Numero
15 luglio 2017
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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
Palle di stile
Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Questa coppia di attivisti civili si era piazzata proprio di fronte all’ingresso di Macy’s, la grande catena di distribuzione. Con il loro piccolo banchetto questi giovani intendevano sensibilizzare i passanti per far conoscere al pubblico questa grande tragedia che all’epoca aveva sconvolto il mondo intero. Una terribile guerra civile era scoppiata in questa regione in seguito alla secessione di alcune province della Nigeria di etnia Ibo (o Igbo) che all’inizio del gennaio 1966 portò al potere il generale Yakubo Gowon. La guerra iniziò nel 1987 e si stima che nel conflitto abbiano perso la vita quasi tre milioni di persone. Nel 2000, in un articolo del giornale “The Guardian of Lagos”, venne riportata la notizia che Obasanjo, l’allora presidente della Nigeria, aveva deciso di concedere la pensione militare anche a coloro che avevano combattuto nelle forze del Biafra.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
15 luglio 2017
293
226
Riunione di famiglia Piange il telefono (again) Le Sorelle Marx
Il piccolo scrivano di Rignano Lo Zio di Trotzky
Nel regno di D’Alem Satan I Cugini Engels
In questo numero Ma il consumo della città va risarcito di Francesco Gurrieri
Il premio che fu rosso di Roberto Barzanti
I Santini del Prete di Laura Monaldi
Bill Viola, da prendersi a piccoli fotogrammi di Cristina Pucci
La Brexit vista da loro di Alessandro Michelucci
Un armonico trio di Claudio Cosma
Venezuela 2017: um’analisi corretta di Domenico Villano
Prima di Davioud la Ville lumière era tutta buia di Simonetta Zanuccoli
Piazza dei Rossi pochi metri quadri per 15 secoli di storia (2a parte) di M. Cristina François
Il dialogo impossibile di Gianni Biagi
Mappe di percezione di Andrea Ponsi
e Massimo Cavezzali, Aldo Frangioni, Lido Contemori, Monica Innocenti , Claudia Neri, Valentino Moradei Gabrielli, Paolo Marini...
premio letterario
PRIMA EDIZIONE 2017
Direttore Simone Siliani
Il racconto Spaghetti con le acciughe è a pagina 16 Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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Ma il consumo della città di Francesco Gurrieri Dunque, anche il ministro Franceschini sembra essersi convertito ai “contatori per i turisti” nelle piazze d’Italia. Venezia, Firenze, Roma, non reggono più all’urto della massificazione dei visitatori. E’ ormai impossibile godersi la Fontana di Trevi, traversare il Ponte Vecchio, entrare in San Marco scendendo dal vaporetto. Di una regolamentazione degli accessi, fra chi si occupa di conservazione delle città storiche, se ne parlava con preoccupazione predittiva fin dagli anni ‘80 del secolo scorso. Giovanni Klaus Koenig, docente nella facoltà di architettura di Firenze, sulle pagine de La Nazione (1989) scrisse che “se non avessimo progettato e delineato nuove strategie alternative per il turismo, ne saremmo rimasti soffocati molto presto”. Koenig studiava la città e i suoi mutamenti, progettava jumbotram a Milano e autobus speciali per fluidificare la mobilità urbana. Già allora erano maturi i sintomi sui difficili destini delle città che puntavano sulle culture “monovalenti” della rendita di posizione (il turismo per Venezia e Firenze). Più tardi, nell’ormai lontano 1998, proprio a Firenze, all’Accademia delle Arti del Disegno, organizzammo il primo Colloquio Internazionale sul “degrado urbano”, concludendo così: “Da più parti e con motivazioni diverse, l’allarme per il degrado dei monumenti e dello spazio urbano si è fatto intenso e martellante. Le istituzioni deputate al contenimento del fenomeno sembrano sempre più ìmpari alla dimensione e alla gravità del degrado, che appare oggi davvero irreversibile. E’ certo, comunque, che sembra mancare un soggetto capace di riassumere i tanti segmenti istituzionali contemporaneamente operanti (spesso in direzioni e con prospettive divergenti) e persino di registrare e comprendere un fenomeno così vistosamente offensivo”. Tornare oggi sul problema, a distanza di anni, addolora profondamente e irreversibilmente per l’ulteriore aggravarsi del fenomeno che non può non ricondursi all’insufficienza di “governance”, intesa, appunto, come inadeguatezza dell’insieme di principi, di regole e di procedure che riguardano la gestione della realtà del fenomeno turistico. Come si è giunti a tanto degrado, a tanta insensibilità, a tanta volgarità? Se il turismo (sostanzialmente cancellata la
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tradizione industriale meccanica, elettronica, di telecomunicazioni, che era pur nobilmente presente nell’area toscana) è diventato la ricchezza monovalente della città e tutti vi emungono – direttamente o con l’indotto – è
forse il caso di ricordare che allora va governato, studiandolo, analizzandolo, curandolo; fors’anche con provvedimenti specifici di “indirizzo” e di “polizia turistica” che abbiano autorevolezza e capacità prescrittive. Cosa
va risarcito
significa ormai, se non un inutile slogan, “tolleranza zero”? Carabinieri e polizia di stato sono oggettivamente più presenti nel cuore della città, ma hanno altre funzioni istituzionali rispetto alla maleducazione, alla volga-
rità, alla strisciante offesa del monumento, del decoro, della perdita di civiltà. Né si dica che che si tratta solo di un problema di generale decadimento di civiltà contro cui nulla è possibile se non una diversa educazione e
Foto di Maurizio Berlincioni
civilizzazione: certo, c’è anche questo. Ma , ripetiamo, nel cuore della città, ove saturo e allarmante è il fenomeno turistico (che ha espropriato il centro ai cittadini) occorre provvedere con qualcosa di specifico che sembra afferire ad una specializzazione della polizia urbana. Se le risorse del turismo son cresciute – e son cresciute, per pubblica ammissione – si studino provvedimenti e investimenti ad hoc. Per quanto riguarda la Toscana Firenze è allo stremo, ma presto toccherà a Pisa, Siena, e poi San Gimignano, Volterra, Cortona, Pienza... Certo, non è con le secchiate d’acqua, con le sistole, che si risolve il problema; e la “Carta del turista”, summa di buone regole sembra pleonastica per quei princìpi che dovrebbero stare alla base della civile convivenza. Mentre un nuovo comportamento si affaccia nella complessa dinamica del fenomeno: il pericoloso “fai da te” della gente, a difendere la propria piazza e il proprio spazio. Gli “appelli” (come quello fiorentino per piazza Indipendenza) si faranno sempre più frequenti , con potenziali pericolosi risvolti per l’ordine pubblico. Il problema non è da sottovalutare e va affrontato con approccio progettuale con più competenze, specialistiche, prescrittive e repressive. Ma due cose essenziali vanno messe immediatamente in agenda: la regolamentazione dei flussi turistici (rendendo obbligatorie le prenotazioni e controllando gli arrivi dei bus turistici; l’adeguamento della polizia urbana preposta al turismo, le cui risorse aggiuntive dovrebbero esser trovate, diffusamente, da tutte le presenze turistiche in area urbana. Insomma, il “consumo della città” va risarcito! Si ricordi: lo spazio urbano, le vie, le piazze, funzionano come organo di trasmissione sociale, di vita di relazione, di integrazione, di senso comunitario. Ancora una volta, la “città dell’umanesimo” rischia seriamente la barbarie. E’ troppo aspettarsi un po’ più di coraggio dalle autorità centrali e cittadine? Chiediamo dunque al ministro Franceschini di approfondire il tema: meglio tardi che mai. Non potremmo a Firenze, invitando anche Venezia, promuovere una “conferenza” specifica sul tema, chiamando al tavolo le varie competenze che convergono sul problema? Articolo pubblicato su Toscana Oggi del 9 luglio 2017
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Le Sorelle Piange il telefono (again) Marx “Giudicate dai fatti, non dalle parole”: così ha orgogliosamente replicato ai suoi detrattori Marco Remaschi, l’assessore regionale all’agricoltura, le cui parole in effetti avevano suscitato qualche dubbio dopo la sua telefonata di sostegno al candidato di centrodestra al Comune di Lucca, Remo Santini. Ma poi Remaschi ha chiesto di cambiare delega e di assumere quella allo sport perché nessuno come lui sa eseguire il tuffo triplo carpiato all’indietro da piattaforma di 10 metri. Non che qualche imbarazzo la vicenda non l’avesse creata al Pd toscano, anche perché Lucca è praticamente l’unica città in cui, per l’appunto, il centrosinistra ha vinto. Ecco la telecronaca del tuffo: Remaschi: “Io, telefonato a Remo Santini??? Un’è vero nulla. In campagna elettorale ero a pianta’ fagiolini!” - primo avvitamento e
I Cugini Engels
Nel regno di D’Alem Satan 2a puntata
Nella puntata precedente: Debora Ransie, figlia di Boris Parrini (il vampiro) è innamorata di Paul Bonifazi, un ragazzo normale. Ma Boris Parrini intriga perché Debora vada sposa a qualcuno appartenente al “Regno Supremo”, cui appartengono creature sconosciute al mondo umano. Per questo decide di rivolgersi al Grande re del mondo magico, D’Alem Satan. Nel mondo iperuranico del Regno Supremo si svolge un colloquio segreto, nei pressi delle Oscure Botteghe. Boris: “O grande re D’Alem Satan sono venuto a conferire con te per chiedere il tuo potente aiuto. Mia figlia Debora Ransie si è invaghita di un giovane del mondo terrestre, un debosciato di nome Paul Bonifazi. Costui passa tutto il giorno a concionar di sport e la notte a bere spritz e shottini. Io vorrei, invece, che la ragazza – che ha, ti assicuro, delle grandi capacità – frequentasse e possibilmente si maritasse con persone del nostro Regno Supremo. Oso anche
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capriola. Remaschi, dopo aver ascoltato la registrazione della telefonata: “E si scherza, via, giù! Si sa che mi garba piglia’ per le mele ‘i prossimo: praticamente ‘un fo’ altro all’assessorato” - secondo avvitamento e capriola. Remaschi, dopo il colloquio con il grande stratega del Pd regionale Stefano Bruzzesi: “Eh, eh, eh, gli s’è messo ni’ bocciolo a quella merda di’ Santini: gl’era tutta una strategia: così qui’ bischero di’ Santini si sentiva sicuro e gl’abbassava la guardia... e a quel punti... noi, zacchete, ni’ bocciolo” - terza capriola ed entrata in acqua, senza schizzi. E tutta questa meraviglia di tuffo è stata suggerita da Stefano Bruzzesi, colui a cui Dario Parrini da Perdi (ops, da Vinci) delega gli affari delicati d che richiedono delicatezza e savoir
sperare qualcuno dei tuoi figli, se possibile” D’Alem: “Senti, coso, non è che puoi venire qui di punto in bianco, diciamo, ad ammannirmi questa tua figlia e pretendere che le conceda in sposa uno dei miei figli migliori. Ma, poi, cosa saprebbe fare questa Ransie? Che ha di tanto speciale? Boris: “Guarda D’Alem, Debora ha una dote: dove la metti, sta. Voglio dire che se lei si avvicina ad una persona e gli da un morsetto, lei immediatamente si trasforma in quella persona. Il suo stesso nome deriva dal fatto che appena nata si è avvicinato a Matteon Renzie e lo ha morsicchiato: è diventata subito uguale a lui. Una vera camaleonte” D’Alem: “Mah, ora tu mi parli di Matteon Renzie e già questo mi fa venire le bolle: quel porc... Ma lasciamo perdere. E poi che succede? Come torna se stessa, se così si può dire... infatti una che si trasforma in altri, quale mai caratte-
faire... di cui noi abbiamo registrato la telefonata a Remaschi: Bruzzesi: “O Marchino, e t’hai fatto una bella cazzata! Poi, se tu stavi zitto dopo che t’hanno scoperto, tu facevi più bella figura e tu spendevi meno, fava! Ora come la si rimedia? A me m’è venuta un’idea geniale, mentre stamani mi facevo lo shampoo: te tu dici che, siccome dopo il primo turno sembrava che il centrodestra potesse vincere, tu gl’hai telefonato per far credere a ‘i Santini che dalla nostra parte ci fosse maretta. Così gli si faceva un bel pisolino sugli allori e noi glielo si metteva in tasca. Va bene, bellino?” Remaschi: “Ma così fo’ una figura di merda” Bruzzesi: “Perché ti sembra di averne rimediato poco di bottino fino ad ora? Senti Marchino, o così, o sennò tu vai a fa’ cipolle nell’orto, altro che assessore all’agricoltura!” Remaschi: “Va bene,Stefano, farò come dici te. Ma ‘i Tambellini? A ‘i sindaco gli gireranno, no?” Bruzzesi: “Ma vien via, Marchino: ‘i Tambellini ‘un sa nemmeno in dove gli sta di casa. C’ha più culo che anima: gl’ha vinto di 320 voti! Gl’è ancora in ginocchioni sulla via di’ santuario di Montenero a ringraziare la Madonna! Avanti! … A proposito, leggilo: l’ha scritto ‘i Capo”. re potrà avere di suo...” Boris: “No, figurati, al primo starnuto ritorna la dolce e tenera Debora di sempre. Ti assicuro che Debora è una ragazza fidata, mansueta e gentile: saprà fare felice qualsiasi ragazzo” D’Alem: “Guarda, Boris, facciamo così. Da tempo io ho perduto il mio primogenito ed erede al trono Aron Minnit: non so più dove è finito. Qualcuno lo ha visto aggirarsi nei dintorni del regno di Matteon Renzie e questo mi procura rabbia e disdoro. Se la tua Debora riuscisse a ritrovarlo e a farlo rinsavire (con un morso o con quello che vuole lei), sarei anche disposto a darglielo in sposo” Boris: “Grazie, o grande D’Alem Satan. Parlerò con la mia Debora e la convincerò a cercare il tuo Aron Minnit. Poi, una volta trovato, da cosa nasce cosa e ci sta che ne apprezzi la bellezza e l’intelligenza (che sicuramente saranno massime in lui, essendo tuo figlio) e se ne innamori. Sai, questi ragazzi moderni vanno presi per il verso giusto, ma io sono un grande stratega: non fallirò” D’Alem: “Mah... Minnit proprio un adone non è, ma è arguto. Quanto alle tue strategie e alle tue capacità permettimi di avere qualche dubbio. Ma staremo a vedere...” Riuscirà Boris Parrini a convincere Debora a cercare Aron Minnit e ad innamorarsene, dimenticando Paul Bonifazi? Il seguito alla prossima puntata.
di Lido Contemori Nel migliore disegno didascalia di Aldo Frangioni dei Lidi possibili
Anche le farfalle una volta migravano
Lo Zio di Trotzky Il piccolo scrivano di Rignano
Segnali di fumo di Remo Fattorini Anniversari dimenticati. Per la Toscana il 18 luglio dovrebbe essere una data importante, da ricordare. Quel giorno del 2001 - ben 16 anni fa, alla vigilia del G8 di Genova - Claudio Martini, allora presidente della Regione, decise di ascoltare le ragioni dei movimenti no-global, dipinti da tutti – politica, opinionisti e mass media - o come sognatori o come un movimento anti-istituzionale violento e facinoroso. In realtà i violenti erano i black bloc, che giravano indisturbati il mondo, armati di passa montagne e bastoni, a distruggere vetrine, incendiare auto e scontrarsi con la polizia. L’errore fu quello di fare di tutta un’erba un fascio. Volutamente. Fatto sta che Martini, invece, fece l’esatto contrario dell’allora governo nazionale, presieduto da Berlusconi, che non solo rifiutò il dialogo, ma che decise di militarizzare Genova, con tutte le tragiche conseguenze che conosciamo. Martini decise di invitare tutti a San Rossore a dire la loro: dal popolo di Seattle alle associazioni ambientaliste, dai rappresentanti della chiesa a quelli della scienza. E fu così che due giorni prima del G8 in molti parteciparono a quel meeting: sindaci, amministratori, esper-
ti di varie discipline, giornalisti insieme agli esponenti del movimento no-global. Pensate un po’ a concludere quel meeting fu proprio lui, Beppe Grillo, che seguì quell’esperienza anche negli anni successivi. Altri tempi. San Rossore suscitò fin da subito interesse e partecipazione. Tutti vogliosi di capire ragioni, motivazioni e proposte. La formula del dialogo tra istituzioni e movimenti piacque assai di più della contrapposizione. Quell’incontro ebbe un tale successo che l’eco arrivò ben oltre i confini. E la Toscana diventò un riferimento nazionale e non solo. Tutti, movimenti e istituzioni, d’accordo nel sostenere che una globalizzazione senza regole e una finanza speculativa avrebbero spostato le lancette dell’orologio all’indietro, che insieme a qualche vantaggio momentaneo avremmo perso diritti, libertà e possibilità di emancipazione. Tutti d’accordo nel denunciare che una globalizzazione siffatta avrebbe messo a repentaglio l’ambiente e la qualità della vita delle persone, avrebbe finito per cancellare le identità, incrementato la ricchezza di pochi a scapito della povertà crescente di tutti gli altri. Guarda caso è esattamente quello che è poi è puntualmente accaduto e che oggi viene, con colpevole ritardo, denunciato. Mi viene da pensare che anziché liquidare quell’esperienza come pittoresca o come una questione di solo ordine pubblico, si fosse dato ascolto a quei giovani, a quegli scienziati, a quei movimenti, a quelle istituzioni, come la Regione Toscana, che scelsero il dialogo, forse oggi il mondo sarebbe migliore.
Scrivere è importante di questi tempi, dice Matteo Renzi nella sua e-news di lunedì scorso. Lo dice annunciando, superando per bravura l’indiscusso campione di anticipazioni del libro in uscita Bruno Vespa, il suo prossimo libro Avanti (senza punto esclamativo mi raccomando). Noi non possiamo che convenire con lui che scrivere sia importante, peraltro per alcuni mesi ci tiene a sottolineare il segretario del PD sempre nella medesima email. Ultimi mesi in cui Renzi, o chi per lui, ha scritto anche una mozione congressuale in cui era contenuto il programma sulla base del quale Renzi è stato rieletto a stragrande maggioranza alla guida del partito democratico. Ora, leggiamo nelle corpose anticipazioni, Renzi va oltre, anzi va avanti, quel programma e preannunzia, nel libro, un programma di governo con delle differenze non pare di poco conto con quanto affermato, pochi mesi orsono nella mozione congressuale. Dunque il segretario del partito democratico non muta la propria linea politica, in funzione di un’esigenza politica del suo partito (che so, far corrispondere parte del programma alle istanze delle minoranze) ma sulla base di un suo testo, scritto durante la stessa fase congressuale e da nessuno discusso. È vero che i partiti strutturati non ci sono più, che la gente vuole leader e non dirigenti, ma se leggere è importante sperare che nessuno legga, ma comunque ti voti, siamo sicuri sia la strada giusta?
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di Laura Monaldi I Santini Del Prete sono un duo strano e innovativo: ironici pensatori invadono da circa 25 anni gli spazi espositivi nazionali con happening e performance d’eccezione, mai scontate e mai banali, sempre diverse da sé e tuttavia aderenti a una poetica comune che li lega e li unisce dal 1992 a oggi incondizionatamente. Per loro creare significa rendersi consapevoli e partecipi dell’idea che l’Arte è ma può anche non-essere-Arte, poiché artisti si diventa, coscienti di entrare in un meccanismo di riflessioni e creatività senza fine né limiti. Franco Santini e Raimondo Del Prete sono due non-ferrovieri e due non-artisti, ma al contempo sono esattamente sia ferrovieri che artisti: sono le due facce di una medesima medaglia e la loro non-arte altro non è che l’affermazione di un desiderio comunicativo ed espressivo unico. Eccentrici performer si divertono fra gli sterminati orizzonti dello strumento creativo e performativo per far sorridere, pensare e innescare nello spettatore l’istinto alla partecipazione. Gli “happerform” de I Santini Del Prete uniscono la Vita all’Arte, la quotidianità all’oggetto artistico, l’innocenza della sperimentazione all’espressione estetica, attraverso cui il pubblico può riconoscersi e può essere incoraggiato a sentirsi partecipe nel grande progresso evolutivo dell’immaginazione e della creatività. Perennemente (tra)vestiti da ferrovieri riscoprono il piacere di sentire, sotto ai propri piedi scalzi, le vibrazioni del palcoscenico e di uno spettacolo che vibra ad ogni loro movimento. La non-Arte è fatta di tutto e di tutti: provocante e non mistificatoria accoglie l’ironia come motore portante di una locomotiva senza meta, le cui fermate non sono altro che stazioni nuove da scoprire e far conoscere, dilatando la normale percezione della performance con una multidisciplinarietà inedita e originale,
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I Santini del Prete priva di stereotipi, in quanto metafora della vita e della semplicità. Passando da un contesto a un altro, mutando linguaggi e materiali artistici, I Santini Del Prete hanno avuto il privilegio di smuovere l’arte contemporanea dal proprio grado zero, ri-partendo dalla semplicità e dall’innocenza, in nome di una concezione autentica dell’opera d’arte e della sua funzione nel mondo. Il loro binario procede di pari passo alle occasioni che si presentano di volta in volta e il capolinea è ancora ben lontano.
Franco Santini e Raimondo Del Prete Sotto a destra Il treno della vita, 2016 Assemblaggio e tecnica mista su legno: a sinistra Il sentiero dei tarocchi, 2006 Testo di Giovanni Pelosini Bologna, Hermatena Edizioni. Sopra Il libro dei libri, 2016 Collage e tecnica mista su orario ferroviario di Trenitalia
di Alessandro Michelucci Cento anni fa, alla fine degli anni Dieci, Londra era la capitale di un impero coloniale sconfinato, forse il più grande di tutti i tempi, sul quale “non tramontava mai il sole”. Oggi, cento anni dopo, quell’impero è ridotto a poche briciole. Ma nel frattempo il Regno Unito ha guadagnato un altro record: è il primo stato membro che ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. Finora sembra che l’attenzione dei media si sia concentrata su tre punti: le modalità tecniche del divorzio dall’UE; i possibili effetti della Brexit sulla condizione dei tanti italiani che vivono nel Regno Unito; il nuovo scenario geopolitico che potrebbe derivarne. A quest’ultimo tema ha dedicato un interessante numero la rivista Limes (Brexit e il patto delle anglospie, n. 6, 2016). Meno attenzione, al contrario, è stata dedicata all’analisi dello stato d’animo che questa novità epocale sta determinando nella popolazione britannica. Chi vuole comprenderlo dovrebbe leggere il libro di Stephen Green Brexit and the British (Haus Publishing, London 2017). Non a caso il sottotitolo è Who are we now? (Chi siamo adesso?) L’autore ci offre un’analisi particolarmente qualificata della materia: prete anglicano, ex banchiere ed ex ministro, racchiude in sé un microcosmo dell’establishment britannico. Il libro è un’opera agile e succinta, appena una sessantina di pagine: questo dovrebbe permettergli di vincere la resistenza di chi conosce l’inglese ma evita i libri in lingua straniera. Green non dimentica i profondi legami che uniscono la Gran Bretagna al resto dell’Europa: “l’identità britannica è stata forgiata da secoli di relazioni con i nostri vicini europei” (p. 48). Il tema dell’identità è particolarmente caro all’autore: il suo libro precedente si intitola The European Identity: Historical and Cultural Realities We Cannot Deny (Haus Publishing, 2015). Semplice e diretto, Brexit and the British cerca di dare una risposta a varie domande. Quali saranno i nuovi rapporti fra Londra e Bruxelles? Cosa sarà della Scozia, che reclama l’indipendenza proprio perché vuole restare nell’Unione Europea? Quello che preoccupa maggiormente l’autore, comunque, è una questione che in Italia viene ampiamente trascurata: la questione nordilandese. Secondo Green sarà questo uno degli aspetti più deli-cati e complessi della Brexit: l’eventuale riunificazione dell’isola verde potrebbe compromettere la fragile pace sancita
La Brexit vista da loro
dall’Accordo del venerdì santo (1998). Insomma, la situazione del Regno Unito è molto confusa. Non si tratta soltanto di definire quelli che saranno i nuovi rapporti fra Londra e l’UE, ma di capire se questa grande isola continuerà a coincidere con un unico stato. È
SCavez zacollo
caduto il Muro di Berlino, è caduto il comunismo, sono scomparsi stati che sembravano destinati a durare per sempre, come l’URSS e la Jugoslavia. Niente esclude che possa scomparire anche la Gran Bretagna, per lo meno quella che conosciamo.
disegno di Massimo Cavezzali
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di Andrea Ponsi Prosegue la pubblicazione di una serie di brevi racconti di Andrea Ponsi tratti da una raccolta uscita negli Stati Uniti dal titolo Florence-a Map of Perceptions(University of Virginia Press, 2010). Gli scritti, affiancati a disegni ed acquarelli dell’autore, si concentrano sugli aspetti percettivi e sensoriali del paesaggio urbano alternando riflessioni estemporanee di tipo diaristico a considerazioni più generali sulla struttura fisica e concettuale della città.
che. Ad esempio: quadrato/cerchio: la sagrestia Vecchia in San Lorenzo, la chiesa di Santo Spirito e tutte le altre architetture brunelleschiane. cerchio/ottagono: la cupola e la lanterna del Duomo, la cupola interna del Battistero, la Cappella dei Principi in San Lorenzo. ottagono/triangolo: la pianta/profilo del campanile della Badia. triangolo/quadrato: tutte le facciate in marmi policromi come quelle di Santa Croce, San Miniato, Santa Maria Novella.
Architettura e geometria
Via Santo Spirito
Il quadrato, il triangolo, l’ottagono e il cerchio; l’architettura di Firenze è riducibile a queste quattro forme geometriche. Come nessuna altra città che io conosca Firenze è il luogo della geometria. Non nei suoi tracciati urbani o nella sua labirintica sovrapposizione di segni, ma nella sua architettura, nella forma dei singoli edifici. Questa chiarezza geometrica è massimamente evidente nel panorama di Firenze, dominato dalla semi-sfera della cupola del Duomo e dal corpo cubico di Palazzo Vecchio. Forme pure, decise, sottolineate nel loro disegno dalla grafica brunelleschiana o dalle precise masse di Arnolfo. Le quattro geometrie originarie si evidenziano non solo nei volumi degli edifici ma anche nelle loro piante e prospetti: Il quadrato: forma primaria del cortile del palazzo fiorentino è anche la pianta del chiostro monastico e delle unità spaziali coperte da volte a crociera che lo compongono. Perfettamente cubici sono Palazzo Strozzi e Orsanmichele, parallelepipedo puro la torre di Giotto. Il triangolo: immagine dei timpani di Santa Croce , delle guglie dei campanili (Santa Maria Novella) o quella degli aguzzi bastioni del Forte di Belvedere . L’ottagono: è la forma che meglio identifica la Firenze medievale: presente nel suo primo monumento, il Battistero, si riverbera a scala del paesaggio nella cupola del Duomo. Ottagoni sono i pilastri gotici delle chiese, ottagone le formelle scolpite del campanile di Giotto. Il cerchio: epitome dell’ideale rinascimentale è la figura degli edifici a pianta centrale il cui primo pionieristico esperimento è stato il tempietto di Santa Maria degli Angeli, ora ridotto a invisibile rudere. Il cerchio è nelle volte della Cappella dei Pazzi, nelle nicchie perimetrali di Santo Spirito, nelle tonde finestre del Brunelleschi. E’ la sfera dorata sulla lanterna del Duomo, il punto più alto dell’intera città. Ogni altra importante architettura è un’ elementare accoppiamento di queste figure geometri-
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5 stop gelateria ”arrenditi” 12 Istituto Nazionale di Statistica 2°piano floor passo carrabile 16 arredamenti Castorina CK 86615 CK784XN passo carrabile trattoria mercoledì pari 0.00-6.00 in tutta la sede stradale mercoledì pari via Santo Spirito FAAC Automatico Torre dei Lanfredini sec XIII –XIV bellezza e benessere 42 Number One stop area pedonale Ceni Frescioni Lenti Bucci Strehlke Studio notarile Studio Legale
DF 974 PL 0-24 A&L tappeti “Francesco Ferrucci nacque in questa casa il dì XIV di agosto MCCCCLXXXVIIII morì da forte a Gavinana il dì III di agosto MDXXX e con lui cadde la libertà fiorentina” Angela Caputi lasciare libero il passo amore ti amo eccetto Associazione Culturale Italia Russia Movimento Federalista Europeo Nice 41 veicoli elettrici mezzi operativi Quadrifoglio autorizzati ZTL 6.00-9-30 18.0019.30 veicoli residenti con contrassegno autorizzazione ord. del via Santo Spirito. Una strada è anche ciò che vi è scritto. Graffiti, avvisi, nomi, insegne, lapidi, numeri civici. La vita di una strada è nei nomi di chi vi abita, nei divieti burocratici, nelle targhe delle macchine parcheggiate. E’ il presente tipografico, la grafia della lingua nazionale, il carattere di questi cento annunci silenziosi. E’ l’impronta del presente, dei segni permanenti e di quelli temporanei.
Mappe di percezione
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di Roberto Barzanti Il Premio Pozzale Luigi Russo nacque nella frazione del Comune di Empoli che gli dà il nome nell’ambito della festa della stampa comunista. Era il 1948. Il pugno di volenterosi che lo inventò si proponeva di dar vita ad un’iniziativa che segnalasse opere utili ad alimentare una funzione democratica e formativa della letteratura. Erano gli anni dell’“impegno”, che gli intellettuali dovevano sfoderare al servizio delle buone cause progressiste. Col tempo il Premio, assunto poi dal Comune come pubblica iniziativa e animato da un vivace comitato organizzatore, ha cambiato forme e indirizzi, ma lo spirito delle origini non si è totalmente dissolto. La Giuria, ora presieduta da Adriano Prosperi, storico emerito della Normale pisana, individua autonomamente titoli da selezionare e – dopo laboriosi dibattiti – scegli i titoli da premiare. Quest’anno, giunto alla 65.a edizione, tre sono state le opere – come di consueto – chiamate a salire, il 13 luglio, su un non gerarchizzante podio. Il tema chiave evidenziato dallo statuto è l’attenzione per la “diversità”, concetto quanto mai vago e onnicomprensivo. Si son quindi prediletti lavori che aiutino a capire o immaginare la specificità di situazioni meritevoli di rilievo in una visione pluralista, consapevole della complicata realtà dei nostri giorni. Ed ecco insigniti tre libri che, ciascuno in una sua chiave, sovvengono alla bisogna. Miche Cometa con Perché la storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria (Cortina, Milano 2017) spiega – in un testo ostico e ponderoso quanto interessante e “scientifico” – il sempre più diffuso impulso a narrare, attingendo ad un impianto teorico basato sulla biologia, sull’evoluzionismo e sulle scienze cognitive. Michele Mari in Leggenda privata (Einaudi, Torino 2017) si cimenta con un’autobiografia che per frammenti racconta incubi e fantasmi della sua formazione in uno stile aspro e di dura incisività. Ma il libro che sembra concepito apposta per chiudere criticamente un ciclo ideologico dalle nobili motivazioni è indubbiamente quello di Mario Caciagli (Addio alla provincia rossa, Carocci, Roma 2017), già docente di scienza politica all’Ateneo fiorentino e attivissimo organizzatore di animati confronti politici. Attingendo a quattro serie di interviste svolte sotto la sua regia di sociologo (nell’arco cronologico compreso tra il 1984 e il 2006) in una delle aree più combattive della Toscana, il
Il premio che fu rosso Medio Valdarno Inferiore, l’autore vi ricostruisce fasi esemplari di una subcultura rossa che ha potuto vantare un’eccezionale capacità di penetrazione e di resistenza. Una ventina d’anni, dunque, esaminati con non dissimulata passione e documentati con una sintomatica strumentazione sociologica, registrando interviste e dando la parola a una miriade di militanti. Non è
un libro sul Pci: è un’inchiesta sui comunisti, sulle idee, le sensibilità, i miti, i rituali, le abitudini quotidiane di un insieme di persone che aveva l’orgoglio di dirsi “popolo”, partecipe cioè di una condivisa visione dei legami di comunità. “La storiografia comunista – netto è il rimprovero – non si preoccupò mai di produrre una storia sociale che rendesse conto della vita dentro il partito, anche ai livelli più bassi, che rendesse conto, cioè, dei comportamenti e delle passioni degli iscritti e dei militanti”. E non si deve credere che il chiaro discorso critico di Caciagli si svolga in una chiave tutta locale. L’insediamento del Pci in Italia e in Toscana ebbe una cifra particolare, derivata dalla capacità di far propri e reinterpretare solidi valori tradizionali e radicate strutture associative. Non aveva torto Togliatti a parlare di un partito che veniva da lontano. La conquista delle smaliziate masse mezzadrili, l’esercizio di una linea nei fatti ripresa in buona misura dalla malmessa tradizione socialista, il trascinante quanto ambiguo mito dell’Urss sono stati, secondo Caciagli, gli ingredienti decisivi per spiegare la forza di una partito che iniziò ad indebolirsi dalla metà degli anni Settanta. La caduta del Muro e il confuso tentativo di un nuovo inizio, con tanto di nuovo nome – e malcerta identità – piombarono in un «edificio in disordine». L’agonia è durata a lungo e desta personali, talora autobiografiche, nostalgie. Il titolo alla Hemingway allude ad un dissolto “mondo di ieri”. Non è stata una furba e improvvisata rottamazione a corrodere i fondamenti della “diversità” comunista e a delegittimarne i propagandati fini. In un tempo di vertiginose trasformazioni essere rimasti almeno formalmente devoti al simulacro della “diversità” ha reso la subcultura rossa un’eredità anacronistica, coltivata come una “fede” senza oggetto.
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di Danilo Cecchi “Sono ancora un’adolescente ribelle”. Così si descriveva in un’intervista di qualche anno fa la fotografa “documentarista” americana Jill Freedman, nata a Pittsburgh nel 1939, dopo oltre quarant’anni di attività come “free lance”. Di un’adolescente ribelle ha conservato lo stile e lo spirito. Laureata nel 1961 in sociologia ed antropologia, lascia gli USA per Israele, e poi per Parigi e Londra, dove riesce a vivere, cantando per soldi. Rientrata negli USA nel 1964 trova lavoro come copywriter ed un giorno, quasi per gioco, si fa prestare una fotocamera, e d’improvviso scopre la sua vocazione e diventa fotografa autodidatta. Dopo l’assassinio di Martin Luther King si reca ad Washington dove viene accolta nel villaggio di baracche denominato “Resurrection City” e prende parte al movimento per la lotta alla povertà. Tornata a New York si aggrega ad un circo itinerante, di cui condivide gli spostamenti per due mesi attraverso otto stati. In seguito si aggrega ai vigili del fuoco di Harlem e del Bronx, di cui condivide la vita e segue gli interventi, per passare poi, lei che non amava i poliziotti, a seguire le pattuglie di strada del Nono Distretto, il così detto “Fighting Ninth”, fra City Aphabets e Times Square. Da queste diverse esperienze nascono quattro fotolibri, “Resurrection City” nel 1971, “Circus Days” nel 1975, “Firehouse” nel 1977 ed infine “Street Cops” nel 1982. Per qualche tempo Jill viene associata alla Magnum, senza tuttavia diventare socia, per non dovere rinunciare alla libertà di scelta dei suoi temi. Non lavora mai su commissione, e nel 1973 si reca in Irlanda, dove continua a fotografare, pubblicando “Irish Moments” nel 1987 e “Ireland Forever” nel 2004. In mezzo a questi libri trova il modo di pubblicare nel 1993 il libro sui cani “Jill’s Dogs”. Nel 1988 si ammala di tumore al seno, e non avendo né copertura assicurativa né un lavoro fisso, vende l’appartamento di New York e nel 1991 si trasferisce a Miami Beach, da dove non dà più notizie di sé, tanto che viene data per morta. Ricompare a New York dopo quindici anni, ospitata da amici e conoscenti, fino a trovare un nuovo alloggio nel 2007. Ritrovato un minimo di tranquillità, recupera i suoi archivi e vi mette mano per preparare un nuovo definitivo libro sui suoi anni a Manhattan. Nel suo lavoro, Jill Freedman viene spesso accostata ai più conosciuti ed affermati fra i rappresentanti americani e non americani della fotografia documentaria e della “street photography”, da quelli che considera i suoi ispiratori, come André Kertesz e Walter Eugene Smith, fino ad autori come Weegee, Dorothea Lange, Cartier-Bresson, Diane Arbus, Don McCullin
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L’occhio inquieto di Jill Freedman
e Leonard Freed. In realtà il suo stile, asciutto e spigoloso, diretto ed irriverente, poco attento ai formalismi, ai preziosismi, alla composizione o all’equilibrio estetico, è strettamente individuale e difficilmente assimilabile a scuole, tendenze e correnti. Il suo bianco e nero è sempre essenziale, concreto, efficace, le sue immagini sono crude, ma mai crudeli, critiche e spesso criticate, sincere ma mai offensive, coinvolgenti ma mai prevaricatrici. Negli anni Settanta ed Ottanta i suoi libri si vendono bene, ma Jill non è una abile nelle contrattazioni, ha un carattere difficile, è insofferente ai compromessi,
non si sa imporre, non riesce, e forse neppure vuole o prova, a promuovere se stessa. Benché le sue opere facciano parte di prestigiose collezioni permanenti, dal Museo d’Arte Moderna al Centro Internazionale di Fotografia, dalla George Eastman House allo Smithsonian, fino alla Public Library di New York, oltre che ad Houston ed a Parigi, il suo nome è poco noto, ed il suo lavoro è ignorato dalla maggior parte dei critici. Forse anche per questo, dopo dieci anni di lavoro attorno al libro su Manhattan, il libro, a quanto sembra, è ancora in cerca di un editore.
di M. Cristina François Giunti al 972 si apre un ‘buco nero’ per la storia della Chiesa di S. Felicita e suoi annessi. Infatti tra la Basilica cimiteriale e la Chiesa gotica – entrambe attestate da resti architettonici e decorativi – ci sono pervenute testimonianze solo documentarie non suffragate da resti materiali. La prova archeologica di un edificio sacro alto medievale, a mio parere, ci viene da Piazza dei Rossi dove ho identificato una possibile torre campanaria posteriore alla Basilica, e da tre capitelli su fusto in marmo serpentino (Inv. nn.9037,38,40) che oggi si trovano inglobati nel 1° mezzanino affacciato sulla corticina della Canonica al n.3. Questi capitelli e le colonne relative formano un portico rintracciabile dentro le stanze costruite nel 1848 per “il servo di Chiesa” e ancora oggi abitate. In quell’anno il Granduca ne accetta infatti la costruzione, con una sua “Superiore Resoluzione”, purché venga fatta “a regola d’arte”. Il portico appartenuto alla “Schola de’ Cherici di S. Felicita” è il risultato di un assemblaggio del 1625 realizzato a spese del Priore Assettati (A.S.P.S.F. Ms.720, c.169v): furono utilizzati i due capitelli protoromanici di risulta con l’aggiunta di un terzo capitello (neo-rinascimentale). Non si trattava, dunque, di un portico pertinente a un’antica chiesa rivolta a sud e mai finita di costruire. Chiarito questo, ritengo che i due capitelli su colonna provenissero dall’edificio sacro alto medievale (doc. nell’a.972) elevato sulle fondamenta dell’antica Basilica di S. Felicita che si sarebbe poi trasformato nella più ampia Chiesa gotica. I “Rossi d’Oltrarno” che appartennero al ‘popolo’di questa Chiesa frequentarono fin dal XIII sec. questo edificio religioso (prima romanico e poi gotico). Essendo di Parte Guelfa, i Rossi vennero allontanati durante il Governo Ghibellino (1360-1366). Nel periodo repubblicano ebbero alcuni Consoli, tre Priori e un Podestà, Bernardo De’ Rossi, che combatté gli eretici Patarini nel 1244 (cfr. “Cultura commestibile”, n.222, p.13). La Famiglia dei Rossi fu iscritta all’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano e ab antiquo fu benefattrice del Monastero di S. Felicita (Ms.720, c.135r, a.1616) le cui mura accolsero diverse Corali e una Badessa di questa stirpe. I Rossi ebbero in questo ‘popolo’ diverse abitazioni: la Torre dugentesca guelfa, d’angolo tra il capo del Ponte Vecchio e Borgo S. Jacopo. Questa Torre originariamente, al tempo in cui i Rossi lasciarono Fiesole per scendere a Fi-
Piazza dei Rossi,
2a parte
pochi metri quadri per 15 secoli di storia renze, appartenne a loro per passare in seguito ai Cerchi e ai Canigiani. Ebbero pure una Loggia e alcune Case nel primo tratto di Via Guicciardini fino a svoltare e occupare il lato sinistro di Piazza S. Felicita: queste abitazioni contigue fra loro, quasi una Consorteria, giunsero a noi fino all’agosto del 1944, quando i tedeschi in ritirata le fecero saltare con le mine. Ma di queste abitazioni trecentesche resta una testimonianza: al n.1 di Piazza S. Felicita esiste ancora un paramento murario di pietraforte da attribuirsi a quel “Palazzo De’ Rossi” trecentesco, rinnovato nel 1481-1482, e risistemato tra il 1494 e il 1495. Altra dimora, oltre il cosiddetto “Arco De’ Rossi” (il cavalcavia del Vasariano contiguo alla Chiesa), si trova nella Piazza che da questa famiglia prese il nome: “Platea de Rubeis” (cfr. doc. a.1321). Il signorile e ampio edificio ebbe a piano terra, in corrispondenza del “cantinone”, una ‘canova’ per la vendita e mescita del vino. Il che portò a denominare la Piazza anche “Piazzuola del fiasco”; il toponimo ri-
mase fino al 1929 (cfr. Stradario Comunale di quell’anno). Quando il Palazzo dei Rossi divenne Palazzo dei Canigiani, l’area fu detta “Piazza dei Canigiani”, almeno fino a tutto il periodo francese. Una mappa inedita del 1808 (A.S.P.S.F. - Ms.787/I) indica il Territorio del Popolo di S. Felicita e assegna al Palazzo Rossi-Canigiani i numeri civici 1626-1629, secondo la numerazione voluta dal Governo Francese. Campeggia sulla facciata lo stemma dei ‘Rossi del Leon Nero’, cioè d’Oltrarno. Lo stemma consisté inizialmente in un semplice scudo a ‘smalto rosso’, poi fu sormontato da un ‘rastrello’ a quattro denti (aggiunto dai Rossi di S. Spirito) con tre gigli gialli/oro di Francia (aggiunti da Luigi di Lionetto De’ Rossi, consigliere di Luigi XII di Francia) e al centro dello scudo un leone rampante, ad altre altezze cronologiche una semplice testa leonina che lo sormontava come oggi si può intravedere. I defunti della stirpe dei Rossi ebbero sepoltura in S. Felicita. Al 1379 risale un primo lascito di 300 Fiorini da parte di Noferi de’ Rossi per erigere sulla propria tomba una Cappella della SS. ma Trinità: questa Cappella sarà realizzata nel 1540 (A.S.P.S.F. Ms.724) per Brunoro De’ Rossi. Fu nel 1580, al momento dello scavo della tomba di Jacopo De’ Rossi, che avvennero i primi ritrovamenti del sepolcreto paleocristiano. Quanto all’altro edificio di questa Piazza, oggi segnato n.2, ma n.1688 sotto il Governo Francese, esso divenne - a seguito della Soppressione napoleonica del Monastero di S. Felicita - luogo di accoglienza per quelle religiose che, non avendo più una famiglia presso cui fare ritorno, lì trovarono rifugio. Le stanze da loro occupate furono quelle dell’ultimo piano dove già da sempre abitava il “Curato di settimana”. La casa venne per questo chiamata “il Conventino”. Sempre lo stesso edificio ospitò nell’ultimo ventennio del XIX sec. la famiglia di Francesco Giuseppe Ciseri, figlio di Antonio Ciseri autore del “Martirio dei Maccabei” in S. Felicita (1863).
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a cura di Aldo Frangioni Roberto Giansanti, scultore e orafo romano di fama nazionale, vive e lavora in Versilia. La sua ricerca stilistica si dirige verso un connubio tra uomo, natura e musica, dove gli elementi si alternano ognuno a favore dell’altro. Alcune delle sue sculture si trovano nel Bosco di Gianni e al Museo di san Francesco a Greve in Chianti (Firenze), in un bosco d’arte dove la natura può ed è rispettata dall’uomo, dove la musica e i suoni, quelli della natura, non hanno confini. Vincitore dei “mecenati del Contemporaneo” 2014 e tra i migliori under35 alla residenza di Ripetta, Roma; Giansanti è segnalato per la sua poetica alla collettiva internazionale di arte contemporanea “In Contemporanea Porcari” 2015 e insignito di una speciale menzione a “In Contemporanea Porcari 2016”.Il colloquio fra arte e natura è sicuramente uno dei più ambiti degli ultimi anni. Importanti esempi sono in Toscana nei parchi della Maremma, nella più vicina provincia di Pistoia nella fattoria di Celle, così come in Europa, destando interessi di collezionisti e appassionati di tutto il mondo. Dal 26 marzo al 20 agosto la scultura è protagonista all’Orto Botanico di Lucca, con ‘M.A.N. Melodia Arte Natura’, la mostra dell’artista romano Roberto Giansanti, un mirabile caso di arte pubblica e ambientale all’interno della città di Lucca, in uno spazio verde ricco di storia e tradizione, voluto da Maria Luisa di Borbone nel 1820. Sono cinque le grandi sculture collocate nelle aree verdi del giardino, realizzate site specific, attraverso cui si racconta il particolare rapporto che l’artista percepisce tra uomo musica e natura. Alle statue monumentali, realizzate nel 2016 con bronzo, resina, legno, ceramica raku, corrispondono le sculture dei bozzetti preparatori collocate nella serra grande, in modo che lo spettatore possa prendere consapevolezza dell’atto creativo. Della mostra e dell’opera di Giansanti, si parla anche nell’atrio di Palazzo Bernardini nel centro storico della città di Lucca, sede di Confindustria Toscana Nord, con l’installazione del gruppo scultoreo ‘Infine Germogli un canto’ che resterà, come pendant, fino al mese di agosto. L’esposizione rappresenta anche un esempio di valorizzazione sociale dell’arte. Infatti, ad un anno dal terremoto che ha colpito il centro Italia (2016), l’artista ha deciso che parte del ricavato dalla vendita delle opere sarà devoluto in beneficenza a favore di quelle popolazioni. I fondi raccolti saranno donati attraverso il progetto ‘Un abbraccio per Accumoli’ istituito dall’Amministrazione Provinciale. La mostra, a cura di
14 15 LUGLIO 2017
Roberto Giansanti all’Orto Botanico Riccarda Bernacchi e Lucia Morelli, è organizzata dall’associazione culturale Venti d’Arte in collaborazione con l’Opera delle Mura. Patrocinata dalla Regione Toscana, dalla Provincia di Lucca e dal Comune di Lucca, è realizzata in collaborazione anche con Confindustria Toscana Nord.
Foto di
Pasquale Comegna
Mitoraj a Pompei
di Claudio Cosma Ape Koala con ritratto di me canuto L’immagine rappresenta un lavoro del 2013 dello scultore giapponese Mitsunori Kimura dal titolo: “Ape Koala”, realizzata in legno di canfora, come quasi tutte le sue opere. La foto, dove compaio anche io, è stata realizzata da Emanuele Baciocchi, artista anche lui, che usa la macchina fotografica come mezzo espressivo. L’occasione e la necessita della foto era stata un prestito temporaneo delle sculture per una mostra, di modo che rimanesse una traccia dell’opera nello spazio dove era in corso una sua esposizione. La foto, quindi, è svariate cose contemporaneamente: una riproduzione della doppia scultura del Kimura, un lavoro d’arte autonomo essendo fatta dal Baciocchi, un documento di testimonianza per una precisa situazione, un piacevolissimo ricordo e infine un mio ritratto, dove entro, occasionalmente, a far parte della divergenza, mai del tutto individuata, fra esseri umani e scimmie, sotto l’occhio divertito del koala che fa da testimone. L’ape (in inglese, scimmia, primate) scolpito, si situa in un momento incerto dell’evoluzione, ma possiamo dire sicuramente che testimonia un periodo dove il nostro antenato si è sollevato e incomincia a camminare su due zampe, magari un po inclinato in avanti. Non è un capostipite di 85 milioni di anni fa e questo fatto lo potrà dimostrare qualsiasi bravo paleontologo. Già quasi umano il primate sembra ancora pelosetto, contrariato e non assertivo, accovacciato in una vigile posa di relax, con la pacata serenità dei vegetariani. Insieme al koala sono sistemati in alto, dove bisogna immaginarli ognuno su di un albero, un eucalipto per il bestiolo e un albero di noce moscata per l’altro. Dico così per dire, l’eucalipto so per certo che è fonte di
Un armonico trio nutrimento per i koala e potrebbe benissimo starci, per il primate l’associazione con l’albero di noce moscata mi è venuta per via che è realizzato con legno di canfora e due profumi possono stare vicini. I successivi utilizzi umani come antitarme e condimento, non li riguarda e poi dire che qualcuno è sceso da un banano, fosse anche una scimmia, pare brutto e allora il banano che poteva naturalmente ospitare il nostro antenato, l’ho senz’altro sostituito col myristica fragrans che produce le noci moscate e il macis ed evoca paesaggi lontani come è giusto aspettarsi da un autore orientale. I colori sono in sintonia per tutti e tre i personaggi, io ho i capelli grigi come il pelliccino dei koala e sono vestito di marrone come l’umanoide, pertanto posso camuffarmi e mettermi in posa con i componenti del triangolo rovesciato che andiamo a formare. Cosa ci raccontiamo rimarrà un segreto, ma posso affermare che l’atmosfera era tranquilla e proclive al dialogo, sebbene, nel
momento dello scatto della foto ci fossero altre persone nella stanza e vari attrezzi come cavalletti e lampade che un pochino disturbavano la concentrazione e fatto più volte perdere il filo del discorso. In quel periodo l’Ape e il Koala non facevano parte della collezione come poi, fortunatamente, sono diventati, ma erano un prestito dell’autore per la mostra: “Minimi contrasti” dove esponeva in coppia con la scultrice malese Tan Ru Yi e questo lasciava dei dubbi sulla loro permanenza a Firenze e mi pare di questo, anche, si è parlato e del loro desiderio di rimanere senza affrontare il lungo viaggio del ritorno. Successivamente Mitsunori Kimura ha fatto in Giappone una personale intitolata: “We Mammals”, confermando, di fatto, la legittimità dell’inserimento. Nel giocoso bestiario di Mitsunori Kimura mi trovo sempre a mio agio e solo apparentemente sembro scherzare quando fingo di conversare con le opere che ne fanno parte.
15 15 LUGLIO 2017
premio letterario
I migliori 10
PRIMA EDIZIONE 2017 di Paolo Cocchi “Come come, quante volte ci saresti stato a Milano? Te lo dico io: ci sei stato due volte. Due”. Vladi mi guarda con i suoi occhietti, strizzati e sporchi, poi beve, continuando ad agitare le dita, per ribadire il concetto. E’lo stesso mezz’ometto, col ciuffo e la barba che si sono fatti grigi. Ingrassato anche lui. Forse ha dovuto smettere di fumare, a un certo punto. “Hai mica smesso di fumare?” gli domando. “No. Mai fumato in vita mia. Tu fumavi, Francesco fumava, e anche la Roberta e l’Elisabetta” fa lui. Siamo lì a rivangare i bei tempi, lui si ricorda tutto, anche i nomi, io no. “Ci sono stato una volta sola a Milano, Vladi. La volta dello scampo”. “E quella dei navigli” fa lui. “Ma sei sicuro?” gli chiedo. “Sicurissimo” risponde. Solo adesso mi vengono in mente i navigli di notte e noi due che giriamo per strada in cerca di un ristorante. Le luci brillano sull’acqua scura che odora di marcio. Sorrido a Vladi. “Vedi?” fa lui soddisfatto, “ma, la volta dello scampo, te la ricordi bene?” Sì. Ero andato al mercato del pesce per acquistare una cassetta intera di scampi freschi. Volevamo trovarne almeno uno senza difetti, da fotografare. Ci eravamo messi a frugare tra gli scampi, delicatamente, in cerca della testa più bella, con gli occhietti brillanti e le chele integre e con tutte le zampine al loro posto. Incredibile, ma in un’intera cassa di scampi non ce n’era uno perfetto. Era stato Vladi a proporre: “Facciamo come Frankenstein, prendiamo la testa di uno e il corpo di un altro.” Un’ottima idea. Ci eravamo messi all’opera, con Vladi a spruzzare acqua fresca con un nebulizzatore sopra lo scampo a pezzetti che però sembrava intero. Apro una bottiglia di rosso. “Brindiamo!” gli faccio, voglio scacciare il velo grigio che mi cala sugli occhi. “Ma sì! Crepi l’avarizia” fa lui. Sono contento di averlo ritrovato. Accidenti se è strana la vita! Mentre beviamo Laura rientra dal lavoro. “Ti presento il mio amico Vladi” le dico, quando lei è ancora di spalle, sulla porta di casa, e sta sfilando la chiave dalla serratura. “Ciao, sono Vladi” fa il mio amico e poi mi guarda come per dire che è ancora una bella donna. Il suo
16 15 LUGLIO 2017
Spaghetti con le acciughe
sguardo dice esattamente: “nonostante tutto”. “Piacere di conoscerti” dice Laura. “Ho preparato gli spaghetti con le acciughe. Te ne lascio un po’ per cena?” Lei non risponde. Non si ferma con noi. Stasera non mi chiederà di Vladi, dell’agenzia. E non mangerà l’acciugata. Dopo il film, andremo a letto in silenzio e spengeremo la luce per dormire. Ma va bene così. Ci vuole tempo. Non conta avere fretta. E per andare dove, poi? “Ti sei ricordato di medicare il roso? Era pieno di pidocchi” mi fa lei. “Si, stai tranquilla. L’ho fatto prima che arrivasse Vladi. E’ tutto a posto. Allora, per stasera ti lascio un po’ d’acciugata?” Vladi, imbarazzato, le porge la mano: “Complimenti per la casa. Proprio bella. Queste vetrate, questo bel giardino… è proprio bella.” Mia moglie ricambia la stretta. Le mani le invecchiarono di colpo, più dei capelli e del viso. Poi stira un piccolo sorriso, colmo, straripante di buona volontà, un sorriso che mi stringe il cuore. Da fuori ha portato un odore di ciclamino. La siepe del nostro vicino quando fiorisce deborda dalla recinzione e non puoi fare a meno, passando, di strusciarti a tutti quei fiorellini profumati. “Grazie Vladi” dice mia moglie, poi fa rivolta a me: “Io vado a cambiarmi”. Comincio a fare i piatti. Vladi se ne è andato. Butto un’occhiata all’acciugata e alla pianta in giardino. Il nostro è un bellissimo roso, rampicante, dai fiori bianchi. E’stata Laura a pretenderne uno dai fiori bianchi, immacolati. Quando dal fioraio ha detto “immacolati” si è messa a piangere e io le ho messo una mano sulla nuca, per massaggiarla un po’ ma lei si è scostata, lentamente, per non dare nell’occhio al fioraio. Era passata una settimana appena, e quasi non riuscivamo a parlarci ma lei ha voluto che piantassi un roso. Io ho capito, perché
Illustrazione di Aldo Frangioni
i rosi, come la vita, sono piante piene di spine e producono fiori fragili e belli, come i figli. Il fioraio pregò di fare uno scavo almeno tre volte l’ampiezza del vaso. E io lo feci anche più grande. Ero a New York per lavoro e mi stavo dando da fare. Mi pareva una gran cosa essere finalmente a New York per lavoro. Non avevo idea che la faccenda fosse così grave. Così le dissi, un po’ scocciato: “Ti preoccupi troppo, Cristo! Se torno martedì sarà uguale, no?”. Litigammo per telefono. Io ero anche un po’ geloso e lei, glielo dissi, si preoccupava troppo per il bambino. Le attenuanti, mentre scavavo la buca e anche dopo, me le tenni per me. Mentre scavavo pensai che da quel compito, limitato, da come avrei piantato il roso, potevamo ricominciare. Piantare un roso, cucinare spaghetti con le acciughe, sopportare il suo sorriso che mi stringe il cuore, fare tutto con attenzione, senza anticipare e pensare di essere altrove. Il futuro è un inganno e il sollievo dipende solo dall’attenzione. Lasciando che il tempo scorra. Ed è così che la penso ancora. Nota biografica:
Paolo Cocchi vive a Barberino di Mugello dove è nato nel 1958. Dopo aver conseguito la laurea in filosofia morale, ha lavorato nel settore editoriale e pubblicitario. Dal 1990 al 1999 è stato sindaco di Barberino e dall’agosto 2007 all’aprile 2010 assessore alla cultura della Regione Toscana. Oltre a saggi e articoli di argomento filosofico e politico su riviste specializzate, ha pubblicato nel 2000 Il comune che verrà, nel 2010 Diario di un diario, nel 2013 La bilancia smarrita.
di Valentino Moradei Gabrielli E’ sorprendente la superficialità e la scarsa attenzione per le opere d’arte quando si agisce con l’intento di risolvere problematiche legate alla messa in sicurezza di installazioni ed opere esposte in occasione di mostre temporanee. Ho ancora il ricordo dell’opera dell’artista Remo Salvadori “Continuo infinito presente”, esposta in piazza San Giovanni nel 2010 in occasione della mostra: “Alla maniera d’oggi, base Firenze”. Un anello di corda in acciaio di circa cinque metri di diametro, che circondava la colonna di San Zanobi. L’anello fu presto isolato e reso innocuo dai solerti operai del comune di Firenze con brutte e mal posizionate transenne, come fosse una pericolosa voragine nel lastricato di pietra. La stessa attenzione fu adottata anche nel 2016 in occasione dell’esposizione della stessa opera nella città di Carrara, dove “Continuo infinito presente” circondava la Vasca del Gigante di Baccio Bandinelli. Un brutto caso recente è a mio avviso il “Balcone” di Luciano Fabro esposto al Forte di Belvedere in occasione della mostra “Ytalia” curata da Sergio Risaliti, dove le 5 preziose lastre in marmo bianco venato, ben levigate, sono assicurate al parapetto con vistosi cavetti in acciaio protetti a loro volta da tubi di gomma nera fermati con invadenti morsetti che interrompono visivamente il messaggio compatto e materico degli slanciati monoliti. Nella stessa mostra, non mancano però buoni esempi di mimetismo, come nell’opera di Bagnoli, dove si è operato con attenzione all’occultamento della cassa sonora presente tra i rami del pino che abbraccia l’opera: “Ascolta il flauto di canna”, e che all’occhio attento e curioso del visitatore appare come un inaspettato e piacevole nido di gazza ladra.
Messaggi interrotti! 17 15 LUGLIO 2017
di Cristina Pucci E ora che la mostra in corso da tempo a Palazzo Strozzi si avvia a chiudere i battenti e ora che ho trovato il coraggio di andare a vederla, senza paura di danneggiare l’afflusso (!?) di pubblico con le mie critiche, mi decido a scrivere le, brutte, impressioni che mi ha fatto guardare, con attenzione i video di Bill Viola. Già il documentario su di lui mi aveva rivelato che a me non sarebbe piaciuta la sua arte... La morte aleggia ovunque nell’opera di questo Viola. Ci accoglie, nel profondo buio della prima sala, uno schermo alto e stretto in cui un uomo va nella sua vita, si avvicina a noi, lentamente, poi, arrivato, sempre lentamente, ma con assoluta inesorabilità, viene assalito dal fuoco che lo divora. Dalla parte opposta, un uomo, lo stesso imponente e con passo pesante, cammina, quando si ferma l’acqua lo bagna, lo innaffia, lo travolge, lo sommerge. Un sottofondo molto rumoroso e in tema ci tormenta. Terra, acqua, aria, fuoco, elementi essenziali per il nostro vivere, finiscono per esserci nemici. Perché? Non lo sono, anzi, possono esserlo, certo, solo a volte. La curiosità iniziale mi ha sostenuto. Nella seconda stanza c’è la bellissima Visitazione di Pontormo, Maria ed Elisabetta, incinta, si incontrano. Colori vividi e delicati, panneggi e morbidi e ricchissimi, volti particolari e belli, acconciature accurate, espressioni semplici e misteriose e serene e pensose. Viola filma l’incontro fra tre donne con studiata e perfetta lentezza, dopo un po’... noia provo, soprattutto. Mi sorprendo ad osservare che una donna è vestita come una frikkettona figlia dei fiori e che il suo sorriso, falso, mostra una terribile dentiera. Osservazioni banali, nate dal fastidio. Stessa noia , mitigata questa volta dalla pena e dalla emozione di tristezza che è impossibile non condividere con le due meschine che accolgono il bel corpo di un giovane che esce dal sepolcro. Nitido ed irreale il biancore della sua pelle illumina la scena diffondendo algida disperazione e suscitando, almeno in me, un mortificante senso di ingiustizia per tale sacrificio. Esce con lui dal sarcofago ancora acqua, persecutoria e mortifera. Trattasi di Emergence, ispirata ad una Pietà di Masolino. Cranach ritrae Adamo ed Eva, nudi riempiono due pannelli rettangolari, ci guardano un po’ casuali e come interdetti. Man e Woman: un uomo ed una donna, vecchi parecchio, nudi, magri ed alti, vengono a piccoli, e sempre lenti, passi verso di noi e ci guardano. Furono due bei corpi i loro, molto, solo il tempo ne ha deteriorato la perfezione .Accendono una torcia piccola e con essa, con esasperante attenzione
18 15 LUGLIO 2017
Bill Viola, da prendersi a piccoli fotogrammi
e meticolosa cura, illuminano rughe, pieghe e cadute della loro pelle. E ancora mi chiedo, pur restando, forse, come un po’ ipnotizzata, a guardare questo inutile cammino che getta luce sulla inesorabilità del tempo, perché? Abbiamo bisogno di sottolineare le intemperie che ci attraversano? Dico che luci, colori, cieli, sfondi sono realizzati con grandissima cura e riescono perfetti nei loro caldi o algidi cromatismi, alcuni proprio come fossero dipinti e lo fossero stati in epoche antichissime. Tecnica perfetta. L’unica opera che a me appare un po’ più rasserenante, sia pure ancora permeata
del senso di finitezza delle stagioni della vita, è quella in quattro piccoli quadri, Catherine’s Room. Una donna in una stanza si muove e fa cose, mattina, pranzo, pomeriggio e sera. Una finestra piccola, a lato, in alto, mostra un ramo su cui scorrono le stagioni. Alla fine la donna giunge nuda alla sua meta. Lo stesso concetto, ma reso con dolcezza. La luce e la essenzialità degli oggetti mi hanno evocato la bellezza dei gesti quotidiani immortalata da Vermeer. Il tempo che l’artista ci impone non mi si confa. Un singolo fotogramma di ognuna delle opere mi appare bello, molto.
di Claudia Neri Di passaggio per via San Gallo, all’altezza di Sant’Apollonia, mi soffermo fuori da un bar, uno fra i tanti che accolgono studenti nella zona; l’insegna SIT’N’BREAKFAST libreria.co-working. caffetteria lascia intuire qualcosa più di un semplice caffé. Piccoli oggetti colorati occhieggiano dall’interno, mi incuriosisco, entro. Oltre il caffé trovo infatti una piccola mostra o meglio, la presentazione di un marchio che propone i gioielli realizzati da Clizia Moradei, una giovane designer fiorentina che sperimenta nuovi materiali con estro e sensibilità. Il marchio Clizia Jewelry offre due collezioni Trame e Primari. Trame propone anelli e bracciali in metallo realizzati con l’antica tecnica della fusione a cera persa, Primari è invece una collezione più innovativa che propone sedici anelli in resina artificiale. Le forme, per effetto dei materiali usati, prendono corpo di volta in volta rendendo unici questi pezzi. Ogni anello è battezzato col nome di un colore e la definizione cromatica genera per ciascuno di essi una storia che li anima di potenzialità espressiva. Negli intenti della designer il colore è inteso come vis capace di trasfondere nell’oggetto l’idea primigenia. Ogni colore è protagonista di una sua propria storia e l’anello ne risulta la “messa in scena” dai titoli evocativi: nuvole, acqua, bianco, ambra, corallo, denim, fucsia, cristallo, kiwi, hazel, scarlet, leo, cyan eccetera. Ambra, per esempio, è così presentata: “rara come le più preziose gemme estratte dalle profondità delle montagne, rozza fuori ma tenera dentro. Perfetta se ami viaggiare intorno al mondo in 80 giorni mano nella mano col tuo compagno. Capace di catturare l’attenzione della gente che va a lavoro e che perde il bus per gustare una deliziosa tazza di caffè color ambra”. Indossando questo anello dalla forma esuberante, si apprezza il sapiente gioco di fusione tra resine colorate che richiama la misteriosa trasparenza dell’ambra; man mano che si toglie un anello per infilarne un altro la combinazione di materiali e colori diversi produce effetti che
Gioielli di nuvole, ambra, corallo, hazel, scarlet...
suscitano sensazioni sempre nuove. Uno colpisce più di altri, rosso fuoco, sembra quasi che lambisca il dito con violenza e infatti l’io narrante di Corallo cattura fino ad una immedesimazione fisica:”provengo da un piccolo villaggio dove prima sorgeva Pompei...Quando eruttò il monte Vesuvio ero seduta vicino alla finestra della nostra vecchia casa ed osservavo la lava fiammeggiante che scendendo si apriva un varco verso il mare. Da allora sono stata attratta dal colore vivido e vibrante del rosso corallo, un colore che rappresenta per me un insieme di sensazioni contrastanti: distruzione tremenda e magica bellezza”. Dopo aver letto i “racconti” che accompagnano ogni pezzo mi sono chiesta se nella scelta di un anello prevarrà più il gusto personale o le suggestioni suscitate dall’affabulazione della designer.
19 15 LUGLIO 2017
di Domenico Villano Dal 2013 il Venezuela vive una profonda crisi economica, politica e sociale, che mese dopo mese va aggravandosi. Una crisi strumentalizzata fin dal suo principio dai media occidentali, essi infatti non si sono fatti scappare l’opportunità di screditare il sogno del “Socialismo del XXI secolo” del defunto Chavez e di utilizzare lo spauracchio del Venezuela per dichiarare come folli e inattuabili le proposte, meramente riformiste, dei partiti e movimenti progressisti nati dopo la crisi del 2008. Ogni volta che lo spagnolo Pablo Iglesias o il francese J.L.Mélenchon sono invitati ad un talk show, ecco comparire sugli schermi televisivi immagini delle proteste nel paese sudamericano, le file ai supermercati, i militari in strada e i feriti in ospedale. Va detto però, che anche nel campo progressista europeo, la questione venezuelana è vissuta con disagio, in molti non si pronunciano, avendo l’onestà intellettuale di tacere quando non hanno delle notizie affidabili cui far riferimento, altri invece, come i vetero-comunisti nostrani, esprimono solidarietà incondizionata alla “rivoluzione bolivariana” assediata dall’imperialismo statunitense. Vista la situazione è il caso di andare a fondo nell’analisi della situazione venezuelana scrollandosi di dosso sia la propaganda dei media istituzionali sia l’ideologia sinistroide. Da un punto di vista economico, il paese sta vivendo una forte recessione, accompagnata da una repentina involuzione liberista delle politiche governative, con l’effetto di mandare in fumo gli sforzi decennali del governo di Chavez nel perseguimento dell’uguaglianza sociale. L’inflazione supera il 700% su base annua, il PIL è crollato del 18%, il tasso di povertà è tornato ai livelli del 2011 e gran parte della popolazione vive una vera e propria crisi umanitaria. Il 90% della popolazione non ha le risorse per acquistare il cibo necessario a nutrirsi, negli ospedali e nelle farmacie mancano i medicinali; per acquistare un paniere di beni essenziali sono necessari 17 redditi minimi mensili. Sul piano istituzionale, il paese è in mano ad un’elite partitica e militare che affonda le sue radici nella rivoluzione bolivariana, ma che ha da tempo abbandonato la sua mission rivoluzionaria per dedicarsi al sopruso e all’accaparramento fraudolento di risorse pubbliche. L’opposizione invece, guidata dall’elite economica nazionale fomenta la violenza e lotta per riconquistare il potere e cancellare il Chavismo dalla storia. Il loro “piano” per uscire dalla crisi è il solito progetto liberista: imporre austerità e svendere il paese e le sue industrie
20 15 LUGLIO 2017
Venezuela 2017 un’analisi sincera
strategiche alle multinazionali. Gli sfortunati venezuelani non devono però aspettare un cambio di regime per vedere gli effetti delle politiche liberiste, infatti lo stesso Maduro ha intenzione di svendere ai privati parte della PDVSA (la compagnia petrolifera statale venezuelana). Inoltre, ha offerto alla multinazionale canadese Barrick la licenza per l’apertura di attività estrattive, con regime fiscale agevolato, nella regione amazzonica dell’Arco Minero, polmone verde del paese abitato dai popoli indigeni. Di certo l’elite economica del paese e le grandi aziende straniere hanno contribuito a portare il Venezuela nella crisi attuale, sicuramente il calo dei prezzi del petrolio ha aggravato la bilancia delle esportazioni del paese, ma la causa prima della crisi venezuelana è il mal governo e la corruzione. Uno sguardo alla gestione dell’estrazione petrolifera basterà per corroborare questa tesi: Chavez aveva promesso di utilizzare il surplus generato dalla vendita del greggio per
diversificare le esportazioni nazionali, ebbene oggi il 95% dell’export venezuelano è rappresentato proprio dall’estrazione petrolifera contro il 67% del 1997. Andando più nello specifico scopriamo che, sebbene negli ultimi 10 anni il prezzo del petrolio si sia attestato quasi sempre sopra i 100 dollari a barile, il governo bolivariano, nel calcolo degli introiti del settore petrolifero, ha continuato a considerare il prezzo al barile di 60 dollari. Sorge spontanea la domanda: dove sono finiti gli introiti eccedenti? Molto probabilmente sono andati nelle tasche della nascente elite partitica, che ha tradito gli ideali del chavismo. Dunque, il problema del Venezuela non è il socialismo, e neanche l’imperialismo americano ma il cancro della corruzione, tanto diffuso tra i popoli latini al di qua e al di là dell’atlantico. I dati presenti nell’articolo sono tratti dall’articolo di Mike Gonzalez del 07/08/2017, “Being Honest About Venezuela”, Jacobin magazine, U.S.A.
di Gianni Biagi Fare tornare in vita Federico II di Svevia è stato per molti secoli un sogno sperato o un incubo da evitare. L’imperatore per due volte scomunicato dalla chiesa e che, per colmo del contrappasso, organizza la crociata che libera Gerusalemme, l’amante sfrenato che aveva-unico in Europa- un harem, l’uomo appassionato di scienza e di conoscenza che ha costellato l’Italia di castelli, è riapparso a Prato. Nella città del Castello dell’Imperatore il “Teatro della Baracca” ha messo in scena una “piece” teatrale nella quale l’Imperatore dialoga per oltre un’ora con la maschera della”commedia dell’arte” per eccellenza Arlecchino. Uno spettacolo vivace e penetrante, divertente e malinconico dove le doti di Gianfelice D’Accolti (un imperatore con lo sguardo sempre vigile e vivace e con vibrante presenza scenica) e di Maila Ermini (un Arlecchino perfetto nei gesti e nella dizione) sono messe in evidenza da una scenografia essenziale. Lo spettacolo, scritto e diretto da Maila Ermini, è andato in scena lunedi 3 luglio nello spazio del Giardino Buonamici un enclave di verde e di storia a due passi dal castello dell’Imperatore e al centro di una Prato silente e quasi e magica per l’atmosfera sognante delle sue piazze e delle sue strade.
Il dialogo impossibile
Influencer: furbi imbonitori di Sergio Favilli Ogni tanto qualche furbastro, prendendo a prestito accadimenti già vissuti ed abbondantemente sperimentati, cambiando loro il nome riesce a far soldi a palate sfruttando la dilagante dabbenaggine oggi imperante soprattutto fra le giovani generazioni. E’ questo il caso dei cosiddetti “influencer” i quali, ben conoscendo l’utilizzo dei social hanno oramai rimpiazzato i già obsoleti “testimonials” ormai passati di moda e non più ascoltati come un tempo. Questi “influencer”, novelli imbonitori, se ne stanno qualche ora al giorno sui social a sparare minchiate sulla moda, su come apparire a la page, su come camminare, su quali diete seguire insomma su tutto lo scibile umano!! Queste raccomandazioni esistenziali sparate a raffica sui social riescono in brevissimo tempo ad influenzare i consumi ed i comportamenti di centinaia di migliaia di ingenui e sprovvediti ragazzini e ragazzine i quali, ignari del loro potere, son visti esclusivamente come polli/ consumatori da spennare in continuazione!! Tutto questo fa si che, se una certa Genovef-
fa “influencer” con un milione di seguaci si dichiara entusiasta delle mutandine di marca “ruvidon”, immediatamente migliaia di adepti corrono ad acquistare, appunto, le mutande marca “ruvidon” !! Non è difficile comprendere che per un post sui social di Miss Genoveffa le aziende son pronte a pagare laute prebende a questi furboni del webb!! I maggiori “influencer” mondiali hanno anche svariati milioni di seguaci e per un loro post si è arrivati a pagare anche 300 – 400 mila euro!! Pensate, 400 mila euro per quattro righe, una foto ed un clic!! Come diceva un vecchio filosofo, la storia non ha mai insegnato nulla all’uomo altrimenti ci si dovrebbe ricordare che i maggiori “influencer” della storia son stati Gesù, Maometto e Budda i quali hanno ancora oggi miliardi di credenti e di seguaci della loro indubitabile saggezza!! Loro non vendevano mutande e abbigliamento, loro diffondevano idee !!! I nostri giovani saranno sì vestiti di tutto punto indossando anche mutande firmate, ma spesso son privi di idee sulla loro vita e sul loro futuro! Leviamogli le mutande… dalla testa!!
Disegno di Lido Contemori
21 15 LUGLIO 2017
di Francesco Cusa Con Spider Man “Homecoming” di Jon Watts, abbiamo respirato le atmosfere del fumetto che tanto ha solleticato le fantasie delle nostre stagioni adolescenziali, fungendo da vera e propria “avventura di formazione”. Il grande merito del film è quello di aver riconsegnato le atmosfere “pop” del fumetto dei Settanta (un vero e proprio capolavoro i titoli di coda) - i colori, la grana, il “profumo” della pagine,- all’asetticità dell’era digitale. E così Peter Parker torna ad essere l’impiastro cazzone d’un tempo, con l’aggiunta dei “selfie” al telefonino a testimoniare le sue acrobatiche evoluzioni di ragazzino brufoloso in preda all’incontenibile gioia per l’acquisizione dei poteri soprannaturali. Ci sta tutto il riscatto sociale del nerd sfigato di quartiere (e anche qui respiriamo le atmosfere “proletarie”del tempo del fumetto), che tentenna tra senso del dovere e dell’apparire, in quella che è la naturale disposizione dell’animo di ogni essere dell’era dei social. In questo senso l’opera di Watts e dei suoi sceneggiatori è sublime; a cominciare dal fatto che il plot comincia
di Gianni Biagi Ho una particolare affetto per il Cimitero degli Allori in via Senese in prossimità del Galluzzo. Sarà perchè mi accompagna nei miei pendolarismi da casa a lavoro e mi ha accompagnato nei miei viaggi sul bus ai tempi della scuola, sarà perchè ci sono sepolti amici (come Ennio Macconi giornalista e amico dell’Eritrea), persone che ho conosciuto (come Leonardo Ricci architetto e preside della Facoltà di Architettura durante i miei studi), fiorentini famosi come Oriana Fallaci. Oppure sarà perchè è proprio come uno si immagina sdebba essere un cimitero. Con un grande cancello di ingresso, una cortina di cipressi che lo delimitano e che segnano e suoi percorsi principali, e con le tombe che raccontano con steli, busti, opere d’arte la storia di chi giace. In questo luogo di affetti e di dolore si è svolto il concerto del Quartetto Klimt (Duccio Ceccanti violino, Edoardo Rosadini viola, Alice Gabbiani violoncello e Matteo Fossi pianoforte) che hanno suonato Mahler (quartetto con pianoforte) e Brahms (quartetto con pianoforte n°1 op.25), intervallati dalla voce recitante di Gianluigi Tosto con letture da von Hofmannsthal, Shakespeare,
22 15 LUGLIO 2017
Il nostro caro uomo ragno
con Spider Man che ha già da tempo acquisito i suoi superpoteri. Questo espediente consente uno sviluppo meno affabulatorio delle vicende di “Homecoming”, per lasciar spazio alla caratterizazione psicologica del
personaggio e dunque all’evoluzione via via più incalzante della trama. Marvel Studios ha il grande merito di dare continuità negli anni al suo mondo straordinario proprio grazie alla costante reinvenzione dei propri storici personaggi, per quella che potremmo definire una vera e propria “mitologia barthesiana”. Ciò, grazie allo sviluppo progressivo del mitologema dell’eroe che viene costantemente rigenerato a partire dalle sue stesse spoglie, dai brandelli di maschera che si fanno costantemente “cronaca”, in barba alla storia, al tempo ed alla nostalgia che nicchia in un maldestro tentativo di agguato perenne. A mia memoria non ricordo nessuna operazione del genere nella storia dell’arte moderna e contemporanea. Dunque, un film in superficie scorrevole ma denso di sottotesti. Il pubblico di ragazzini del 2017 infatti “riconosce” e si riconosce nella rivisitazione di un eroe totalmente affrancato dal peso della storicizzazione e da tutto ciò che lo relegherebbe alla memoria dell’illustre passato illustrato. Risate, emozioni, stupori erano palpabili in sala, dal più giovane al più “vecchio” spettatore (il sottoscritto). E per una volta, possiamo definirla vera e propria “empatia tra sapiens”.
Klimt al cimitero
Jean Paul e Franz Grillparzer. Una serata coinvolgente e da tutto esaurito che ha regalato ai numerosi partecipanti una visione suggestiva del luogo e una riflessione attenta al futuro.
di Simonetta Zanuccoli Nel “reinventare” la Parigi che oggi conosciamo, Haussman si occupò con l’aiuto di Gabriel Davioud, noto architetto dell’epoca, anche di quello che in francese si chiama le mobilier urbain, vale a dire l’arredo urbano, comprensivo di lampioni a gas per i boulevards e lampioncini sospesi per le strade strette (fino ad allora Parigi era molto buia), panchine, cestini dei rifiuti, targhe stradali, pensiline, colonne per locandine di teatri (dette Morris dal loro inventore)...e anche i vespasiennes per gli uomini e gli chalets de nécessité per le donne, elaborati e eleganti chioschi considerati di grande modernità date le cattive condizioni igieniche in cui versava la città. Tranne quest’ultimi (ma alcuni vespasiani forse sono sfuggiti alla distruzione), tutti gli arredi voluti da Haussmann hanno resistito nel tempo e contribuiscono, forse in maniera più anonima delle architetture appariscenti e dei maestosi boulevards, a preservare la Parigi dell’immaginario collettivo. Tra questi, i chioschi dei giornali e le fontane Wallace sono diventati imprescindibile caratteristica delle vie della capitale francese come le facciate dei negozi dipinte o i minuscoli tavolini tondi dei bistrot. I primi chioschi, dal tipico colore verde come tutti gli arredi urbani haussmaniani, furono installati nei Boulevards e affidati a vedove di soldati o a donne indigenti per garantire loro una piccola rendita con la vendita dei giornali. Con un orario d’apertura alle 4.30 del mattino che accoglieva i commercianti che si recavano ai mercati con notizie fresche e un sistema d’illuminazione a gas che permetteva ai passanti che si attardavano sui boulevards nelle ore notturne (boulevardiers) di avere un punto d’incontro luminoso per discutere di ciò di cui parlavano i giornali, i chioschi ebbero subito un enorme successo tanto che solo dopo due anni furono sostituiti con altri ancora più eleganti e importanti. Purtroppo la loro esistenza, così come li possiamo vedere ancora oggi (a Parigi ne sono rimasti 266) è messa in serio pericolo dai nuovi modelli, dalla forma molto più anonima, che dal 2019 dovrebbero sostituire quelli haussmaniani, nonostante le proteste e una petizione di 58.000 firme per “preservare lo spirito della vecchia Parigi”. Anche le fontane Wallace sono un altro emblema della città. Piccole opere d’arte in ferro, naturalmente verde, ispirate a un’estetica rinascimentale, furono progettate in 4 dimensioni e disegni differenti dallo scultore Charles-Auguste Lebourg. Tutti i modelli hanno 4 figure femminile che rappresentano la Carità, la Sobrietà, la Bontà e la Semplicità. Le fontane prendono
Chalet de necessité
il nome dal filantropo inglese sir Richard Wallace che, trasferitosi a Parigi, le aveva donate alla città, che a seguito del lungo assedio prussiano aveva gli acquedotti distrutti e l’acqua potabile a prezzi proibitivi, in modo da permettere a tutti di dissetarsi gratuitamente. Oggi, oltre alle copie che Parigi ha regalato come suo simbolo a molte città nel mondo in segno
di amicizia, ne sono rimaste originali 108. Ma anche le fontane Wallace sono dovute arrivare a un compromesso con la modernità e così alcune di esse posizionate in contesti particolari, come a Paris Expo a Porte Versailles, sono state ridipinte con colori molto vivaci come rosa intenso, giallo sole o rosso papavero assumendo un inusuale, ma non male, aspetto pop.
Vespasiennes
Prima di Davioud la Ville lumière era tutta buia 23 15 LUGLIO 2017
di Paolo Marini Giovedì 13 luglio, presso Il Palazzo Mediceo di Seravezza, è stata inaugurata la mostra dedicata a “Plinio Nomellini. Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore”: un artista, un pittore di vaglia nel contesto italiano a cavallo tra Ottocento e Novecento eppure, malgrado ciò, sempre un po’ defilato, come in secondo piano negli eventi espositivi dedicati a una stagione dell’arte così densa di fermenti e sollecitazioni. Questo evento gli restituisce in qualche modo un ruolo da protagonista, quale certamente merita. Lo fa con più di 90 opere - di cui una piccola parte di artisti con cui Nomellini ha condiviso il periodo della formazione - come apprezzabili anche nel catalogo realizzato da Maschietto Editore, in cui è presente un significativo apparato critico. Ne parliamo con Nadia Marchioni, curatrice della mostra: Il titolo della mostra ha già un piglio dinamico, che allude all’evoluzione dell’artista. Senonché tutti gli artisti evolvono... Dunque qual è il tratto peculiare del cambiamento di Nomellini? Il cambiamento in Nomellini si fissa in due date: la prima è il 1889, allorché all’Esposizione Universale di Parigi, su segnalazione di Signorini, partecipa il suo ”fienaiolo”: con questa opera egli si è chiaramente allontanato da Fattori, ha già acquisito quella sua pennellata filamentosa, peculiare, con un piglio coloristico molto intenso. Il secondo passaggio della sua carriera pittorica è nel 1890, allorché Nomellini si trasferisce da Firenze a Genova, “per tentare cose nuove” - come scrive a Signorini - e dove si lega ad ambienti anarchici e operai, circostanza che gli frutta anche un processo penale nel ‘94. Il suo approdo al divisionismo nel ‘91 - il cui manifesto è il “Golfo di Genova” -, appare come una incredibile novità. Il tratto peculiare, allora, è proprio l’improvviso passaggio da una struttura ancora legata al naturalismo - sebbene franto in pennellate sottili -, lo scarto improvviso da una pittura dal respiro molto toscano a quello che è un divisionismo applicato in modo sperimentale e del tutto personale. A che cosa dovette risalire il contrasto con l’“antico babbo” Giovanni Fattori? Va anzitutto precisato che trattasi di un contrasto tra due artisti che continuano a stimarsi. Anche perché Nomellini è uno dei suoi allievi più brillanti. All’Esposizione di Firenze, nel ‘91, Nomellini e gli altri giovani artisti vengono criticati dal Maestro
Il golfo di Genova
La pittura di Nomellini protagonista a Seravezza perché ciascuno di loro ha intrapreso una strada nuova, in realtà aperta dal livornese Alfredo Muller con il suo importante ‘manifesto’ del 2 aprile del 1890, in cui si ritraggono i Bagni Pancaldi di Livorno - dipinto quasi monettiano. Fattori rimprovera i giovani allievi, che sono colpiti da questa novità, dicendo loro: “Voi pensate di fare cose nuove ma la storia dell’arte vi ricorderà come servi di Pissarro”. Sostiene che stiano correndo dietro alla moda (l’impressionismo), chiede loro di recuperare una personalità pittorica. A Fattori, che è robusto disegnatore, dispiace che in questo modo venga disgregato il disegno, è disturbato non poco dall’idea che si concepisca un’arte senza forma. Diego Martelli - come noto grande amico di Fattori - prende nondimeno le difese di questi giovani. Come si rapportano tra loro l’approdo al divisionismo e la scelta simbolista del pittore? Negli anni Novanta, dopo aver applicato la tecnica divisionista all’osservazione della realtà e della “questione sociale”, allora rovente nel nostro Paese, l’artista si dedica a dar corpo a più ispirate visioni. E’ questo il momento storico in cui il simbolismo si insinua nella sua pittura. “Il golfo di Genova” ritrae la realtà ma di lì a poco Nomellini, attorno alla metà degli anni ‘90, cambierà
rotta. Come supera l’esperienza del carcere, egli si colloca già in una prospettiva decadentista e simbolista e lega la pennellata ‘divisa’ ad una prospettiva di evocazione letteraria. C’è anche un rapporto tra Nomellini e la poesia decadente. Chi tra Carducci, Pascoli e D’Annunzio ha concepito versi più congeniali alla poetica del Nostro? Propendo per Pascoli e D’Annunzio, che hanno peraltro legami importanti con lui, Pascoli in particolar modo. Egli è entusiasta di Nomellini, la cui pittura è vicina alla sua poesia, così lirica, intimista e prossima alla natura. Per altro verso, il Nomellini più eroico, con un divisionismo fatto di visioni storiche, si connette di più con la poesia di D’Annunzio. Considerata questa sua speciale attitudine ad accogliere suggestioni ‘altre’, anche d’Oltralpe, si può definire Nomellini artista dal respiro internazionale/europeo, o è troppo? Se artisti come Segantini e Previati sono di respiro internazionale, lo è anche lui. Lo è perché è aggiornato e in quanto traduce, assorbe informazioni e suggerimenti dall’esterno. E rimane il più stimato degli allievi di Fattori perché, alla fine, elabora queste suggestioni dentro una cifra personalissima.
di Monica Innocenti Pronipote di italiani emigrati in Argentina a inizio novecento da Vicenza, Mirta Vignatti nasce nel 1967 a Rosario (la stessa città natale di Ernesto “Che” Guevara e di Lucio Fontana e ottiene la Laurea in Belle Arti presso l’Università Nazionale della sua città. Mentre si sta laureando e lavora come insegnante di italiano ai bambini, accade qualcosa che le rivoluziona l’esistenza: conosce un impiegato del consolato del nostro Paese e, per amor suo, nel 2002 un secolo esatto dopo che i suoi avi avevano abbandonato l’Italia, lascia l’Argentina e si stabilisce a Lucca. In Toscana, oltre alla gioia dei sentimenti, trova anche le motivazioni e la forza interiore per dedicarsi con tutte le proprie energie a ciò che ha sempre desiderato fare: dipingere, fare dell’arte una ragione di vita e una professione e arricchirla con le sue esperienze e la sua visione delle cose. Dipinge con acrilico e carboncino su materiali poveri come la carta da pacchi o addirittura la carta velina e questa è una particolarità della sua dimensione artistica: enfatizzare il concetto di fragilità. Non la rituale tendenza a rendere l’opera d’arte durevole o persino tendente all’eternità, ma la presa d’atto che anche l’arte può essere qualcosa di effimero e transitorio e se il supporto su cui si lavora è la carta velina (ovvero qualcosa di terribilmente precario come, a volte, la natura umana), può bastare una goccia d’acqua o la puntura di uno spillo per rivelarne l’irrimediabile fragilità. Ma è proprio il suo essere labile a rendere l’arte di Mirta particolare e tremendamente attuale (dopo tutto viviamo, volenti o nolenti, nell’epoca dell’usa e getta!) e a farla apprezzare da appassionati sparsi in gran parte del nostro continente. L’artista firma le proprie opere solo sul retro e allo scopo di poterne verificare l’autenticità perché, sostiene Mirta, la firma non può far parte dell’opera, essendo un mero esercizio di egocentrismo: ciò che conta non è la firma, ma l’opera per sé stessa. (Mi permetto una considerazione personale: anche se la firma dell’autrice non è visibile, le opere di Mirta Vignatti sono talmente personali e piene di fascino, da essere, comunque, inequivocabilmente riconoscibili). Il percorso artistico di Mirta (arricchito da numerose collaborazioni) è un susseguirsi di vari periodi, ognuno con caratteristiche
ben definite; uno dei più lunghi è quello condizionato dai ricordi della dittatura, vissuta negli anni della giovinezza in Argentina: una sofferenza che risalta palesemente dalle opere di quel periodo. Dal 2016 ha elaborato una nuova forma di espressione: fotografa i suoi disegni botanici in bianco e nero (fatti con carboncino e
carta velina) e li inserisce in contenitori di zinco coperti da resina cristallina che dà l’effetto vetro. Ma particolarmente in questo caso è terribilmente complicato, con le parole, rendere piena giustizia a suggestioni che solo la visione è in grado di trasmettere; una panoramica dell’affascinante, travagliato e passionale percorso artistico di Mirta Vignatti, potrete goderla visitando le pagine del sito
L’arte di cartevelina
PLINIO NOMELLINI Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore 14 luglio · 5 novembre 2017 14 LUGLIO · 3 SETTEMBRE lunedì · venerdì 17 - 23 | sabato · domenica 10.30 - 12.30 e 17 - 23 4 SETTEMBRE · 5 NOVEMBRE martedì · sabato 15 - 20 | domenica e festivi 10.30 - 20 Ultimo ingresso 30 minuti prima dell’orario di chiusura
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TERRA MEDICEA - CITTÀ DEL MARMO
MEDAGLIA D’ARGENTO AL MERITO CIVILE
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