttura, ma dentro le cappelle dei monaci (ancora nel 2001 erano 58) sono intatte, le icone mantengono l’oro e i colori vivaci, ogni tanto una fessura a ogiva fa intravedere il turchese del mare. Faticosamente ci si arrampica su scale di legno un po’ scomposte, giungendo ad una magnifica terrazza dove il silenzio e la bellezza assoluta della natura sottostante con il vento di nord ovest che sembra il respiro della terra consentono di venire permeati dalla consapevolezza di trovarsi all’interno di un luogo antico e sacro dove si può finalmente fermarsi a riposare. Siamo a Stanfadi, nelle isole Strofadi, un piccolissimo arcipelago a diverse miglia dall’isola dì Zacinto; raggiungibile solo con imbarcazioni. Sull’isola il volontario, dopo la visita al monastero, ci accoglie nella sua casa e ci offre caffè e bevande fresche; sta sull’isola da aprile a settembre ed è molto orgoglioso del suo generatore che gli permette di avere computer con WI-FI; ci racconta che, nei giorni sacri, il Pope di Zacinto viene sull’isola con l’elicottero per le celebrazioni religiose ortodosse. La nostra guida non ha l’aria di un uomo che si sacrifica, sembra allegro e in forma; insiste per regalarci del vino prodotto dai suoi genitori, davvero buono, la sua sembra un’ospitalità antica, quella che si ricorda dalle antiche epopee quando i marinai, a volte naufraghi, venivano accolti e ristorati dagli abitanti delle isole ricevendo in cambio racconti di viaggi e avventure. Nell’isola di fronte, unica altra dell’arcipelago, ci sono solo due tabernacoli e una piccola barca da pesca ormeggiata; la vediamo uscire al tramonto dopodiché la nostra barca rimane l’unica presenza umana. Nel silenzio e nella bellezza che ci circonda, aspettiamo la notte con il vento che si fa più forte, a raffiche quasi fredde. La mattina dopo raggiungiamo a nuoto il barchino e compriamo dal pescatore solitario il pesce fresco che, insieme al vino regalato dal nostro amico volontario, sarà il nostro pranzo. Sembra di essere in un altro mondo anche se siamo solo a meno di 70 miglia dalla costa greca; questo è il bello della navigazione lenta, tipica della barca a vela, ritrovare se stessi e immergersi nelle tracce di un passato/presente anteriore, ascoltando il silenzio è il vento.

Il monastero di Stanfadi

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premio letterario

I migliori 10

PRIMA EDIZIONE 2017 di Paolo Marini Sono le due, io e i miei tre nuovi colleghi entriamo da Isidoro. A pranzo lo affollano torme di lavoratori e spesso si fa la fila. Un tanfo composito ci assale mentre, chiusa la porta, ci lasciamo alle spalle il gelo livido di gennaio. Dino mi guarda con un lampo negli occhi e... che fa? Inventa uno slalom tra i tavoli e si allunga all’orecchio di un cameriere, magro come un lupo, che sta prendendo una comanda; quegli, scusandosi con i clienti, s’interrompe, si affretta verso il centro sala e riferisce ad un omone alto e corpulento. Mi spiega Altiero che l’omone è Isidoro - detto Ido, per risparmiare sillabe. Ido intercetta Dino e annuisce senza muovere la testa. Non si sa come, immediatamente in un angolo, laggiù, si fa il vuoto: tre operai visibilmente appesantiti si alzano liberando il tavolo. Allora ci avviciniamo. Sopraggiunge una giovane, dimessa nelle vesti, che in un baleno con le dita di una mano afferra i bicchieri e con l’altra schiaccia un cencio sul tavolo, spargendo le briciole a cascata sul pavimento. Ci sediamo con malcelata soddisfazione. Domando a Dino: – Come sei riuscito a...? – Eh, Luisa, la mi’ ... mhm... è amica ... di quella che lui si sbatte Chissà che avevo pensato. Beppe, alla mia destra, mi sorride come a dirmi: vedi, ragazzo, come funziona il mondo? Senonché in questo momento nulla m’importa delle recondite verità del mondo. Passiamo un quarto d’ora immersi nel fragore del locale. Dino ha spiegato ad Altiero, che è il capufficio, perché non ci hanno ancora consegnato la partita di beccucci. Per fortuna spunta di nuovo la sdegnata (così l’ho battezzata, nel frattempo) che ci allunga posate, tovaglioli di carta e il menù. Oddio, menù: un foglio (uno) che pare di carta vetrata, cosparso di patacche di unto, con quattro-cinque voci sotto ciascuno dei tre titoli: “Primi”, “Secondi”, “Contorni”. Chiedo: – Qui che si mangia di buono, di solito? – Chieda a Ido – E fugge in cucina. Ido si materializza davanti a noi. – T’ho portato un po’ d’amici – gli fa Dino – ‘un ci tratta’ come al solito, dàcci qualcosa di bono L’oste deve aver già esaurito i sorrisi della giornata e volge su di noi un’occhiata severa. Ha un

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Trattoria “Da Isidoro”

ventre lungo e largo come non l’avevo mai visto addosso ad un uomo, due occhiacci sotto folte sopracciglia e un lapis malconcio sull’orecchio (senza, penso, non sarebbe un vero oste). Con la mano destra stringe una penna, con la sinistra un taccuino che pare un pulcino sul punto d’esser stritolato. – Del menù tutto finito - tuona -, c’è rimasto un cotechino colle lenticchie ch’è ‘na favola Un cenno verso noi altri e Dino lo ordina per tutti, chiede quindi vino della casa e pane a volontà. Quel “c’è rimasto” suscita in me un po’ d’apprensione (da quanto tempo?) ma lascio che la corrente mi trascini, viste le ore due e venti sull’orologio e la voragine in corpo. Cotechino e lenticchie si parano davanti a noi con una rapidità sconcertante. La sdegnata serve Dino ed Altiero; Ido segue, con gli altri due piatti, con flemma studiata. E’ in quella manciata di secondi che ho il tempo di incrociare il pollice della sua mano destra a mollo nel guazzetto delle lenticchie. Viro sull’ansioso e conto una probabilità su due che quel piatto tocchi a Beppe. Ma la fortuna è in ferie: inaspettatamente è il piatto che afferra con la sinistra, quello che rotea dinanzi al collega e finisce sotto il suo mento. Io, a questo punto... sono in ambasce... L’oste è tra me e Beppe e i miei occhi son rapiti dal suo pollice enorme, l’unghia giallastra fino al margine distale, dove si imbatte in una sottile striscia che sembra annerita dal deposito dei secoli. Il piatto è ora posato al mio cospetto, una zaffata di cotechino sale invano su per le nari. I colleghi si stanno già strafogando, senza pudore. Dino è felice, al punto che d’un tratto alza lo sguardo, come per avere una conferma, e invece incontra il mio, pèrso nel vuoto. – Che fai? ... ‘Un mangi? – Noo.. no è che... Che gli racconto? Anche gli altri due hanno fermato la disfida e ora, se dico la verità, son pasticci. Mi hanno a malapena accettato, perché uno con la laurea non l’avevano mai visto e se scopro-

Illustrazione di Aldo Frangioni

no che sono anche schizzinoso... Non posso che sollevare le mani sulle tempie - il capo un po’ chino, così, per darmi modo di pensare facendomi bastare due-secondi-dico-due - roteo le pupille nell’affannosa ricerca d’una via d’uscita, al riparo dai loro sguardi indiscreti, disperato còlgo una giovane donna - né bella né brutta, due tavoli più in là - che ha appena passato uno sguardo fugace su di me. – ... Ma ti senti bene? - Insiste Dino. – Ooh no... anzi, sì... sì... mi sento bene, ho visto... una cosa.... io... E’ un attimo, non ho scelta: trascino la sedia all’indietro, mi alzo di scatto e – salutata la pietanza - tòsto raggiungo quel tavolo. Si dice che ci siano uomini, al mondo, pronti a vendersi per un piatto di lenticchie. Io, per non doverle neppure assaggiare, ho incontrato la donna che sarebbe divenuta mia moglie. Nota biografica:

Paolo Marini, nato a Siena nel 1965 e trasferitosi adolescente a Firenze, dopo gli studi liceali si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza, dove si laurea nel 1991. È avvocato, consulente di imprese e pubblicista. Nel 2000 inizia a scrivere per varie testate, occupandosi dapprima di economia e lavoro, poi sempre di più di arte e di libri, di filosofia e cultura politica. Al 1997 risale la sua opera prima di poesia (Pomi Acerbi). Nel 1999, elaborando una visione della dinamica politico-sociale antitetica a quella dominante, pubblica un pamphlet contro la concertazione (Dal patto al conflitto). Nel 2011 esce il suo secondo libro di poesie (All’Oro). Al suo attivo sono anche numerose note e pubblicazioni in ambito professionale.


di Gabriella Fiori Estate 1987, in campagna vicino a Montecarlo. Terre che amo, legate alla mia infanzia e alla mia ascendenza materna. Come visiting professor di letteratura italiana alla Queen’s University di Belfast avevo coltivato nella ricca biblioteca il romanzo del ‘900. Rilievo era dato a Cassola come amante di Joyce e Hardy. Così la notizia della sua morte a Montecarlo mi colpì come quella di un vicino di casa.noto anche per il pacifismo appassionato fino alla fondazione (1978) della Lega per il disarmo unilaterale dell’Italia, ma il primo incontro decisivo con la sua ombra protettrice fu nelle parole della giovane vedova, Pola Natali. Quando, nell’intervista a un settimanale femminile, disse: “Era un uomo molto dolce. Non mi ha mai detto una sola parola dura in tutta la nostra vita insieme”, pensai: “Voglio e devo conoscere Pola”. E questo è avvenuto, la mattina del 28 giugno 2017, nella casa di Pola, che da una parte è costeggiata dal bosco e dall’altra, guarda oltre il vaporare verde tenero di ulivi punteggiato di vigili cipressi, alla vallata lucchese. Pola ci(sono accompagnata da mio fratello Vieri) accoglie con naturalezza e piacere. In fondo la conosco da tanto tempo. E’ una donna fiorita che sprigiona una forza tranquilla. Il suo grande soggiorno in penombra per il caldo gonfio di nubi digrada in più piani segnati da brevi rampe di scalini, fino alle piccole vetrate rettangolari là in fondo. Colori dominanti, il bruno dei mobili e il rosso del cotto. Quieta e forte la presenza degli animali. Due cani, bassi di taglia e neri (uno pezzato fittamente di bianco)dopo un primo abbaiare (“di paura”, spiega Pola)scodinzolano accettanti, e due gatte, delle sei abitanti la

I dolci ricordi di Pola casa. Una,Birba, dalle sfumature ruggine, si posa maestosa sul tavolo del registratore. “Vivono nella casa, se ne staccano malvolentieri; per il ritirarsi serale ognuno nella sua camera, è come se avessero l’orologio. Fanno come gli pare. Non mi reputo una buona educatrice.” Delle domande preparate,dato il fluire sereno del suo parlare rivelatore, gliene ho poste poche. “Quando, dove e come avvenne il suo incontro con Cassola?” “Fu nel 1974 a Pescia, dove sono nata, ho vissuto e continuato a lavorare sempre nell’amministrazione dell’ospedale. Il prof. Rolando Anzilotti,caro amico di famiglia, presidente degli Studi Collodiani aveva pensato a tre giorni su Pinocchio. Fra le personalità invitate c’era Carlo Cassola, che ispirava gran soggezione: tutti in tensione per il suo arrivo.Anzilotti mi chiese di curare la segreteria; accettai. Per Cassola, prenotato hotel a Montecatini, temendo l’unico albergo di Pescia troppo modesto. Invece lui lo volle e nella hall di quell’albergo ci incontrammo. Lo vidi scendere di macchina di là da una vetrage, nello stesso momento vidi tutta la mia vita davanti a me; e la cosa fu reciproca. Era molto bello. Avevo 22 anni e lui 57. Non avevo mai creduto al colpo di fulmine; invece mi è capitato. Senza questo forse non mi sarei mai sposata. Lui aveva una veggenza. Da quel primo guardarci mi volle sempre accanto, che lo accompagnassi ovun-

que.” “Lo conosceva già come scrittore?” Avevo letto “Fausto e Anna”, dono per il mio diploma di terza media di una cugina di Rolando. Decisi di andare alla libreria per trovare altri libri suoi, ma la libraia ne era sguarnita.Cassola li aveva comprati tutti. All’albergo ebbi la sorpresa di riceverli in dono, ognuno con la sua dedica. Mi sento una donna molto fortunata.” Da allora Pola e Carlo hanno costruito la loro vita insieme; già separato dalla seconda moglie (aveva perduto la prima, Rosa di Cecina ventinovenne), Carlo,oltre le tante lettere a Pola, ha fatto il pendolare fra Donoratico dove era andato a vivere dopo un infarto del 1971, ormai dal 1961(dopo il successo di “La ragazza di Bube”) unicamente scrittore, e Pescia. “Per cinque anni abbiamo cercato casa, invano. Approdammo qui il 26 febbraio 1980, la strada ancora sterrata. Quello che ricordo della nostra vita insieme è l’armonia. Merito mio,merito suo, non so. Era un’alchimia riuscita. “Non trovo nulla di sbagliato in te”, mi diceva. Penso che avrò sbagliato come tutti, ma lui diceva così.” Pola e Carlo si sono sposati il 1° marzo 1986. Carlo è mancato il 29 gennaio 1987, lucido fino alla fine. Riposa nel cimitero di Vivinaia. Dolce sepoltura,opera dell’amico scultore Trafeli dove sul prato verde due mani intrecciano la morte alla vita, “che per Carlo era tutto”.

A 100 anni dalla nascita di Carlo Cassola

17 8 LUGLIO 2017


di Monica Innocenti A volte scrivere di una cara amica, di qualcuno a cui si vuol bene, può mettere alla prova la costante ricerca dell’obiettività che sta alla base del lavoro di una articolista. Ma quando la sensibilità, la classe e il talento di un’artista sono un riconosciuto dato di fatto, ogni imbarazzo cade, lasciando il posto al piacere e alla gioia di esprimere quello che tutti, appassionati e addetti ai lavori, ben conoscono: Michela Lombardi (che non a caso, secondo i Jazzit Awards 2010, fa parte della élite che comprende le prime dieci vocalist italiane) è una delle voci più note ed apprezzate nel panorama della musica jazz del nostro Paese. Ma si dà il caso che la sensibilità, la classe e il talento della cantante lucchese siano apprezzate anche negli Stati Uniti (riconoscimento questo che, per una jazzista, equivale ad una laurea con lode e bacio accademico), tanto che il suo ultimo lavoro, “Live To Tell”, appena uscito, è stato prodotto dalla Dot Time Records. La Casa Discografica newyorkese ha scelto di puntare sul nome della cantante solista (anche per questioni di “search optimization”, cioè perché fosse ben chiaro e riconoscibile che l’opera è un cd di jazz vocale), ma Michela stessa tiene a sottolineare che i godibilissimi e sorprendenti arrangiamenti di “Live To Tell” sono il prodotto del lavoro collettivo suo e di un gruppo di straordinari musicisti: Riccardo Fassi (pianoforte e tastiere), Luca Pirozzi (contrabbasso), Alessandro Marzi (batteria), più le guest star Steven Bernstein (tromba) e Don Byron (clarinetto e sax). Il disco nasce da un’idea ardita e geniale del produttore romano Alfredo Saitto: riproporre in chiave jazz alcuni dei maggiori successi della più grande pop star del pianeta ovvero Louise Veronica Ciccone, che tutto il mondo conosce come Madonna. Con “Bitches Brew”, facendo incontrare il jazz e il rock, l’immortale Miles Davis inventò la contaminazione dei generi; “Live To Tell” si inserisce in quel solco, proponendo un riuscitissimo ed elettrizzante connubio tra musica colta e musica popolare. Un’opera che accarezza piacevolmente i sensi, che non si smetterebbe mai di ascoltare e della quale segue una sintetica presentazione brano per brano. La prima traccia è una versione r’n’b di Burning Up; segue una sorprendente versione soulful di Lucky Star, che lascia poi spa-

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Sotto le stelle del jazz: Michela Lombardi zio all’obbligato di basso di Material Girl. Seguono le inedite e suggestive riarmonizzazioni di Rain e di Music, il brano più recente tra quelli riproposti; lo spirito dark già presente nella versione originale di Frozen viene enfatizzato, mentre True Blue resta dolce, ma viene liberata dai cliché in stile anni ’50 che caratterizzavano la versione originale. La title-track Live To Tell viene rinnovata, mentre Like a Virgin è fatta solo di basso elettrico e voce. Ancora: l’unico swing è Holiday e l’unica bossa (lenta, ricorda quasi il Bacharach di The Look Of Love) è You’ll See. Torna il groove r’n’b e slow-funk con Papa Don’t Preach, seguito dal giro di So What di Miles Davis a suggerire la progressione armonica su cui rileggere Into The Groove e, per finire, un’intensa versione di Take A Bow. Fin qui il cd; per il download digitale, sono disponibili altre due tracce: una rivisitazione de La Isla Bonita e una lieve e delicata versione jazzwaltz di Dear Jessie. Come si diceva un tempo “Live To Tell” lo potete trovare nei migliori negozi di dischi e, come si dice oggigiorno, per il download cercatelo su iTunes, su Amazon.it oppure utilizzate il link presente sulla pagina Facebook di Michela Lombardi: https://www. facebook.com/MichelaLombardiMusic/


Giuseppe Sanmartino, Cristo velato

di Melia Seth Museo effimero della moda. Il nome è tautologico, contraddittorio e in più qualcos’altro. E’ come dire: l’eterno (comunque un tempo lungo) non duraturo di ciò che non è duraturo. E in più qualcos’altro. Non duraturo e non duraturo: tautologia. Eterno e non duraturo: contraddizione. Qualcos’altro: esercita una grande influenza su di noi, un dominio parte esplicito e parte nascosto. Moda è invenzione e imitazione. Imitiamo la moda del momento che qualcuno ha inventato e che si è imposta, ci imitiamo fra noi. Scarpe a punta, tacco 12, plateau, ballerine, con la zeppa, alla schiava. Gonne lunghe, corte, midi, arricciate, plissettate, godet. Pantaloni a campana, a zampa di elefante, a sigaretta. Non solo nell’abbigliamento: ma l’abbigliamento ne è la parte più visibile. Imitiamo e ci imitiamo: non sopportiamo però di imitarci e essere imitati troppo. Quando la moda ha raggiunto tutti, anche gli strati più bassi, i capofila cambiano moda. E noi, al seguito, imitiamo e cambiamo a nostra volta. Finché tutti seguono la moda, e così via. La moda inizia dall’alto e discende inesorabile. Muore e ricomincia il giro daccapo. Due elementi la caratterizzano: il desiderio di distinguersi dagli altri per la propria originalità, il buon gusto, le scelte personali, e il desiderio di imporre un costume (il nostro) agli altri nel modo più profondo e più ampio possibile. Quando il costume è diventato universale, ci accor-

Moda, morte, moderno

giamo di aver perduto originalità, unicità, eccezione, e siamo costretti a chiudere con quella moda e a crearne una diversa. Per questo la moda è in continuo movimento. Non può mai sostare, arrestarsi, fare una pausa: è il gioco ciclico dell’io e dei tutti, di invenzione e imitazione, di individuo e massa. La moda è dunque effimera. Il museo, al contrario, ha ambizione e vocazione a durare nel tempo: conservazione, salvaguardia, recupero. Ed esposizione: venite a vedere in modo devoto ciò che qui è stato accumulato e mantenuto. Il museo vuole salvare dalla morte e rendere immortale. La moda non dura: se durasse non sarebbe più moda. Qui abbiamo un museo effimero. Cioè? Come può un museo essere effimero? Vuol dire che domani sarà smantellato? Vuol dire che non è museo ma piuttosto mostra, cioè temporanea? Un museo che

accoglie una mostra. Normale. Ma un museo effimero? C’è e poi non c’è? E’ così ma poi cambia? Oppure, semplicemente, è un museo che accoglie la moda - effimera -, e che un po’ viene contagiato da questa? In una delle Operette morali la Moda dice rivolta alla Morte: “Io sono la Moda, tua sorella.” La Morte si stupisce: “Mia sorella?” E la Moda: “Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?” Per questo Georg Simmel avvicina moda e moderno: la moda ha la stessa sostanza del moderno, dove niente è solido, niente è stabile, tutto si trasforma senza sosta. Per lo stesso motivo Simmel avvicina anche moderno e denaro. Pefino l’effimero (un solo giorno) ha le sue mode (nove anni di estate romana). E le muse, alle quali è sacro il museo, vestono ogni volta in maniera diversa. Il problema, diceva Montaigne (ma è ancora in voga Montaigne?), è che ci lasciamo così ingannare su ciò che è autorevole oggi che cambiamo opinione ogni mese e ci giudichiamo sempre in modo nuovo: perché così piace alla moda. Moda, morte, moderno e la loro parentela strettissima. Il titolo gioca, imbroglia, allude. Accoglie suggestioni e le rinvia. Se sto al gioco lo chiamerò museo. Se non ci sto, mostra, in modo più corretto. Il museo effimero della moda. Appunti per un museo ideale, a cura di Olivier Saillard, Museo della moda e del costume di Palazzo Pitti, Firenze, 13 giugno-22 ottobre 2017

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di Domenico Villano Sabato 24 giugno è stato forse uno dei giorni più caldi del decennio. Eppure, in quel primo sabato d’estate, più di ottanta giovani valorosi, provenienti da ogni angolo d’Italia, hanno rinunciato al sollazzo delle belle spiagge nostrane e si sono incamminati verso Firenze. Erano diretti all’assemblea fondativa di un’associazione politico-culturale, ospitata con grande generosità, nel giorno di festa cittadina, dal comitato territoriale ARCI di Firenze. A questo punto sorge spontaneo il quesito: si sarà trattato della nascita dell’ennesimo partitino di sinistra? dell’ennesima alleanza arcobaleno? No! Gli organizzatori, al 90% cervelli in fuga nostrani, dottorandi e giovani professori di prestigiosi atenei britannici, ci tengono a chiarire: “non siamo né di destra né di sinistra, siamo populisti democratici, dalla parte delle persone comuni”. Allora saranno forse come il Movimento 5 stelle? rieccoci con il populismo senza bussola? sembra di no; ascoltando gli interventi dei giovani fondatori, è manifesta infatti una chiara visione progressista, l’idea di creare uno spazio di emancipazione per chi soffre giorno dopo giorno, gli effetti della crisi, uno spazio chiamato Senso Comune. I temi trattati nei primi interventi sono quelli delle piazze della protesta di Occupy Wall Street, delle primavere arabe, degli indignados spagnoli e della Nuit Debout francese: le disuguaglianze, la povertà, la disoccupazione, le follie della finanza casinò ed il disprezzo per le élite politico-economiche. In uno degli interventi si sente dire “non basta essere onesti, bisogna con onestà portare avanti un programma concreto e realizzabile che migliori le condizioni di vita dei più deboli”. Ma cosa intendono allora questi giovani per populismo democratico? Nel manifesto scrivono: “un percorso politico che abbia ambizioni egemoniche non può che partire dalla tessitura di istanze di natura diversa. Il populismo non delinei né una patologia politica né un’ideologia, ma consista piuttosto in una logica costitutiva della politica attraverso la quale diversi progetti competono per egemonizzare il campo sociale. In altre parole usare quel diffuso senso comune di giustizia per ripoliticizzare la nostra società.” Tornando alla cronaca della giornata, dopo la necessaria pausa pranzo a base di lampredotto, si sono riuniti i tavoli tematici. Io mi sono unito al gruppo Economia: sin da subito mi hanno stupito il rispetto reciproco tra i ragazzi e la convergenza di idee tra persone che mai prima di allora si erano incontrate. Al tavolo, presieduto da due giovani economisti, si è parlato dello Stato come propulsore dell’innovazione, della sua capacità di svolgere un’azione anti-

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Senso Comune e il populismo democratico

ciclica nel sistema economico nazionale, della necessità di costruire narrazioni alternative alla dominante dottrina liberista, dell’urgenza di rinazionalizzare, su ispirazione corbyniana, i servizi pubblici essenziali e strategici nonché il sistema bancario. Insomma niente di rivoluzionario ma un sano riformismo la cui radicalità ricorda i programmi elettorali della DC anni ‘60, con l’aggiunta di una profonda consapevolezza sulla questione ambientale e sulla necessità di una “rivoluzione verde” del sistema produttivo. Lo spettro dell’Europa e dei suoi vincoli è serpeggiato durante tutta la discussione; per chiarire la posizione del gruppo su questo tema, è stata espressa la volontà di tenere un’attitudine propositiva verso l’UE: nel caso in cui un movimento per il populismo democratico dovesse andare al governo, per attuare le politiche espansive proposte, dovreb-

be necessariamente rompere i vincoli imposti dal trattato di Maastricht e dal fiscal compact. Questa rottura potrebbe essere negoziata con le istituzioni europee, ma i giovani non si fanno illusioni, sanno quali sono gli interessi che la fanno da padroni a Bruxelles ed hanno ben chiare le coraggiose contromisure da poter attuare nel caso di rifiuto di dialogo e cooperazione da parte dell’UE. Conclusa l’assemblea, i comunardi si sono dati appuntamento per settembre, quando nella splendida cornice del lago trasimeno si terrà la “scuola estiva” alla presenza di esponenti di Podemos, France Insoumise e Momentum. Dopodiché è iniziato un lento pellegrinaggio, intervallato da soste presso vinaini e bar, verso un’ottima trattoria a Gavinana, dove fino a tarda notte i giovani hanno festeggiato la nascita dell’associazione uniti in un coro: “se pò fà”.


di Roberto Giacinti Nel 1295 Marco Polo, dopo 24 anni, indossando abiti sbrindellati, ma di ottima seta, tornava da un viaggio nel lontano Catai, l’odierna Cina. Tale percorso, che prenderà il nome di Via della Seta, si componeva di circa 8.000 km di itinerari terrestri, marittimi e fluviali lungo i quali nell’antichità si erano snodati i commerci tra l’impero cinese e quello romano. Il nome Via della Seta apparve per la prima volta nel 1877, quando il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen, nell’introduzione del libro Diari dalla Cina, nominò così quell’itinerario avventuroso che produceva scambi anche di altre merci preziose in senso inverso insieme a matematica, geometria, astronomia e religioni. Questi scambi commerciali e culturali furono determinanti per lo sviluppo e il fiorire delle antiche civiltà dell’Egitto, della Cina, dell’India e di Roma, ma furono di grande importanza anche nel gettare le basi del mondo moderno. Oggi la Cina vuole facilitare gli scambi commerciali e culturali tra Europa ed Asia creando la “Nuova Via della Seta”, denominata One Belt One Road (Obor): una nuova e moderna rete di vie di comunicazione che mira a eliminare le barriere e a creare vantaggi e opportunità per tutti che coinvolgerà 65 paesi, 4,4 miliardi di persone, il 63% della popolazione mondiale. In Cina la Via si concretizzerà in autostrade e linee ferroviarie ad alta velocità che serviranno da collegamento con l’Europa, passando per l’Asia continentale, insieme ad infrastrutture di supporto, come gasdotti, oleodotti, reti elettriche, collegamenti internet in fibra ottica, ecc. L’obiettivo cinese è duplice: collegare lo sviluppo dei paesi interni e rafforzare l’influenza di Pechino, e della sua valuta, in un’area cruciale del mondo priva di una forte presenza americana. Per mare, principalmente attraverso l’Oceano Indiano, la rotta si svilupperà insieme ai porti ed alle connessioni marittime lungo le coste dei numerosi paesi interessati tra cui l’Italia che dovrà rafforzare il trasporto merci e la logistica in una visione integrata di sistema in grado di attrarre investimenti e collaborazioni. Si stima che nuove vie ferroviarie permetteranno una riduzione dei tempi di trasporto tra Europa e Cina fino al 50%, e cambieranno la convenienza relativa delle rotte marittime rispetto a quelle terrestri.

Obor: la nuova Via della Seta

Tutta l’Unione europea è in fibrillazione su questo fronte infrastrutturale; in effetti i costi di trasporto tra Europa e Cina sono significativamente superiori alla media mondiale, di circa il 20%. Nei primi dieci mesi del 2016 il dato complessivo dell’interscambio tra Italia e Cina, secondo i dati Eurostat, è stato pari a € 38,3 mld. Le nostre esportazioni per la prima volta hanno superato € 11 mld mentre le importazioni hanno raggiunto € 27,2 mld.

Questi investimenti sull’Europa e sul nostro Paese avranno un impatto modesto sul breve termine, ma potenzialmente strategico sul medio-lungo termine. Le sfide sono molteplici e complesse: da un lato vi è il rischio per l’Europa di perdere posizioni (a vantaggio di una economia asiatica sempre più integrata e capace di attrarre nella sua sfera di influenza altre aree), se non affronterà il progetto in modo coordinato: solo così le facilitazioni sull’export potranno essere reciproche.

La Sala delle Statue di Valentino Moradei Gabrielli Visitando con Monica il Museo Egizio di Torino ci siamo trovati improvvisamente, uscendo da uno spazio neutro al termine della scala, di fronte alla “Sala delle Statue”. L’effetto è stato spettacolare. Le grandi sculture singolarmente illuminate emergevano prepotentemente dal buio della sala, caratterizzata dal colore nero e dalle numerose pareti specchianti, creando nel visitatore una forte atmosfera emotiva. L’ambiente emanava grandezza e preziosità mista a lusso. Dopo aver visitato la sala ci siamo scambiati alcune considerazioni, e manifestata la comune perplessità sull’opportunità di una proposta forse eccessivamente spettacolare, abbiamo concordato che l’impressione che avevamo avuto era di lussuosa hall di albergo che ci ricordava il Luxor Hotel di Las Vegas del quale siamo stati ospiti lo scorso Agosto. L’effetto “Hall” era amplificato dal moto disordinato dei visitatori che percorrevano in lungo e largo il salone durante la pausa tra un selfie e l’altro.

Al di là della valutazione positiva sull’allestimento del museo, rimane la perplessità sulla spettacolarizzazione della cultura che utilizza sempre di più gli strumenti e il linguaggio del mercato.

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di Francesco Gurrieri Si preparavano molte “tavole” per sostenere un esame. In particolare, per dare “Elementi costruttivi” e “Composizione”. Si lavorava su grandi tavoli da disegno, lenzuoli di quasi due metri quadrati; al tavolo erano fissati due strumenti fondamentali: il “tecnigrafo”(uno strumento di assistenza al disegno tecnico, composto da una squadra montata su un goniometro che ne consentiva la rotazione angolare) e la “lampada” che, collegata allo snodo del primo, illuminava l’area del foglio (“spolvero” preparatorio o “lucido” definitivo) ove si posava la mano col tiralinee o il graphos con l’inchiostro di china. Allora, ancora studente, abitavo nel Palazzo Novecento di piazza Leopoldo, al terzo piano. Costì, avevamo un gattino (un gatto non è mai mancato in famiglia e la tradizione è rimasta fedele ad oggi con l’ultimo – “Silurino” – che vaga libero fra la casa e i campi del Monasteraccio. Quel gatto era ancora piccolo, di pochi mesi, e come tutti i cuccioli, aveva bisogno d’affetto e – soprat-

Una lontana contesa gattesca tutto d’inverno – di calore. Così, portando a sintesi i due legittimi bisogni, codesto gattino, di nome “Mifi”, quando il tavolo da disegno era in posizione pressoché orizzontale, montava sopra e si posizionava sulla superficie illuminata dalla lampada, la più calda: ma questa coincideva, per l’appunto, con la zona ove avrebbe dovuto posizionarsi la mia mano col tiralinee; naturale e conseguente che io, con l’altra mano, spostassi lentamente il gatto per riguadagnare la possibilità di disegnare. La nuova situazione durava pochi minuti perché, istintivamente, il piccolo soriano riguadagnava l’area privilegiata. Il rito, comprensibilmente, durava un po’ a lungo, diventando un gioco a due. Ma quando le scadenze dell’esame si avvicinavano, il

rito doveva essere interrotto e il gatto, preso dolcemente di peso, posato altrove. Ma la cosa, dalla parte gattesca, non era ben vista.

La piovra che non c’era

I 5 stelle costretti a smentire una delle balle della Piovra del PD riguardo a Gianni Biagi

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di Simonetta Zanuccoli Un pezzettino di Asia nel cuore di Parigi si trova in avenue Vélasquez 7, in un palazzo proprio all’ingresso del parco Monceau, uno dei più incantevoli della città, dai mille colori dei suoi fiori tra alberi secolari, statue in marmo, colonnati, padiglioni e piccoli ruscelli d’acqua. Il palazzo è il museo Cernuschi, dal nome del suo antico proprietario. Enrico (Henri) Cernuschi, patriota e banchiere, nato a Milano nel 1821, andò in esilio in Francia nel 1849 dopo aver partecipato alla rivoluzione milanese contro gli austriaci. Economista di talento fu uno dei fondatori della Banca di Parigi. Ormai ricchissimo decise di intraprendere nel 1871 con un suo amico giornalista e critico d’arte un lungo viaggio intorno al mondo. Naturalmente non immaginava che i soggiorni in Giappone e in Cina avrebbero cambiato il corso della sua vita. Cernuschi infatti, innamoratosi dell’arte orientale, acquistò 4000 opere che formeranno il cuore della sua immensa collezione futura e che, una volta ritornato a Parigi presentò, con grande successo, all’Exposition Orientaliste che si tenne nel 1873 al Palais de l’Industrie. Nello stesso anno iniziò la costruzione dell’elegante palazzo in avenue Vélasquez dove Cernuschi, quasi fino alla morte nel 1896, visse circondato dalle sue splendide opere d’arte che poi lasciò in eredità al Comune di Parigi. Nasce cosi il Musée Cernuschi, interamente rinnovato nel 2005, con una collezione che ormai, tra donazioni e acquisti, supera i 10.000 pezzi. In esposizione vasi neolitici, bronzi arcaici, statuette funerarie, pitture classiche e moderne e un enorme Budda Amida che troneggia dal primo piano come un custode di tante meraviglie. In questo periodo fino al 19 novembre, il museo presenta la bellissima mostra L’homme des foules di Lee Ungno (1904/1989), uno dei pittori asiatici più importanti del XX secolo che, dopo aver abbandonato i canoni tradizionali, è diventato il pioniere dell’arte contemporanea coreana. Il Musée Cernuschi ha nella sua collezione più di cento opere di Ungno, alla mostra, la più importante fatta fuori dal suo paese, presenta una selezione di 76 fatte tra il 1954 e il 1989. Un affascinante viaggio che lascia l’immaginazione vagare in un universo toccante e profondamente poetico dove l’artista, mantenendosi in equilibrio tra la tradizione calligrafica e l’astrazione, popola lo spazio delle tele bianche di sciami silenziosi di piccole sa-

Lee Ungno al Museo del banchiere milanese-parigino

gome di uomini senza volto, una folla indistinta di innumerevoli pennellate, veloci, precise, sottili, emblema del cammino verso la democrazia della Corea del Sud. Ma anche di grandi linee piene d’impeto e inchiostro di sublimi bambù simbolo di flessibilità e resistenza ai forti venti dell’avversità. Parigi, un bel museo vicino a un parco fiorito, una mostra che emoziona da vedere magari con cari amici: piccoli piaceri della vita.

23 8 LUGLIO 2017


PLINIO NOMELLINI Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore 14 luglio · 5 novembre 2017 14 LUGLIO · 3 SETTEMBRE lunedì · venerdì 17 - 23 | sabato · domenica 10.30 - 12.30 e 17 - 23 4 SETTEMBRE · 5 NOVEMBRE martedì · sabato 15 - 20 | domenica e festivi 10.30 - 20 Ultimo ingresso 30 minuti prima dell’orario di chiusura

Mostra realizzata da

Con il patrocinio di CITTÀ DI SERAVEZZA

TERRA MEDICEA - CITTÀ DEL MARMO

MEDAGLIA D’ARGENTO AL MERITO CIVILE

Catalogo

Maschietto Editore



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