Numero
9 settembre 2017
296
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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
“Sia Kim che il presidente della Repubblica mi hanno assicurato che non attaccheranno nessuno” e che i missili “sono solo per difesa. Il che mi ha sollevato. Loro sono di parola”. Senatore Antonio Razzi
Parola di Kim
Maschietto Editore
NY City, 1969
La prima
immagine Siamo in periodo di vacanze e mi sono detto che questa poteva, anzi, doveva essere l’immagine di questo numero. Una bella tavolata di anziani italo-americani seduti in un parco, decisamente un pò brullo e assolato, che stanno giocando a carte mentre uno di loro ha davanti a se il quotidiano ”il Progresso” che era, almeno all’epoca, il giornale più diffuso tra degli emigrati del Bel Paese. C’era come al solito un gran caldo afoso e mi sono sempre chiesto come facessero, almeno tre di essi, a indossare maglioncini e giubbetti. Io ricordo benissimo di essere stato in un bagno di sudore!
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
9 settembre 2017
296
229
Riunione di famiglia Ancora Rinascimento Le Sorelle Marx
Parrini international I Cugini Engels
In questo numero Un parco come narrazione di Gianni Biagi
La forza di Sansone di Claudio Cosma
Riportati alla luce di Laura Monaldi
MMM il museo altissimo di John Stammer
Colonne portanti di Alessandro Michelucci
I depositi svelati di Valentino Moradei Gabbrielli
Una giornata particolare di Remo Fattorini
Mani di Mariangela Arnavas
4 agosto 1944 il salvataggio del patrimonio culturale e umano a S. Felicita di M. Cristina François
Le due Caterine di Gabriella Fiori
Il drappellone di Roberto Barzanti
Il tempo perfetto di Dunkirk di Francesco Cusa
Claudio Abate Fra arte e fotografia di Danilo Cecchi
Cosa avrei potuto fare? di Bernardino Pasinelli
Chi sta sognando questa realtà? di Melia Seth
Direttore Simone Siliani
I collages del musicista di Monica Innocenti
e illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori
Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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di Gianni Biagi Cultura Commestibile ha già affrontato il tema del Parco Centrale di Prato in una intervista a Barberis pubblicata sul numero 158 del 20 febbraio 2016. Allora si parlava di un concorso di progettazione in corso. Oggi che il concorso si è concluso e è stato scelto il progetto vincitore. Siamo tornati a parlarne sempre con Valerio Barberis. Il concorso è finito con un vincitore. Oggi abbiamo il progetto del nuovo Parco Centrale di Prato e ci interessa capire due cose. La prima è come i cittadini hanno vissuto questa fase del concorso e come hanno accolto il progetto vincitore. La seconda è riprendere e approfondire un aspetto che abbiamo già affrontato marginalmente nella scorsa intervista e cioè come e perchè il comune di Prato ha deciso di “rinunciare” ad un edificio pubblico esistente (il vecchio ospedale) per realizzare un grande spazio a parco, che sempre un bene pubblico è ma si presta evidentemente ad usi diversi. Partiamo dalla seconda domanda. In realtà il parco si inserisce in un progetto più generale per fare emergere una identità di Prato che è spesso misconosciuta. È in realta un percorso di narrazione della città. Città che essendo stata una città ricca, e ancora in parte lo è, ed essendo stata praticamente autosufficiente per tutto, lo è stata anche per i grandi investimenti pubblici e privati, strade infrastrutture, fogne acquedotti. Una ricchezza diffusa e distribuita, con tensioni sociali che erano attenuate dal fatto che comunque a Prato il lavoro c’era. Oggi in una fase di crisi dove i territori devono trovare una loro rinnovata identità (di questo siamo molto convinti) occorre ritrovare una narrazione nuova che si appoggi su una nuova strategia. In questo contesto si deve collocare il ragionamento sul Parco Centrale che noi riteniamo sia l’equivalente del Centro Pecci per l’Arte Contemporanea. Una strategia che racconti di una Prato diversa da come è sempre stata vista e vissuta e cioè quello della città-fabbrica. Il Pecci porta la città di Prato in un contesto diverso. Che c’entra l’arte contemporanea con Prato? L’inaugurazione dell’ampliamento del Museo Pecci ha riportato l’attenzione su questo aspetto. Prato è la città della contemporaneità in Toscana. Lo è perchè ha il Museo Pecci e anche perchè ha un’attività produttiva che è parte integrante della contemporaneità. Penso alla produzione per la grande moda ma anche al teatro Metastasio che ha sempre avuto una produzione contemporanea. Ha anche importanti presenze nel comparto produttivo legato alla tecnologia che in que-
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Un parco come narrazione
sto momento vive una stagione di grande risveglio produttivo e di sviluppo, e ha un’approccio innovativo anche nel campo agricolo dove la grande capacità imprenditoriale ha prodotto innovazioni importanti nella individuazione di prodotti a km 0 e nella “filiera corta” della produzione agricola. Su questi settori l’amministrazione sta puntando molto individuandoli appunto come elementi della contemporaneità. In questo contesto il Parco centrale di Prato ha aperto i fari dell’attenzione internazionale su uno spazio pubblico centrale in una città contemporanea. La demolizione in realtà è un’operazione di demolizione selettiva. Forse si potrebbe chiamare un’intervento di “economia circolare” perchè parte dell’edificio del vecchio ospedale viene “smontato” e riutilizzato nella filiera dell’edilizia. Anche l’operazione di smontaggio rientra in questa visione strategica di un’identità della città. A Prato le pratiche di riuso sono l’essenza della produzione tessile della città e si fanno da sempre. Si pensi al riuso degli “stracci”. Quindi possiamo dire che Prato è stato all’avanguardia di quella che oggi noi
chiamiamo pratiche di contemporaneità (la filiera corta, il recycle, ecc.). Il progetto quindi è difatto un “riuso” di uno spazio urbano provvedendo alla demolizione di quella parte di edificio che era incongruo con il contesto (l’Ospedale è stato costruito negli anni ‘60) . Quella parte di città era sempre stata destinata ad essere agricola. Erano gli orti di alcuni conventi. Prato ha sempre avuto, fino alla parziale saturazione degli anni ‘60 appunto, uno spazio non edificato fra la parte urbana centrale e le mura che era occupato da orti. Nello specifico erano gli orti e frutteti dell’Ospedale Misericordia e Dolce che era il primo ospedale della città, precedente anche all’Ospedale della Scala, dai quali venivano tratte le erbe officinali e le piante per la vita della comunità. In prossimità dell’ex Ospedale ci sono ancora i conventi di San Niccolò e San Vincenzo che hanno orti e terreni coltivati fra il convento e le mura. La storia di quest’area ha sostanzialmente avuto una deviazione con la costruzione dell’ospedale e ora stiamo proponendo di riportarla alla sua condizione originaria. Ma inserendo l’intervento in una nuova narrazio-
ne della città nella quale lo spazio pubblico, il verde, la contemporaneità, il riuso diventano gli elementi caratterizzanti di questo racconto facendoli diventare quasi un “bench mark” della città che trova nei temi della contemporaneità la sua matrice attuale. E su queste basi vuole fondare la sua rinnovata attrattività per le imprese, per un nuovo tipo di turismo, per i suoi cittadini. Appunto i cittadini. Dopo l’annuncio del concorso, lo svolgimento, la scelta del proget-
to vincitore cosa è cambiato nella percezione della città e dei suoi abitanti sulla possibilità che questa proposta diventi realtà? Hai avuto riscontri? Come percepisci l’attenzione della città su questo tema? Il percorso partecipativo con i cittadini si è svolto prima delle elezioni comunali che hanno portato all’attuale amministrazione. La proposta iniziale posta a base della discussione pubblica prevedeva il mantenimento di una parte destinata a attività sanitarie e una parte destinata a parco. In campagna elettorale la nostra proposta fu quella di spostare l’attenzione solo sulla parte del parco lasciando alle funzioni sanitarie solo la parte storica dell’edificato e quindi modificando in modo significativo il criterio di indirizzo della progettazione posto a base del percorso di partecipazione. Dopo la scelta del progetto vincitore i progettisti hanno puntato molto sul concetto di un giardino dentro il centro storico e quindi nel valorizzare e far emergere le presenze monumentali ( a partire dalle mura) ma anche, e soprattutto, a fare emergere una sorta di reinterpretazione del giardino all’ita-
liana. Direi una lettura quasi “ontologica” del giardino all’italiana con la suddivisione degli spazi e la “costruzione” di spazi abitabili come stanze, la valorizzazione delle vedute, la realizzazione di padiglioni. Il rapporto fra arte, spazi, contesto storico è, a mio giudizio, molto equilibrato. La gestione di queste spazi urbani come verrà fatta? I progettisti stanno incontrando proprio in questo periodo le realtà sociali e culturali della città. Hanno incontrato i rappresentanti del Teatro Metastasio per valutare come valorizzare nel contesto del parco le attività “extra moenia” del teatro che vanta una lunga tradizione al proposito (basta pensare al Fabbricone) e che ora si sostanzia nelle iniziative di Festival Contemporanea che fisicamente porta il teatro al di fuori dello spazio teatrale storico. Hanno incontrato i rappresentanti del Museo Pecci per valutare la possibilità di installare le opere d’arte contemporanea nel parco e quindi determinare, attraverso l’opera d’arte, anche lo spazio intorno ad essa. Hanno poi incontrato i rappresentanti della Fondazione Ami che si occupa di avviare progetti per bambini disabili e con gravi malattie che nella adiacente palazzina ha una sorta di “centro diurno” per questi bambini. Una sorta di piccollissimo Dynamo Camp. Questo per rimarcare come il parco deve essere inclusivo anche sotto questo aspetto. Superare il concetto di accessibilità per affermare invece il concetto di inclusività e quindi coinvolgere gli esperti della Fondazione (ad esempio neuropsichiatri) per fare in modo che il parco sia capace di essere uno spazio appunto inclusivo per tutti. Possiamo affermare quindi che il progetto del Parco Centrale di Prato non è solo un progetto urbanistico, architettonico ma è stato fino da subito un progetto di gestione. La gestione è parte integrante del progetto. È proprio così? Esatto. Proprio in questa logica è stato fatto, in questi giorni, un incontro con un Consorzio di cittadini, il consorzio Santa Trinita. Un gruppo di cittadini che si è riunito per cercare di affrontare la questione dell’impoverimento delle attività commerciali della strada, per contrastare il degrado. L’attività del Consorzio si è alla fine concentrata sui Giardini di Sant’Orsola che il consorzio sta gestendo in modo molto interessante organizzando tutte le sere qualche evento. Un esempio di “urban management” veramente interessante. Questi giardini sono la parte terminale est del Parco e pertanto sono stati coinvolti da subito per valutare se e come fosse possibile collaborare. Il Parco Centrale in questo modo diventa una
infrastrastruttura al servizio della città. Il Parco sarà anche dotato di uno spazio coperto di circa 1000 mq. Quindi per gestire tutto questo sarà fatto un bando pubblico di gestione che però partirà dalle idee e dalle suggstioni che ho ricordato. Il Parco Centrale non sembra un fatto isolato nel contesto urbano della città murata. Anzi esso tende a diventare parte di un percorso che comprende il museo del Tessile, la biblioteca e altre attrezzature pubbliche che si collocano in adiacenza alle mura. Un progetto quindi che si integra con le scelte già fatte e realizzate. È una visione corretta? Il Parco diventerà certamente la conclusione di un percorso verde dentro le mura. Ma io credo che la sua valenza maggiore sia quella di diventare un nuovo ingresso per la città storica. Oggi lo spazio occupato dall’Ospedale non è un ingresso per la città storica. Con la realizzazione del Parco lo diventerà. Il parcheggio da oltre mille posti auto del vecchio ospedale, che rimane, e l’apertura costituita dal nuovo Parco Centrale permetterà a cittadini che provengono da sud ( e gran parte degli abitanti di Prato vivono a sud e sud ovest della città murata) di avere un nuovo accesso verso la parte storica e centrale della città. E questo consentirà anche la riqualificazione e la ricucitura, con una infrastruttura verde, di una vasta area che tende a comprendere l’area agricola di San Giusto fino alle Cascine di Tavola. A questo punto si tratta di reperire le risorse per la sua realizzazione. Avete i soldi per realizzarlo? Il parco, nel suo complesso, costa circa 7,5 milioni compreso il grande edificio da realizzare nel parco. Il costo non comprende tuttavia il costo degli accordi fra Comune di Prato e Asl conseguenti alla dismissione dell’Ospedale. Il parco è individuato come una scelta strategica e l’amministrazione comunale sta mettendo le proprie risorse. Su altre scelte come la riqualificazione delle sponde del Bisenzio si sono utilizzati finanziamenti nazionali (Piano delle periferie). Noi confidiamo sul fatto che avendo un progetto di grande livello e condiviso dalla città le risorse saremo in grado di trovarle. Confidiamo anche sul fatto che avendo fino da subito studiato forme operative di gestione le risorse in spesa di investimento per la sua realizzazione sia meno complicate reperirle. Anche perchè oggi il tema della città è il tema dello spazio pubblico e della sua riqualificazione. E questo progetto sta perfettamente in questo filone di iniziative che vedono consistenti investimenti pubblici dei diversi livelli istituzionali.
5 9 SETTEMBRE 2017
Le Sorelle Marx
Ancora Rinascimento
Fresco di stampa esce in questi giorni in libreria un libro che non potrà mancare negli scaffali di molti dei nostri affezionati lettori, scritto da una coppia di mostri sacri della cultura, gli unici nostri veri maître à penser (escluso Eugenio Giani che, ovviamente, è fuori gara): “Rinascimento” di Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti. Il libro, che ci apprestiamo a studiare con umiltà e reverenza, parrebbe un assemblaggio (vedremo quanto riuscito) fra le parti in cui Sgarbi discetta di Rinascimento e cultura e quelle in cui Tremonti scrive di Europa, economia e politica. In fondo all’introduzione i due autori minacciano: “ovviamente questo libro è un appello alla costruzione di un movimento politico”. E di questo, sinceramente, avremmo fatto volentieri a meno. Basti pensare ai precedenti non
I Cugini Engels
Parrini international
Il segretario regionale PD toscano, Dario Parrini, è sempre piuttosto restio a discutere dei risultati elettorali del partito da lui guidato (risultati che va detto hanno consegnato agli avversari del PD quasi tutti i grandi comuni in cui si è votato in questi anni) ma è invece sempre prodigo di analisi sulle competizioni internazionali. I suoi post su facebook sciorinano cifre, analisi, di ogni dipartimento francese, land tedesco o contea inglese; citano studi e studiosi sconosciuti al grande pubblico e fanno dovizia di analisi socio politiche tra le più varie. In questi giorni estivi il tema del Parrini sono le prossime elezioni tedesche. In un post agostano tesse un’ode alla Merkel che, secondo lo storico Dan Diner, avrebbe successo perché ha cannibalizzato le politiche di sinistra della SPD e quelle am-
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proprio fulgidi di Vittorio in questo campo. Nel novembre 2016 in una intervista al Quotidiano.net lancia il Partito della Bellezza: «Farò un partito della bellezza e rispetto alla merda che c’è in giro ho chance. Io sono un po’ grillino e un po’ trumpino, ma più colto. Quindi, è fatta». Ma, ad oggi, non sembra fatta per niente. Del resto in precedenza tentativi analoghi del nostro vate non avevano avuto maggior fortuna, dal Partito dell’Amore (che lo vide seguace della di lui ben più dotata, politicamente s’intende, Moana Pozzi) al Partito della Rivoluzione (lanciato nel 2012 con il simbolo della capra e che si distinse soltanto per l’azione legale intentata contro Ingroia per avergli scippato il nome depositato per il suo Rivoluzione Civile). Si sa, d’altronde, che Vittorio è un volitivo anche in politica,
bientalisti dei Verdi. Il post, non sappiamo il saggio di Diner, omette settant’anni di politiche sociale delle democrazie cristiane europee (che oggi definiremmo di sinistra) e il fatto che le politiche ambientaliste, da richieste di nicchia, sono divenuti ormai patrimonio di ogni forza politica di destra o sinistra. Il problema però, prendendo per vera la tesi del segretario, è come conciliare questa ammirazione per la cannibale Merkel con l’appartenenza al PD renziano che invece ha fatto l’opposto, portando nel campo progressista metodi, politiche (e uomini) della destra. Però, se proprio vogliamo essere sinceri, il problema principale è che, nonostante l’ammirazione per la Merkel, mantiene il suo sostengo per Schultz, il che, visti i precedenti toscani, non depone a favore de già svantaggiato leader tedesco.
essendo passato dalla Federazione giovanile del Partito Monarchico (1975) alla candidatura a sindaco di Pesaro per il PCI (1990), da sindaco di San Severino Marche (sostenuto da una coalizione che andava dal Psi al MSI, passando per la DC) a deputato con la Lista Pannella (1996-2000). Ma che fosse volitivo anche Giulio Tremonti ci ha sorpreso non poco. Infatti il creativo ex Ministro del Tesoro di Berlusconi, aveva di recente negato decisamente di aver mai pronunciato la frase “Con la cultura non si mangia” a cui abbiamo ispirato la nostra rivista, intimandoci di non attribuirgliela più (anche se, in verità, l’intervista in cui il divo Giulio disse la frase non fu mai da lui smentita). E oggi, cosa ti troviamo sulla fascetta che promuove “Rinascimento”? Ma “con la cultura (non) si mangia” ça va sans dire!
Avanzi di Avanti Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi. Questo è il potere: non la scrivania di un palazzo romano, ma la sensazione per chi vive in questo paese (sic) che non tutto sia già scritto
Ciao Riccardo
Nel migliore dei Lidi possibili
Il giardino di Kim Jong-un, detto anche Mein Kamp
Segnali di fumo di Remo Fattorini Estate rovente. Lucifero quest’anno si è fatto sentire ovunque, spesso esagerando. Firenze, che non ha voluto sfigurare in questa speciale gara, ha registrato temperature record. E le conseguenze non sono mancate. Basti ricordare le “calorose” polemiche sul taglio degli alberi, con l’indice puntato contro l’amministrazione comunale colpevole di aver dato il via all’abbattimento di 282 grandi alberi che da più decenni rinfrescavano strade e piazze. Così le motoseghe hanno lavorato a lungo da San Marco alla Stazione, fino al viale Belfiore e Corsica, cambiando l’aspetto di gran parte della città. Risultato: Firenze è una città con meno verde, meno ombra e più rumore. Tutti noi sappiamo che gli alberi oltre ad una funzione decorativa servono anche a scopi sanitari, ambientali e protettivi. Insomma sono utili e la loro presenza rende migliori le nostre città. Dal comune si dice che gli abbattimenti erano necessari per garantire la sicurezza ai cittadini. Le piante, “visitate” dai tecnici, sono state
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
classificate come “alberi con propensione al cedimento”. Insomma, alberi stanchi, malati, depressi, annoiati o - più realisticamente - sofferenti per carenza di cure. A rischio crollo, hanno sentenziato gli esperti. Un rischio accentuato dagli effetti dei cambiamenti climatici. Quanto basta per far scattare il disco verde alle motoseghe. Apriti cielo, e giù proteste a non finire. Tanto che in viale Corsica sono dovuti intervenire gli agenti di polizia in assetto antisommossa. Erano davvero malati? E tutti ugualmente gravi? Non saprei dire. Se erano malati bene ha fatto l’amministrazione. Fino a prova contraria gli alberi si abbattono e si ripiantano, così come si coltivano i boschi. E però alcuni interrogativi nascono spontanei: perché negli ultimi anni non si è fatta la necessaria manutenzione? Gli acciacchi se presi in tempo si curano, anche quelli degli alberi. Perché si tagliano piante adulte e si sostituiscono con fragili alberelli che prima di farsi notare passano decenni? Perché per dare il via alle motoseghe non si è scelto un periodo contestuale alla ripiantumazione? Perché non si è proceduto all’abbattimento con un maggiore gradualità, partendo dai più malati e poi, magari l’anno prossimo, quelli meno a rischio, salvaguardando quelli recuperabili? E soprattutto, perché prima di abbattere alberi patrimonio più che decennale della città non si è fatta la necessaria informazione ai residenti, sui motivi e sulle soluzioni? Della serie, le polemiche volute non sono mai troppe.
È scomparso, mercoledì scorso, a soli 66 anni Riccardo Conti; figura centrale della sinistra fiorentina dal PCI fino al PD, partito che aveva recentemente lasciato per approdare a MDP. Conti è stato un politico e un amministratore che ha sempre accompagnato la propria attività politica con quella dello studio e della riflessione. Amico di questa rivista ci piace ricordare Riccardo Conti per due aspetti del suo agire politico: da un lato la sua funzione pedagogica, di crescita dei gruppi dirigenti soprattutto dei più giovani, che ha sempre voluto intorno a sé e ha aiutato a crescere non solo politicamente. Sono almeno tre le generazioni di esponenti dei DS e poi del PD che devono molto a Conti e che grazie a Conti hanno abbracciato un impegno politico che non era fatto solo di poltrone o incarichi ma anche di riviste, pubblicazioni e seminari; oltre che di cene, bevute e risate. Conti è stato uno dei più genuini interpreti di quella comunità politica e umana che fu il PCI, PDS, DS. Per la sua prima elezione in consiglio regionale, dove fu recordman di preferenze, scelse l’azzeccatissimo slogan di solido e sincero; una definizione che gli calzava appieno. Accanto a questo ci piace ricordare il Conti assessore regionale all’urbanistica che impostò e varò la Legge 5 del 2005; un esempio tra i migliori del Paese non solo per la pianificazione urbanistica ma anche per l’applicazione corretta e virtuosa del federalismo e dell’autonomia. La Legge 5 fu l’apice di una stagione politica felice e una grande scommessa sull’autonomia e sulla crescita dei Comuni, messi al centro della programmazione e della progettazione del territorio. Una scelta virtuosa che ha responsabilizzato un’intera classe di amministratori, forse l’ultima riconosciuta ed apprezzata dai propri cittadini, anche per la sua capacità di prendersi delle responsabilità.
7 9 SETTEMBRE 2017
di Laura Monaldi Per Vanessa Costantini operare artisticamente significa contemplare e riflettere sul linguaggio contemporaneo, definito come un insieme di microcosmi comunicativi da svelare, rivelare e attraverso il quale far emergere il proprio mondo interiore come specchio di un’esperienza circostante caotica e percettibilmente incomprensibile. Nelle sue opere astrattismo e formalismo si uniscono e si confondono in un’evidente sensibilità per il segno e il gesto artistico che, puro e primitivo, è teso a far rivivere il senso originario della comunicazione, dove l’intuizione regna sovrana sfuggendo alle infinite possibilità interpretative. In un gioco dialettico di corrispondenze fra segno e senso, l’artista rimane tuttavia custode del segreto mistico della creazione e del messaggio confidenziale che l’opera d’arte porta in sè, donando allo spettatore sia un senso epifanico di smarrimento e fascinazione. La mostra di Vanessa Costantini “Riportati alla Luce”, allestita a “La Barbagianna: una casa per l’Arte Contemporanea”, in occasione della XXVI Rassegna internazionale “Incontri d’Arte seconda parte”, a cura di Alessandra Borsetti Venier, è la prima retrospettiva nella quale il suo percorso artistico si presenta come un viaggio nel misterio linguistico-comunicativo, dove di opera in opera i linguaggi espressi fra forature, collage e giochi di bianco si tramutano in segni ancestrali e primordiali, il cui messaggio sfiora il misterico e attira lo sguardo del fruitore per il senso dell’ignoto che ne emerge. Lo spettatore può immergersi fra la luce e il buio, in un dialogo intimo e segreto in cui si alternano grandi e piccoli formati, per far esaltare il labile confine esistente fra ciò che si può esprimere e ciò che è inesprimibile. Vanessa Costantini riflette in questa esposizione sullo status dell’informazione e della trasmissione del messaggio in una contemporaneità multimediale e tecnologica che sembra cedere inesorabilmente alla precarietà e alla mutevolezza. I giochi di forature e cuciture insieme ai cromatismi del bianco che si amalgamano sulla tela evidenziano l’indagine spirituale dell’artista che si esprime attraverso un linguaggio ermetico, il quale emerge da una purezza primigenia che solo l’artista può comprendere nella sua totalità evocativa. A fare la differenza sono i giochi di luce, perché solo nel dualismo di luce e buio tali intimi messaggi risultano visibili e compartecipano alla fruizione estetica dello spettatore, al quale non resta che rimanere affascinato dai rimandi e dalle corrispondenze che i microcosmi di Vanessa Costantini creano ed evocano sulla
8 9 SETTEMBRE 2017
Riportati alla
luce
carta, riportata successivamente su tela intelaiata. In questa mistica atmosfera di trasparenze, luci e ombre le opere dell’artista si pongono al di là del tempo e dello spazio, alla ricerca
di un senso e di una rinnovata concretezza che l’arte contemporanea deve riscoprire nell’inevitabile saturazione dei linguaggi, sempre più dominati da una tecnologia invasiva.
Musica
Maestro
Colonne portanti
di Alessandro Michelucci La musica - e quindi la colonna sonora - costituisce un complemento essenziale del cinema. Ma crediamo che si debba fare una distinzione netta fra le colonne sonore originali e quelle che vengono assemblate con musica preesistente. Oggi queste ultime sono piuttosto frequenti, ma si tratta di una scelta discutibile, perché viene eliminato quel legame diretto fra immagine e suono che dovrebbe essere un elemento centrale del film. Lo sanno bene i compositori e i registi che hanno sviluppato un rapporto profondo, quasi simbiotico: Nino Rota e Federico Fellini, Michael Nyman e Peter Greenaway, John Williams e Steven Spielberg, giusto per fare qualche nome. Tanto che in questi casi la parte visiva concepita dal regista sarebbe impensabile senza quella sonora creata dal musicista. Lo spettatore medio, in genere, dedica poca attenzione alla musica. Ma si tratta di un errore che può essere corretto. Sebbene possa apparire utopistico, crediamo che non si dovrebbe andare al cinema (o perlomeno uscirne) senza sapere chi abbia composto la colonna sonora del film. Anche limitandoci ai film più noti degli ultimi anni, scopriamo musicisti di rilievo che meritano molta attenzione. La nostra breve ricognizione, ovviamente incompleta, inizia con Benjamin Wallfisch. Figlio di due prestigiosi violinisti, il giovane compositore inglese ha scritto le musiche di film come Annabel – Creation e Bitter Harvest (quest’ultimo uscirà in autunno col titolo Amaro raccolto). Dario Marianelli, pisano che vive a Londra, ha scritto le musiche di film come Orgoglio e pregiudizio e Il colore della libertà. Il polacco Abel Korzeniowski, allievo di Penderecki, ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali per le musiche di A single man e Romeo and Juliet. Il nome di Gabriel Yared è legato alle musiche di molti film, fra i quali Il paziente inglese, Il talento di Mr. Ripley e Le vite degli altri. All’inglese Rachel Portman, prima compositrice premiata con l’Oscar, colonna sonora, si devono le colonne sonore di film come Oli-
ver Twist, Non lasciarmi e Still Life. Anche alcuni compositori solitamente dediti alla sperimentazione hanno scritto musica per film. In questo gruppo spiccano Michael Nyman (Lezioni di piano, Gattaca), Ryuichi Sakamoto (L’ultimo imperatore, Piccolo Buddha, The Revenant) e Teho Teardo (La ragazza del lago, Il divo, Una vita tranquilla). Altri compositori provengono da gruppi rock: è il caso di Fabio Premoli (Premiata Forneria Marconi), Vangelis (Aphrodite’s Child) e Anne Dudley (Art of Noise). Quest’ultima ha firmato le musiche di numerosi film, fra i quali Black Book ed Elle, oltre a quelle della serie televisiva Poldark, tuttora in corso. Come si intuisce dai nomi suddetti, (anche) nel mondo delle colonne sonore dominano le figure maschili. Questa disparità è un problema molto sentito, tanto è vero che nel 2014 è nata l’Alliance Alliance for Women Film Composers, presieduta dalla compositrice Laura Karpman. Prima di finire, alcune indicazioni utili per approfondire la materia.
SCavez zacollo
Anzitutto il sito www.colonnesonore.net, animato dal simpatico Massimo Privitera, che contiene anticipazioni, interviste, recensioni, etc. Un ampio panorama storico, invece, è quello che Sergio Miceli ci offre nel libro Musica e cinema nella cultura del Novecento (Bulzoni, 2010). Per quanto riguarda le case discografiche, le più attive in questo campo sono Caldera, Milan e Sarabande.
disegno di Massimo Cavezzali
9 9 SETTEMBRE 2017
di John Stammer Se ne sta in disparte, quasi scontroso, come per marcare la differenza con il disordine da “parco giochi della montagna” che regna sul Plan De Corones. Il Messner Mountain Museum progettato da Zaha Hadid guarda la valle di San Vigilio e volta quasi le spalle al caos di attrezzature, tende tipo “indiani d’America”, recinti per animali e ristoranti su due piani con ascensore che il visitatore si trova davanti una volta sbarcato da uno dei tre impianti di risalita che raggiungono la quota di 2275 slm. Il Museo è dedicato ad una particolare branca dell’alpinismo che è quello tradizionale, ma in questo caso, come in molti altri dei MMM (Messner Mountain Museum), è il contenitore che merita di essere visto piuttosto che il contenuto. In una delle sue ultime opere la Hadid ha interpretato il progetto come una sorta di postazione militare posta a difesa della valle di Marebbe. Un progetto tutto proteso verso l’esterno e che lascia all’ingresso, rivolto verso gli impianti e la cima del Plan De Corones, solo una piccola parte fuori terra per l’accesso. Un progetto che ha previsto che l’intero percorso di visita si svolga sotto terra e che il rapporto con l’esterno, con il territorio, con le montagne, sia lasciato esclusivamente alle tre grandi aperture che guardano la valle. Un percorso psicologico e mentale inverso a quello dell’alpinismo che è tutto proiezione sull’esterno, sulle pareti delle montagne. Il museo, dedicato ad un settore dell’alpinismo su cui Messner ha
10 9 SETTEMBRE 2017
MMM il museo altissimo
avuto una grande influenza, è l’ultimo dei sei musei che portano il nome del grande alpinista. Inaugurato il 27 luglio del 2015 è stato uno degli ultimi progetti che Zaha Hadid ha visto realizzato prima della sua prematura scomparsa. Un progetto che restituisce al visitatore della cima del Plan De Corones, insieme alla bellissima vista delle montagne (in particolare del Cristallo che si erge come un diadema sullo sfondo delle cime dolomitiche) il piacere di essere salito sulla vetta.
di Roberto Barzanti Un oggetto così carico di simboli e di araldica, di depositata memoria iconografica e di figuratività allegorica cittadina come il drappellone che si consegna in premio alla Contrada vittoriosa nel Palio di Siena è sempre oggetto – e ora più che mai – di discussioni a non finire. Sono poche le opere di pittura pubblica che hanno un rapporto così solido e controverso con i sentimenti popolari, con dispute critiche, con canoni devozionali. Pur essendo un’opera non concepita per essere installata su un altare e anzi trascinata in trionfo per le vie, appesa poi ad un museo, custodita con gelosa fierezza, il palio – da “pallium”, manto – deve osservare obblighi di varia provenienza e quindi trovare equilibri compositivi avveduti e scatenare una presa emozionale vera: quindi possedere una leggibilità che parli al colto esteta e al disarmato di estetica, a chi vuole esibire un raggiunto traguardo e a chi voglia serbare il vivo ricordo di un gran giorno. Agli inizi degli anni Settanta la committenza comunale decise di affidare la confezione dell’oggetto di tanto desiderio anche a artisti – se la parola è ancora lecita – non per consuetudine legati a moduli tipici della tradizione e perlopiù operativi a Siena. La ripetitività aveva annoiato e non era per niente eccitante proseguire su una strada che pur annoverava invenzioni di singolare impatto e di superbo mestiere. L’Istituto d’arte era stato per decenni la fucina laboriosa che aveva formato decine di autori agguerriti, spesso chiamati a confrontarsi in animati concorsi. La rottura con gli impianti più tipici di gusto purista, neorinascimentale, raramente liberty era già percepibile in talune prove a partire dagli inizi del Novecento quando alla dediche tradizionali – alla Madonnina miracolosa che si venera in Provenzano il 2 luglio e all’Assunta il 16 agosto, salvo carriere straordinarie – si erano andate accoppiando celebrazioni di anniversari e ricorrenze rilevanti di battaglie, personaggi, santi e vicende le più disparate. Insomma il Palio – P maiuscola quando è manifestazione complessiva e p minuscola quando è corsa – si prestò bene a quel processo di nazionalizzazione delle masse o di urbanizzazione
Il drappellone di chi lavorava in campagna su cui esistono seri contributi di taglio antropologico. Lunga divagazione introduttiva solo per soffermarsi sull’ultimo episodio di una sequenza che meriterebbe un’indagine di respiro. Ricordo tuttora la commozione che attanagliò Renato Guttuso quando, osservava i senesi scrutare il suo drappellone dell’agosto 1971: e rimanevano strabiliati perché le persone non indossavano più aulici costumi medievaleggianti ma avevano il volto e la grinta contemporanea di cittadini, abbigliati come d’abitudine nel quotidiano, che tentavano di riconoscersi nel realistico quadro. Il drappellone – fu più chiaro da quella data – può dar luogo ad una sorta di arazzo che contenga araldica e apparato simbolico, può dar spazio anche a scene allegoriche e può infine ritrarre un pezzo di realtà elevandolo o meno a metafora di un rito molto complicato. E le vie non è detto non s’intreccino spesso in composizioni cervellotiche o a più strati. Il formato crea non pochi problemi: la base del serico stendardo è di 80 cm. e l’altezza di 2 metri e cinquanta: una finestra lunga che obbliga ad una verticalizzazione ben studiata se si vuol fare qualcosa di coerente. Per quest’agosto il sindaco ha voluto che a preparare questo oggetto tanto ambito fosse un autore inglese, per dimostrare che, malgrado la Brexit, Siena ci tiene a intrattenere con il Regno Unito i rapporti culturali profondi coltivati nei secoli. Poi alla dedica all’Assunta si è accoppiata la celebrazione – dir dedica è errore pacchiano – del dugentesimo anniversario della nascita di Giovanni Duprè. Si può immaginare quanto sia stata laboriosa la scelta e quanto difficile partorire un risultato accettabile. L’artista, per vie diplomatiche più che sulla base di una conoscenza diretta del suo lavoro, è stata individuata in una giovane di origine balinesi, Sinta Tantra, nata a New York nel 1979, residente a Londra ed esperta soprattutto di allestimenti e decorazioni urbane. E a costei è stato affidato un com-
pito tutt’altro che semplice. Viene da chiedersi se sia questo il modo più efficace per esaltare il cosiddetto multiculturalismo, quando il problema è stimolare le varie culture a interpretare i moduli figurativi della festa senese ma senza eclettismo improvvisato o mix stilistici stridenti. Sinta ha presentato un’opera che rivela molto apprezzabile impegno ma non soddisfa. È un caso da studiare. Ha avuto – ripreso – un’idea brillante. Essendo abituata a trattare architetture ha dato al suo palio una struttura architettonica, mutuandola dai riquadri del Pintoricchio visibili nella Libreria Piccolomini in Duomo e raffiguranti capitoli della biografia di Pio II. Fin qui tutto bene. Tanto più che già nel 1955 Dino Rofi, un bravissimo artista senese, aveva adottato una soluzione del genere per onorare il Pintoricchio. Ma per il resto ha decorato l’arco in alto con una serie di barberi dai colori delle Contrade partecipanti e ha inserito l’Assunta in un concio poco visibile, centrale e marginale. Poi ecco due semidischi in tinte acide – il sole e la luna – che dovrebbero rappresentare opposte energie in conflitto. Al centro una palma che è presa pari pari da Pintoricchio e congiunge prediletto esotismo patrio con creatività rinascimentale nostrana. E Duprè? La parte inferiore è occupata dal una trascrizione in termini di commesso marmoreo da pavimento della cattedrale della “Saffo abbandonata”, una scultura che fece dannare non poco il suo abilissimo autore. Perché proprio Saffo è andata a pescare in un repertorio cos’ ricco di spunti religiosi certamente più intonati alla bisogna? Infine alla base un pavimento a losanghe che è lontanamente imparentato con quello delle Libreria. La Saffo crea una vasta area bianca che squilibra la composizione. Nel vuoto gli elementi galleggiano senza incontrarsi. Ecco la dimostrazione che mettere insieme in chiave postmoderna pezzi che non dialogano tra loro si traduce in un “pastiche” divertente ma non in una tessitura unitaria. L’impegno della donna è fuori discussione e i mugugni dei conservatori non meritano ascolto. Ma nel suo piccolo il drappellone di quest’agosto dimostra che il dialogo tra culture e scuole e linguaggi è cosa diversa dall’assemblaggio di elementi che non riescono a connettersi in un discorso e quindi in un’opera che sappia parlare con persuasiva incisività al popolo. Allegoria di un tema che va bel al di là del circuito del Campo e del chiacchieratissimo stendardo che stuzzica tanto – troppo – agonismo.
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Claudio Abate Fra arte e fotografia
di Danilo Cecchi Un mese fa si spento a Roma il fotografo Claudio Abate (1943-2017), testimone e protagonista della scena culturale ed artistica italiana degli ultimi cinquant’anni, profondamente legato ai personaggi che questa scena hanno animato e determinato, in maniera inconfondibile. Abate inizia a fotografare giovanissimo, ed inizia giovanissimo a frequentare quel mondo della cultura romana in cui cinema, teatro ed arte si incrociano e si scambiano intuizioni, stimoli, progetti ed esperienze. Sono gli anni Sessanta, in cui tutto sembra possibile, in cui tutto può accadere, in cui si prefigura un mondo nuovo. Abate incontra i personaggi che vivono questo momento storico, da Fellini a Carmelo Bene, diventa fotografo di scena, ed incontra gli artisti che stanno rivoluzionando l’arte contemporanea, come Mario Mafai e Mario Schifano, Jannis Kounellis e Pino Pascali, Giuseppe Penone e Mario Merz. Con molti di essi stringe dei duraturi rapporti di amicizia, scambia con loro idee ed opinioni, e matura il suo modo di vedere l’arte, ma soprattutto gli artisti. “Io non guardo solamente l’opera, osservo l’artista. O meglio, guardo come l’artista guarda l’opera. Comincio da lì, poi scatto una foto. Ho sempre cercato il punto di vista dell’artista, questo è il mio metodo di lavoro”. Coerentemente con questo principio, Abate si imbeve delle teorie dell’arte concettuale, fino a comprendere che l’importante dell’arte non è l’opera in se stessa, ma è il procedimento che porta alla sua realizzazione, ed è l’ideazione dell’opera d’arte che predomina nel processo di tutto il fare artistico. Ed allora, da testimone, da osservatore, da spettatore, Abate diventa egli stesso protagonista, e le sue riprese fotografiche di artisti e di opere d’arte assomigliano sempre di più ad un fare che diventa, di per se stesso, artistico. Al di là di tutte le sterili polemiche ed i vuoti dibattiti sulla fotografia artistica e sulla artisticità della fotografia, Abate proclama con il suo lavoro l’identità profonda che esiste fra il pensare l’arte, il fare l’arte ed il fotografare l’arte. La profonda amicizia che lo lega agli artisti gli permette di entrare nel loro mondo privato, nel loro essere individui prima ancora che artisti, e gli permette di raffigurarli nei loro momenti personali, mentre pensano, mentre immaginano, mentre creano o installano le loro opere. Oppure mentre improvvisano atteggiamenti, espressioni o messe in scena ad uso esclusivo del fotografo che li ritrae, fino al punto di considerare i ritratti scattati
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da Claudio Abate come i ritratti “ufficiali” di molti artisti, ritratti che nascono da una forma di aperta collaborazione, di sottile intesa e di palese complicità con gli artisti stessi. Partendo dal cerchio degli artisti romani, Abate conquista l’amicizia e la fiducia di numerosi artisti stranieri che passano per Roma, si reca egli stesso all’estero per conoscerli, e collabora con alcuni galleristi e critici d’arte, fino ad esporre le sue opere ai Giardini di Castello in occasione della Biennale del 1993. Nel corso della sua attività professionale Abate incrocia tutte le correnti dell’arte contemporanea dell’ultimo mezzo secolo, fra pittura e scultura, dal figurativo all’informale, ma soprattutto fre-
quenta l’arte povera, minimalista, concettuale, la body art e la land art, fino al living teather, attraversandole tutte con leggerezza e con rispetto, diventando egli stesso un curioso sperimentatore del mezzo fotografico, un esperto manipolatore dei materiali sensibili, sempre alla ricerca di nuovi mezzi espressivi legati alla luce ed alle tracce che la luce lascia nel nostro immaginario. Senza il lavoro di Claudio Abate la storia dell’arte contemporanea in Italia forse non sarebbe stata diversa, ma di sicuro ci sarebbero mancate molte delle più alte, partecipate e decisive testimonianze di molti dei momenti, spesso irripetibili, in cui questa storia si è mostrata e manifestata.
di Melia Seth Non è una. È due. La realtà. Il regista demiurgo è uno e due. È lui adulto e lui giovane. È lui sicuro e lui insicuro, disperato, tremante. È anche lui grande e lui bambino. Il suolo su cui camminano è terra e acqua. Le figure che passano sulla terra e nell’acqua sono vere e false, reali e immaginarie. Vita e sogno. Realtà e finzione. Sempre uno e due. Il distinto signore grigio con la valigia grigia, la statuaria coppia di sposi, la donna velata, i ciechi che avanzano bendati appoggiandosi a una pertica. Ciechi perché bendati o bendati perché ciechi? Il nero dal fisico prodigioso che recita in inglese era anche nello Shakespeare dell’anno scorso. Me lo ricordo. Il nero con l’accento francese era anche nel Santo Genet. Portano con loro un pezzo di quegli spettacoli, delle figure che incarnavano lì. Uno e due. Orrendamente brutti e mostruosamente belli. Disfatti e intatti. Loro e non loro. Trasfigurati nel dramma. Con la faccia dipinta, con la maschera, con il costume. Il ragazzo con i capelli ricci che gira e gira come in una danza sufi chissà cosa può aver fatto nella vita di prima. Nella vita vera. Così bello e triste. Forse meglio non sapere. Si ha l’impressione che qui stiano meglio che fuori. Che in questo luogo di sbarre e serrature abbiano trovato un senso. Quasi una felicità. Una vita. Uno e due la vita fuori e la vita dentro. I fantasmi. Le fantasie. I ricordi. Gli incubi. I rimpianti. I rimorsi. I desideri. Niente di psicologico in tutto questo. Niente di sentimentale. Niente di personale. Si tratta solo di conoscenza. Di vita, sogno e immaginazione. Di incubo. Di scrittura. Di fantasia. Ormai riconosco alcuni degli attori. Sono attori, autori, soprattutto sono carcerati. Carcere di massima sicurezza. Fine pena mai. Professionali. Disciplinati. Perfetti. Fanno quello che il regista demiurgo dice di fare. Eppure recitano anche se stessi. Uno e due. L’attore e il carcerato. La vita di prima e la vita di ora. Vera la vita di ora e falsa la vita di prima? O il contrario. Sognata la vita di ora? O sognata la vita di prima? Cos’è che non esiste in questa storia? Cosa è immaginario? Tutto una finzione? Alla fine il demiurgo uno e il demiurgo due danzano lentamente, abbracciati stretti stretti, una languida milonga. L’uno e il due che si riunificano? Una speranza? I carcerati rientrano. Noi torniamo a casa. Speranza? Borges, al quale lo spettacolo si ispira, scrive in Finzioni: “Una delle scuole di Tlön nega il tempo: ragiona che il presente è indefinito, e che il futuro, il passato non hanno realtà che come speranza o ricordo presente.” A questo pun-
Chi sta sognando questa realtà?
to Borges cita Russell che, in The Analysis of Mind, suppone che il pianeta sia stato creato da pochi minuti, provvisto d’una umanità che “ricorda” un passato illusorio. Prosegue Borges: “Un’altra scuola afferma che il tempo è già tutto trascorso, e che la nostra vita è appena il ricordo o riflesso crepuscolare, e senza dubbio falsato e mutilato, di un processo irrecuperabile. Un’altra, che la storia dell’universo - e in esso le nostre vite, i più tenui particolari delle nostre vite - è la scrittura che produce un dio subalterno per intender-
si con un demonio. Un’altra, che l’universo è paragonabile a quelle crittografie in cui non tutti i segni hanno un valore, e che solo è vero ciò che accade ogni trecento notti. Un’altra ancora, che mentre dormiamo qui, stiamo svegli dall’altra parte, e che dunque ogni uomo è due uomini.” Da quale sconosciuto scrittore seicentesco Borges ha preso queste pagine? Qual è l’opera matematica capitale della civiltà Noga dalla quale Russell ha copiato la sua affermazione? E Le parole lievi di quale capolavoro futuro è la matrice?
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di Valentino Moradei Gabbrielli Sappiamo tutti che i depositi dei musei italiani, sono spesso pieni zeppi di materiali che non potranno mai essere esposti. In molti casi questi materiali creano disagio, difficoltà, forse anche spese, comunque problemi per chi deve conservarli e giustificarne la mancata esposizione. Talvolta esiste anche la difficoltà di renderli visibili per lo studio. In anni recenti questi manufatti considerati di minore importanza si vedono utilizzati per arredare parcheggi sotterranei e stazioni metropolitane che facendosi spazio nel sottosuolo, portano alla scoperta di presenze archeologiche magari marginali e di minore importanza, per informare i cittadini frequentatori di quei servizi nel luogo stesso del ritrovamento di una precedente presenza storica. Vorrei portare l’attenzione sugli ancora rari esempi di musei interessati a far conoscere i loro “più trascurabili reperti”, a mio avviso particolarmente interessanti, nei quali ho avuto recentemente occasione di godere di felici soluzioni espositive. Dove le persone preposte alla loro conservazione, sono riuscite non solo ad aprire i depositi a loro affidati, ma addirittura a rendere godibili i materiali in essi contenuti in una cornice esteticamente e scientificamente appropriata. Il Museo Egizio di Torino, ha trovato nel suo ultimo allestimento uno spazio per i numerosissimi materiali in deposito (diecimila reperti finora non visibili) molto funzionale alla visita. L’esposizione dei reperti, se pur ricordando le vetrine dei venditori di souvenir, ha il vantaggio di informarci e permetterci di formarsi una scala di valori opportuna in rapporto alla qualità degli oggetti esposti. Altro ottimo esempio a mio avviso è rappresentato dal deposito del Museo di Palazzo Madama, sempre a Torino, organizzato ed esposto nei sotterranei dell’edificio, visitabili comodamente con notevole soddisfazione e stimolando anche nel visitatore il piacere della scoperta. Ultimo da me visitato in ordine di tempo, il Palazzo di Wilanów in Varsavia - Polonia. Costruito per il re Jan III Sobieski con un meraviglioso parco-giardino, dove i manufatti scultorei recuperati o sostituiti dai parterre o dalle facciate del complesso, sono stati ricoverati ordinatamente in una recente orangerie disegnata come una tenda da campo turca,
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godibile dal giardino. Mi auguro che questi esempi “illuminati” rappresentino per tutti un percorso da seguire nella gestione dei beni pubblici, in modo tale da rendere visibile e conoscibile quanto fino ad oggi rimane nascosto e celato a cittadini e studiosi.
Foto di
Pasquale Comegna
Mitoraj a Pompei
I depositi svelati
di Claudio Cosma
La forza di Sansone Questo lavoro di Cristiana Palandri può essere letto come una narrazione in un’unica immagine. Tutto quello che manca deve essere aggiunto dallo spettatore sulla scorta evocativa di quello che appare e dall’assecondare le suggestioni che da lì si diramano. Il titolo: “Blind Hairdo 4” ci suggerisce uno scatto cieco e la meticolosa osservanza dei rituali che accompagnano le azioni dei non vedenti. Lo sguardo negato dalla parola “blind” trova conferma nella chioma fluentissima dell’eroina protagonista della foto, che nasconde la parte superiore del suo volto e quindi anche gli occhi. Questo ci suggerisce che saranno altri occhi a guardare e interpretare quello che appare, quelli degli osservatori. L’artista deve aver osservato uno specifico modo di lavorare per aver ottenuto il risultato che si prefiggeva essendo sia attrice/modella, sia propriamente l’autrice dello scatto. Della gran massa di capelli che agiscono, non tutti sono della protagonista, una parte, infatti, non possiede l’irriducibile vigore della vita, ma pare inerte, parte certamente di un corpo dal quale sono stati recisi in un altro tempo. Questi hanno la funzione di collane o più precisamente di catene che come un alto collare riducono la libertà della donna rappresentata che spiritualmente immaginiamo schiava della sua stessa seduzione, come se si fosse voluta adornare di un qualcosa che improvvisamente abbia preso una sua vita indipendente, imprigionandola, come talvolta fa l’amore. Gli altri volteggiano immobili tutt’intorno e paiono risucchiati dalla sua bocca con una veemenza che lascia supporre che questo desiderio sia l’indispensabile ricerca di un elemento vitale, al quale dobbiamo la nostra sopravvivenza, infatti la scena sembra essere ambientata in una atmosfera priva di ossigeno, vuoi nell’acqua, vuoi nello spazio etereo. I capelli, dunque, sembrano fluttuare leggeri in un liquido stagnante, simili ad alghe marine, ma anche
librati nello spazio siderale alla balìa di brezze interplanetarie. Un vuoto pneumatico che necessita di un elemento straordinario per concedere la vita a chi voglia avventurarsi in territori sconosciuti o suo malgrado ci si ritrovi. Lo stato di lotta suggerito dalla torsione del busto e da una contrazione del mento, effetto della forte aspirazione della bocca, ci fanno immaginare di trovarsi di fronte ad un Laocoonte combattente contro strani serpenti acquatici coalizzati a formare grosse e viventi cime intrecciate. Ancora ci viene in mente la Medusa con i suoi capelli di serpenti e lo sguardo pietrificante, fortunosamente, in questo caso non attivo e nascosto. Difficile capire cosa stia effettivamente succe-
dendo e dove, un misto di bellezza e di orrore si succede a seconda di dove dirigiamo lo sguardo, certamente la forza di Sansone fa di questa chioma un talismano potentissimo che ci permette di attribuire all’immagine un potere salvifico. Le sette sorelle Sutherland scritturate dal circo Barnum per i loro capelli lunghi dodici metri. Le lozioni, i balsami, gli shampoo dell’odierna pubblicità, il terrore della calvizie, la bellezza di questo strumento di seduzione, ingrediente di filtri e talismani, eterno feticcio d’amore, tutto concorre a farci stregare da “Blind Hairdo” che mantiene intatto il suo segreto. Per finire cito la filastrocca di una novella dei fratelli Grimm: “Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli che per salir mi servirò di quelli”
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di Gianni Biagi “Niente è più mobile dell’immobile architettura”. Con queste parole Gianni Pettena ha commentato per Cultura Commestibile la sua mostra “Architetture Naturali” che è in corso fino al 24 settembre 2017 al Merano Arte, Portici 163 nell’edificio della Cassa di Risparmio a Merano. Una mostra che seleziona alcune opere di Pettena con l’obbiettivo di dimostrare l’influenza del paesaggio montano altoatesino, che Pettena visse in gioventù (natoa Bolzano vive e lavora a Fiesole e Firenze), nella sua opera. In realtà dalla visione della mostra si percepisce la formidabile capacità di interpretazione dei luoghi che Gianni Pettena ha dimostrato fino dalla sua prima esperienza di docente negli Stati Uniti. Una lettura del sito che vede oltre il reale per cogliere elementi germinativi del luogo. Una lettura che cerca di individuare gli elementi costitutivi dell’architettura insiti nel paesaggio quasi a cercare l’architettura come già presente nel sistema naturale, come nella serie di foto “About non-conscious architecture”, oppure a dimostrare, icasticamente nei disegni della città che rovina nel tempo, che l’architettura è destinata a dissolversi nel paesaggio come nell’opera Secoli e Millenni. Una mostra che sfugge alla classificazione voluta dalla curatrice Christiane Rekade per fare emergere in modo prepotente la capacità di Pettena di essere “docente vita natural durante”, di cogliere ogni occasione per “trasmettere conoscenza”. È una trasmissione di conoscenza e di esperienza l’installazione “Paper” qui realizzata a segnalare la verticalità del vano scale dell’edificio, ma che riecheggia quella installata per la prima volta nel 1971 a Minneapolis dove gli studenti per poter entrare nella sala dove Pettena avrebbe tenuto la conferenza dovettero farsi strada nella foresta di carta tagliandola. È una esperienza progettuale e sensoriale l’opera “Human wall” che pone lo spettatore davanti ad una parete di argilla lavorata a mano dove la forza dell’opera manuale è evidente dalle impronte che segnano l’opera. E anche quest’opera riecheggia l’installazione che Pettena realizzò nel 1972 quando ricoprì completamente di argilla, con l’aiuto degli studenti (il docente che sempre è presente), la casa di un comune amico, trasformando un tipico edificio dei sobborghi statunitensi in un’enorme scultura. È infine una esperienza sensoriale l’opera “Paesaggi della memoria” dove il profilo delle montagne dell’Alto Adige, rea-
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lizzato in pannelli di plexiglas e trasportabile in una valigetta, sempre di plexiglas, è posizionato su una spiaggia dove l’impronta di un uomo disteso rimanda alla visione che si può avere dell’opera una volta montata nel luogo (a scelta di chi trasporta la valigetta). Una mostra piccola ma che coglie appieno la personalità di Pettena che non trascura mai aspetti anche ludici e di grande delicatezza, come per l’opera “Breathing wall”, e che è segnata, in modo quasi invisibile, dalla preghiera del Padre Nostro in Tedesco Antico che Pettena aveva imparato a memoria da bambino.
La mobilità dell’immobile
di Mariangela Arnavas “Io mi sento hegeliano”, così mi si presenta Gabriele Di Virgilio, giovane artista fiorentino appena ventenne e la frase smuove i fondali della mia memoria facendo riaffiorare tracce di un’antica passione per il pensiero puro, dell’entusiasmo per la dialettica hegeliana e poi marxiana, radici della mia esistenza. Il progetto fotografico si materializza in “Hands”. Un oggetto concepito e realizzato all’interno di OFFICINA NAG di cui Gabriele è co-founder (www.nag-atelier.it). “Hands“ non è solo un oggetto da parete, è un sistema di relazioni, un filo evolutivo. Insieme le mani si stringono, parlano e, insieme all’osservatore, si muovono. Il pensiero e le immagini di Gabriele sono lucidi e incisivi. La mano è al centro della sua riflessione come della sua opera; “ la mano è la finestra della mente “; è con questa citazione di Kant che comincia un suo breve scritto esplicativo che collega, con estrema agilità, elementi di pensiero filosofico sul tema alla sua esperienza personale cominciata con “la passione di fare, costruire, lavorare, toccare e sentire il legno”, ovviamente con le mani. Naturalmente si tratta di un sentire e un fare che, secondo la sua citazione di Heidegger, “’poggia sul pensiero”, la mano come cervello esterno dell’uomo, dato identificativo e distintivo rispetto agli altri animali. Mano che si collega agli occhi e allo strumento della macchina fotografica nei viaggi che Gabriele sente di dover intraprendere nel suo percorso di studi per scoprire se stesso, lo spirito del mondo , il logos e forse Dio. Mani che raccontano percorsi esistenziali, fatiche e dolori, bellezza, diversità, speranze di vita, presagi di morte. Gabriele Di Virgilio prova a inquadrarle nel legno, una materia amata e vissuta, consentendo punti di vista e angolazioni diverse, che aiutino a comprendere come “la mano sia un nodo naturale”, un tramite che ci collega al mondo materiale e spirituale. Le immagini e il pensiero di questo giovane artista mi richiamano con insistenza l’incipit di una poesia di Rainer Maria Rilke dedicata alla Madonna: “Du bist nicht nacher an Gott als wir; wir sind alle weit. Aber wunderbar sind dir die hande benedeit.” Che nella traduzione di Giaime Pintor sono: “Tu non sei più vicina a Dio di noi. Siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende, benedette le mani...” Sento vicini questi versi alle vivide intuizioni e alla sintesi espressiva di Gabriele Di Virgilio: le mani umane come ponte tra la materia e l’universo, per conoscere, per plasmare, per cambiare il mondo alla ricerca della sua essenza.
Mani
17 9 SETTEMBRE 2017
di Monica Innocenti Chi ha avuto modo di apprezzare la mostra che Pepi (al secolo Stefano Chelotti) ha recentemente tenuto a Lucca, ha potuto scoprire le sue opere, quadri piacevolmente originali e di grande interesse. Dopo aver conosciuto l’artista in maniera più approfondita, sono arrivata alla conclusione che, per definire e descrivere la sua personalità e la sua dimensione artistica, debbano essere usati aggettivi come eclettiche, poliedriche, multiformi. Artisticamente Pepi nasce come musicista; la passione per la musica e il desiderio di riprodurre ed ascoltare suoni lo accompagnano fin da bambino e, all’età di 15 anni, inizia a suonare il basso elettrico. Da allora si susseguono le collaborazioni con diversi gruppi musicali (Box Demolition, Stereo88, Greatestizi, DOOWOP, Stefano Nottoli band, My favorite trio), con i quali mette insieme più di 500 serate di concerti dal vivo. Ma non per questo dimentica quella che, comunemente, viene definita “musica seria” e ottiene il diploma di Compimento Inferiore per solfeggio e contrabbasso al Conservatorio Luigi Boccherini di Lucca. Si dedica anche all’attività compositiva (vanta due dischi autoprodotti) e, in questa veste è membro dell’Associazione di Compositori Musicali Cluster. Inoltre, da appassionato di musica e cultura orientali, suona il setar e il sitar indiano. Altra tappa fondamentale del suo versatile percorso formativo (che ha finito per influenzare anche la sua parte creativa e in particolare i quadri) è stato il completamento del percorso di studi in Psicologia Clinica. La mostra citata all’inizio, che ho avuto il piacere di ammirare (alcune opere sono state usate anche per rappresentazioni musicali), si compone di più di 40 collage assolutamente originali e pieni di creatività, prodotti in poco più di un anno e quindi a ritmi creativi incalzanti, ma la grande quantità non è certo andata a discapito della qualità, anzi! In questa sorta di manifesto collettivo postpunk contemporaneo, utilizzando ritagli di riviste di arte, rotocalchi, libri sulla natura e la musica, i pensieri, i colori ed i suoni si trasformano in immagini, capaci di evocare avvenimenti o di caratterizzare periodi con la forza iconica della migliore pop art. Pepi mi ha raccontato che queste sue opere nascono principalmente di sera, dopo una giornata di lavoro come psicologo, quando diventa impellente la necessità di dare forma alle sensazioni provate nelle ore dedicate ai
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malati psichiatrici. Una cornice è quello che gli permette di, figurativamente, contenere quello che prova confrontandosi con la schizofrenia e con le fantasie e le fobie che vivono le persone con cui è quotidianamente in contatto. Ma non ho parlato a caso di eclettismo; il per-
I collages del musicista
corso creativo di Pepi è tutt’altro che concluso, sta evolvendosi ulteriormente e, con un pizzico di mistero, non ha voluto rivelare in che modo: restiamo in attesa di goderci le novità. Prossimamente, oltre a realizzare uno storytelling, esporrà ancora a Lucca, in una galleria-bar in via del Battistero e, in autunno, in una mostra collettiva presso il Caffè Letterario. Ma sta lavorando anche all’ambizioso progetto di una mostra personale a New York; a questo proposito sta mettendo in movimento tutti i suoi contatti nella Grande Mela: non mi resta che fargli un grosso in bocca al lupo!
di Simone Siliani Poema drammatico di re quello messo in scena da Archivio Zeta al Cimitero di guerra germanico del Passo della Futa dal 5 al 20 agosto: “Il Minotauro” è il testo pubblicato da Julio Cortazar nel dicembre 1947 con il titolo “I re”, nel quale il drammaturgo argentino non soltanto rovescia il mito della tradizione giunto a noi in vario modo attraverso Ovidio, Plutarco, Omero e Apollodoro, ma assorbe, indaga, drammatizza e vive i suoi temi principali nella vita contemporanea. È nel suo labirinto di scrittore e intellettuale che ci addentriamo con “I re”; è nel nostro personale labirinto interiore che siamo invitati ad entrare nella drammaturgia di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni nel silenzio delle 30 mila lapidi di soldati tedeschi, giovani “figli di nemici” come Minosse chiama Teseo nel loro dialogo, di cui ci scopriamo ogni volta che saliamo su questi monti così diversi e al contempo somiglianti. Come per il Minotauro morente nel testo di Cortazar, quassù “cresce come il vento un bisogno di silenzio” ed ormai il mostro ucciso (sconfitto il nazismo) anima i nostri sogni e “siamo liberi” esultano i giovani ateniesi destinati al sacrificio “Ma non per la sua morte...”. Teniamo in mano il filo rosso che Arianna dona a Teseo quale soluzione dell’enigma di Dedalo che è il labirinto, quel viaggio verso la morte che – nella figura spiraliforme (“il simulacro della chiocciola”) - giunto al punto centrale, si rovescia in un movimento contrario, dal centro verso l’esterno, dalla morte verso la vita. Ma, nel mito rovesciato di Cortazar, quel filo rosso è anche un messaggio di amore che Arianna rivolge al mostruoso fratello e che anche noi dobbiamo avere la forza di tenere in mano in questi tempi così difficili e mostruosi (come dice Minosse a Teseo promettendogli Arianna in sposa al suo ritorno dal labirinto, “Ci sono sempre gli africani per alimentare il prestigio del mostro”). Il mostro, il disumano sconosciuto, l’insopportabile diversità per il potere è fratello dello stesso labirinto, è il suo stesso carcere ad averlo generato, proclama il re Minosse: il Minotauro esiste per volontà (o destino?) del potere e al contempo esistendo legittima il potere (“Fu necessario vestirlo di pietra perché non mandasse in frantumi il mio scettro”), perché è “l’artificio di pietra, la sua prigione” che lo rende funzionale al potere e sopportabile a se stesso (“Qui ero specie e individuo, cessava la mia mostruosa discrepanza”). Ma è Arianna che gli riconosce l’umanità che infine il testo di Cortazar mette in risalto. E quando, nel dialogo con Minosse, questa certezza di fratellanza di Arianna vacilla, allora
Labirinti
Minosse la accomuna nel destino dei re (“Ora sei la regina”) e lei si smarrisce (“Ora non so chi sono”) e non riesce a fare il passo verso la libertà, l’ingresso nel labirinto (“Oh fratello solitario, mostro capace di sopraffarmi perfino nell’assenza, di rivestire di paura la mia prima tenerezza!”). Ecco qui il duplice drammatico motivo del testo di Cortazar: l’inevitabilità del destino dei re e del potere e la forza soccombente della libertà e della poesia. Per quanto diversi (ma non poi molto) i due re, Minosse e Teseo, sono complici nel realizzare il mito per cui sono stati creati. Certo Minosse traduce con la razionalità della parola e del pensiero l’inevitabilità di questo destino comune (“Sento la necessità quasi orribile che tu sia qui, che noi ci troviamo di fronte vicino al muro, sotto gli occhi di Arianna”) e Teseo non sopporta la ragione e agisce secondo l’istinto dell’eroe (“Non credere che ti segua nei tuoi rapidi giochi. Mi obbedisco senza troppe domande. All’improvviso so che devo sguainare la spada. Avessi visto Egeo quando mi unii ai condannati. Voleva ragioni, ragioni. IO sono un eroe, credo che basti”). Ma l’uno è lo specchio dell’altro e le loro azioni, per quanto opposte, dirigono verso lo stesso fine: Teseo uccide Minotauro per lo stesso motivo per cui Minosse lo ha dovuto rinchiudere e Minosse confesserà a Teseo
che “In fondo lo ucciderai per gli stessi motivi per cui io temo di ucciderlo. Solo i mezzi cambiano, prima o poi toccherà anche a te saperlo”, preconizzando per Teseo la terribile condanna della conoscenza, della consapevolezza. Ma se i due re incarnano l’essenza del potere, quello assoluto del tiranno e quello sanguinario dell’eroe, è Minotauro - nel rovesciamento di Cortazar – l’incarnazione dell’ideale puro della libertà. Nel dialogo con Teseo gli spiega perché non sarà la spada, né il suo sguardo giudicante che farà di lui un mito (“non è con gli occhi che si affrontano i miti. Neppure la tua spada mi si addice. Dovresti colpire con una formula, un salmo: con un altro racconto”). Il solo mezzo per uccidere i mostri è accettarli, ma questo Teseo, la società che lui rappresenta – ieri e oggi – non può, non riesce a farlo. Così gli concederà il collo per il colpo mortale, che lo libererà dal labirinto e imprigionerà lui, Teseo: “Morto sarò più io”, ma inizierà la fine di Teseo, “tu ti sminuirai, conoscendomi sarai meno, andrai precipitando in te stesso come si sgretolano a poco a poco i dirupi e i morti”. Morto il Minotauro, Teseo resterà solo ad ascoltarsi e dal suo atto, ineluttabile forse, nascerà al libertà finale (“Che ne sai tu di morte, tu che doni la vita profonda”). Il dialogo fra Teseo e Minotauro è il punto più alto del dramma: se Teseo, al culmine della razionale decisione omicida, dice che Minotauro sarà presto “un ricordo morto con il tramonto del primo sole”, il mostro risponde che lo precederà da Arianna ponendosi “fra lei e il tuo desiderio” e il trionfo del vincitore si trasformerà nella condanna per il suo trono: “Ti acclameranno gli uomini del porto. IO scenderò ad abitare i sogni delle loro notti, dei loro figli, del tempo inevitabile della stirpe. Da lì incornerò il tuo trono, lo scettro incerto della tua razza... Dalla mia libertà finale ed ubiqua, dal mio labirinto minuscolo e terribile in ogni cuore d’uomo”. E quando l’oblio avrà ingoiato la sua figura, “nascerò davvero nel mio molteplice regno. Lì abiterò per sempre, come un fratello assente e magnifico”. Il mito, la poesia è il mostro, il diverso, il molteplice e ubiquo; l’unica possibile altra realtà rispetto a quella razionale del potere, capace di scardinare la normalizzazione e la repressione di cui sono portatori Minosse e Teseo. È l’inconcepibile alterità della poesia che, morendo alla realtà, disvela nuovi e infiniti mondi di significati: qui il Minotauro continua a vivere nei nostri sogni. Archivio Zeta così continua, al Passo della Futa, la sua ricerca e la sua indagine sulla violenza e sulla debolezza del potere, questa volta con un autore moderno che offre, nel rovesciamento del mito, una via d’uscita dal labirinto in cui tutti ci troviamo.
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a cura di Aldo Frangioni Continua, fino al 15 settembre, negli spazi della Galleria Alessandro Bagnai, a Foiano della Chiana, la mostra CIAO di Massimo Barzagli, a cura di Saretto Cincinelli L’esposizione presenta il lavoro degli ultimi tre anni dell’artista, ed è articolata in tre grandi installazioni, quattro video proiezioni e un testo trasmesso da una fonte audio. La prima installazione “il domatore di peluche” è composta da un polittico formato da otto opere dipinte su grandi teloni plastificati: impronte dipinte ad olio che come lo stesso titolo CIAO evocano, una certa atmosfera neorealista italiana. La seconda installazione è costituita da un gruppo di sculture in gesso colorato in impasto, attraversate da cinghie di vari colori usate per il sollevamento di materiali pesanti: impronte di mani e braccia declinate prevalentemente nei colori azzurro, rosa, giallo e verde. L’opera scultorea si configura come un relitto o meglio come un relitto di reperti. La terza grande opera, infine, si presenta come una grande caduta di mattoni colorati che mostrano in una delle proprie facce l’aggetto scultoreo di un uccello tra i rami che fuoriesce dalla sagoma del mattone caduto. La fonte audio è un testo elaborato nel 2014, e presentato in forma di installazione sonora alla Biennale di Venezia di Rem Koolhaas all’interno della mostra “Mondo Italia”. Il testo
Il Ciao di Massimo Barzagli
-parte della collaborazione di Massimo Barzagli con Luisa Cortesi- si materializzava all’interno dello spazio dell’Arsenale come una struttura sonora architettonica della durata di 3 ore e 40, diffusa ininterrottamente durante il tempo dell’esposizione, anche questo testo tira in ballo, sia pur sarcasticamente, un atmosfera neorealista. Le quattro videoproiezioni sono una variazione in 4 toni dello stesso filmato girato in Sardegna che mostra il frangersi di un onda su uno scoglio e -come ha notato Saretto Cincinelliadombrano la citazione di un dipinto di Gustave Courbet, restituito tramite la variazione
tonale di Andy Warhol. Ciao è anche una accumulazione di impronte di fiori fuse in lastre di gesso dal colore naturale cui sono legati fiori di plastica con elastici colorati… Il frangersi delle onde sullo scoglio, la diffusione del sonoro e le installazioni scultoree in forma di accumulo o relitto il galleggiare dei peluche non possono non assumere un valore allusivo e metaforico Alberto Boatto concludeva in un bellissimo testo del 1994 su Massimo Barzagli con queste parole: gettare i fiori su questi volti assume il senso di un gesto di addio.
La Barbagianna: una casa per l’arte contemporanea di Laura Monaldi Dal 1992 Alessandra Borsetti Venier si è posta l’obiettivo di fare della propria casa un luogo d’incontro e confronto artistico all’insegna del “fare arte”, in collaborazione con la casa editrice MORGANA EDIZIONI, dell’associazione culturale MultiMedia91 e dell’Archivio della Voce dei Poeti. Anche quest’anno la XXVI Rassegna internazionale “Incontri d’Arte” (seconda parte) si concretizza nella splendida cornice della Val di Sieve a “La Barbagianna: una casa per l’Arte Contemporanea”, nella consapevolezza che il mondo contemporaneo necessita di un’armonizzazione e fratellanza delle diverse tendenze estetiche per poter cogliere maggiormente l’operatività artistica oltre il Sistema. Proprio all’insegna della condivisione, sabato 9 settembre dalle 17.00 in poi, verranno presentate le mostre “Diverso Femminile” di Carlo Cantini, con interventi di Valerio Dehò e Gemma Bechini e “Riportati
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alla luce” di Vanessa Costantini, presentata da Andrea Granchi e Laura Monaldi. Seguiranno le performance di Massimo Mori “ POESIA AGENDA EST... performando l’esistere”, di Luca De Silva “La Concentrazione dell’Uno intesto come Ovunque” con musiche di Cristiano De Silva e di Elisa Zadi “Pensiero-Azione-Destino” con intervento critico di Erika Lacava; la presentazione del libro “Acronos” di Antonino Bove in dialogo con Aldo Frangioni; gli annuali incontro con la Performance Art con i performer Nicola Bertoglio, Manuela Mancioppi, Murat Onol, Lorena Peris, Niousha Rezaeinia che realizzeranno le loro azioni e installazioni in vari luoghi interni ed esterni della casa; Giacomo Verde, docente di Teatro multimediale alla Alma Artis Academy di Pisa, presenterà il Collettivo SUPERAZIONE e, a seguire, terrà una conferenza su PERFORMANCE E CORPI DIGITALI; inoltre sarà proiettato il mediometraggio ACRONOS del regista Maicol Borghetti.
di Bernardino Pasinelli Il libro “Cosa avrei potuto fare? Storie di ebrei in Valle Camonica tra fuga e Resistenza” di Serena Furloni, Federico Mondini e Bernardino Pasinelli nasce dal progetto RIMON-Melograno: “Itinerari ebraici in Lombardia” della Comunità Ebraica di Milano, coordinato dal Distretto Culturale di Valle Camonica e sostenuto da vari Enti lombardi e dalla Fondazione Cariplo. I due giovani laureati, Serena Furloni e Federico Mondini, hanno svolto interviste e ricerche in archivio che sono state integrate e approfondite dall’archivista Bernardino Pasinelli, impegnato da anni a fare conoscere la storia della ex colonia alpina fascista a Selvino (Bg) che tra il 1945-48 accolse circa 800 orfani ebrei sopravvissuti ai campi di stermino (www.sciesopoli.com). Nel triangolo montato tra il lago d’Iseo, le provincie di Brescia, Sondrio e Bergamo e le Valli Camonica, Valtellina e Valseriana, sono state rintracciate alcune piccole e grandi storie sulla persecuzione ebraica tra il 1940 e il 1945. Sono le storie di ebrei in fuga, di singoli e di famiglie, storie di salvezza e di tradimenti, storie di speranza e di paura, storie di dolore e di guerra, storie di odio e di generosità, storie di resistenza e amicizia. Come la storia della più grande fuga mai organizzata dagli ebrei in Italia per fuggire in Svizzera da Aprica (Sondrio), dove erano confinati come “internati civili” circa 300 ebrei per lo più jugoslavi detti “zagàbri”. “Cosa avrei potuto fare?” è la domanda di una giovanissima viennese, Toni Jetter, diplomata in dietoterapia e fuggita in Italia per cercare la salvezza dall’occupazione nazista di Vienna. Ma in Italia non sfuggì alle leggi razziste del fascismo, alla carcerazione e all’internamento tra Cuneo, Lanciano, Breno e infine fuggire in Svizzera. Il fascismo aveva trasformato l’Italia in un carcere diffuso su tutta la penisola e nelle terre occupate. Circa 50 campi e luoghi di detenzione e circa 650 Comuni furono le prigioni di questa forma omeopatica di controllo e deportazione di ebrei, nemici, oppositori e minoranze perseguitate. I nomi di circa 9.500 ebrei stranieri, internati in Italia tra il 1940 e il 1943, sono elencati in un database online realizzato dall’encomiabile lavoro di Anna Pizzuti: www.annapizzuti.it/ Un altro sito internet ci aiuta a visualizzare con incredibile efficacia l’immagine di questa Italia fascista e repressiva fattasi galera: www.campifascisti.it L’internamento a Lanciano (Chieti) è raccontato nel libro “L’internata numero 6” pubblicato in ottobre 1944 a Roma, città liberata dagli Alleati, da Maria Eisenstein, nome d’arte di Maria Ludwika Moldauer che era fuggita dalla Polonia, aveva studiato a Firenze laureandosi su Goethe e poi era andata a vivere in Sicilia. Nel 1940 venne arrestata e imprigionata a Catania perché ebrea, quindi trasferita nel
campo di concentramento di Lanciano. Delle 70 donne che vi erano rinchiuse in quel periodo, solo due donne si salvarono: Maria e una sua amica, che riuscirono a emigrare in America. Le altre vennero deportate ad Auschwitz per morire di fame, di tifo, di freddo. Appena arrivate al lager, le più anziane furono eliminate col gas. Per fortuna Toni Jetter riuscì a salvarsi fuggendo in Svizzera, subito dopo avere ascoltato alla radio l’ordinanza del 30 novembre 1943 di Guido Buffarini Guidi, ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana, già podestà di Pisa, che disponeva l’arresto di tutti gli ebrei, anche se discriminati. Dal passo di Aprica altri ebrei fuggirono verso la Svizzera, la frontiera della speranza che accolse 6mila ebrei, ma ne respinse ben 9mila. Vi transitò anche la famiglia di uno dei maggiori jazzisti
Cosa avrei potuto fare? europei, Oskar Klein, suonatore di tromba e chitarra, in fuga con la famiglia dall’internamento nella provincia di Vicenza. Il jazzista aveva solo 14 anni. Dopo la fuga in Svizzera tornò a Firenze dove e a diciannove anni insegnava in una scuola ebraica e continuava a suonare musica da ballo e jazz. La sua storia ha ispirato il recente film “Oscar” di Dennis Dellai www.oscarilfilm.com Un altra incredibile storia è quella di Lionello Levi Sandri, un comandante partigiano in Valle Camonica, di padre ebreo e di madre cattolica. Dopo avere scelto la strada dei monti, fuggendo da Brescia insieme alla moglie incinta e al fratello minore, Lionello accettò l’incarico di svolgere una missione presso gli Alleati nelle zone dell’Italia libera. La missione partì ai primi di dicembre del 1944 e rientrò il 13 febbraio 1945, paracadutata sul Mortirolo. In suo onore quella missione venne chiamata “Francona”, dal suo nome di battaglia che era “Franco Novelli”. In appendice al libro, è riportato il diario di questa missione nell’Italia liberata, pubblicato sul giornale clandestino “Quaderni del Ribelle” in febbraio 1945. Una testimonianza da leggere a scuola per comprendere la complessità di quegli anni di guerra, un diario vivo come se fosse un blog che ha il ritmo del dramma teatrale. Nel libro per ragazzi “Piccole Fiamme Verdi”, scritto dal partigiano Enzo Petrini nel 1946, il capitolo “Qualcuno scende dal cielo” è dedicato a Levi Sandri, il “comandante Franco”. Tornato in Val Camonica con i suoi compagni, Lionello riprese il comando dei partigiani della divisione “Tito Speri”, che guidò nelle due famose batta-
glie del Mortirolo in cui i partigiani sconfissero le truppe nazifasciste, più numerose e meglio armate. Suo padre Dario Levi e la zia Gina Levi erano iscritti alla Comunità ebraica di Mantova. Anche Lionello e il fratello Luigi vi erano stati iscritti, ma vennero depennati in data 14 ottobre 1938, subito dopo il censimento degli ebrei e l’emanazione delle prime leggi razziste del fascismo. Molti altri ebrei fecero la stessa scelta, alcuni si fecero anche battezzare nel tentativo di salvare le loro vite, come avevano dichiarato gli ebrei di Aprica, annunciando al Questore di Sondrio la loro imminente fuga, subito dopo l’8 settembre 1943. La figura di Lionello emerge per il valore del suo impegno umano e civile, prima come comandante partigiano e poi come politico socialista. Dal 1961 al 1970 rivestì ruoli importanti nell’Unione Europea interessandosi di affari sociali e legislazione del lavoro, per un’Europa dei diritti sociali, come avevano sognato gli uomini delle Resistenze europee. L’archivio personale di Lionello Levi Sandri è conservato in 35 scatole negli Archivi storici dell’Unione Europea che si trovano a Firenze e l’inventario è consultabile online: http://archives.eui.eu/en/ fonds/156740?item=LLS Non manca una storia davvero speciale: quella di Giacomino Sarfatti. Nato a Firenze nel luglio 1920, a diciotto anni Giacomino Sarfatti emigrò in Inghilterra per cercarvi ciò che nel 1938 gli era stato proibito in Italia. Nel novembre 1940 si arruolò nell’esercito inglese dello Special Operations Executive (SOE) un corpo segreto incaricato di occuparsi di “sabotaggio, sovversione e sostegno alla resistenza popolare all’interno del territorio nemico”. Fu addestrato come operatore radio e nel dicembre 1942 entrò clandestinamente in Italia con sede a Milano, in contatto con i superiori inglesi a Berna. Aveva il nome di copertura di Giacomino Rossi. Il 21 gennaio 1944, si trovò in serio pericolo a causa di un doppio-giochista. Fu salvato dalle Fiamme Verdi allertate dagli inglesi e portato in Valle Camonica. Svolse vari compiti, con periodi a Milano e ad Appiano Gentile nel comasco e mantenne contatti radio tra i principali centri resistenziali della penisola. In agosto scampò a un’irruzione fascista saltando da un tetto. In Valle Camonica la sua base per alcune settimane fu a Corteno Golgi nei pressi di Aprica. A metà ottobre del 1944, il comando inglese lo fece rientrare in Svizzera. Un’anziana donna di Edolo, che lo aveva aiutato, lo ricordava come un uomo smilzo con i baffetti, una persona idealista e riservata che sapeva ispirare fiducia. In Italia dopo la guerra, è stato assistente e professore di botanica nelle università di Firenze, Bari, Camerino e Siena. È morto a Siena il 28 gennaio 1985.
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di M. Cristina François Don Giovanni Vegni, nato nel 1876, fu nominato il 31 marzo 1907 Parroco di S. Felicita. “Giovane di anni, giovane di pensiero, ardente di animo […] destò un vero fanatismo nella popolazione e specialmente nei giovani” [A.S.P.S.F., Ms.730, pp.586-597]. Noto a tutti perché nei sei anni precedenti aveva già servito questa Chiesa in qualità di Curato. Si impegnò a riportarla agli antichi splendori, ristabilendo tradizioni liturgiche peculiari di S. Felicita come il “Quaresimale quotidiano […] rinomato quanto quello del Duomo e di S. Maria Novella”. E così ogni anno grazie alle sue iniziative “si vide con grandissima soddisfazione di tutti nuovamente l’antico pulpito - effimero ancora esistente - e l’antico tendone [pavonazzo]”. Don Vegni fece restaurare il “Quartiere del Predicatore” e gli ex-ambienti claustrali connessi alle attività di Parrocchia; ristabilì la “Messa cantata solenne in Musica” riprendendo l’antica tradizione liturgica cara ai Granduchi Lorenesi, parrocchiani di S. Felicita. Egli stesso, con la sua bella voce, cantava nella Messa del Perosi. Sempre nella tradizione religioso-musicale lorenese di questa Chiesa, ricostituì nel maggio 1915 una “Cappella di musica strettamente classica e liturgica” e la inaugurò in occasione del ripristino del culto dell’Arcangelo Raffaello. Per la sua sensibilità nei confronti di questa figura biblica, si può attribuire a Don Vegni l’affettuoso disegno a matita di un S. Raffaele e Tobiolo eseguito in una parete dei “soffittoni” di S. Felicita allora abitati dai Curati [fig.1]. Inoltre, per i soldati caduti in guerra volle in loro suffragio le “Quarantore solennissime” con tutto il loro apparato di effimeri; per ampliare gli Figura 1 spazi della Chiesa affinché
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4 agosto 1944
il salvataggio del patrimonio culturale e umano a S. Felicita il servizio liturgico venisse accompagnato con grandiosa sacralità e dignità, nel 1912 chiese al Demanio di ottenere la cessione in uso, - anche se temporanea e revocabile
- dei due Coretti (quello Granducale e quello delle Cameriste) per destinarli alla Cappella Musicale, come pure della scaletta che li metteva in comunicazione e dell’andito intra muros utilizzato per gli spostamenti di persone e cose nelle occasioni più solenni [fig.2]. Quando il 1° febbraio 1914 Don Vegni ricevette gli Atti definitivi della Cessione - approvati dall’Intendenza di Finanza (Int. Beltrami A.), dal Ministero dell’Istruzione Pubblica, dal Direttore della Real Casa (Dir. Nuti O.) e dal Direttore delle RR. Gallerie, il celebre Giovanni Poggi - non sapeva che questo gesto avrebbe salvato la vita a molti ebrei e partigiani durante il Secondo Conflitto mondiale. Ecco ciò che avverrà in effetti. Il Parroco che subentrò a Don Vegni si chiamava Don Luigi Gargani. Nato nel 1881 a S. Miniato al Tedesco (PI), decise a 12 anni di farsi sacerdote. A Roma studiò presso il Seminario Pontificio dove si trovò insieme al futuro Papa Roncalli e con lui ricevette il Suddiaconato nel 1902 in S. Giovanni Laterano. Due anni dopo, nel giorno dell’Assunta, disse la sua prima Messa. Nel 1929 giunse a S. Felicita dove rimarrà fino all’anno della morte: fu lui che visse nella Parrocchia di S. Felicita la Seconda
Guerra mondiale. Dall’8 settembre 1943 alla Liberazione della città, 11 agosto 1944, l’Arcivescovo Elia Dalla Costa organizzò una rete difensiva contro la deportazione che coinvolse a Firenze quasi cinquanta luoghi tra Parrocchie e Istituti Religiosi fra i quali la Chiesa di S. Felicita, dove Don Gargani, coadiuvato dal Curato Don Cammillo Bartolozzi, dal Sagrestano Genesio Cei e da volenterosi parrocchiani, aveva già realizzato forme di solidarietà e assistenza cristiane: distribuzione delle minestre a bisognosi e profughi, accoglienza in Canonica di famiglie rimaste senza tetto, salvataggio di oggetti liturgici di grande valore storico-artistico, oggetti che dette in consegna ai Conti Guicciardini, e infine, a partire da quel fatidico 8 settembre, ricovero a tutti quegli ebrei - perseguitati dai nazifascisti che gli chiesero asilo e Figura 2 vissero nascosti fino al giorno della Liberazione negli ambienti più segreti della Canonica. Agli ebrei si aggiunsero i partigiani che convissero nel succitato intra muros (lasciato dal 1914 in uso da parte del Demanio ai Parroci di S. Felicita per il tramite degli Operai dell’Opera), nei “soffittoni” che, attraverso la “scala segreta” ancora in situ, garantivano una possibilità di fuga all’altezza dell’Orto di S. Felicita verso Boboli, nel “sottotetto” della Chiesa dove era stato improntato uno spazio Figura 1 che definiremmo ‘bagno’ e dove a tutt’oggi si trovano la vasca in zinco smaltato per la loro igiene e i grandi orci per la raccolta dell’acqua piovana. Il 1° agosto 1944, quando il feldmaresciallo Albert Kesselring mise in atto la “ritirata aggressiva” anche in Toscana e a Firenze, quasi alla vigilia della notte infernale del 3/4 agosto, Don Luigi Gargani correva per le strade vicine nell’intento di convincere le persone a lasciare la loro casa prima che le mine fossero fatte brillare; poi si diresse verso il sagrato di S. Felicita. Guardando gli artificieri tedeschi che piazzavano gli
ordigni alla base dei pilastri del portico della Chiesa che sostengono il Corridoio Vasariano, meditava su cosa fare per salvare il salvabile, tanto più che i nazisti avevano già sfondato il portone della Canonica per piazzare anche lì altre mine. Decise di rivolgersi agli artificieri a cui chiese di parlare con il loro superiore. Fu così che arrivò un Colonnello tedesco al quale il Parroco fece chiaramente intendere incrociando anche le braccia e sbarrando con il suo corpo l’ingresso al portico, che se avessero fatto saltare in aria la sua Chiesa non si sarebbe mosso dal sagrato saltando così insieme a lei. Il Colonnello rispose che avrebbe risparmiato l’edificio solo se, previo immediato sopralluogo, fosse risultato che la Canonica non ospitava né ebrei né partigiani. Con sguardi e cenni Don Gargani riuscì a
comunicare al Sagrestano e al Curato, nel frattempo accorsi, di far scappare tutti in Boboli attraverso la “scala segreta”. Il Curato Bartolozzi testimoniò nel 1964, durante la Festa per il 60° anniversario dall’Ordinazione sacerdotale di Don Gargani, che il Parroco prese tempo parlando col Colonnello, intrattenendolo quanto più poté per ritardare anche di pochi minuti preziosi il terribile sopralluogo che avrebbe deciso di tante vite e della salvezza della Chiesa di S. Felicita. Intanto il sa-
grestano Genesio Cei e Don Bartolozzi si precipitarono nell’intra muros, nei soffittoni, nel sottotetto e portarono in salvo tutti gli ebrei nonché quindici giovani ricercati dalle SS: tutti finalmente rividero tra gli alberi di Boboli luce e libertà. Don Luigi Gargani fu sfollato fra gli sfollati a Palazzo Pitti e tra il 3 e il 4 agosto si sistemò un giaciglio nella Sagrestia della Cappella Palatina dove passò la notte pregando. Durante la ricostruzione post bellica il Parroco di S. Felicita ospitò in Canonica a sue spese gli operai delle imprese restauratrici, offrì gratuitamente ai parrocchiani un cinema domenicale negli ambienti a pianterreno attigui al chiostro, restaurò i locali della chiesa di S. Jacopo sopr’Arno per i gruppi giovanili dell’A.C., creò una Scuola Materna nelle stanze intorno al chiostro per tutti quei bambini che nel dopoguerra non sapevano ancora dove iscriversi. Il 25 aprile 1945 fu riconosciuto il suo valore umano e cristiano con il conferimento del titolo di Monsignore e Cameriere segreto soprannumerario. A chiusura di questo articolo desidero ricordare fra i tanti cittadini eroici rimasti sconosciuti, o quasi, un anziano che era soprannominato ‘Burgasso’ il quale ogni mattina ed ogni sera apriva e chiudeva gli sporti agli orefici del Ponte Vecchio, come pure vorrei rammentare il garzone del lattaio di Borgo S. Jacopo che si chiamava Ugo. Fu Burgasso che disinnescò le mine già sistemate per far saltare il Ponte Vecchio, e lo fece ancor prima che venisse dato il contr’ordine dal Console tedesco Gerhard Wolf. Quanto a Ugo - nel ‘44 ancora giovane e di formazione laica dobbiamo a lui il disinnesto di molte delle mine già sistemate dai tedeschi nella strada dove lavorava. Si deve al suo coraggio se alcune delle torri e alcuni dei palazzi antichi del Borgo sono ancora in piedi come pure la casa al n.2 di Piazza dei Rossi, detta dal 1810 ‘Conventino’ (“Cultura commestibile”, n.226, p.13), perché accolse monache dal Monastero di S. Felicita soppresso da Napoleone.
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di Roberto Giacinti Può essere considerata tale quella che esercita in via stabile e principale una o più attività d’impresa di interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Possono acquisire la qualifica tutti gli enti privati, inclusi quelli in forma societaria, che esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività. Resta la qualificazione di diritto come impresa sociale alle cooperative sociali e ai loro consorzi. Sono considerate di interesse generale, se svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l’esercizio, anche le attività d’impresa che hanno per oggetto l’agricoltura sociale ai sensi dell’art. 2 della L. 141/2015. Si considera comunque di interesse generale, l’attività nella quale, sono occupati, secondo specifiche percentuali in relazione al personale, lavoratori molto svantaggiati, persone svantaggiate o con disabilità e persone senza fissa dimora che versino in una condizione di povertà. L’attività di impresa di interesse generale deve essere svolta in via principale, ossia deve generare almeno il 70% dei ricavi complessivi. Una quota inferiore al 50% degli utili e degli avanzi di gestione annuali, può essere destinata ad aumento gratuito del capitale sociale, nei limiti delle variazioni dell’indice Istat, oppure alla distribuzione, anche mediante l’emissione di strumenti finanziari, di dividendi ai soci, in misura non superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di 2,5 punti rispetto al capitale effettivamente versato. È inoltre possibile, nel limite anzidetto, disporre erogazioni gratuite in favore di enti del III settore, diversi dalle imprese sociali, che non siano tuttavia fondatori, associati, soci dell’impresa sociale o società da questa controllate; purchè finalizzate alla promozione di specifici progetti di utilità sociale. Si introducono inoltre importanti misure di sostegno, anche fiscale, quali la detassazione degli utili o avanzi di gestione che incrementino le riserve indivisibili in sospensione d’imposta e che vengano effettivamente destinati allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio (analogamente a quanto già previsto per le cooperative sociali e per i consorzi tra piccole e medie imprese).
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Disegno di Aldo Frangioni
La nuova impresa sociale Vengono anche introdotte limitazioni al calcolo delle retribuzioni massime e minime dei lavoratori. L’impresa deve assicurare il più ampio coinvolgimento di lavoratori, utenti e altri soggetti, attraverso meccanismi di consultazione e di partecipazione tali da metterli nelle condizioni
Disegno di Aldo Frangioni
di influenzare le decisioni dell’impresa sociale, con particolare riferimento alle questioni che incidono direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni o sei servizi. Si intensificano poi i vincoli a beneficio degli stakeholder, aumentandone il livello minimo di coinvolgimento, prevedendo tra l’altro, per le imprese sociali di grandi dimensioni, il diritto dei lavoratori ed eventualmente anche degli utenti di nominare almeno un componente degli organi di amministrazione e di controllo. A tal fine, il Ministero del Lavoro renderà disponibili delle linee guida per l’attuazione di tali finalità che dovranno poi essere recepite nei regolamenti aziendali o negli statuti delle imprese. L’impresa sociale è tenuta a pubblicizzare, anche attraverso il proprio sito internet, il bilancio sociale.
di Gabriella Fiori Caterina della notte è romanzo avvincente dal titolo misterioso per un’immagine inconfondibile: Santa Caterina che scrive del pittore Rutilio Manetti. L’autrice Sabina Minardi mi dice che è nato da due “forti emozioni d’amore”: la sua visita del 2007 al complesso di Santa Maria della Scala a Siena, tappa medioevale di “cura, assistenza, accoglienza sulla via Francigena “per i pellegrini da ogni dove diretti a Roma, emblema affascinante del patrimonio di civiltà sparso nella penisola” e la scoperta di Caterina nelle Lettere, nel Dialogo della Divina Provvidenza per la forza delle sue parole, quel volgare vibrante e inedito e la modernità del suo linguaggio profetico. Soleva rifugiarsi nell’Ospedale al termine delle sue giornate; da qui il nome di Caterina della notte, che indica l’oratorio a lei dedicato”. E verso di lei, inconsapevole va un’altra Catherine, la Davigo bella quarantenne bionda occhi chiari, postmoderna vincente giornalista al Financial Times; vive col padre, bell’uomo broker di assicurazioni che l’ama molto, ha un fidanzato più stabile benché non ideale, David e qualche flirt di simpatia; si muove agevolmente nella grande Londra. Sì, ormai per lei, nata a Siena da Duccio e Danae senesi, la vera lingua è l’inglese e il suo italiano incerto esprime “l’oscuro della sua vita”: la mancanza della madre, morta in un incidente stradale, lei piccola. Ora le somiglia in modo impressionante e il padre, che rivede in lei la moglie amata, non ha più voluto risposarsi. Serba il legame con Siena un amico, “zio” Niccolò, settantenne sempre innamorato felice che ogni anno va in Toscana a zappare una sua terra e rientra a Londra carico d’olio, vino e “cantucci introvabili”. E una sera che Catherine “attonita” dopo un addio irosamente concorde da David, decide di restare a cena coi suoi “due vecchi”, eccolo daccapo a perorare un loro ritorno estivo a Siena. “Grazie al cielo, l’estate è lontana” si è appena detta Catherine che le piove sulla scrivania una grossa busta rossa senza mittente, zeppa di fogli dattiloscritti,sul primo, bianco, la frase “Caterina della notte”. Deve leggere, febbrile: ahi, quell’italiano “arcaico”.Seguono giorni in cui indugia a letto, vive “lentamente” così che giunge troppo tardi al telefono, mangia quando fame la morde e deve infine esumare dagli scaffali paterni un librone rosso sullo Spedale di Santa Maria della Scala a Siena, immenso e misterioso dove ricchi e
Le due Caterine poveri, artisti e mercanti, pellegrini da ogni parte del mondo sostano nel “pellegrinaio”, innocenti con le loro mezze medagliette di riconoscimento stanno fra i “gettatelli” e infermi sono curati dalle “Mantellate” di nero incappucciate. La Narratrice è una di loro, Giovanna da Fontebranda, per “comandamento” della sorella Caterina la Santa, la preferita dal Signore, in punto di sua morte, a Roma il 29 aprile 1380. Per Catherine che pensa “Ho perso troppo tempo con gli uomini nella mia vita”, “volare” a Siena subito diventa vitale. D’ora in poi io lettrice sentirò che “Tre donne intorno al cor mi son venute...” perché Catherine leggerà Giovanna fino a incarnarsi in lei, nel suo temerario amore per il “pellegrino” forse figlio di re venuto d’Oriente come nel suo abbraccio continuato con la grande sorella e maestra di perfezione “che perdeva i sensi e risorgeva dalle morti mistiche ogni volta più potente, sfidando l’invidia di ogni uomo di chiesa”. Imparerà da loro a percepire i richiami del
suo destino, a pensarne con tutta se stessa l’urgenza serbando una lucidità di visione, la stessa di Giovanna conscia che la sua passione è mera “brezza rasata dalle necessità della storia” e ciò che conta è sapere di “non essere stata una “gettatella” come si mormora intorno: e lo saprà, sia quando la madre Lapa malata di peste, felice di vederla “accorsa” al suo letto, la scambierà per Caterina e le dirà degli altri figli morti, sia nell’abbraccio vero di Caterina la Santa, a Siena con un gruppo di discepoli, in un silenzio che “ha capito tutto”. La “londinese” che, dapprima intenta a leggere la visto la bellezza del profilo di Siena solo dalla finestra, la vedrà poi dal vivo con Xavier medievista spagnolo e amico empatico di lettura. Fino all’ultima unica pagina. Dove c’è la chiave del viaggio, una chiave che è “solo tua. Non sta a me usarla”le dice nel sole, a Fontebranda. Anch’io so di dover restare in attesa, nel rispetto di un destino. Commossa seguo Catherine con lo sguardo. Ha preso una strada mai fin lì percorsa.
25 9 SETTEMBRE 2017
di Francesco Cusa Il ticchettio di un orologio. Una settimana. Un giorno. Un’ora. Questo il meccanismo perfetto del progetto di Nolan, che narra le vicende storiche dei fatti occorsi nella spiaggia di Dunkirk secondo uno schema pitagorico di armonia (sono parole del regista). E ancora una volta sua maestà Il Tempo, il leitmotiv che unisce tutta l’opera cinematografica di Nolan, l’incedere del Divenire di una particolare eccentricità della storia, che con chirurgica perfezione porterà al culmine di un infinito crescendo le azioni di tutti i protagonisti e dell’intero Coro di questa tragedia della sopravvivenza. Ogni dettaglio è necessario al raggiungimento del vertice, del climax, ed è soprattutto il pregevole lavoro delle musiche di Hans Zimmer a rendere palese l’ordito dell’opera (utilizzo della “scala Shepard” per dare l’illusione di un ascolto sempre “ascendente” allo spettatore, di un crescendo senza fine). È davvero possente il lavoro che condurrà ogni elemento di tempo, luogo e azione ad incastonarsi secondo la tipica logica di unità aristotelica. Un film sulla guerra…senza una goccia di sangue. È lo sguardo freddo e distaccato dei contemporanei, dei figli della “società liquida” alle vicende truci altrimenti narrate dal soldato Bardamu-Cèline. Così Nolan mostra ai privilegiati di Schengen il fantasma dell’orrore novecentesco, per tramite di una delle tante vicende strappate al secolo più
26 9 SETTEMBRE 2017
Il tempo perfetto di Dunkirk truce e spaventoso dell’intera storia dell’uomo, per mezzo di questa singolarità che è frammento del Molteplice. In questo senso, mare, vite e cielo (acqua-terra-aria), sono l’espressione di un unicum morfologico, come i corpi dei soldati sparpagliati come alghe sulla spiaggia sono il paradosso antropomorfo di una descrittività impietosa, che rende il tripudio finale - la salvezza dei trecentomila grazie al ritrovato senso di patria di una nazione - poco più di un vagito nell’assurdo baratro dell’insensato. Da questo punto di vista poco importa che la prospettiva della narrazione sia smaccatamente quella inglese, a cominciare dall’utilizzo del titolo (Dunkirk e non Dunkerque), perché, secondo il regista, ogni prospettiva riconduce al dramma dei sopravvissuti. Lo sguardo di Nolan è panottico, algido, asettico. Egli non necessita, come fa il repubblicano Eastwood, di realizzare due film (“Lettere da Iwo Jima”e “ Flags of Our Fathers), ovvero di mostrare la differente prospettiva di una stessa battaglia, perché per Nolan il Nemico è sempre e comunque l’Altro, come evidente dall’apparizione dei fantasmi dei tedeschi nella sublime scena
dell’atterraggio finale. Nolan, a differenza di Eastwood, non ha alcuna morale da rivendicare, non ha una posizione da mantenere e neanche una prospettiva etica e dialettica. Tant’è che i personaggi paiono conficcati a forza dentro questa storia fatta di tante microstorie, e tutti, salvo qualche eroe segnato dal mito, desiderano portare a casa la pellaccia, né più né meno (in questo senso, sì!) che come il Bardamu de il “Viaggio al termine della notte”. Non c’è un attimo di tregua per lo spettatore. “Dunkirk” pare il frutto di un unico piano sequenza che trascina dentro un gorgo di vacuità e precarietà, fino a lambire i margini della follia, della barbarie cieca, dell’inutilità del sacrificio. Insomma, tutto ciò da cui Bardamu e il nostro sentire del contemporaneo, rifuggono e che invece pare dominare le coscienze di milioni di esseri: soldati, tenenti, colonnelli, generali, politici, uomini di stato. Eroi e vigliacchi, indifferenza del cosmo e mito: un unico abbraccio che segna due ore di cinema che paiono eterne, e che pongono ogni epistemologia in un territorio alieno, privo di memorie e di passato.
Sabato 15 settembre alle ore 15.00 presso la biblioteca civica di Scandicci , via Roma verrà presentato il libro “Come una malattia” di Alessandro Giannetti sulla storica rivalità fra tifoseria fiorentina e juventina. Una rivalità che esiste da sempre quella fra tifosi viola e bianconeri, nata in origine su motivazioni regionali e campanilistiche, ma deflagrata clamorosamente al termine del campionato 1981/82 (quello del famoso Meglio secondi che ladri), fino a trasformarsi – specie dopo i fatti del ’90 e la cessione di Baggio – in un odio inestinguibile e profondo, una sorta di malattia per la quale è difficile anche solo immaginare una cura. Attraverso il complesso e specialissimo rapporto con lei, si ripercorrono appassionatamente quasi cinquant’anni di storia della Fiorentina, dove protagonisti non sono soltanto gli eroi della domenica (da De Sisti, Chiarugi e Maraschi fino a Mutu, Rossi e Kalinić), ma anche e soprattutto la gente comune, i fiorentini e i tifosi di ogni ordine e grado, il “popolo viola”. Con uno stile moderno e sorprendente,
La malattia viola
ironico, sarcastico, a tratti lirico e dolente, arricchito da citazioni colte e popolari (da Tex Willer a Fabrizio De André, dal cinema della commedia all’italiana fino alla Divina Commedia del più illustre italiano di sempre), l’autore affronta un viaggio affascinante e catartico dentro le profondità dell’essere fiorentino e tifoso viola, per raccontare, spiegare e in qualche modo esorcizzare il traumatico rapporto con quella squadra a strisce di cui non riesce neppure a scrivere il nome (se non nell’onirico, impossibile finale). E se essere tifosi veri, di qualunque squadra, è comunque un privilegio e una sofferenza, esserlo della Fiorentina è – per l’autore – un dono di Dio. Il libro sarà distribuito nelle librerie della Toscana e nelle edicole fiorentine, nonché acquistabile anche online al seguente link http://www.abedizioni.it/catalogo-pubblicazioni-libri-firenze/libri/ come-una-malattia
Finnegans wake e Poesie e città al chiostro delle geometrie Mercoledì 13 settembre alle 21,15 al Chiostro delle geometrie, nel complesso di Santa Verdiana in Piazza Ghiberti, verrà presentato, da Maurizio Donadoni, Finnegans Wake di James Joyce. Finnegans Wake è un monumento, fatto di letteratura che va oltre la letteratura poiché come e più di tutti i grandi libri è un mondo, o meglio, un “parolmondo”.Un universo verbale e extraverbale che offre alle voci infinite maschere e occasioni di giocare “sul serio” e rendere possibile l’impossibile , riconoscibile l’irriconoscibile, dicibile l’indicibile.Dal primo capitolo Maurizio Donadoni ha scelto brani in cui l’autore espone i temi principali del libro, presenta alcuni personaggi chiave della vicenda: il muratore Tim Finnegan che, ubriaco, cade da un muro in costruzione, muore,e resuscita, durante la veglia funebre non appena benedetto con alcune gocce di wisky; il gigante Finn mac Cool il cui corpo addormentato costituisce il profilo della città di Dublino; un indigeno irlandese che
dialoga come può con un invasore sassone; H.C.E , taverniere di Chapelizod, eroe non eroe dell’opera, accusato di molestie sessuali nel Phoenix Park ai danni di due cameriere ( e forse anche di un fuciliere gallese.). Entrano a far parte del complesso puzzle , topoi della tradizione musicale irlandese “ Humpty Dumpty”, elaborata dallo stesso Joyce in perfetto stile “Finneganese”. “There’s a lot of fun at Finnegan’s Wake.”...Il recital sarà preceduto nei giorni 7 – 8 – 11 – 12 settembre da un workshop sul lavoro dell’attore. Venerdì 15 settembre alle ore 21,15, Poesie e Città, reading/incontro, in cui Fulvio Cauteruccio leggerà i versi di Francesco Capaldo e ci condurrà in un percorso di sublimi visioni alla riscoperta, tra architettura e poesia ,di un mondo ancestrale, concreto ed allo stesso tempo mitico. La città nei versi di Capaldo diventa ‘madre’, spazio dell’anima, luogo di incontro tra il reale e l’ideale, materia di imagerie poetica.
27 9 SETTEMBRE 2017
nostante i morsi, ci riesce e infatti la bambina rigurgita altro cibo e poi, finalmente, inizia a respirare. Se reagisce vuole dire che vuole vivere. Cominciamo a capire che forse possiamo salvarla. La giriamo su un fianco, Mara gli toglie il costume bagnato e freddo e la copre con il suo asciugamano. Nel frattempo arrivano i soccorsi e con loro anche pompieri e carabinieri, ma il più ormai è fatto. Arrivano di corsa anche i genitori quando la bambina è già affidata alle cure dei medici, sbarcati anche dall’elisoccorso. Si stringono alla loro figlia che ormai respira e apre gli occhi come per rispondere al loro richiamo, per fargli capire che è viva e che il peggio è passato. Dopo le prime cure viene trasportata con l’elicottero in ospedale a Verona. La prognosi parla di edema polmonare e coma farmacologico. Ma i medici la dichiarano fuori pericolo. Questa volta il dramma è scongiurato. La vicenda mi rimane dentro per alcuni giorni. di Remo fattorini Sabato 5 agosto – Era nuvoloso quella mattina, ma noi (io e Mara) avevamo deciso di passare l’intera giornata al biolago. Dovevamo smaltire le fatiche ciclistiche del giorno precedente, quando da Dimaro siamo saliti su, lungo la ciclabile, fino a Cogolo e oltre, pedalando per circa 40 km. La giornata era iniziata bene. Alle 10 e mezza eravamo già lì, insolitamente mattinieri e attrezzati di tutto punto per trascorrervi l’intera giornata. Non solo, quella mattina al biolago eravamo stranamente in pochi, circa una decina di persone. Ambiente ideale per recuperare energie. Poco dopo le 13 le urla di una bambina rompono il silenzio. Le voci di ripetono con toni allarmati tanto da richiamare l’attenzione di tutti: “Aiuto aiuto la mia amica non torna su”. Urlava e sbatteva le mani sull’acqua per indicare il luogo della scomparsa. Ci servono un po’ di secondi per superare lo smarrimento e capire cosa stia davvero accadendo, poi quel messaggio disperato arriva forte e chiaro: c’è una bambina in fondo al lago e sta affogando. La bagnina, che era lì al suo posto nello sdraio a bordo piscina, si alza, si toglie i pantaloncini e si tuffa, con due bracciate raggiunge il luogo indicato e si immerge, dopo pochi secondi risale scuotendo la testa, prende di nuovo aria e si rimmerge, questa volta la vede, l’afferra per un braccio e la trascina fino al bordo piscina che è proprio lì vicino. Istintivamente anch’io mi ritrovo lì e l’aiuto a
28 9 SETTEMBRE 2017
Una giornata di Anna particolare e Virginia
sollevarla e stenderla sul pavimento. Il corpicino è freddo, rigido, immobile, labbra e occhi viola scuro. Non respira e il battito cardiaco non si sente. Attimi che sembrano lunghissimi. La bagnina, una ragazza giovane ma esperta, trova la forza per urlare: “Qualcuno chiami un’ambulanza” e inizia a praticargli la respirazione bocca a bocca, cercando di spingere più aria possibile nei polmoni della bambina. Anch’io, essendo lì accanto, inizio il massaggio cardiaco, premendo le mani sul petto della bambina, così come ho visto fare in qualche video sulla sicurezza. Ma sul volto della bambina non si vedono reazioni. Si continua senza sosta, in attesa dell’arrivo dei soccorsi. Più trascorrono i secondi più cresce l’accanimento. La pressione delle mani sul petto si fa sempre più forte, come se volessi svegliarla da un sonno profondo. Finalmente la bambina inizia a rigurgitare acqua: è il primo segnale di vita. Poi dalla bocca escono pezzetti di cibo che però si richiude subito a tenaglia. La bagnina preoccupata urla: “Qualcuno cerchi di riaprire e tenere aperta la bocca, altrimenti soffoca”. Subito un signore, che credo fosse il padre dell’amica che ha dato l’allarme, ci prova e, no-
Porto con me i segni di quegli attimi di paura, di quella reazione istintiva, della drammaticità che segna il sottile confine, quasi impercettibile, tra la vita e la morte. Un confine che ognuno di noi si porta costantemente addosso. È difficile trovare le parole per descrivere le emozioni vissute in quei momenti, davanti al dramma di una ragazzina che ha rischiato di lasciare questo mondo senza aver avuto il tempo per poterlo conoscere. Invece grazie alla prontezza della bagnina e all’aiuto di altre persone la bambina è riuscita a tornare indietro nel tempo, nel suo tempo, nella sua vita, in quel mondo dove viveva prima di tuffarti in quella piscina. Questa è la storia di Anna, una bella ragazzina di appena 12 anni che si è sentita male durante un tuffo in piscina e che oggi è tornata a casa, dai suoi genitori, alla sua vita normale. Ma è anche la storia di Virginia, la giovane e coraggiosa bagnina che si è tuffata, ha ripescato Anna, salvandogli la vita. È stata la sua prima esperienza: un fatto ordinario per chi fa il bagnino, ma decisivo per le sorti della ragazzina. Certo, non passerà alla storia, ma non sarà neppure dimenticata, almeno da tutti coloro che l’hanno conosciuta. Brava Virginia!