Cultura commestibile 227

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Sia chiaro che non può rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta: in tema di stepchild adoption fino a oggi la giurisprudenza ha dato delle interpretazioni colmando un vuoto normativo. Ora quel vuoto non c’è più, c’è una norma chiara che esclude la stepchild adoption, a maggior ragione alla luce dei lavori parlamentari, e quindi mi attendo di vedere chiusa una fase di interpretazione creativa Enrico Costa, ex ministro del governo Gentiloni

Micron

Maschietto Editore


NY City, 1969

La prima

immagine Qui siamo sempre nella stessa zona del Downtown. Queste due belle giovani afroamericane stanno parlando e fumando, almeno quella in primo piano, di front a un negozio della catena “Chock full of Nuts” dove si vendevano dolciumi sfiziosi e tutta un’altra serie di drink e leccornie molto richieste. All’epoca facevano parte dei locali “alla moda” ed erano un punto dove i giovani davano appuntamento ai loro amici per un “Brunch” o un “Quick lunch”. Alle ore canoniche erano sempre pieni di giovani impiegati ed impiegate che approfittavano del momentio per rilassarsi (si fa per dire) e prendersi una mezz’oretta di relax a metà della giornata lavorativa.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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Riunione di famiglia Villa Silvio Le Sorelle Marx

Granduca Eugenio Lo Zio di Trotzky

Ransie cerca Aron Minnit I Cugini Engels

In questo numero Una piazza da cantare di Gianni Biagi e Simone Siliani (con un commento di Paolo Ermini)

Dove è nata Venere di Mariangela Arnavas

Svincolato di Laura Monaldi

Talamone, in vacanza con la storia di Cristina Pucci

12 lingue contro la guerra di Alessandro Michelucci

Solidi platonici maschili e femminili di Claudio Cosma

Centesimi verso l’infinito Un’altra riflessione su Ytalia di Valentino Moradei Gabbrielli

L’Italia divorata dai roghi di Anna Lanzetta

Sepolcreto paleocristiano presto visibile, ma non visitabile di M. Cristina François

Vittorio Meoni e il suo divisionismo ‘spirituale’ di Paolo Marini

Mappe di percezione di Andrea Ponsi

e Massimo Cavezzali, Andrea Caneschi Lido Contemori, Monica Innocenti , Ugo Caffaz, Mario Cantini...

premio letterario

PRIMA EDIZIONE 2017

Direttore Simone Siliani

Il racconto Il bicchiere di zio Pepe è a pagina 16 Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


di Gianni Biagi e Simone Siliani Perché un luogo esista e sia riconosciuto deve essere cantato. Questo ci dice Bruce Chatwin nel suo “Le vie dei canti”, il libro che racconta dei popoli aborigeni dell’Australia e dei canti che guidavano il percorso di questi popoli nel grande continente australe. È forse proprio questo che manca nell’intervento pubblico su piazza del Carmine a Firenze. Il canto e il racconto del popolo. Da quando fu deciso, con il solito decisionismo renziano, di pedonalizzare la grande piazza non si è visto una traccia di dibattito pubblico degno di questo nome in città. E ora che la voce autorevole del Corriere Fiorentino si è levata per contestare le scelte progettuali che tendono a rimettere mano su uno degli spazi di maggiore significato simbolico della città, occorre non perdere l’occasione e farlo questo dibattto pubblico. La piazza del Carmine è una delle quattro grandi piazze che fronteggiano le chiese dei quattro ordini predicatori (dove appunto i predicatori incontravano il popolo) che si insediarono a Firenze nella prima metà del XIII secolo. I Carmelitani con la Basilica di S.Maria del Carmine, i Domenicani con la chiesa di Santa Maria Novella, i Francescani con la Basilica di Santa Croce e gli Agostiniani con la chiesa di Santo Spirito. Tutte queste piazze hanno subìto importanti trasformazioni nel corso dei secoli con l’aggiunta di fontane, statue, obelischi e aiuole ma la piazza del Carmine è rimasta quasi intatta, salvo la sua pavimentazione e la riorganizzazione dei fronti degli edifici con l’aggiunta del muro del Seminario Maggiore. Intervenire su questo spazio, immenso in relazione al minuto tessuto urbano contermine, è un’impresa ardua. E infatti la prima volta è stato un fallimento. Certo l’idea di togliere le auto del grande parcheggio in superficie poteva essere suggestiva ma cosa mettere al posto delle auto non è ancora stato trovato. Ora ci dicono che sul lato del muro del Seminario Maggiore si ipotizza di piantare un boschetto e che la parte centrale della piazza sarà rialzata per evitare che le auto riprendano il soppravento. Per il boschetto si potrebbe cavarsela con una battuta. Putroppo però non siamo al capolavoro di Italo Calvino, “Il bosco sull’autostrada”, in cui Marcovaldo decide di andar per legna avendo finito quella da ardere e il figlio Michelino - nato e cresciuto in città e che mai aveva visto un bosco – suggerisce quello che vede sull’autostrada, scambiando cartelloni pubblicitari per alberi. No, non di questo parliamo nel

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Una piazza da cantare

caso del boschetto progettato dal comune ma di alberi veri (sic) in una piazza di pietra che mai aveva visto un albero. Ma vi è di peggio. Vi è la concezione delle piazze storiche come aiuole o spazi per l’abbellimento della città (ah, la retorica della bellezza che salverebbe!). Ma la bellezza non può essere ornamentale; deve, al contrario, nutrirsi di una profonda e seria consapevolezza del genius loci, delle funzioni sociali, storiche e culturali che una piazza come questa nel quartiere in cui è collocata ha svolto e potrà svolgere nel futuro. La bellezza è fatta del sudore di chi l’ha costruita e trasformata nel corso degli anni, dai problemi e dalle passioni di chi ci vive e lavora, dalle stratificazioni storiche

(tutte, non solo quelle piacevoli) che l’hanno resa ciò che oggi è. La bellezza, dunque, non è un canone astratto, ugualmente valido per ogni tempo e ogni luogo; ma neppure può essere confusa con un ornamento avulso dalla vita. Occorre, per mettere le mani su piazze così cariche di storia, molta umiltà e una sorta di sacro (ma laico) pudore; è necessaria una approfondita ricerca storica, sociologica ed economica; un serio confronto con la cittadinanza. Per dirlo in una parola (ahinoi desueta) un’attenta programmazione. Non sappiamo dire con assoluta certezza se è di un parcheggio che l’artigianato e l’Oltrarno hanno bisogno per essere salvati. Forse, ma teniamo a ribadire forse, è una soluzione


Il boschetto delle meraviglie Con una pervicacia degna di miglior causa Palazzo Vecchio ha dato il via libera ai lavori di ristrutturazione di piazza del Carmine. Sembrerebbe una notizia positiva, visto che la piazza versava in uno stato di totale abbandono dopo la pedonalizzazione dell’intera area centrale. Più volte abbiamo denunciato lo squallore di quel deserto di pietre sconnesse circondato da un palizzata di ferro simil ranch. E allora perché preoccuparsi per l’avvio dei lavori? Il problema è il risultato che si vuole cogliere. Secondo un’abitudine che ha preso campo da anni anche in molti Comuni della Toscana, nella riqualificazione di una piazza predomina un criterio puramente estetico che quasi sempre prescinde dalla funzione che la stessa piazza ha assolto per anni e anni. Che cosa ci azzecca con il Carmine il boschetto che sorgerà sul lato opposto alla basilica? Non è un giardino, né potrà essere un polmone verde dell’Oltrarno. È un omaggio alla retorica dell’ambientalismo, per il quale un quartiere urbano non si giudica dalla vivacità delle sue attività, ma dal numero degli alberi che vi si piantano. È un’urbanistica da burocrazia comunale, incurante di ogni obiezione. E l’obiezione più importante è semplice: perché nello studio sulla riqualificazione del Carmine non si è voluto minimamente considerare almeno le

esigenze dei laboratori artigiani e dei negozi della zona, pesantemente colpiti dalla crisi del settore ma anche dall’impossibilità per i loro clienti di trovare un parcheggio? E perché non si è cercato di fare della piazza il cuore di un ripensamento complessivo per disegnare un futuro diverso per tutta la zona di San Frediano, in grado di non disperderne l’ultima vena pratoliniana? Tra Borgo Stella, via dell’Ardiglione e via Camaldoli (tanto per citare tre delle strade di un rione unico al mondo) il primo impegno dovrebbe essere quello di trattenere chi ancora ci abita e ci lavora. I voli ecologisti dei tecnici di Palazzo Vecchio rassicurano gli assessori e gli ultras di qualche comitato, ma non salveranno l’Oltrarno. In piazza del Carmine si è privilegiato una socialità tutta teorica. Il verde richiama l’idea di gioco fra bambini. Ma d’estate il calore delle pietre e degli intonaci avrà la meglio sul respiro vegetale. E la piazza resterà ancora una volta deserta. In buona fede, altrimenti ci sarebbe da invocare la giustizia, si sta preparando un nuovo spazio pubblico di degrado, un’oasi per l’attività notturna degli spacciatori. E in poco tempo, a lavori completati, comincerà il dibattito sull’opportunità di mantenere il boschetto o di tagliarlo via. Ripartendo da zero. Nessuno se ne meraviglierà. Perché non è una profezia, ma una previsione dettata dal buonsenso. Pubblicato sul Corriere Fiorentino l’11 luglio 2017

con la collocazione posticcia e astorica di un boschetto. Affrontare la complessità con i giusti strumenti programmatori, di analisi e confronto con la popolazione (anche quando questo è difficile e può costare qualche contestazione o discussione), è il contenuto della politica. E allora è necessario un ampio dibattito pubblico che faccia cogliere ai decisori politici queste complessità e le trasformi in progetto. Un progetto che tenga presente in primo luogo delle esigenze di chi vive e lavora in quella zona. Che ha prima di tutto bisogno di ritrovare una ragione per vivere e lavorare in quel luogo e di sentirsi protagonista di questa scelta. Liberare la piazza per restituire dignità alla basilica e occupare la

piazza (anche con qualche parcheggio in più per residenti e artigiani) per restituire dignità a chi vive e lavora in Oltrarno. Queste dovrebbero essere le linee guida di un’ipotesi di lavoro progettuale. Perchéi progetti sbagliati e una pedonalizzazione senza consenso sono il miglior viatico verso una progressiva perdità di identità dei luoghi e del centro storico della città. Se nessun fiorentino sentirà più l’esigenza di cantare la piazza del Carmine la piazza cesserà di esistere per i fiorentini e diventerà parte di quell’indistinto luogo, ad uso quasi esclusivo dei turisti, che sta diventando purtroppo il centro storico di Firenze. Pubblicato sul Corriere Fiorentino il 19 luglio 2017

di Paolo Ermini

un po’ troppo semplice e contrasta (almeno nella soluzione in superficie) con la forza straordinaria della basilica di S.Maria del Carmine, che comprende uno dei capolavori assoluti della storia dell’arte occidentale, il ciclo pittorico di Masolino, Masaccio e Filippino Lippi nella Cappella Brancacci, che da sola (ma soprattutto connessa con la vicina S.Spirito e con altri luoghi di cultura dell’Oltrarno) potrebbe svolgere una funzione importante di decongestione dei flussi turistici troppo concentrati a Firenze. Ma, appunto, la complessità delle funzioni, delle stratificazioni storiche, delle attività che vi si svolgono (di giorno e di notte) non può essere banalizzata né tanto meno affrontata

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C’è grande fermento al residence “Villa Silvio” dove trascorriamo la nostra settimana di vacanza. Un fila interminabile di clienti per il check-in. La signora Mara, guest manager, è tutta affannata e confabula con Renato, il concierge. Decidono di telefonare al titolare perché la situazione si sta facendo complicata. “Pronto, cavaliere? Abbiamo centinaia di arrivi: sono tutti clienti che negli anni scorsi ci avevano lasciati per andare in località più alla moda e ora tornano da noi in cerca di tranquillità e riposo. Ma noi siamo sotto di personale di accoglienza e le stanze quasi al completo: come facciamo?” “Ma, ragazza mia, accogli, accogli! Lascia che le pecorelle tornino al gregge. Anzi dobbiamo ammazzare il vitello grasso e facciamo festa!” Renato, che ha un certo caratterino, prende il telefono e spazientito replica: “Oh Silvio, qui tutte queste pecorelle se ne erano andate a far baldoria mentre noi qui a mangiare pane e cicoria; ora tornano ed è festa? Ma vadano a quel...” “Eh no, Renatino: tu sei come mio figlio, sempre disponibile e quel che è mio, è anche un po’ (ma poco) tuo. Mentre questi figlioli erano perduti e ora sono tornati: bisogna far festa e

I Cugini Engels

Boris Parrini:”Senti Deborina, bisognerebbe tu mi facessi in favore: D’Alem Satan mi ha chiesto di cercare e riportare a casa quel farfallone di suo figlio Aron Minnit, sai, quello bello, simpatico, arguto”. Debora Ransie: “Oh babbino, che palle! Io ho tanto da fare! E poi stasera ho fissato con Paul di andare a fare aperitivo e magari si va a ballare allo Yab: non ho tempo di cercare quel rospo gnudo di Minnit. Che poi è odioso e montato. Poi ora fa il bulletto da quando Matteon Renzie lo ha fatto capo delle sue guardie”

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rallegrarsi” Interviene la signora Mara: “Ma cavaliere, non abbiamo più posti letto” “Beh, allora apriamo la dependence!” “Ma quale dependance? Noi siamo la dependance” “Allora, ne costruiamo una nuova di pacca, come le newtown all’Aquila e nel frattempo aggiungi un lettino alle camere da 2 e trasformate qualche spogliatoio del personale in stanza... via, su, un po’ di creatività” Di nuovo il concierge: “Ma Silvio, lo sai chi arriva? Cani e porci! Ora, lasciamo stare il signor Costa e famiglia: si sa, lui è un buon cliente e gli perdoniamo anche qualche scappatella. Tiriamo via Cicchitto, che comunque è un gran signore. Ma arriva gente come Cesa da Alternativa Libera-Tutti insieme per l’Italia, De Poli

Ransie cerca Aron Minnit 3a puntata

Riassunto delle puntate precedenti: Debora Ransie, figlia di Boris Parrini (il vampiro) è innamorata di Paul Bonifazi, un ragazzo normale. Ma Boris Parrini incontra il Grande re del mondo magico, D’Alem Satan, da cui strappa una promessa: se riuscirà a riportare a casa suo figlio Aron Minnit, che è stato irretito alla corte del suo grande nemico Matteon Renzie, allora Debora lo potrà sposare.

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Le Sorelle Villa Marx Silvio

Boris: “Ecco Deboruccia, dovresti proprio dargli un morsetto nel collo a Minnit e farlo diventare buono e remissivo come te per riportarlo da D’Alem Satan. E poi non ti do il permesso di frequentare quel debosciato, buono a nulla, perdigiorno di Paul Bonifazi. Che peraltro è anche uno scialacquatore di soldi. Hai capito? Muoviti!” Debora: “Uffa!!! Va bene, ma se lo trovo uno spritzino me lo fai prendere?” Debora parte e trova Aron Minnit che intorno al palazzo di Matteon sta issando un reticolato, con filo spinato. Debora si avvicina e gli chiede: “Oh Aron, ma che fai? ti sei bevuto il cervello?” Aron Minnit: “Lasciami in pace Debora: Matteon mi ha incaricato di difendere il suo palazzo dalle orde di stranieri che lo stanno minacciando e io mi sto dando da fare. Però non lo capisco tanto: ieri mi ha detto che dobbiamo aiutarli a casa loro. Ma io mi domando:

da Udc, Binetti, Quagliarello e Augello da Idea, Mauro, Tosi e la Bisinella da Fare, Capezzone da Direzione Italia, Locatelli da PLI, la Vezzali e la Faenzi da Scelta Civica. Poi c’è una pazza che dice di chiamarsi Eva Longo che era andata alla pensione “Denis” e sbraita dicendo che sei un genio! Ci sono due mitomani che vogliono parlare con te: uno con i capelli lunghi avvocato di Arezzo, tale Maurizio Bianconi, e l’altro con un cognome strano, Pisicchio: dicono che loro non sono andati in nessun albergo concorrente e quindi vogliono qui da noi una camera singola! Qui siamo alla follia!” “Orsù Renato, non ti far abbattere: datti da fare per sistemarli alla bell’e meglio. Poi domani sera ci si vede per fare il punto e... una bella partita a rubamazzo. Intanto ti mando un manager con i fiocchi a dirigere le operazioni: il ragionier Ghedini di Padova. Vedrai che sistema tutto lui”. La signora Mara: “Che ha detto? Che si fa? Come si procede?” “Oh Mara, ha detto che son cavoli nostri: ci dobbiamo arrangiare per accoglierli tutti, manco fossero profughi siriani! Via, vai a sistemarti un pochino, datti un po’ di cipria, che qui si ricomincia a ballare”. che significa aiutarli? Mica fa parte del lessico di Matteon! E poi, che c’entro io? Lo chieda a quelli che c’erano prima.” Debora: “Senti Minnit, bisogna che tu torni da tuo babbo: lui è preoccupato e pensa che ti sei rincitrullito!” Aron: “Io da quella merda secca di D’Alem Satan non ci torno nemmeno morto: lui mi tiene lì a studiare, a discutere, a pensare; ma io sono un uomo d’azione!” Debora, fra sé e sé: “questo è grullo e pure antipatico. E poi è brutto come la morte: pelato come una palla da biliardo e saccente. Ora lo mordo e gli do una calmata”. Gli morde un dito; Minnit caccia un urlo e inzia a menare le mani, ma invece di trovarsi davanti la dolce Debora, si trova Angel Alfanon; si spaventa e fugge a gambe levate verso il Regno Supremo di D’Alem Satan. Aron: “Porc.... quella merda di Matteon Renzie vuole rimettere Angel al mio posto. Qui la barca affonda: è meglio che me ne torni a casa da Satan” Debora, starnutisce, torna la dolce ragazzina di sempre, felice di aver compiaciuto il padre Boris Parrini e soprattutto di poter andare a farsi uno shottino con il suo Paul Bonifazi, convinta che mai e poi mai potrà sposare un borioso e montato come Aron Minnit. Ma sarà davvero così? Lo sapremo nella prossima puntata.


Lo Zio di Trotzky

Nel migliore dei Lidi possibili

Granduca Eugenio

disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni

Vacanze low cost

Segnali di fumo di Remo Fattorini Provocazioni. Passiamo le giornate a fare i conti con problemi e difficoltà, senza intravedere – salvo rare eccezioni – soluzioni convincenti. Volete un esempio? Il traffico di Firenze. Una vita difficile quella dei fiorentini e di quanti devono spostarsi in questa città. Costanti ingorghi, perenni code, traffico rallentato, bus ritardatari, aria avvelenata. Fa eccezione la tramvia, unico mezzo affidabile, sicuro, comodo. A pensarci bene potrebbe essere proprio la tramvia a fornirci l’occasione per una piccola rivoluzione: fare di Firenze una città ciclabile. Per farlo servirebbe una svolta innovativa: in città ci si sposta solo con la tramvia, i bus, i taxi e le bici. Oppure a piedi. Stoppando il traffico privato. La città si trasformerebbe, diventando più vivibile, fruibile, divertente, ecologica. E ancora più attraente. Sogni impossibili, direte voi. Probabilmente si, conoscendo la prudenza degli amministratori. Tuttavia non bisogna smettere di sognare, perché, come amava dire Walt Disney, “Se puoi sognarlo, puoi farlo”.

Del resto basterebbe seguire l’esempio di tante città europee, olandesi, tedesche, danesi e via di seguito. O anche italiane, come Bologna che ci sta provando. Uno studio di Polinomia dimostra che è possibile aumentare la quota degli spostamenti in bici dall’attuale 9% al 20 e ridurre così il traffico privato di oltre 7mila auto al giorno. Con benefici rilevanti per tutti, dalla qualità dell’aria agli affari dei commercianti. Senza dimenticare che un uso regolare della bici farebbe bene anche alla salute. È stato calcolato che solo in una città come Bologna le spese sanitarie potrebbero diminuire di circa 4 milioni l’anno. Per ottenere questi risultati non servono miracoli, ma scelte chiare e investimenti coerenti. Occorre realizzare una rete di infrastrutture e servizi per i ciclisti, a partire dalle piste ai parcheggi. Per Bologna sarebbero sufficienti 26 milioni. Se governare una città vuol dire produrre benefici per chi ci vive, la bici è lo strumento che permette di ottenere maggiori vantaggi con minori costi. Lo dimostra l’esperienza di molte città europee: le due ruote sono il mezzo di trasporto più veloce per percorsi fino a 5 chilometri. E allora se oggi la sfida è rendere le nostre città più efficienti sarebbe arrivato il momento di fare scelte coraggiose, copiando dalle esperienze di successo. A chi fosse interessato consiglio di farsi un viaggetto a Copenaghen, la migliore città europea per i ciclisti, dove già oggi circolano più bici che auto. Inverno compreso.

Con sprezzo del pericolo e a rischio della propria vita Eugenio Giani, presidentissimo del Consiglio Regionale della Toscana, si è avventurato nella “Botte”. No, non è stato un viaggio etilico, ma sicuramente liquido: su un guscio di noce agile e leggero, ha disceso il canale nel tunnel sotto l’Arno a Vico Pisano, chiamato appunto “la Botte”, costruito dal Granduca Leopoldo II per prosciugare l’area di Bientina. Ma solo i più raffinati politologi sanno che vi è un intento politico simbolico in questa ennesima avventura del nostro Eugenio “Jones” Giani. Infatti, si è detto Eugenio, “Se il Granduca prosciugò Bientina con questo canale, se io lo ostruisco, allora Bientina si riallaga. Così prendo due piccioni con una fava: io compio un’opera degna di Leopoldo e mi faccio chiamare Granduca Eugenio I, ma soprattutto allago Bientina, il paesello natio di Enrico Rossi! Lui allora lascia Firenze per andare a risolvere la situazione e Matteo mi promuove Feldmaresciallo della piazza di Toscana sul campo! Solo un esperto di storiella locale come me poteva architettare un piano così perfetto!”

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Ex Voto suscepto, 2016. A destra Dipingere è facile, 2016 Come realizzare un’opera di arte concettuale contemporanea Volume 1 - Edizioni libri d’artista Sotto Sax Pompato, 2012 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di Laura Monaldi La creatività è una forza travolgente che spinge ogni essere umano ad analizzare il mondo circostante, cercando di cogliere tutte quelle sfumature impercettibili e nascoste che altrimenti rimarrebbero alla deriva del Tempo; è un’attività senza fine che tende al ripensamento come presa di coscienza che il nuovo, l’originale e l’autentico sono i principi fondanti della prassi artistica; è la consapevolezza che la fantasia e l’immaginazione non possono esaurirsi nel già visto e nel già contemplato, ma hanno in sé la capacità di reinventarsi alla luce dell’inedito e dell’ignoto. Per l’artista contemporaneo creare significa sondare la realtà e il proprio presente storico in nome della ricerca e della scoperta, per far emergere da ogni singolo ripensamento rese estetiche, supporti e tecniche innovative, in grado di stupire e far riflettere nonché aprirsi a un dibattito espressivo e comunicativo con un raggio di azione sempre più ampio. L’opera d’arte, di conseguenza, si qualifica come un connubio di fantasia e intuizione che culmina nell’atto gestuale e sperimentale della creazione estetica. Nei lavori di Fernando Montagner l’immaginazione e la riflessione danno vita a un flusso vitale che dall’idea passa ai linguaggi e ai materiali artistici, in una dialettica viva e intensa che fa del mondo circostante un luogo sperimentale, in cui il pensiero lascia spazio alla divergenza e al divertissement assemblativo e collagistico. Tecniche e materiali si contaminano e si amalgamano in rese estetiche dotate di una poetica immaginativa e fuori dagli schemi

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Svincolato ordinari: tele, installazioni e assemblaggi interpretano le tematiche del mondo quotidiano caratterizzandosi come un diario intimo a cui affidare le proprie certezze e le proprie speranza, con la leggerezza e la semplicità di chi ha compreso perfettamente che l’Arte è prima di tutto una presa di posizione sul mondo contemporaneo e che l’opera altro non è che un’estensione del proprio Ego e del proprio pensiero. Fernando Montagner, con sapienza e originalità, segue la propria strada senza lasciarsi trascinare dai vincoli del Sistema, ricordando che non c’è gioia più grande che vedere la materia prender forma sotto le proprie mani, concretizzando la propria vena espressiva e facendo dell’Arte un vero e proprio piacere estetico. Quella di Fernando Montagner è una poetica artistica sensibile e incline a riscoprire nell’opera d’arte l’autenticità del pensiero artistico che si cela dietro a una realizzazione finale densa di pathos ed emotività.

Fernando Montagner


Musica

Maestro

12 lingue contro la guerra

di Alessandro Michelucci Le riviste che si occupano specificamente di musica devono concentrarsi sull’attualità: un disco uscito un anno prima, tanto per intenderci, è già vecchio. Crediamo che le altre pubblicazioni, al contrario, possano utilizzare un criterio più elastico, segnalando anche lavori meno recenti, ma comunque legati all’attualità. Per questo vogliamo parlare del CD Savaş Kadınları (Donne in guerra), pubblicato nel 2015 dall’etichetta turca Iber Müzik. Ideato e arrangiato dal giovane compositore Barış Güney, il disco contiene 12 brani, tutti tradizionali anonimi, cantati da altrettante donne. Ciascuna utilizza una lingua diversa: abcaso, arabo, armeno, circasso, georgiano, greco, kurdo, ladino sefardita, laso, rom, turco e zaza. La varietà linguistica del disco abbraccia quindi l’area caucasica e quella mediorientale. In altre parole, una vasta ragione segnata da conflitti tuttora in corso: la guerra dei Kurdi contro l’ISIS; la questione palestinese; la guer-

ra armeno-azera per il Nagorno-Karabagh. Il progetto è nato per evidenziare l’impatto della guerra sulle donne. In quest’opera intensa si alternano Janet Esim e Tatyana Bostan, Gülseven Medar e Adile Yadırgı, Selda Öztürk e Fehmiye Çelik. Le ultime due hanno collaborato con Kardeş Türküler, un gruppo turco noto per l’attenzione alle musiche balcaniche e anatoliche. Le lingue esprimono la ricchezza della diversità culturale e la trasformano in uno

strumento di lotta pacifica contro la guerra. Al tempo stesso è evidente il riferimento alla Turchia, dove è stato concepito e realizzato il disco: tutte le lingue suddette sono parlate in questo paese, talvolta da piccole minoranze praticamente ignote. Dodici lingue, si diceva, ma anche dodici donne. Questa scelta ha un significato ben preciso che va oltre la guerra evocata nel titolo del disco. In alcuni paesi arabi, primo fra tutti l’Arabia Saudita, i diritti delle donne vengono repressi con durezza spietata. “Una donna che rifiuta la maternità e i lavori domestici... è una mezza persona” ha detto il Presidente turco Erdogan nel 2016, aggiungendo che “le famiglie musulmane non devono ricorrere al controllo delle nascite”. In Georgia il potere politico e quello religioso (cristiano ortodosso) sono uniti dall’omofobia e dal disprezzo per le minoranze. La musica manifesta da sempre un forte interesse per i problemi sociali. Quelli delle donne non possono mancare.

SCavez zacollo disegno di Massimo Cavezzali

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di Andrea Ponsi Prosegue la pubblicazione di una serie di brevi racconti di Andrea Ponsi tratti da una raccolta uscita negli Stati Uniti dal titolo Florence-a Map of Perceptions(University of Virginia Press, 2010). Gli scritti, affiancati a disegni ed acquarelli dell’autore, si concentrano sugli aspetti percettivi e sensoriali del paesaggio urbano alternando riflessioni estemporanee di tipo diaristico a considerazioni più generali sulla struttura fisica e concettuale della città. Non ho portato con me gli acquarelli. Se lo avessi fatto, adesso, appoggiato a questa balaustra che dal Piazzale Michelangelo dà sui campi verso il Forte di Belvedere, avrei estratto un foglio, intinto il pennello nell’acqua e miscelato i colori: per prima cosa avrei preparato un bel verde, fresco come questi prati di aprile bagnati da un recente piovasco. Con due o tre pennellate, avrei definito un triangolo isoscele, il lato superiore orizzontale al confine col cielo, un lato inclinato sulla destra dove sono le mura che scendono nella città, il terzo lato inclinato, interrotto da vari cipressi, più in basso. Dopo avere miscelato un verde più scuro , quasi nero, con un tratto deciso dal basso verso l’alto, avrei, togliendo nel gesto pressione al pennello, disegnato cipressi appuntiti come fiamme, alcuni isolati, altri uniti tra loro in un piccolo bosco. Avrei poi mescolato il grigio ed il blu e, con una vasta stesura, inondato di cielo l’intera metà superiore del foglio. Poi, mentre la lavatura stava asciugandosi, sarei ritornato sul verde dei campi , ormai secco, con leggeri tocchi di rosa (i peschi ora in fiore) e di ocra giallastro ( le ex case coloniche). Con un lapis avrei poi delineato alcuni dettagli: i rami di una chioma di pino lontana, accanto al profilo del Forte Belvedere, le piccole finestre delle case sui prati, la linea delle mura che ritmate da squadrati torrioni penetrano nella città. Di nuovo avrei lasciato il foglio asciugare. Avrei posato un altro sguardo sul paesaggio e forse pensato che la mia era solo l’interpretazione di un dato momento, di qualcosa che si trasforma sempre con le stagioni, con l’ora del giorno, con il tono di luce, col tempo atmosferico, con il punto di vista. Che era la visione di un paesaggio che non è mai lo stesso, che cambia insieme a chi lo osserva, lo sente, lo disegna, lo descrive, come me stesso, in questo preciso momento, diverso da ogni altro momento. La Toscana, dal centro

Mi sono fermato sul Ponte Vecchio, al tramonto. Sono nel punto centrale dove la cortina di botteghe si interrompe per un breve tratto e la vista si apre sul fiume a occidente. Lontano, oltre le

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nuvole rosse, si scorge il profilo delle Alpi Apuane. Oggi spira un vento da ovest che increspa le onde e fa scorrere la superficie del fiume in senso contrario. Questa brezza, laggiù, oltre le Apuane, è un libeccio teso e dorato che batterà per tre giorni la costa. Sulla costa, a Viareggio, a Forte dei Marmi, il sole, come ora qui, sta tramontando. Mi sporgo dalla balaustra di pietra. L’acqua verde, increspata, riflette sulla sua superficie fangosa le nuvole viola del cielo. Mi giro e guardo sul lato opposto del ponte le colline ed il fiume verso oriente. Uno scuro cielo grigio-amaranto si alza sui filari di cipressi che salgono verso San Miniato. Più oltre il profilo blu delle colline che circondano la città, poi gli Appennini e le montagne più alte. Dietro quei colli c’è il Pratomagno,

Arezzo, il Casentino. Sono al centro del ponte, della città , del corso del fiume, al centro della sua valle tra i monti ed il mare; sono al centro della Toscana. Un punto sospeso sull’acqua, sull’apice di una volta di pietra, nel momento in cui il giorno si trasforma nella notte , un punto al centro del tempo.

Mappe di percezione

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di Mariangela Arnavas In realtà sono due le isole che si contendono la nascita di Venere, Cipro e Kythera o Citera, ma lo splendore di quest’ultima isola, difficile da raggiungere ed esclusa dai flussi turistici più importanti, frequentata prevalentemente in estate dai greci emigrati in Australia, conferma un legame mitico con la dea della bellezza. Alta e rocciosa, a cavallo tra Ionio ed Egeo, accoglie nelle ripide fenditure di roccia piccole spiagge preziose oppure si apre su una sorta di ampia laguna dove il relitto di una nave ancora con la prua verso l’alto sembra un monito di rispetto agli ospiti ed ai viaggiatori. L’antica Chora è un piccolo Villaggio bizantino, ancora ritto su uno sperone di roccia, circondato su tutti i lati da un orrido in fondo al quale scorre un torrente mentre all’orizzonte si vede il mare. La piccola chiesa è ancora tutta in piedi e le rovine del castello e delle antiche abitazioni sono ad oggi ben leggibili. Qui, come in molte altre isole è chiara la necessità degli antichi abitanti di avere pronto un luogo inaccessibile nelle cui mura rinchiudersi all’arrivo dei nemici dal mare, come l’esigenza di poter controllare dall’alto l’eventuale arrivo di invasori. Così, alla difesa naturale delle rocce alte e aspre, del mare aperto spazzato dal vento di Meltemi si aggiunge la costruzione di mura e fortificazioni, per la difesa dai pirati e dai Turchi Ottomani, storici nemici dei Greci. Viene da pensare che nell’attuale desiderio o spinta ad alzare muri tra nazioni diverse ci sia un riflesso atavico di epoche in cui l’altro, il nemico, arrivava solo per saccheggiare, violentare e uccidere. Nemico ricco e armato, non inerme e sottomesso come gli attuali cosiddetti “invasori “. La particolare bellezza di quest’isola, oltre che a natura e cultura passata è connessa al modo presente di costruire e arredare dei suoi abitanti; così la nuova Chora, più accessibile, anche se sempre in alto sul mare, tutta bianca e azzurra si presenta con squisita, sobria eleganza, sia nel centro che nei locali a bordo spiaggia, raffinati e tranquilli, tutti gestiti da giovani accoglienti e gentili. Bisogna dire che la quasi totale assenza di indicazioni, cartelli turistici, etc. aumenta il fascino di questi luoghi, come il lento, progressivo sgretolarsi delle pietre che dalle costruzioni umane antiche tornano gradualmente alla terra. È però preoccupante l’abbandono di queste aree archeologiche e artistiche che, senza interventi di recupero e restauro non saranno a lungo fruibili; un impegno europeo, dopo i sacrifici imposti alla Grecia costituirebbe un minimo segno di civiltà, un pegno per le generazioni più recenti e future.

Dove è nata Venere

di Valentino Moradei Gabbrielli

Centesimi verso l’infinito Un’altra riflessione su Ytalia Giusto mentre stavamo entrando nel brevissimo corridoio che separa la sala dedicata a Mario Merz dalla sala dedicata a Giovanni Anselmo, un signore non giovane con ironia falsamente celata e la volontà di esprimere un giudizio e non di formulare una domanda, ha chiesto sfuggevolmente alla ragazza che sorvegliava le sale: “L’opera d’arte è quella scatola sul pavimento?”. Io e Renato, ci siamo guardati in viso, e… poi, forse per una forma di solidarietà umano-misericordiosa verso la ragazza, che sembrava amareggiata dall’accaduto e comunque mortificata se pur priva di ogni responsabilità, gli abbiamo chiesto sul comportamento tenuto dai visitatori verso quella proposta culturale (che il tempo ha oramai francamente privato di curiosità e meraviglia). “Paola”, ci ha comunicato che il 60% circa dei visitatori domanda con sarcasmo se è l’oggetto sul pavimento l’opera d’arte esposta nella sala, e non la definisce mai correttamente per quello che è: un parallelepipedo di metallo, ma la chiama il cubo o meglio la scatola. Dal 2 Giugno, continua a raccontarci, giorno dell’inaugurazione, ho raccolto solo due riflessioni di visitatori che si interrogavano lealmente sulle ragioni e il contenuto dell’opera.

Alla nostra domanda relativa al tempo che un visitatore dedica alla sala e all’opera contenuta in essa, “Paola” ha risposto che la visita media dura circa un minuto. Le persone entrano nella sala, si dirigono verso la grata sul pavimento, vedono le monetine sul fondo del pozzo, in molti gettano qualche centesimo, e voltandosi si avvicinano alla didascalia posta sulla parete. Leggono la didascalia: “Verso l’infinito”, di Giovanni Anselmo. Ed escono dalla sala. …è proprio vero, l’“arte povera” non è più quella di una volta!

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di Danilo Cecchi Il Messico è sempre stata una terra prediletta dai fotografi e dagli intellettuali, sia da quelli provenienti dall’Europa, sia da quelli provenienti dagli USA. Fra i grandi fotografi statunitensi che soggiornano per lunghi periodi in Messico non si possono non ricordare Edward Weston, nella prima metà degli anni Venti, e Paul Strand, nei primi anni Trenta, oltre a Tina Modotti, che vi rimane fino alla morte. Ma il Messico è anche una terra che ha dato vita a fotografi di alto livello, riconosciuti in ambito internazionale. Primo fra tutti Manuel Alvarez-Bravo (1902-2002), autore di grande prestigio e maestro della generazione successiva di fotografi messicani, fra cui Nacho Lopez (1923-1986), Hector Garçia (1923-2012) e la più giovane Graciela Iturbide (1942 -). Fra i nomi degli allievi di Manuel Alvarez-Bravo viene annoverata anche la fotografa Flor Garduño (1957 -), che diventa sua assistente di camera oscura nel 1979, dopo avere passato un periodo di studio, fra il 1976 ed il 1978, con la fotografa di origini ungheresi Kati Horna (1912-2000), approdata in Messico dopo la vittoria dei franchisti in Spagna (vedi CuCo 147 - 28/11/20015). Da ambedue i maestri Flor Garduño apprende qualcosa di diverso, ed in un certo senso di opposto, e da ognuno dei due assorbe quanto di meglio essi possono offrire. Da Kati Horna impara a guardare il mondo, ma a guardare contemporaneamente anche dentro se stessa, impara a confrontare il sogno con la realtà, impara quanto sia importante non rinunciare a nessuno di questi due tipi di visione, a guardare il mondo con disincanto e senza pregiudizi, a guardare le sue emozioni di donna in profondità, senza timore e senza vergogna. Da Manuel Alvarez-Bravo impara il rigore della forma e del linguaggio, impara a dominare la materia, impara i complessi rapporti che esistono fra la fotografia e la musica, la letteratura, lo scorrere della vita quotidiana, ed impara la costanza nel raggiungere degli scopi precisi. Nel 1985 Flor Garduño pubblica il suo primo fotolibro “Magia del juego eterno”, e nel 1987 pubblica “Bestiarium”, che insieme a “Mujeres Fantasticas” ed a “Naturalezas Silenciosas” costituisce la sua “Trilogia”, ripubblicata dal 2010 in diverse edizioni ed in diverse lingue. Nel 1992 pubblica “Testigos del Tiempo” in cinque lingue, uno studio visivo sulla sopravvivenza nelle diverse zone dell’America Latina delle antiche tradizioni culturali e religiose. Le sue immagini non formano un “corpus” omogeneo, i suoi temi oscillano fra l’osservazione curiosa del mondo e l’elaborazione fantastica, fra la modernità dello

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Il Messico ambiguo di Flor Garduño

sguardo ed il rispetto delle radici culturali del suo paese, fra il realismo terreno e la spiritualità magica che domina ogni cosa. Dalla tradizione dei popoli messicani Flor Garduño estrae simboli e personaggi mitici, dal suo inconscio individuale estrae forme femminili e situazioni ambigue, intrecciando elementi umani ed elementi animali, figure femminili ed elementi vegetali, contaminando i diversi “regni” della natura in una varietà di accostamenti che non sono mai casuali, ma rispondono ad una logica profondamente simbolica e spirituale, dove

la vita e l’eros scorrono prepotenti accanto ai simboli della morte, dove il reale mostra il suo lato fantastico, dove la fantasia si incarna nella concretezza dei corpi e degli oggetti. Flor Garduño passa con estrema naturalezza dalle riprese in esterni alle riprese in studio, dalla luce naturale alla luce artificiale, sempre fedele al rigore compositivo appreso da Manuel Alvarez-Bravo, ma sempre altrettanto fedele alla libertà interpretativa appresa da Kati Horna. “Io uso i corpi per raccontare delle storie, per ricreare i miti ed i sogni personali”.


di M. Cristina François La Basilica cimiteriale paleocristiana di S. Felicita è antecedente al 405 d.C., data riportata sull’epigrafe più antica pervenuta fino a noi. Infatti è possibile esistano altre epigrafi più antiche di questa non ancora rinvenute in quanto gli scavi finora effettuati sono stati parziali. Si può quindi supporre che la Basilica di S. Felicita fosse coeva o addirittura precedente quella di S. Lorenzo (393 d.C.). Poco distante da un precedente sepolcreto pagano, venne eretto l’edificio ecclesiale paleocristiano il quale fu poi corredato di tombe di inumati. La Basilica - intitolata a S. Felicita - misurava circa m.40 x m.26; aveva lo stesso orientamento della Chiesa attuale; era forse absidata e veniva a trovarsi nell’importante incrocio della Via Cassia Nova, con la Via diretta a Pisa e con la ‘Volterrana’, snodo importantissimo prossimo alla testata del Ponte Vecchio volta a SUD. Le tombe interrate erano quasi tutte “alla cappuccina”, cioè ricoperte da tegoloni in laterizio disposti sul sepolcro ‘a tetto’ o ‘a piatto’; sopra questi, alcuni strati di terriccio e calce appianavano le tombe così da portarle al livello del “pavimentum” della Basilica. Le lapidi in marmo venivano disposte per ultime in modo da configurarsi come piastrelle della pavimentazione. L’area archeologica non fu tutta esplorata neppure dalle ultime indagini (scavi del 1933-34 di R. Niccoli e del 1948 di G. Maetzke) perché le tubature sottostanti lo impedirono, perciò resta ancora molto da dire su questo sito solo parzialmente scavato. In questa sede tratterò solo dei sepolcri all’interno dell’antica Basilica e più vicini al suo accesso. Ne esistevano altri per tutta la superficie interna di questo edificio e anche esterni ad esso, ma di questi non parlerò. Chi si siede oggi sugli scalini del portico della Chiesa di S. Felicita immagini, se non ci fosse l’attuale lastricato, di trovarsi davanti parte del sepolcreto paleocristiano perimetrato da ciò che resta del muro di facciata e del fianco Nord dell’edificio basilicale. Là dove si vede un moderno tombino dell’acquedotto comunale, quasi al centro della Piazza, corrisponde a quota -1m. un pozzo medievale. Queste prime tombe del cimitero paleocristiano erano disposte su un solo strato. I sepolcri che vi si sovrapposero in epoca medievale o successiva, sono da riferire alla Chiesa di S. Felicita, essendo la Basilica ormai distrutta. Ho numerato queste tombe primitive per riportare qui alcuni dati significativi sia da un punto di

Sepolcreto paleocristiano presto visibile, ma non visitabile vista storico che antropologico, archeologico e umano. Immaginando di entrare nella Basilica, da OVEST – attraverso un grande portale largo m.2,50 -, se guardiamo il “pavimentum”, incontriamo per prima l’epigrafe n.10 di Αλέξανδρος [ALEXANDROS] la cui iscrizione è molto lacunosa perché consumata dal calpestio dei fedeli: di lui ci è dato solo sapere che era di lingua greca e che era giovane perché il padre gli dedica questa lapide. Proseguendo a diritto troviamo 5 tombe ben conservate [nn.1-5], disposte parallele e identificate come le più antiche. Di esse la n.2 era per il sepolcro di PYLADES DVCINARIVS, un militare che ricopriva un’alta carica nel Corpo scelto della “Schola Gentilium”. Segue la n.3 - l’epigrafe più antica ritrovata a tutt’oggi - datata 1° luglio 405 e appartenuta a THEOTEKNOS, persona di lingua greca e proveniente forse dalla Celesiria. Il sepolcro n.4 reca un’iscrizione certamente di reimpiego perché il frammento pervenuto-

ci è pagano in quanto dedicato a D(IS) MANIBVS [agli Dei Mani]: certamente per il defunto cristiano fu riutilizzato un marmo pagano già iscritto, espediente comune per i meno abbienti. L’epigrafe n.5 risale agli inizi dell’Impero e appartiene a persona di lingua greca - PELORIA o PELORI - il cui sepolcro fu più tardi ‘investito’ da un’altra tomba che accoglieva il corpo di un bambino [n.5 bis]. La mortalità infantile, essendo alta, conta su queste 28 tombe esplorate da Maetzke, altri bambini [n.22, n.16, n.12 (CONSTANTIA di un anno), n.11 e infine MAR(TA) o MAR(IA) di anni 3, la cui epigrafe in greco è affissa nel “Lapidarium” del vestibolo esterno a S. Felicita e che viene ricordata perché datata 417 e proveniente da Nikeraton (Siria). La tomba n.7, unico esempio “a cassone” in questo sito, rimase inesplorata per la pesantezza del coperchio di macigno. Un altro sepolcro particolare, di epoca medievale, a forma di sarcofago e contenente lo scheletro di un uomo alto ca. m.1,90, schiacciò la sepoltura paleocristiana di FRVMENTIVS [n.13]. La n.17 è un caso di sepoltura bisoma perché conteneva due scheletri. Nella n.18 giace ancora oggi un PAVLVS padre di 3 figli, morto a 90 anni. La tomba n.19 racchiude le spoglie di un LECTOR LACTANTIVS che, durante le liturgie, leggeva cantilenando i testi sacri, alla maniera sinagogale. Terminato qui il breve viaggio virtuale in questo sepolcreto, temo che presto o tardi la visione di queste tombe sarà reale in quanto si presenterà direttamente ai nostri occhi a causa dello sfondamento del lastricato di Piazza S. Felicita aggredito giornalmente da mezzi pesanti più o meno autorizzati a transitarvi e a sostarvi, senza che sia mai stata considerata e rispettata l’area archeologica sacra sottostante. Resti del muro esterno (angolo nord-ovest) della Basilica cimiteriale (IV-V sec.). Segnate da numeri in rosso le “tombe alla cappuccina” per inumati. Segnate in blu le epigrafi rinvenute.

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di Andrea Caneschi Di nuovo a Venezia, ancora per la Vogalonga, 43a della serie. La mia terza volta nel grande bacino d’acqua di fronte a San Marco, pieno di imbarcazioni a remi di ogni forma e misura e di remiganti in mille divise diverse, in attesa del colpo di cannone che darà inizio alla voga. Emozioni che riconosci e che ti sostengono nella prospettiva di affrontare la fatica e il caldo sotto un cielo assolato. E quest’anno siamo ospiti a San Servolo, l’antico ed ormai ex manicomio del Veneto, chiuso come tutti gli altri ospedali psichiatrici italiani alla fine del secolo scorso dalla legge Basaglia. Un’emozione in più per me, che ho speso una parte grande della mia vita professionale lavorando a Firenze per quello stesso obiettivo, ma che non avevo avuto mai l’occasione per venire sull’isola quando l’ospedale era ancora attivo. San Servolo è un’isola poco al largo di Venezia, sulla via per il Lido; ha la forma di un rettangolo, completamente murata come una fortezza nel mare. Dopo il primo insediamento di frati Benedettini alla fine del 700, forse scacciati dai Franchi dal loro monastero di Altino sulla terraferma, l’isola ha conosciuto nei secoli utilizzi diversi, sempre legati a questa sua separatezza in parte naturale, in parte costruita nei secoli da chi la ha abitata. Ha accolto ancora frati e monache, scacciati nel tempo dalle loro sedi originali dai rivolgimenti della storia. È stata confino degli appestati alle soglie della città e, alla fine, Ospedale Psichiatrico per il Veneto, del nascente Regno d’Italia. Oggi all’interno della cinta ammiriamo un bellissimo parco, molto curato, con una grande varietà di alberi di alto fusto e piante fiorite. Viottoli pavimentati lo attraversano e conducono ai diversi padiglioni, ristrutturati e adibiti ad uso residenziale. Noi siamo qui, ospiti a pagamento al pari di rari turisti e studenti universitari, per i quali soprattutto gli antichi padiglioni manicomiali sono stati ristrutturati e adattati a residence. L’isola è piccola, la si percorre tutta nei pochi minuti di una passeggiata ombrosa e silenziosa, ma affascina per questa sua dimensione separata che colgo mentre seguo il muro perimetrale e quando mi affaccio alla finestra della camera, che si apre direttamente sul mare; l’edificio che la contiene si continua nel muro esterno, a costruire un fondale diritto, affondato nell’acqua e rosso dei mattoni accesi da un tramonto di mare e di terra nello stesso tempo, tra le isole che più a largo compongono l’orizzonte. In fondo al muro, più lontano, sporge la bianca struttura degli edifici direzionali con il pontile del vaporetto e il vecchio attracco coperto a cui appro-

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San Servolo, la memoria del dolore

davano i ricoverati al loro arrivo in manicomio. Anche qui è Venezia, nei suoni di mare, nelle voci addolcite dalla calata dialettale, negli orizzonti di acqua, di terre e di chiese che si profilano a distanza. È Venezia nel traffico dei vaporetti e dei motoscafi che transitano da e verso il Lido, ed è Venezia nel silenzio notturno: né motori né voci, ma solo il rumore vivo dell’acqua che battendo appena sotto la finestra della camera ci terrà compagnia fino al mattino. Ma è un’altra cosa, un mondo a parte, marcato certo dalla distanza e dall’isolamento, ma di più dalla percezione della funzione svolta nei secoli, che le sue strutture, pur adattate ad esigenze moderne, ancora trasmettono, e le cui più recenti tracce si ritrovano per l’occasione nelle rielaborazioni di artisti della biennale, che ha qui a San Servolo una sua sede distaccata, i quali

Foto di

Pasquale Comegna

espongono grandi foto di volti melanconici, ribelli, assenti, tra quelle ritrovate nelle cartelle cliniche degli antichi ospiti. Qui è anche la sede del Museo del Manicomio, con il quale si è voluto salvare la memoria del dolore e della speranza racchiusi qui per oltre un secolo fino alla fine del Novecento, nella carne viva dei ricoverati e degli operatori, religiose e sanitari, che qui prestarono la loro opera. E quasi a chiudere il cerchio di una storia anche tragica di separazione e di esclusione, quando non di reclusione, ha trovato posto qui la fondazione Franca e Franco Basaglia, che nel nome e nelle pratiche ricorda il faticoso percorso di recupero di quel dolore e di quella speranza ad una dignità che deve essere sempre confermata dalle mille tentazioni di semplificazioni che tornano a separare in questi tempi di muri crescenti

Mitoraj a Pompei


di Claudio Cosma Solidi platonici maschili e femminili. Nella collezione di arte contemporanea che ho nel tempo raccolto sono contenuti due lavori che rappresentano solidi platonici, un dodecaedro ed un cubo. Platone abbinò ad ognuno un elemento, al cubo, la terra, al dodecaedro, l’universo. Curiosamente uno scultore ne realizza una come fosse un quadro o più esattamente una scatola duchampiana (boite en Valise) e una fotografa, piegando una sua foto secondo indicazioni euclidee, costruisce una scultura. Le cose non stanno proprio così. Fabrizio Corneli lavora costantemente sull’idea della perfezione percettiva e in quel periodo, il 1991, data di realizzazione dell’opera di cui parlo, faceva una ricerca sui prismi e la rifrazione. Ha così pensato una struttura di ferro il cui sfondo è la parete bianca dove si colloca e il coperchio, se così si può dire, un vetro, sul quale ha fissato due pellicole fotografiche sulle quali sono disegnate due diverse visioni prospettiche di un stesso cubo geometrico (i solidi platonici non sono prismi avendo le facce omogenee e non solo i vertici). Esiste e fa parte dell’opera una terza presenza consistente in una stretta striscia di carta riportante il titolo. Questo lavoro funziona se l’osservatore riesce a sovrapporre le due immagini piane del cubo componendo virtualmente una figura solida tridimensionale. La visione binoculare con la quale l’uomo percepisce la realtà è la base scientifica di questa “strereoscopia”. Le opere di Corneli ci permettono quel balzo, visivo e mentale, che rende intelligibile un contenuto sconosciuto, come se contenessero un enzima che agendo sul cervello rendesse possibile la lettura di una lingua ignota. Tutta la cultura sia artistica sia scientifica opera questo miracolo, concesso tuttavia, ai soli credenti. Dunque la nostra Sterescopica, tale è il titolo, si presenta come la soluzione di una interrogazione sulla visione, sulla capacità di guardare separatamente un’immagine con l’occhio sinistro e l’altra con quello destro, sempre in bilico fra cose diverse, come i giocattoli streroscopici, le lanterne magiche, le leggi dell’ottica, lo strumento scientifico e l’opera d’arte. L’avere scelto come immagine un solido euclideo (gli unici a poter essere iscritti in una sfera) la cui essenza costituisce un tassello col quale è costruito il mondo rimanda al suo desiderio di misurare e conseguentemente conoscere i rapporti che lo regolano, trasferendone i principi alla sua specifica modalità creativa, con la quale interpretare i fenomeni del mondo sensibile. L’altra artista si chiama Beatrice Mancini e partendo da 2 sue fotografie, sviluppa un dodecaedro regolare formato da 12 pentagoni, riportando su

Solidi platonici

maschili e femminili Fabrizio Corneli, Stereoscopica, 1991, foto Silvia Noferi

un piano le facce che lo compongono, su due delle quali compaiono un capezzolo di donna che sembra uscire da una lacerazione della carta e una bocca femminile socchiusa, premuta contro una superficie trasparente, disposte queste parti di corpo, in modo che non si vedano contemporaneamente. Il solido è attaccato per uno dei suoi 20 spigoli ad un filo trasparente di modo che appare sospeso in aria, posizione che gli si confà assai, essendo questo poliedro rappresentazione dell’universo. Il contrasto della sua essenza matematica e astronomica con le immagini che ne decorano due facce non po-

Beatrice Mancini, dodecaedro, 2017

trebbe essere più smarcante, appena attenuato dal colore rosa, che se rimane incongruo per un solido geometrico è tuttavia un simbolo del femminile e rimane il colore migliore per accogliere tali apparizioni. Il lavoro di Beatrice Mancini scorpora parti del corpo femminile, per aumentarne la funzione seduttiva o costringe le modelle, spesso interpretate da se stessa, in posizioni forzate o contesti “fuori luogo” per esempio una mensola di cucina o un armadio, con un effetto straniante e surreale. La medesima prassi la applica alla memoria delle cose vissute e a tutta una tipologia di atteggiamenti e attitudini “femminili”, di modo che gli oggetti e le situazioni costruite parlino per loro, per esempio dei bigodini fanno riferimento ad una caricaturale vita casalinga, un po’ sorpassata. Questi due lavori, pur uniti da una certa dose di ironia, rimangono diversissimi nel loro rappresentare la maschile determinazione tecnica e la femminile volontà verso il sentimento. I solidi platonici sono cinque, chissà se col tempo, potrò avere una serie completa ad opera di altri artisti.

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premio letterario

I migliori 10

PRIMA EDIZIONE 2017 di Vincenzo Striano Il parente a cui noi ragazzi eravamo più legati era Zio Pepe. Viveva nel quartiere Aranci in vico Luce che fa angolo con vico delle Carceri. Lavorava come dipendente in un distributore di benzina ma la sua passione era il teatro. Era vedovo e abitava con quattro figlie e zia Italia, la sorella signorina. Una volta andai con gli amici di città a trovare zio Pepe. Quando arrivavi in paese ti stordiva il frastuono di miezz a’ via. Venditori di cocco, ciambelle, carciofi arrostiti, pannocchie bollite. Chi offriva cozze e ricci di mare da consumare crudi doveva dimostrare che fossero freschissimi, ma per i cannolicchi si pretendeva addirittura che si contorcessero mentre li aprivi perché “Se non li mangi vivi quelli portano malattie”. Le callosità del piede e del muso del maiale erano servite sopra carta oleata con spruzzate abbondanti di limone. Le zeppole di farina, a volte con aggiunta di pesciolini nell’impasto, i supplì di riso e i panzarotti di patate si portavano via in coni di spessa carta color ocra. Le gelse rosse le davano in una foglia larga piena di sugo vermiglio. “State attenti bambini, il succo di gelse macchia pure la pelle umana e dai vestiti non si toglie mai più.” C’erano bancherelle di frutta con cocomeri, meloni di pane e fichi d’india, e quelle di dolci e sementi con torrone, liquirizia, zucchero filato, lupini salati e nocelline americane. Per digerire si comprava nei chioschi un bicchierino con ghiaccio e limone. Fino a poco fa si potevano ancora incontrare gli acquaioli con carri pieni di damigiane. Si ricorreva a loro per questioni di salute fisica e mentale. C’erano acque con acclarate qualità terapeutiche solforose, acetate, ferrose, acidule, magnesieche. L’acqua di San Pascale serviva per vesciche deboli, cistiti e altre malattie dell’apparato genitale, compresa l’impotenza. Se colpiti da tifo, paratifo o calcoli renali si ricorreva all’acqua della Madonna, che non guariva ma aiutava. Per riprendersi da uno spavento ci si faceva lavare con acqua turricale che portava via la paura insieme allo sporco. Solo per i mali d’amore non c’era acqua che potesse rimediare. Quando arrivammo a casa da zio Pepe era l’ora di pranzo. Avevamo già assaggiato un po’ di tutto

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Il bicchiere di zio Pepe

per strada ma a rifiutare il cibo si sarebbero offesi. Rassegnati ci sedemmo a tavola: sartù di riso ripieno di uova sode, salame e mozzarella, pasta imbottita con ricotta e polpettine, gattò di patate, parmigiana di melanzane, casatiello sugna e pepe, taralli alle mandorle. Il tutto annaffiato da un temibile vino “genuino” dal colore indefinito. “Zia Italia grazie ma non ce la facciamo più!” “Ma la scarola attaccata la dovete assaggiare. Dentro c’è uvetta, pinoli, alice salata, olive, pecorino romano o almeno un poco di insalata di rinforzo con chiochiere piccanti sottaceto che fanno rinascere”. “Zia che sono le chiochiere?” “Forse voi le chiamate puppacchielle ma sono la stessa cosa” “Ora è chiaro” si rispose ridendo. Dopo i liquori alle noci e all’anice Zio Pepe ci portò in salotto. Ci sedemmo su poltrone e divani ancora avvolti nel cellofan. A qui tempi si faceva così, non si scartavano per non rovinarli. E iniziò a parlare di recitazione. “La cosa importante non sono le parole ma il gesto che dev’essere lento, ampio, con lunghe pause d’immobilità. Il gesto sottolinea o più spesso capovolge il significato delle parole. Pulcinella può dire frasi umili tipo: “mi inchino umilmente illustrissimo e grandissimo signore”, ma col gesto giusto diventano frasi di scherno e il pubblico ride del potente.” Noi ascoltavamo sempre più assonati per l’evolversi della digestione. Agognavamo qualcosa di fresco che desse pace all’arsura delle nostre bocche seccate da vino e cibo salato e piccante. Intorno a zio Pepe si muoveva la piccola corte di donne della famiglia che riordinavano, lavavano, spazzavano. Lui stava in mezzo come un re buono e sognante. Mentre parlava alzò il braccio sinistro e la mano rimase lunghi secondi aperta e sospesa poi si serrò intorno a un bel bicchiere d’acqua e bicarbonato che zia Italia gli porse. Non la guardò. Non smise il racconto. Solo ora ogni tanto s’interrompe-

Illustrazione di Aldo Frangioni

va per sorseggiare, schioccare la lingua. Noi guardavamo affascinati quel calice di liquido fresco. Finì di bere alzò di nuovo la mano con il bicchiere vuoto. Rimase un po’ in quella strana posizione. Parlava in trance con il braccio in alto: “Pulcinella è vestito di bianco perché è un’anima defunta, come la gente di questa città che sono morti e manco lo sanno” Alla fine zia Italia passò a riprendersi il bicchiere. Lo guardammo portare via. Cosa avremmo dato per un sorso d’acqua! Ma nessuno ebbe il coraggio di muoversi, la spiegazione era ad un punto cruciale e il cellofan dei divani rendeva evidente e rumoroso ogni minimo spostamento. “Tutte le maschere e anche le marionette sono le buonanime di umani che non riuscirono a liberarsi, così rimasero Nota biografica:

Vincenzo Striano nasce nel 1955 a Torre Annunziata. Nei primi anni ’60 si trasferisce con la famiglia a Firenze. Da metà anni ’70 inizia a impegnarsi in campo sociale e culturale. Nei primi anni ’80 è presidente del circolo culturale Casablanca e tra i fondatori della Biennale Dei Giovani Artisti del Mediterraneo. Per molto tempo è Presidente dell’ARCI Toscana e portavoce del Forum Toscano del Terzo Settore. Tra il 1997 e il 2002 è Presidente Nazionale di Informazione Senza Frontiere. È tra gli organizzatori del Forum Sociale Europeo (Firenze 2002). Nel 2005 riceve dalla Giunta Regionale Toscana una medaglia d’argento per la pace e i diritti umani. È fino al referendum del 2011 tra i portavoce Toscani del movimento dell’acqua. Scrive articoli su periodici e in particolare su Testimonianze (è membro del Comitato di Redazione). In questo periodo si occupa di didattica ambientale.


di Ugo Caffaz Il 15 Luglio 1938 il presidente Roosevelt riunì ad Evian (Francia) 38 paesi per tentare di risolvere un problema: gli ebrei tedeschi erano stati dichiarati apolidi (ius sanguinis/ ius soli tolti?) da Hitler con le leggi di Norimberga del ‘35 e 350 000 erano rimasti in Germania. Bisognava accoglierli prima che la situazione precipitasse (!). Solo la Repubblica Dominicana si dichiarò disponibile. Tutti gli altri no per motivi economici, politici, sociali, eccetera non potevano accogliere nessuno. È immaginabile che la fine di quei disgraziati, bambini compresi, furono le camere a gas . I tempi sono cambiati. ma gli esseri umani no. Sia i perseguitati da accogliere, sia gli “impossibilitati” e quindi indisponibili paesi progrediti e democratici. I verbali della riunione di Evian sono praticamente sovrapponibili a quelli di oggi, a distanza di quasi 80 anni. Eppure ci stiamo avvicinando al 2018, anno in cui ricorreranno 80 anni dalle leggi razziali italiane firmate da Vittorio Emanuele III a San Rossore, 70 anni dalla promulgazione della Costituzione italiana e altrettanti dall’approvazione della Carta dei diritti dell’uomo. Come si nota, nel cosiddetto secolo breve (mai secolo fu più lungo) in soli 1O anni si passò dalla tragedia (65milioni di morti) al trionfo della libertà nel nostro paese e della giustizia (potenziale) in tutto il mondo. Ma il tempo scorre veloce e la memoria. così come la storia, stenta a fare lezione di vita. In realtà la guerra nel mondo non si è mai fermata e spesso, molto spesso, ha avuto conseguenze e caratteristiche tropo simili a quei maledetti dieci anni. Basti pensare alla Cambogia, al Ruanda , alla ex Iugoslavia. Ma noi europei non possiamo farci carico dell’inferno (politico o economico che sia) di metà del mondo, non ci riguarda oggi. Il Mediterraneo è una fossa comune per decine di migliaia di esseri umani. anche di migliaia di bambini soffocati sui fondali dei barconi. Ma a Tallin (Estonia) località famosa per l’eccidio di migliaia di ebrei come a Vilnius, Riga, eccetera, così come allora ad Evian non c’è accordo per salvare nessuno. Golda Meir, allora giovanissima, partecipando ad Evian. osservò che dietro i numeri c’erano i volti di esseri umani. Come oggi. Li vediamo in televisione, mentre siamo a tavola, “sicuri nelle nostre tiepide case”. E la politica italiana ed europea si gioca , si balocca, davanti a quei numeri/volti i risultati elettorali. Io non ne posso più.

Imparare dalla storia?

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di Cristina Pucci Il Corriere della Sera, un paio di domeniche fa, ha pubblicato due paginoni su Talamone, io, che vengo qui da quarant’anni, non ci avrei mai pensato, ma ora non posso esimermi. Uscendo dall’ Aurelia, a Fonteblanda, si imbocca la strada che porta a Talamone, dopo la prima curva esso ci appare, arroccato su una punta, circondato da mura, con la imponente rocca sul cocuzzolo, come galleggiante sull’azzurro del mare che lo circonda. E’ un paese antichissimo, deve il suo nome, dicesi, a Telamone, padre dell’eroe Omerico Aiace, che ,insieme ad uno degli Argonauti, lo avrebbe fondato. Sicuramente porto importante per gli Etruschi, lo fu ancora di più in epoca Romana. Si narra che Mario, di ritorno dall’Africa, vi abbia fatto sosta per racimolare uomini per la sua guerra contro Silla e che, grazie alla ostilità dei Talamonesi verso il giogo romano, ne abbia trovati moltissimi che si distinsero per stragi e morti sulla via di Roma, ma, sconfitti, videro la città rasa al suolo. Dalla parte opposta del golfo c’è il promontorio di Talamonaccio, vi sono state ritrovate parti di mura etrusche, una serie di oggetti in bronzo detta “il ripostiglio Strozzi”, resti di tombe ed infine vestigia di un tempio etrusco del IV secolo a.c, arricchito dal successivo e celebre frontone con i “sette contro Tebe”. Salto molti secoli, nel 1300 circa furono costruite le mura, tuttora in piedi, restaurate di recente e su cui campeggia una lapide con sibillini versi Danteschi , circondano l’abitato e sono determinanti al fine di mantenerne integra l’originaria struttura. Nel Duomo di Siena, in un affresco del Pinturicchio, una veduta di Talamone. Sovrasta il tutto l’imponente Rocca Aldobrandesca, più volte sciupacchiata nel corso del tempo, ora resa all’antico splendore, offre dalla sua cima una imponente visuale, il golfo, l’Argentario, il Giglio e Montecristo e, a volte, la grande sagoma dell’Elba. Dietro il paese le colline del parco dell’Uccellina, punteggiate da antiche torri di avvistamento e da rari tetti di megaville galattiche. Fu vicino alla Rocca che confluirono le truppe garibaldine in attesa di salpare per la Sicilia. Garibaldi trascorse la notte in una casa della piazza, ora a lui dedicata, in giro vie e ristoranti ricordano questo trascorso momento di gloria. Intorno a Talamone c’era “il palude” come dicevano qui nel tempo andato, fu bonificato alla fine dell’Ottocento da Jader Vivarelli, nobiluomo che, acquistati campi, colline ed acquitrini si dedicò alla loro sistemazione. Interessante lettura la sua richiesta di ammissione al “Concorso per la Bonifica della Palude di Talamone”, vi dettaglia opere, spese

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Talamone, in vacanza con la storia

e risultati ottenuti, fra essi il disboscamento della macchia che ricopriva le colline e la trasformazione, grazie agli innesti, degli olivi da selvatici a domestici. Da 460 piante arriva ad averne 10.000...Nel cimiterino, subito prima del paese, troneggia splendido e grandioso , il suo monumento funebre, costruito, in perfetto stile art nouveau, all’inizio del ‘900. Torrione in travertino con grandissime finestre a cuore e cupola di mattoni orientaleggiante, balaustre in ferro battuto, le bellissime vetrate policrome furono distrutte da una esplosione. Oggi: a Talamone tutto è sempre uguale, c’è un unico bagno, il Bagno delle Donne, una caletta a

sassolini stipata all’estremo, Daniele, il gestore e bagnino, sta, appollaiato sulla roccia da cui tutti si tuffano, controlla. Nel porticciolo tante barche, pochi i posti macchina, i negozi, sempre gli stessi, così come i ristoranti e i Bar. In paese c’è un forno, aperto solo al mattino, da sempre sforna le solite schiacciatine unte, vuote o ripiene, morbide o secche, i soliti dolcetti caserecci. Dentro vecchie foto incorniciate ed una citazione, condivisibile, direi...peccato siano parole di Mussolini, “rispettate il pane , sudore della fronte, orgoglio del lavoro , poema di sacrificio.” Qui saranno grati a lui, forse , per la Bonifica della Maremma tutta.


di Mario Cantini La peste del 1630, resa famosa dal romanzo I Promessi Sposi del Manzoni, si estese anche nel Granducato di Toscana proveniente dalla Romagna e, nonostante le precauzioni prese dal Granduca con la chiusura della frontiera, fece la sua prima comparsa nella Podesteria di Fiesole nel popolo di S. Lucia a Trespiano, situato sulla via Bolognese, nel mese di agosto. Nel Libro dei Morti della Cattedrale di Fiesole si registra il 12 agosto 1630 il primo decesso: Giuliano casiere della Cont.sa si seppellì nel Leone […] con ordine del magistrato della Sanità et di Mons. Nostro Vescovo senza intervenirvi nessun prete et li fu abbruciato tutte le masserizie di casa, perché dissono che haveva hauto mal contagioso. È da tener presente che inizialmente si parlava di mal contagioso e non di peste, e solo successivamente la causa della morta è indicata “ab pestis suspicione”. Era comunque prassi che il defunto fosse immediatamente seppellito nel terreno adiacente al luogo della morte e non nei vari cimiteri, provvedendo a bruciare tutte le masserizie di casa. Tutte le morti avvenute nel periodo da agosto a dicembre sono registrate, senza ulteriori precisazioni, col nome, cognome e luogo di sepoltura, ad eccezione di un caso particolare avvenuto il 30 agosto 1630: Il molto Rev. do Sig.re Raphaelo Baccioni Preposto della Catt.le di Fiesole d’età d’anni 33 in circa, dopo di haver ricevuto tutti i sant.mi Sacr.ti con molta devotione, et con dolore universale del nostro Capitolo passò da questa vita presente in Fiesole, il sabato a hore 24. Di poi fu messo in una cassa, et a hore 24 fu portato in Chiesa da due deputati della compagnia della Misericordia di Firenze et dal nostro clero accompagnato, et quinci fatto il funerale a due ore di notte. Levato di chiesa fu portato dietro il campanile, et qui fatto una fossa fu cavato della d.ta cassa, et sepolto nel cimitero vecchio, senza intervenirvi preti, et lumi: di poi presero la d.ta cassa insieme con il suo letto, et suoi vestimenti et quivi li abbruciarono con l’ordine del Magistrato di Sanità, et di Mons. Nostro Vescovo, perché haveva hauto mal contagioso. La specificazione del luogo di sepoltura, spesso indicata non nella Cattedrale, ma nelle varie residenze del defunto (ad esempio Pisilli, Spiccarello, Farneto, S.Ansano, Coniale, Fontalla, Pian di Mugnone, ecc.) oppure nel cimitero vecchio, fa dedurre che si trattasse di morti di peste. Una conferma dell’infierire del contagio vie-

ne anche dalla presenza fra le vittime di interi nuclei familiari: il caso più drammatico fu quello della famiglia Mazzi, che nel giro di poco più di un mese (24 settembre-6 novembre) vide perire sette dei suoi membri. Nella “Relazione del contagio stato in Firenze l’anno 1630 e 1633”, stampata a Firenze per Gio.Battista Naldini l’anno MDCXXXIV, a pagina 48 si legge: L’altro lazzaretto fuor della porta a S.Gallo fu alla Badia dei Canonici Regolari, la convalescenza per le donne, e i ragazzi era la Chiesa e Convento di S. Domenico, la quarantena per gli huomini si faceva alla villa de’ SS. Palmieri detta i Trevisi. Questo lazzaretto fu chiuso quando cominciò il miglioramento alla fin d’agosto 1631. Le modalità di registrazione del Libro dei Morti suggeriscono quindi le fasi temporali della diffusione del morbo; nei primi mesi dell’anno, fino a luglio compreso, le morti vengono registrate con l’indicazione del nome e cognome, sesso, età e luogo di residenza. Dal mese di agosto le registrazioni si fanno più scarne mentre l’elevato numero dei morti la-

La peste del 1630 a Fiesole

scia pochi dubbi sulle cause della gran parte dei decessi. La statistica fornisce il numero dei decessi dell’anno 1630 nel popolo della Cattedrale per un totale di 80, di cui 60 avvenuti fra l’agosto e il dicembre, mese in cui l’epidemia si affievolì notevolmente, a confronto della media di 20 decessi negli anni immediatamente antecedenti e susseguenti. In particolare nel popolo di San Lorenzo a Basciano Popolo il 24 agosto 1630 Matteo Pecchioni di anni sessanta in circa si seppellì dietro la casa delle Mimmole stando egli in sul detto podere d’ordine delli Sig.ri della Sanità della città di Firenze per sospetto di peste. Le annotazioni confermano la regola sull’immediato seppellimento dell’appestato direttamente nel luogo della morte senza il trasporto della salma al cimitero della parrocchia, come risulta in molti casi simili registrati nel popolo della Cattedrale. Dal Libro dei Morti si deduce che esisteva un altro lazzaretto a Settignano ed a San Miniato al Monte, riservato alle donne. Nell’elenco figurano anche alcuni rari contagiati che ritornano guariti dal lazzaretto. L’ultimo morto è registrato a nel popolo di S. Donato a Torri il 26 luglio 1631: Lessandro di Giano Bacchelli pigionale a Compiobbi fanciulletto di 10 anni incircha morto a 3 ore di notte, a 21 detto se ne dette conto alla sanità, venne il cerusico e giudicò che fussi morto di contagio, adi 22 vennero i bechini della sanità e lo portarono a sepelire al campo della Pieve [Remole]. Et tutti di quella casa rimasono serati (rinchiusi) et li si da per testa 8 soldi di roba mangiativa per uno per ordine della sanità et così s’è fatto alli altri che sono stati serati. Piaccia al sig. Dio por fine a tantto fragello per sua misericordia. L’invocazione del parroco fu accolta perché questi è l’ultimo appestato deceduto. Il parroco di san Pietro a Quintole, don Alberto Berti, descrive in un drammatico testo gli stati d’animo ed il terrore diffuso fra la popolazione: Nel registro dell’Archivio Storico del Comune di Fiesole nei Partiti di Fiesole dal 10 febbraio 1628 al 20 febbraio 1661 (A.C.F. Pre 2), stranamente non si trova nessuna notizia o riferimento alla peste del 1630. Libro dei morti del popolo di San Pietro a Quintole con l’indicazione dopo il mese di luglio 1631 “Huc usque Pestilentes e Pestis” (qui fine delle pestilenze e della peste). Courtesy Berlinghiero Buonarroti

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di Francesco Gurrieri D’estate, si sa, col caldo e con l’umido si rifanno vive le zanzare. Insetti fastidiosi verso i quali ciascuno ha modalità difensive diverse, ma che lasciano sul campo molti soccombenti, con bozzi, arrossamenti e pruriti vari. In questa lotta fra umani ed insetti, Gianna è una combattente, con un cursus bellico di tutto rispetto. Le ha provate tutte, dalle modalità paleotecniche come lo “zampirone” (“incenso realizzato con polveri compresse di piretro – ricavato dalla pianta Tenacetum Cineriifolium - con una forma a spirale che, bruciando lentamente sprigiona un fumo repellente, discretamente tossico) alle neotecniche più avanzate provenienti dalla non più lontana Cina. Dopo lo zampirone, diffuso e trionfante per decenni nel secolo scorso, apparvero le “candele alla citronella”; una pianta repellente naturale anti-zanzare: un’erba perenne, graminacea, che gl’inglesi chiamano lemongras. Di citronella si trovavano – e ancora si trovano – candele, sferette, spray ( da darsi addosso come repellente). Funzione questa, storicamente affidata anche ai gerani, tanto che questi, sia pure in vaso ma quasi a forma di siepe, presidiano la sala - jardin d’hiver, ove d’estate si consumano i meeting e le cene con gli amici. Tentativo successivo è quello affidato agli spray (“Vape”) da darsi a terra, innanzi tempo, per la superficie che si presume interessata dagli aperitivi, dalle conversazioni, dai pranzi e dalle cene. Modalità questa che in casa nostra persiste, prudentemente, anche con l’arrivo dei mezzi tecnologicamente avanzati. La “spruzzata” va effettuata un’ora prima dell’arrivo degli ospiti ed ha un’efficacia (“durabilità”) intorno alle sei ore. Fin qui i mezzi bellici che potremmo definire “naturalistici”, nel senso che hanno un effetto dissuasorio senza mieter vittime o, comunque, contenendo le perdite del nemico. La “Vape” ha poi messo a punto delle “cuffie-spine elettriche” , alimentabili a pasticche o a boccette liquide (piretro liquido), da tener fisse alle prese di casa. Così, ci siam riempiti di cuffie al piretro in ogni stanza della casa, con un consumo di elettricità difficilmente quantificabile. Ma ecco sopraggiungere la tecnologia bellica, quella dall’efficacia sicura, che lascia le vittime a terra o che le porta a combustione, come era per i lanciafiamme, già operanti nella prima guerra mondiale e impiegati nella seconda, fino alla campagna contro il Giappone. Passando ai mezzi “meccanici” va citato l’apparecchio “Moel”/ Sylvania FC 32W/BL 368, aspiratore che, valendosi di una luce azzurrina, aspira gl’insetti e li scaraventa in un cassetto da

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La guerra alle zanzare Perpetrina, tetrametrina, piperonilbutossico, deltametrina, esbiotrina e altro ancora

Il calabrone di Lorenzo Giandotti

cui non possono più uscire. Va detto che questo “Moel” aspira anche insetti ben più grossi della zanzare, fino a mosconi, calabroni e bombi. Ma fa un po’ paura ai bambini. C’è poi, della Mosquito-Web, un semovente da terra, lo “Zhalt” : ha un contenitore della dimensione di uno zaino da guerra, munito di un elegante manico e da tre beccucci a 120° da cui è spruzzato il mortifero liquido vaporizzato. Si attiva elegantemente da un telecomando. Per la cronaca, il liquido si chiama “Tetrapiù Multipurpose” a base di perpetrina, tetrametrina pura, piperonilbutossico e coformulanti. Infine, ultimo ritrovato della “tecnologia insetticida”, uno sterminatore sicuro, “per impiego civile a base di deltametrina ed esbiotrina”, una sospensione concentrata, priva di solventi, per impiego in interni ed esterni. Si insuffla con la

vecchia pompa da ramato, con cui si curavano preventivamente viti e pomodori. Esattamente la stessa tecnica dei lanciafiamme. Recente ritrovato, in verità accattivante per il suo essere “biologico” (così è dichiarato), è la “Ovitrappola”/Acqualab.HTML. Sembra funzionare grazie alle caratteristiche biologiche delle larve di zanzara; è assicurata un’efficacia raddoppiata in quanto serve da monito costante verso l’incuria dei ristagni. Infine, l’arrivo sul mercato di un nuovo (si dice efficacissimo) spray: “Zanzarella, dentro e fuori”. E ancora, udite udite!, il “Cer’8 Tigre”, quadratini gialli autoadesivi (da non confondersi con i post-it) che emanano un odore repellente e che si possono postare anche sulla maglietta. Ma la ricerca va avanti, si sa, fra successi e insuccessi; quindi, ci rileggiamo in una prossima puntata…


di Melia Seth Cammino in città, la mia città, e incontro arte. Quasi ovunque. Perlopiù del Rinascimento. Si può fare arte contemporanea in questa città? E arte pubblica? Me lo chiedo camminando, quando il passo non è fermo e veloce, non mira dritto al punto, e le domande vanno al passo. Che cosa significa “pubblica” quando si parla di arte? Pubblica contrapposta a privata? Che cos’è l’arte privata? Quella del collezionista, dell’artista o del gallerista? Allora, l’arte pubblica sarebbe quella del Comune, della Provincia o della Regione. Arte dell’Ente. Pubblico. Arte del museo (basta che non sia privato). Oppure pubblica vuol dire il pubblico che ne usufruisce e la rende eguale a sé? Un’arte per il pubblico è arte pubblica. Non c’è arte senza pubblico, anche se poi, per eluderne il giudizio, pericoloso per tutti (per i mercanti in primo luogo) si è finito con il chiamarlo fruitore. Un’arte senza pubblico sarebbe un’arte non realizzata. Potrebbe essere pubblica nel senso dei beni comuni? In genere non è annoverata fra questi, ma forse è una dimenticanza. Quante domande, quando cammino in città. E non ho ancora finito, di camminare. Fa bene, camminare. L’arte come l’acqua è un bene comune. Ma l’arte non è acqua, anche se a volte, come l’acqua, può togliere il respiro. Oppure l’arte è pubblica perché è democratica? Per tutti e non per pochi. Per la maggioranza e non per un’élite. Oppure: è per tutti perché è comprensibile a tutti. In quale altro senso, sennò? Pubblica in quanto esposta in un luogo pubblico: strada, parco, piazza, scuola, università? All’aperto anziché al chiuso? Libera e non segregata? O ancora: pubblica perché per i cittadini? Ma quale sarebbe, al contrario, l’arte non-per-i-cittadini? Supponiamo che sia per loro, che cosa fanno i cittadini con l’arte? La guardano? La toccano? Ci si siedono sopra? La modificano? O forse è pubblica perché gratuita? Open access. Sappiamo bene che non è così: l’artista viene pagato. Se celebre, pagato molto. L’utente, piuttosto, può non pagare. Tutto qui? Pagare un biglietto o non pagarlo fa la differenza? 5 euro, 10, 15 fanno la differenza? Non sarà che il punto è il significato? Che cosa significa fare arte nella città, per la città? Non per un museo o una istituzione: per una città intera e per chi la abita. Che cosa significa da entrambi i lati: quello dell’artista e quello dell’utente. Il senso più elementare rinvia alla bellezza: l’arte è bellezza, e per questo la mettiamo in città. Ma accade, lo vediamo spesso, che l’arte, come la

Camminare in città

città, non sia poi tanto bella. Dunque? L’arte come “arredo urbano” (chi ha inventato l’espressione doveva avere qualche conto in sospeso). L’arte per segnare uno spazio, per caratterizzarlo, sottolinearlo, segnalarne un possibile uso, chiuderlo a una fruizione indifferenziata facendone un luogo protetto e specifico? Un luogo in cui risuoni una tonica che accompagna la nostra sosta, per esempio, in cui si odano voci che cantano o parlano o sussurrano, che recitano un testo; oppure un luogo in cui regni il silenzio: quel silenzio totale che fa rumore. O ancora, un luogo in cui solo chi misura al massimo un metro di altezza si trovi a suo agio. O solo chi cammini a quattro zampe. C’è una gara fra le città grandi e piccole a chi inserisce più arte nel tessuto urbano: dal concerto al video, dalla statua alla performance, dalla fotografia alla danza. Lo si fa per il cittadino. Che cosa effettivamente arrivi al cittadino non è facile dire. La città usa l’arte portata (e pagata) dall’artista e ne fa un fiore all’occhiello. L’artista usa la città per esibire la sua arte e aumentare le sue quotazioni. Chi usa chi? Magari è un gioco alla pari in cui nessuno perde e tutti guadagnano qualcosa. Arte pubblica. A metà degli anni Settanta ci ha provato Pomodoro (Gio’) e l’ha chiamata la “dimensione esterna” della scultura: il suo valore d’uso. L’ha chiamata “luoghi per l’incontro e la sosta della gente”. Il piano orizzontale. La seduta. La pietra. L’acqua. La scultura. Commisurata al luogo. Ma non sono più i tempi di Pomodoro (sempre Gio’). Forse non c’è nemmeno più la committenza. La riflessione inizia a farsi malinconica. È all’arte contemporanea che devo pensare. Smetto di camminare. Tutte queste domande annullano i benefici del mio movimento. Smetto di camminare e mi consegno a un’esercizio. Pubblico. Si può ancora bere un buon caffè in questa città. L’arte nello spazio urbano: Alessandra Pioselli, direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Bergamo, Paolo Belardi, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Perugia, Chiostro di Santa Verdiana, piazza Ghiberti, 27, Firenze,

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di Anna Lanzetta È uno scempio quello a cui stiamo assistendo in questo periodo. Molti roghi assediano il nostro territorio falcidiando la natura e il lavoro dell’uomo. Molte regioni sono colpite da questo flagello che mai negli anni passati era apparso in tutta la sua tragedia e che ci coglie impreparati e privi di mezzi adeguati. Infiniti roghi pullulano in molte regioni, non certo per colpa del caldo anche se complice. Il fuoco che divampa e divora è frutto essenzialmente di azioni sconsiderate di chi lo produce arrecando offesa alla natura, all’ambiente, all’uomo ma essenzialmente a sé stesso, immemore che l’uomo è parte integrante della natura. In un momento di crisi del paese, invece di unirci per difendere il nostro patrimonio paesaggistico, preservarlo e proporlo in tutta la sua bellezza, quale nostra ricchezza indiscussa, non si pensa che a deturparlo e a distruggerlo. Si fa sempre più strada l’inciviltà, che pone l’uomo in uno stato di assoluta inferiorità. Chi e quando ci ridarà il nostro patrimonio boschivo e la ricchezza delle nostre terre?. Il fuoco rende l’aria irrespirabile a danno di uomini e delle nostre coltivazioni e una nube densa di fumo copre il cielo. Si chiede da parte di tutti e in particolare di chi è addetto con leggi a tale compito, rigore, tutela e vigilanza contro coloro che immemori del senso di appartenenza si arrogano il diritto di distruggere. Azioni così gravi e mostruose non sono più tollerabili e non devono passare inosservate alla coscienza di chi si reputa uomo e parte di una comunità. È necessario sensibilizzare tutti verso un problema che cresce a dismisura. La natura ha bisogno della nostra unanime collaborazione per essere tutelata e difesa se vogliamo crescere in progress. Abbiamo bisogno di educarci e di capire l’importanza che ha l’ambiente per la nostra sopravvivenza. Come cambiare chi ha la vista annebbiata? Chi si lascia avvinghiare dal sonno della ragione? Chi distrugge impunemente ciò che appartiene a tutti noi?. Non bastano le leggi. La risposta è da ricercarsi nella coscienza di tutti ma essenzialmente di chi compie tali flagelli. La coscienza è l’unica in grado di risvegliare nell’uomo quello spirito di appartenenza che rende caro ad ognuno ciò che è patrimonio comune. La “parola” scritta, diffusa e letta diventa pertanto l’arma più potente se utilizzata in ogni luogo per sensibilizzare e mutare in positivo pensieri

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L’Italia divorata dai roghi

lugubri e cattivi che vengono alimentati in chi forse non ha mai rivolto alla natura uno sguardo di amore e di apprezzamento. Solo il richiamo alla propria coscienza attraverso una forte e costante riflessione è in grado di svegliare dal torpore della negligenza chi non pensa alle conseguenze di atti sconsiderati, chi si crede forte di fronte a una natura che non può difendersi, senza capire che in quel rogo disarma sé stesso e diventa poi sempre più vulnerabile nei confronti di forze che gli si rivolteranno contro. Solo la coscienza potrà richiamarlo alla ragione, mostrargli tutta la sua meschinità e la sua pochezza e fargli sentire vergogna, una vergogna atroce che si muti in uno spasmo sempre più fitto a fronte del giudizio delle generazioni future. Nel mio libro, appena pubblicato dedicato alla natura e all’ambiente “Armonie di un giardino toscano”, in un rapporto temporale con me bambina, concludo dicendo che il mio più grande desiderio è vedere di nuovo Eos, la rosea Aurora tingersi di un non colore brillante, pronta ad allietare l’uomo, il creato tutto, e spandere ogni mattina sugli uomini la rugiada della vita, l’essenza della bellezza e dell’armonia dell’universo perché ognuno inebriato si interroghi sul proprio operato e capisca che nulla è più triste che negare al proprio figlio il respiro della vita in tutta la sua purezza. Si riportano alcune pagine del libro L’ambiente, nostro habitat naturale, appare sempre più preda della nostra incuria che si può combattere solo con la piena consapevolezza di ciò che avevamo e di ciò che oggi determina l’invivibilità del pianeta. Dovremmo tutti acquisire piena coscienza del

problema e risentire il richiamo della “fonte della vita” a tutela della nostra vita. Sarebbe bello e auspicabile dipanare dal cielo la fuliggine che lo ottenebra e riprendere a viaggiare su una nuvola rosa in un cielo terso, risalire sul dorso di un delfino e assaporare l’ebbrezza di correre in un mare limpido e ospitale al corteo delle Nereidi; ritornare ad abbracciare alberi, boschi e foreste e riscoprire il lungo respiro della natura al magico suono di Orfeo. Dovremmo… ma non possiamo se non uniti contro il nemico comune dell’indifferenza, del guadagno, di ciò che impropriamente chiamiamo “progresso” perché ne sviamo il senso-. -L’ambiente, come la vita di ognuno di noi, è un giardino che diventa arido se si lascia incustodito, ma che può dare frutti copiosi se si coltiva con amore. La scelta è affidata alla nostra intelligenza e lungimiranza. Ho amato e amo la natura, immenso e bellissimo giardino del creato che l’arte ha ripreso in tutto il suo splendore. Amo ascoltare la sua voce amica, quella che mi giunge dall’ambiente nel quale vivo e che in ogni ora del giorno mi chiede di essere conservato. Vivo il mio rapporto con l’ambiente con la spontaneità e la leggerezza di quando ero bambina ma arricchito dalla consapevolezza della sua importanza e della mia maturità-. -Rapita dall’armonia del cosmo, tutto mi appare fantastico mentre ad occhi chiusi viaggio come novello Icaro in una fantasmagoria di colori, in un arcobaleno di suoni e di profumi, di una natura che mi sorride, al di là del sogno, nelle vesti di Eos-. Anna Lanzetta “Armonie di un giardino toscano” Racconti, arte, mito e fantasia. Edizioni dell’Assemblea


di Monica Innocenti Alessandra Angeli è una giovane film-maker lucchese che, con il suo mediometraggio Asphyxia è arrivata sul red carpet del Festival di Cannes ed ha in cantiere altri progetti molto interessanti. Come nasce la tua passione per il cinema e qual è il percorso che ti ha portato alla regia cinematografica? Dopo il diploma ero indecisa, al momento di iscrivermi all’Università, tra scienza e cinema: alla fine ho finito col fare …la fantascienza! In realtà ho alternato agli studi universitari di cinema, la frequentazione di laboratori e work-shop di recitazione, montaggio e regia; sono andata sui set cinematografici, ho fatto l’aiuto regista, l’assistente e, piano piano, ho imparato le tecniche delle varie figure professionali anche se, naturalmente, di imparare non si finisce mai. Poi hai avuto l’idea di abbinare il genere fantastico e apocalittico ai temi, sempre attualissimi, dell’ecologia. Dopo la laurea, volevo realizzare un corto sui miei generi preferiti che sono, per l’appunto, catastrofico e fantascienza e necessitano generalmente di un alto budget del quale non disponevo; per ovviare a questa mancanza, scrivendo la sceneggiatura, mi sono inventata una catastrofe invisibile, ma di cui si potevano documentare gli effetti, in particolare l’inquinamento dell’aria, sempre più povera di ossigeno e più impregnata di agenti inquinanti. Abbiamo cominciato a girare in vari luoghi della Toscana, senza studi di posa, con un budget risicato (e l’aiuto di alcuni sponsor che hanno fornito materiale, come ad esempio le bombole di ossigeno usate dai protagonisti), uso della color correction con Samuel Giraffi ed effetti visivi speciali realizzati al computer da Alessio Barzocchini. Il professor Rizzo dell’Università di Salerno, ci ha fornito l’automobile a pannelli solari usata dai protagonisti per sfuggire alle catastrofi naturali generate dall’inquinamento. I quattro protagonisti, oltre a me, sono stati interpretati da: Alessandro Baccini, Moreno Petroni e Michael Segal. Quanto tempo sono durate le riprese? Più mesi, ma a periodi di qualche giorno, perché un mediometraggio di 45 minuti era impossibile da girare con continuità, sempre per problemi di budget. Naturalmente tutto questo ha comportato un grosso lavoro in fase di post-produzione, nella quale

ho curato il montaggio, mentre Andrea Pasqualetti ha realizzato il sound design e Giovanni Puliafito le musiche. Il film sembra una specie di “monito all’umanità” per come sta trattando il pianeta terra. In effetti la fantascienza, purtroppo, è più vicina alla realtà di quanto si pensi e le vicende del film non sono poi così remote, anzi! Come arriva al festival di Cannes una regista così giovane, tra l’altro alla sua opera prima? Il film è stato accettato e proiettato in importanti festival in varie parti del mondo e, lo scorso anno, nella sezione Short Film Corner di Cannes; è piaciuto e questo, oltre alla passerella sul Red Carpet, mi ha portato ad avere i primi contatti importanti per trasformare Asphyxia in un lungometraggio. Il 20 maggio di quest’anno, sono tornata a Cannes per ricevere un premio per il Global Short Film Award, come miglior film nella sezione Action Movie. Ma il progetto nella sua interezza è ancora più ambizioso! Ho in programma una pentalogia: quattro film dedicati ad aria, terra, acqua e fuoco più uno dedicato al “quinto elemento”, che daranno vita a una “Saga degli elementi”. Prima ancora di Asphyxia verrà girato Abyss, sull’inquinamento dell’acqua, che è l’argomento che ha suscitato più interesse. In bocca al lupo, Alessandra! Per vedere il trailer di Asphyxia e le prossime proiezioni del film a cui poter assistere utilizzate questo link: www.asphyxiafilm. weebly.com Il sito personale di Alessandra: www.alessandraangeli.altervista.org

Alessandra Angeli: da Lucca a Cannes

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di Paolo Marini Il 25 luglio 1937 si dipartiva in quel di Colle di Val d’Elsa, dove era nato, l’anima di Vittorio Meoni. Giornalista, politico e primo sindaco socialista in Toscana (della cittadina natìa, dapprima e per un breve periodo nel 1898 e poi nel 1911-14), imprenditore ma soprattutto – per quanto qui ci muove - pittore divisionista. Aveva trascorso una vita piena, sì, ma tutt’altro che facile: per via di quella sua militanza politica (che gli aveva procurato problemi già nel 1898 quando, a seguito del grave clima instauratosi nel Paese, aveva dovuto riparare in Francia, a Marsiglia, dove peraltro aveva stretto contatti con esponenti delle nuove correnti pittoriche) nonché a causa dei problemi familiari e delle difficoltà economico-finanziarie, anche legate alla catastrofe del ‘29, che avevano angustiato la sua esistenza, in particolare, nell’ultimo decennio. Oggi, a 80 anni dalla sua scomparsa, mi piace pensare che vorrebbe essere ricordato, anzitutto, come artista. Perché la pittura fu il suo impegno e la sua consolazione - che mai abbandonò - anche nei momenti più bui. Ennesima conferma che arte e vita si fanno, in taluni individui, indissolubili. E mi piace rievocare la sua formazione non accademica, di autodidatta, un imprinting che avrebbe forgiato in lui un desiderio di sperimentazione al di fuori di ogni convenzione accademica, nonché l’avvio di una significativa corrispondenza con artisti e amici (tra i quali Antonio Salvetti, Vittore Grubicy e Plinio Nomellini), modalità con cui a quel tempo ci si confrontava e si cresceva, anche artisticamente. E’ indiscussa la “radice naturalista della sua pittura, con scenari paesistici e soggetti legati all’intima realtà del quotidiano” (Federica Casprini, “Sulla corrispondenza artistica di Vittorio Meoni”, estratto da Miscellanea Storica della Valdelsa, gen.-dic. 2005). Si tratta di temi che “rimarranno una costante nella sua opera e in seguito saranno affrontati attraverso una coerente e continua applicazione dei principi scientifici sulla percezione della luce e dei colori”, le teorie ottiche e cromatiche di Rood e Chevreul, di cui si dà ampio conto in un testo del tempo, “I principi scientifici del divisionismo” (1906) di Gaetano Previati, che ho il piacere di annoverare tra i miei libri. Meoni, che aveva raccolto le proprie opzioni estetiche nell’opuscolo “La decadenza dell’arte borghese” (1897), chiedeva agli artisti “di abbandonare il loro status di spiriti

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eletti a servizio della classe dirigente” e di “adottare un linguaggio comprensibile anche al popolo”. Come si può intuire, egli era intensamente fuso con questa stagione artistica di grande fermento. Così scrisse di lui il pittore livornese Lewellyn Lloyd (“La pittuta dell’Ottocento in Italia”, Nemi, 1929, p. 61): “E’ un delicatissimo pittore, poeta (…) e si può considerare l’unico superstite rimasto fedele al principio e alla teoria della scomposizione dei colori per ottenere maggiore vibrazione della luce”. E concludeva: “Sta fra il Morbelli e il Grubicy. Dipinge paesaggi della sua Colle e gli angoli ascosi con molta forza e aristocrazia.” Nel 1993 il Comune di Colle organizzò una mostra a lui interamente dedicata - radunando per l’occasione una ragguardevole quantità di tele, provenienti per lo più da collezioni private -, evento di cui è rimasta traccia con il relativo volume-catalogo, accompagnato da un brano critico di Stefano Francolini (“Vittorio Meoni, pittore della

luce: dall’impressione del vero al colore diviso”). Per chi desiderasse un accesso immediato alla sua opera, potrà recarsi alla Galleria d’Arte Moderna del Palazzo Pitti in Firenze. Qui sono custodite “Oasi nelle crete senesi” e “‘Ai frati’ a Colle Val d’Elsa”. La prima, in particolare, evoca l’ariosità e la solennità discrete di una terra così peculiare della provincia senese. Ben si attaglia a questo dipinto quanto ebbe ad annotare Carlo Ciappei: “Ché tutta l’arte del Meoni tende a sprigionare dalla trita realtà, minutamente osservata, l’ansito misterioso di una vita umile e profonda teneramente amata dall’artista (…). L’elemento che agli occhi di lui trasfigura, spiritualizzandola, la realtà, è la luce nelle molteplici decomposizioni delle vibrazioni eteree (...)”. Vibrazioni capaci di sollecitare, di impressionare con dolcezza (virtù che pare mutuata dalla soavità del paesaggio e del vernacolo di Colle) lo sguardo (e il cuore) dell’osservatore di ogni tempo.

Vittorio Meoni e il suo divisionismo ‘spirituale’


PLINIO NOMELLINI Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore 14 luglio · 5 novembre 2017 14 LUGLIO · 3 SETTEMBRE lunedì · venerdì 17 - 23 | sabato · domenica 10.30 - 12.30 e 17 - 23 4 SETTEMBRE · 5 NOVEMBRE martedì · sabato 15 - 20 | domenica e festivi 10.30 - 20 Ultimo ingresso 30 minuti prima dell’orario di chiusura

Mostra realizzata da

Con il patrocinio di CITTÀ DI SERAVEZZA

TERRA MEDICEA - CITTÀ DEL MARMO

MEDAGLIA D’ARGENTO AL MERITO CIVILE

Catalogo

Maschietto Editore


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