Numero
16 settembre 2017
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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)
“Nessuno ti ha mai insegnato a non accettare passaggi dagli sconosciuti?� Lucetta Scaraffia, giornalista
Te la sei cercata! Maschietto Editore
Max’s Kansas City NY City, 1969
La prima
immagine È stato un night club e ristorante al 213 di Park Avenue South, tra la 17a e la 18a strada a New York, punto di incontro storico per musicisti, artisti e politici tra gli anni sessanta e settanta, proprio nel periodo in cui io mi trovavo a Manhattan. Queste sono le informazioni tratte da Wikipedia che sono molto precise ed ho deciso di riproporle pari pari senza alcuna modifica.
Aperto da Mickey Ruskin (1933-1983) nel dicembre1965, è stato un ritrovo per artisti e scultori della New York School, come lo scultore John Chamberlain, Robert Raushemberg e Larry Rivers, le cui presenze vi attrassero celebrità ed il Jet set, nonché pubblicità da parte dell’entourage di Andy Warhol. I “Velvet Underground” vi suonarono gli ultimi concerti con Lou Reed nell’estate del 1970. Fu la base per la seppur breve scena “glitter rock” che incluse artisti come Davis Bowie, Iggy Pop e lo stesso Lou Reed, E’ stato il locale in cui hanno iniziato la loro carriera molte formazioni. Bruce Springsteen vi ha suonato un set acustico nell’estate 1972. Sia gli Aerosmith che Bruce Springsteen con la “E Street Band” hanno debuttato a New York City al Max’s. I “The Wailers” hanno aperto per Springsteen all’inizio della carriera di Bob Marley nel circuito internazionale del 1973. La popolarità del Max’s Kansas City è declinata dopo l’evoluzione della pop art nel punk rock, così che lo storico locale chiuse nel dicembre 1974.
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Numero
16 settembre 2017
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Riunione di famiglia Don Nardella Le Sorelle Marx
Ogni limite ha una pazienza Lo Zio di Trotzky
Fedeli allo smartphone I Cugini Engels
In questo numero Cronaca di una festa in carcere e relativi dintorni di necessità di Gianni Biagi
Copricorpo di Claudio Cosma
xxx di Laura Monaldi
La Principessa e l’Aquila di Cristina Pucci
Palestina libera di Alessandro Michelucci
Cantine De’ Ricci, già Cantine del Redi di Valentino Moradei Gabbrielli
L’occasione sprecata della legge Fiano di Michele Morrocchi
Gli strati della vita di Mariangela Arnavas
La cappella Capponi: oltre Pontormo di M. Cristina François
I Richiami della terra di Gabriella Fiori
Spalare la neve o danzare? di Elisa Zuri
La riforma del Terzo Settore di Roberto Giacinti
La scuola francese di Danilo Cecchi
Via Lattea di Ruggero Stanga
Koenig, profeta dei centri storici a numero chiuso di Francesco Gurrieri
Quelle tristesse, a Parigi chiude la Maison Rouge di Simonetta Zanuccoli
e Remo Fattorini, Andrea Caneschi... Direttore Simone Siliani
Illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Progetto Grafico Emiliano Bacci
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di Massimo Lensi Il carcere è un mondo a sé; ogni plesso penitenziario ha proprie storie, diversità e tradizioni. Comunità in miniatura al cui interno si trovano chiese, teatri, aule scolastiche, mense, palestre, presidi sanitari e strutture sportive: le relazioni umane s’intrecciano forzatamente di continuo. La rappresentazione della vita reale in ambiente penitenziario è sempre stata oggetto di studio attento. Gli stessi regolamenti penitenziari si prefiggono di porre la centralità nei cosiddetti percorsi rieducativi e di risocializzazione. Non sempre ci riescono, ma l’esecuzione di pena in Italia ha carattere rieducativo e non retributivo e quindi tutto in un carcere è finalizzato a vivere l’estraneità dalla vita reale come surrogato della stessa: attraverso una richiesta alla direzione si fa la spesa - a prezzi superiori della media di consumo -, a volte si mangia insieme e si organizzano feste. Si crea una comunità, dalla quale l’affettività è bandita, e si vive a contatto gli uni con gli altri costruendo, insieme agli educatori, ai volontari e agli agenti della polizia penitenziaria, il Pianeta Carcere. Nei luoghi di reclusione però non funziona niente e il niente si trasforma in esperienza. Dall’esecuzione di pena si esce raramente rieducati o risocializzati. Quando varca il cancello del fine-pena, spesso un detenuto porta con sé solo l’esperienza del niente: raramente la sua professionalità è arricchita, il più delle volte è la scuola del crimine ad aver avuto la meglio. La parola chiave che dovrebbe illuminare la realtà penitenziaria italiana è una sola: dignità. Sulla falsariga dei dintorni di necessità di quest’umanità dolente, l’8 settembre sono andato al Gozzini, il secondo istituto penitenziario fiorentino, da tutti conosciuto come “Solliccianino” per la vicinanza con l’ingombrante e mastodontico carcere di Sollicciano. L’occasione era la festa della Rificolona organizzata dalla direzione dell’istituto. Il Gozzini è un istituto a “custodia attenuata”, dove la vita dei detenuti è più leggera e i programmi di rieducazione funzionano. La direttrice, Margherita Michelini, è donna sensibile e appassionata e al suo carcere, definito un modello, ci tiene. Sono andato alla festa con Rita Bernardini e Paolo Hendel, due compagni del Partito Radicale. Rita da tanti anni lotta per il rispetto della legalità costituzionale nel siste-
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Cronaca di una festa in carcere
e relativi dintorni di necessità ma dell’esecuzione di pena e l’ultima battaglia che con lei stiamo affrontando è quella per un nuovo ordinamento penitenziario. Dal 16 agosto scorso siamo in Satyagraha, parola sanscrita dai molteplici significati, che per noi radicali è sinonimo di ricerca della verità. Con noi, circa ottomila detenuti sono in lotta nonviolenta per chiedere alle istituzioni di varare il nuovo ordinamento penitenziario entro la fine della legislatura; quello in vigore è del 1975, quasi mai rispettato e inadeguato a garantire l’effettività della rieducazione attraverso la pena. Non mi soffermo volutamente sulla bizzarria linguistica che, quando si parla di carcere, viene a galla. Il concetto di “rie-
ducare attraverso la pena” forse il lettore lo capirebbe meglio se riferito a un club privé, invece che a un carcere. Con Paolo Hendel eravamo da poco stati in visita ispettiva nel carcere di Sollicciano, quando le temperature agostane avevano trasformato Firenze in una fornace. Insieme al cappellano, Don Vincenzo Russo, lottavamo perché le istituzioni cittadine e regionali si adoperassero per alleviare ai detenuti la tortura di quel caldo torrido, aggiunto come un supplizio al carico della pena. Chiedevamo solo un po’ di ventilatori e la Regione Toscana alla fine ci ha ascoltati: una piccola vittoria del buon senso. Per la Rificolona, Hendel ha recitato per i de-
tenuti del Gozzini. Insieme a lui abbiamo incontrato molte persone, i detenuti ovviamente, che ci hanno accolto con la consueta ironia di chi il carcere lo vive sulla propria pelle; il garante regionale Franco Corleone, i volontari, gli agenti, e quella parte della città che sul carcere ha occhi aperti, come Don Vincenzo Russo, il consigliere comunale Tommaso Grassi e l’avvocato Eriberto Rosso della Camera Penale di Firenze. Con loro, e con le compagne e i compagni dell’associazione radicale “Andrea Tamburi”, che da anni si occupa di politiche carcerarie a Firenze, abbiamo imbastito all’ultimo secondo una “diretta” per Radio Radicale, un piccolo spettacolo nello spettacolo. Ed è
così che mi sono ritrovato sul palco a fare il Pippo Baudo della situazione e presentare il breve e apprezzato recital di Paolo Hendel. Per fortuna, alla conclusione della diretta, i detenuti hanno ripreso in mano la serata con i loro interventi e performance e tutto è tornato nella normalità carceraria. La festa si è terminata con il lancio delle Rificolone di carta in cielo. Un segnale che, anche dentro la galera, come Adriano Sofri preferisce definire il penitenziario, la vita prosegue. Il lavoro da fare per collegare il carcere alla città è però ancora molto lungo e difficile. Perché, cari lettori, la galera, nelle sue infinite relazioni tra chi sbaglia e deve pagare e chi è chiamato ad aiutare i percor-
si di rieducazione, questo dovrebbe essere: un’esperienza di crescita e non l’amara esperienza del nulla che è oggi. Rilancio quindi, anche da queste pagine, la richiesta che già nel torrido mese di agosto avevo posto al sindaco di Firenze, Dario Nardella per tornare a percepire in maniera diversa ciò che è vivo e reale in città. Al pari di un ospedale o di un plesso scolastico, il carcere dovrebbe essere inserito a pieno titolo nel tessuto urbano e sociale di un territorio, divenendo la cartina al tornasole per accertare la coesione territoriale tra le istituzioni deputate all’amministrazione della cosa pubblica nei suoi molteplici aspetti. Solo così si potranno svolgere in piena sicurezza i percorsi rieducativi e di reinserimento sociale previsti dalla nostra Costituzione. Solo così il carcere smetterà di essere scuola del crimine e discarica sociale, diventando esperienza di crescita per tutti.
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Le Sorelle Marx
Don Nardella
La vena mistica del sindaco Nardella è sempre stata un elemento importante del primo cittadino che non ha mai nascosto la sua fede e la sua vicinanza a Comunione e Liberazione. Vien quasi da pensare che la vocazione politica abbia soppiantato un’altra vocazione che ogni tanto spinge per uscire fuori. Don Dario e Mr Nardella. Questo spiegherebbe le prime dichiarazioni dopo la brutta vicenda delle due ragazze americane e dei due carabinieri: a parlare era Don Dario, il parroco e non il sindaco. Don Dario ha quindi fatto un sermone da curato di campagna in cui parla di insegnare, con l’aiuto delle università, agli studenti stranieri il giusto divertimento. Senza sballo. Se qualcuno vicino al
I Cugini Engels
Fedeli allo smartphone
La signora in rosso della scuola italiana, al secolo Fedeli Valeria, ne ha sparate un’altra delle sue: gli studenti in classe con lo smartphone! E perché mai, signora? Beh, lei è gggiovane e li frequenta i gggiovani e sa di cosa hanno bisogno: “Li vedo e li frequento, i ragazzi. E so che non si può continuare a separare il loro mondo, quello fuori, dal mondo della scuola”. Ma è anche saggia, la vecchia Vale: mica darebbe in mano a un tredicenne uno smartphone qualsiasi, eh no davvero: “Quello che autorizzeremo non sarà un telefono con cui gli studenti si faranno i fatti loro, sarà un nuovo strumento didattico”. Chissà come sarebbe questo strumento didattico-smartphone speciale? Ovviamente la Fedeli non ne ha la benché minima idea e allora, facendo ricorso alle sue radici sindacalesi, che cosa t’inventa? Ma una bella commissione ministeriale “per costruire le linee guida dell’utilizzo dello smartphone in aula. Entro breve tempo avrò le risposte
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Sindaco non si fosse accorto in tempo della possessione di Don Dario, questi avrebbe probabilmente proseguito consigliando canti religiosi nel pratone delle Cascine alle giovani americane. Quello però che molti dei commentatori e degli epigoni del sindaco non hanno capito è che il discorso di Don Dario non era solo detto nel momento sbagliato ma era proprio sbagliato per un sindaco: chiedere rispetto delle regole agli studenti americani nel momento in cui chi, quelle regole è tenuto a farle rispettare, è accusato di un crimine così terribile. Ci mancava solo che Don Dario finisse il suo sermone con la minaccia: “ e se non rispettate le regole attente che vi mando i Carabinieri”.
e le passerò con una circolare agli istituti”. Va beh, se ne riparla fra qualche anno. Ma siccome la Valeria gli adolescenti li frequenta e li conosce, ha preso atto che - secondo l’Ocse - il 70 per cento affronterà l’anno scolastico con ansia (per forza, frequentando la signora...). Ma lei mica se ne sta ferma con le mani in mano; eh no davvero: ha creato così un bel gruppo di lavoro interno e ad ottobre ha organizzato un bel convegno internazionale. Che ansia! Troppo buona? Neanche per idea! Pensate che “in Consiglio dei ministri volevano che mettessi per iscritto “vietato bocciare”, vietato per legge”. Ma lei mica ha mollato: “ho tenuto, sono rigorosa, voglio studenti preparati.” E, siccome si studia poco il Novecento, lei si impegna a far riemergere autori come Grazia Deledda e Giorgio Caproni, mica scherzi! E poi ha in programma di vivificare lo studio dell’italiano, magari con il telefono intelligente (non con lo smartphone!).
Lo Zio di Trotzky
Ogni limite ha una pazienza “Ogni limite ha una pazienza”, si sarà detto l’imam di Firenze, Izzedin Elzir, citando l’imprescindibile Totò, sulla questione della costruzione della moschea. “Facciamo da soli”: ci compriamo un immobile e poi affrontiamo la questione dei permessi amministrativi. “Oibò, o perché mai?” ha sussultato l’assessore all’urbanistica Giovanni Bettarini. “Ci si divertiva così tanto a quel tavolo fra Comune e Comunità islamica a far spuntare ipotesi di localizzazione e poi ad affondarle tutte, una ad una!” Era un giochino così ganzo.. L’ultima volta ci aveva giocato anche Renzi, affondando la caserma Gonzaga. Mah... non capisco”. Si sa che Izzedin è uomo di grande fede e grande pazienza, mediatore nella comunità e fra questa e il Comune, ma forse anche per questo mite uomo del dialogo il troppo, ad un certo punto, stroppia. Gli saranno passati davanti agli occhi gli snervanti incontri e soprattutto le promesse, le pacche sulle spalle, le roboanti dichiarazioni dei vari amministratori succedutisi a Palazzo Vecchio e alla fine è scoppiato. Magari si sarà soffermato sulle dichiarazioni dell’assessore allo sviluppo e sport quando, nel settembre 2010, Izzedin presentò il progetto della moschea, ipotizzando tre possibili aree dove realizzarlo (Castello, Firenze Sud e viale Nenni) lasciando al Comune la scelta: “La comunità islamica ha un atteggiamento corretto. Siamo pronti a un confronto sul progetto” Si chiamava Dario Nardella e questa continuità di disponibilità al confronto a 7 anni di distanza deve aver fatto saltare la mosca al naso al buon Elzir. Oppure avrà ricordato quest’altra dichiarazione: ““É giusto che a Firenze la moschea venga fatta, un luogo in cui si prega non può far paura. Se la comunità musulmana ha un progetto, un’area, un investimento, noi siamo disponibili a ragionare”. Marzo 2011, Renzi dixit, e sta ancora lì a ragionarci.
Nel migliore dei Lidi possibili
Avanzi di Avanti
disegno di Lido Contemori didascalia di Aldo Frangioni
Pisa, Festival della robotica, il robot è quello col camice bianco
Segnali di fumo di Remo Fattorini Livorno in ginocchio. Deve essere proprio così se anche i pisani, i più acerrimi rivali, si sono rimboccati le maniche e sono finiti a spalare fango nelle strade della città labronica. È risaputo che riusciamo a dare il meglio di noi proprio nelle situazioni di emergenza. Peccato che nella quotidianità vengono a galla tutti vizi italici. E le tragedie come quelle di Livorno ce lo ricordano, impietosamente. Basti vedere le sconfortanti polemiche esplose solo poche ore dopo quest’ultima alluvione. A partire da quella sul colore delle allerte: arancione o rosso? Ma cosa sarebbe davvero cambiato? Poco o nulla, soprattutto per quella
Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi. “ Nei giorni della trasformazione della casa di Pontassieve in ufficio operativo, Ester si mette di vedetta. “Babbo hanno suonato. Mi sembra di riconoscerlo. Mi sa che quello è Orfini, il presidente del PD” “Si, lo stavo aspettando, grazie Ester, puoi aprire tu? [...]” “Un momento babbo. Ma siamo sicuri che Orfini abbia votato sì al referendum? Altrimenti non gli apro.”
famiglia di via Nazario Sauro, sepolta nel fango. Per finire con quella tra vescovo e sindaco. “Vediamo di fare ciò che si deve fare – dice il vescovo ai funerali delle vittime - perché quello che è accaduto non si ripeta”. Replica stizzito il sindaco: “Il vescovo faccia il vescovo e si occupi delle anime”. Già, basti ricordare che anche nel febbraio 2009 mezza città finì sott’acqua, provocando danni e sofferenze. Domanda: cosa è stato fatto in questi otto anni per evitare il bis? Fatto sta che le cause di quest’ultimo evento sono esattamente le stesse delle passate alluvioni, come scrive Mario Tozzi su La Stampa: “Un’allerta meteo non compresa o sottovalutata; una perturbazione che evolve in maniera non del tutto prevista; un territorio sempre più impreparato; cittadini che attuano comportamenti contro-intuitivi e amministratori spesso colpevoli”. È così che eventi ormai ordinari come le bombe d’acqua diventano, per colpa nostra, catastrofici. Novità che dovrebbero imporre a tutti un cambio di marcia. Invece non abbiamo ancora imparato a convivere con il rischio, né a prendere sul serio le allerte. Eppure sappiamo che più di 7 milioni di italiani
vivono in zone a rischio alluvioni e frane; che dal 2010 al 2016 si sono verificati 242 eventi meteo-catastrofici, causando la morte di 145 persone. Oltre ai danni: 8 miliardi solo nelle ultime 56 tragedie. La verità è che le zone a rischio le abbiamo create noi: dai proprietari che hanno costruito nei posti sbagliati, ai progettisti reticenti, fino agli amministratori compiacenti. A dire la verità qualcuno ci aveva provato a cambiare marcia. Nel 2007 ci aveva provato il governo Prodi con precisi impegni per mappare le aree a rischio, per ridefinire i criteri di sicurezza infrastrutturale, per sviluppare una nuova economia della sicurezza, creando così anche nuovi posti di lavoro. Ma i governi successivi hanno accantonato quella priorità. Ci aveva provato anche Enrico Rossi, presidente della Toscana. Stanco di correre dietro alle frequenti emergenze aveva proposto all’allora premier Monti di finanziare un piano decennale: 50 milioni all’anno dallo Stato e 50 dalla Regione per mettere in sicurezza la Toscana. La risposta fu: “Abbiamo altre priorità, a partire dal risanamento finanziario”.
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Non c’è
tempo
per il
di Laura Monaldi «Scrivere è dipingere con le parole e con i suoni delle parole». L’attività letteraria di Kiki Franceschi è un dialogo continuo e in movimento fra le diverse anime dell’arte e dei linguaggi estetici. Nelle sue opere teatrali vivono i nodi nevralgici della storia culturale e politica dell’uomo contemporaneo, ove il tempo soggettivo in cui i personaggi affrontano il proprio contesto storico, è il filo conduttore di una narrazione volta a rivelare ed esprimere le ipocrisie e le contraddizioni di quella memoria collettiva che l’autrice indaga e mette in scena attraverso una rappresentazione mimetica simile alla pittura, poiché il teatro altro non è che «una tela bianca dove ogni voce dà colore e traccia, come un pennello». Allo stesso modo anche i testi poetici di Kiki Franceschi analizzano il reale procedendo, con una continua tensione conoscitiva, verso l’assoluto: tra esistenzialismo e storicità la parola poetica dell’intellettuale sonda le angosce contemporanee con un rinnovato romanticismo e con una precisa forza espressiva capace di mettere in comunicazione il passato con il presente, la propria biografia con la storia culturale di un “noi” che da sempre esiste e sempre esisterà. Nell’humus culturale dal quale Kiki Franceschi fa emergere nuovi panorami e nuovi nuclei concettuali, la parola diviene uno strumento mediante il quale muoversi fra la sinestesia e la simultaneità dei linguaggi artistici, in nome della meraviglia e di un ritmo poetico che collega il segno al significato, superando le barriere esistenti fra il silenzio epifanico e il suono poetico. «Non sono un poeta, non sono uno scrittore, sono un pittore che scrive»: il connubio estetico della carriera di un’intellettuale tout court come quella di Kiki Franceschi è leggibile nella sua ultima raccolta di poesie dal titolo Non c’è tempo per il tempo edito da Polistampa nel 2016, nel quale emerge con forza la volontà artistica di confrontare il proprio sé con una realtà stori-
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co-sociale dominata dall’alienazione e da una complessità tale da annientare anche l’immaginazione. All’interno delle immagini tratte dal proprio vissuto e dal panorama marittimo del litorale livornese, tanto caro all’autrice, si staglia un pessimismo attivo che sonda ed esplora il tempo come un fatto esistenziale, concreto e universale. Il libro si chiude con interessante “Saggio sulla malinconia” la quale, procedendo di pari passo con la paura e nutrendosi delle incertezze quotidiane, si qualifica giorno dopo giorno come un essere democratico, in quanto sgomento di fronte a
un mondo che regredisce inesorabilmente. In questo panorama pessimistico, alienante e quasi apocalittico, la sensibilità artistica si fa portavoce di una coscienza che deve sapersi reinventare e rinnovare, poiché «sono fuori dal tempo i fatti umani».
tempo
Musica
Maestro
Palestina libera
di Alessandro Michelucci La musica contemporanea si è misurata spesso con l’impegno politico e sociale. Pensiamo a Luigi Nono (Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz, 1966), a Frederic Rzewski (The People United Will Never Be Defeated!, 1975), oppure a Cornelius Cardew, militante comunista di provata fede. Ma anche oggi esistono musicisti schierati. Uno di questi è John King, che ha pubblicato recentemente il CD Free Palestine (New World Records, 2017). Come si intuisce dal titolo, il disco è un omaggio alla causa palestinese, che si trascina da settant’anni senza prospettive di soluzione. John King, nato a Minneapolis (Stati Uniti) nel 1953, comincia a interessarsi di politica negli anni Settanta, quando la guerra del Vietnam mobilita gran parte della gioventù statunitense. In questi anni inizia a scrivere brevi composizioni orchestrali e cameristiche. Quindi è la volta della lotta contro l’apartheid sudafricano, anche questa frammista alla musica. Nutrito dalla lettura di autori come Hannah Arendt e Edward Said, King abbraccia infine la causa palestinese. Questa scelta coerente e sincera incide profondamente sulla sua musica, come documenta il disco in questione. L’artista scopre la musica araba soltanto nel 2011, mentre si trova a Gerusalemme per una tournée. I suoni che sente in un caffè lo colpiscono profondamente. Due anni dopo decide di imparare a suonare l’oud (cordofono simile al liuto) da autodidatta. I quindici pezzi, scritti fra il 2013 e il 2014, formano una composizione unitaria per quartetto d’archi. Ciascun brano ha come sottotitolo il nome di una località palestinese: da Nuris e Sabbarin, spopolate in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948, a quelle più note come Gaza e Al-Quds (Gerusalemme in arabo). L’esecuzione è affidata a un quartetto di archi newyorkese, The Secret Quartet, composto da musicisti attivi anche in altre formazioni della metropoli (Either/ Or, ETHEL, Ljova and the Kontraband, etc.). Elegante e intenso “Huzam – Kan Yunis”, il
solo pezzo dove il compositore suona l’oud. La lunga “Athar Kurd-Deir Yassin”, che ricorda vagamente certi quartetti di Bartók, si basa su una melodia lenta che fonde i toni viscerali della musica araba con la ricchezza armonica della classica europea. Le note di Steve Smith, attente e dettagliate, offrono un complemento prezioso. Il fatto che King simpatizzi per la causa palestinese, comunque, non deve trarre in inganno: siamo davanti a un vero compositore, non ad un agit-prop che mette in musica i propri proclami. Il musicista parte da certi moduli melodici e ritmici arabi e li innesta nel proprio bagaglio culturale. A conferma di quanto si è detto sopra, la sua attività non è sempre ispirata dall’impegno
politico. Alcune delle sue opere mettono in evidenza un forte interesse per la poesia: Dice Thrown, basata su Un coup de dés di Mallarmé; SapphOpera, con testi della celebre poetessa greca; herzstück/heartpiece, basata sul testo omonimo di Heiner Müller, uno dei massimi drammaturghi della Repubblica Democratica Tedesca. In altri casi compone pezzi per il suo strumento, la chitarra (Overtones for the Underdog, 2014) e compone per il teatro.
SCavez zacollo disegno di Massimo Cavezzali
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di Ada De Pirro Nelle teche della Biblioteca Classense di Ravenna, classificati secondo precise definizioni, troviamo intrappolati i libri ri-creati da Paolo Albani. Il primo paradosso è servito: i libri non sono riposti con cura sopra uno scaffale pronti per essere presi in mano e letti, ma chiusi inesorabilmente sotto il vetro e quasi sempre a loro volta protetti da neutri contenitori di plexiglas. Come la pipa di Magritte che non si può fumare, è impossibile toccarli e tanto meno sfogliarli. All’apparenza libri, sono in realtà oggetti che si offrono allo sguardo curioso di chi cerca di cogliere il senso della loro strana presenza nel luogo dove si conserva tanta preziosa memoria fruibile da tutti. Quando poi veniamo a sapere che l’autore è uno scrittore, si presenta un secondo paradosso. Se è vero che gli scrittori sono anche grandi lettori con il culto dei libri (come Albani), com’è possibile che abbia realizzato libri illeggibili? Pensando alla serie creata da Munari nel 1949, quei libri almeno avevano pagine da sfogliare e da vedere, al posto delle parole segni astratti o semplici piegature di fogli colorati. Ma quelli esposti in questa mostra si negano al contatto. A parte pochi casi, sono da interpretare nonostante la loro illeggibilità o forse proprio grazie a questa. Dobbiamo quindi spostare la nostra attenzione su altro. Come si fa normalmente con la categoria dei libri-oggetto c’è da considerare i materiali, le dimensioni e le allusioni sottese. In generale, per questa particolare accezione di libro d’artista, il contenuto coincide con il suo aspetto esteriore, ma nel caso di Albani dobbiamo andare oltre e considerare il particolare senso ludico che lo accompagna. Che spesso gli scrittori possano essere dei ‘giocatori’, questo lo sappiamo anche grazie al racconto che Stefano Bartezzaghi ne ha fatto tempo fa. Da Dante a Primo Levi, da Proust a Nabokov, a leggere attentamente tra le righe dei loro testi sono molti gli esempi di scritture che presentano più livelli di lettura e che in maniera più o meno criptica orchestrano strutture linguistiche o di senso che ci portano in luoghi diversi dal testo che abbiamo sotto gli occhi. Ma lo scrittore Albani - che di mestiere si occupa di letteratura potenziale, bizzarra e curiosa - elimina in queste sue opere la scrittura del testo e racchiude in un oggetto manipolato o immaginato (il libro) per portarci altrove, sorprendendoci a svolazzare con una serie di associazioni che ci raccontano un mondo basato sullo slittamento di senso che si accende quando mettiamo insieme il titolo e l’opera presentata. Il libro è un oggetto che a partire dall’inizio del Novecento ha attratto gli artisti che ne hanno manipolato la forma e la
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Istruzioni per la lettura di oggetti chiamati libri
sostanza coniugandolo in modi diversi e a volte estremi. Tutta la congerie di forme date al libro è materia di studio per gli storici dell’arte. Anche se con confini piuttosto scivolosi sappiamo distinguere i libri d’artista dai libri-oggetto e dai libri-scultura, e conosciamo la grande varietà di pubblicazioni esoeditoriali nate negli anni sessanta e settanta. Ma la storia continua e il libro viene usato dagli artisti anche per installazioni di varia natura, continuando in maniera più concettuale la manipolazione di questo oggetto venerato. I libri creati da Albani si pongono nella zona di margine tra le operazioni legate alla pratica della Poesia visiva (che lo vede protagonista già dagli anni ottanta), e quelle di matrice linguistica e figurativa propria dell’Opificio di Letteratura Potenziale (di cui fa parte dagli anni novanta) il tutto arricchito da un atteggiamento più ludico-concettuale. Tutto ciò lo porta a trattare l’oggetto-feticcio del libro in maniera apparentemente irriverente ma che rivela in realtà una grande capacità di provocare in chi osserva le sue opere, lampi di
associazioni impreviste che aprono su mondi di senso che un po’ divertono e un po’ stupiscono. Basta lasciarsi trasportare in un territorio dove attraverso l’assurdo e il non sensico si possa avere una prospettiva di lettura diversa dei nostri atteggiamenti mentali. Per uno scrittore che si occupa di bizzarrie letterarie e che ha scritto un saggio sui mattoidi italiani studiando anche il Fondo Amadei della Biblioteca Classense (I mattoidi italiani, Quodlibet 2012), a cui è dedicata un’intera bacheca con un libro-oggetto che cita uno degli autori più geniali, è naturale lavorare sulla manipolazione della realtà. Albani, adottando una tecnica che richiama l’automatismo psichico surrealista, lavora su associazioni di pensiero innescate da stimoli spesso casuali ma a volte cercati tra le pieghe delle nostre abitudini e dei luoghi comuni con i quali conviviamo inconsapevolmente. Come naturale è per lui lavorare su patti finzionali come la descrizione di libri introvabili perché inesistenti trattati in una delle sue pubblicazioni più interessanti, scritta con Paolo della Bella, Mirabiblia, catalogo ragionato di libri introvabili (Zanichelli 2003). Da scrittore potenziale dedica un omaggio al grande scrittore francese Georges Perec, giocando con intelligenza tra il titolo di una delle sue opere più famose (La vita, istruzioni per l’uso) e la potenzialità della frammentazione e ricomposizione della parola tempo. Il lavoro vira spesso verso l’assurdo come con l’invenzione di ‘libri che non si vedono’. Libri assenti come in famose opere di Gino De Dominicis dove l’evocazione di corpi umani è data dalla sola presenza di oggetti collocati alla giusta distanza che ci fanno intuire una presenza. E infine da grande esperto di lingue inventate (con Berlinghiero Buonarroti Aga Magera Difura, dizionario delle lingue immaginarie, Zanichelli 2011 [1994]), crea codici linguistici inesistenti e buffi. Attraverso una miriade di citazioni e autocitazioni, omaggi ad artisti e scrittori, allusioni colte o banalmente quotidiane questi libri ci aprono, con una semplicità spiazzante, su spazi mentali inediti e sorprendenti. Nell’osservarli tutto ci appartiene e tutto ci sfugge. Solo cogliendo i lampi di arguzia che illuminano e divertono possiamo veramente aderire all’invito dell’artista-scrittore: far uscire virtualmente i libri dalle loro teche e farli volare via con leggerezza.
di Susanna Cressati LA SCOPERTA. Quando capita di imbattersi in una storia inaspettata, o in una “torsione” del significato delle proprie esperienze e categorie mentali, è sempre una buona giornata. Mi è capitato andando al Gabinetto Vieusseux per seguire la Conferenza di calligrafia Cina Italia “Incontro di pennelli”, organizzata da Calligraphy reported, una rivista specializzata attiva dal 1983, e da Feimo Contemporary Calligraphy, l’associazione e scuola animata dai maestri Paola Billi e Nicola Peccioli. Nel tragitto da casa alla Sala Ferri sono riandata con la memoria al libro di calligrafia e caratteri che da bambina avevo scovato nella soffitta del laboratorio di casa, un album sfascicolato e già allora antico, che a me parve pieno di meraviglie grafiche che mi industriai, con scarso successo, a copiare; lo sforzo (benefico) che mi costò alle elementari imparare a scrivere in corsivo con pennino e inchiostro; la “bella calligrafia” di mia madre e delle sue sorelle, che tenevano i conti dell’Esattoria comunale sui registri di allora, con le lettere inclinate ben scandite dai tratti pieni e da quelli sottili, i numeri ferreamente incolonnati come soldatini. Bene, tutto questo con la calligrafia cinese non c’entra nulla. O poco. Con questa disciplina si entra infatti non tanto, come credevo, nel regno della miglior tecnica della scrittura o della grafica ma in quello di un’arte completa, antica e complessa, che si
La danza dei pennelli esprime non con la forza del colore o delle note ma per tratti lineari. Picasso avrebbe detto: “Se fossi nato in Cina sarei stato un calligrafo non un pittore”. Nella storia gli esordi pittografici più remoti (segni su gusci di tartaruga o su scapole animali, siamo circa 6500 anni prima di Cristo) si fanno man mano ideografia sempre più astratta, che si declina in forme e stili diversi, da quelli più formali dei funzionari imperiali (la calligrafia era materia di esame per l’ingresso nella gerarchia) fino all’espressione individualissima e “folle” del corsivo in “stile d’erba”. Oggi i professori e i maestri di quest’arte ne sottolineano i valori estetici ed etici, parlano di ricerca calligrafica come scoperta di sé, di una forma espressiva di moralità, cultura, carattere spiccatamente individuale. Abbinano ricerca della raffinatezza al controllo della propria personalità. Collegano la ricerca dell’equilibrio della composizione a quella rappresentata dai segni della filosofia classica, yin e yang. Citano perfino statistiche circa le proprietà salutari di questa attività, che conferirebbero agli artisti la tradizionale longevità. L’EMOZIONE. L’incontro fiorentino (ospitato dal Vieusseux a cui Fosco Maraini, con il suo
lascito personale, ha regalato vocazione e sensibilità circa i temi asiatici) ha avuto un carattere spiccatamente formale. C’erano professori, allievi molto attenti e solerti, un rappresentante del Partito Comunista Cinese. Non c’è stato spazio per interrogativi o per un dibattito vero e proprio sulle tendenze attuali dell’arte calligrafica, che a partire dagli anni ‘80 ha subito grandi modificazioni e intrapreso coraggiose sperimentazioni, dando vita a correnti che esprimono diversi orientamenti non solo artistici, ma anche culturali, sociali e politici. C’è stato invece modo di vedere alcuni artisti al lavoro. L’”incontro di pennelli” si è svolto nel loggiato di Palazzo Strozzi, dove maestri calligrafi hanno dato dimostrazione del loro stile. Non ho la minima idea di che cosa abbiano scritto, firmato e sigillato (anche il sigillo rosso è uno degli elementi costitutivi dell’opera) e certo non so valutare la qualità esibita. Ma nel clima laborioso della sessione, nella concentrazione di artisti ed assistenti e nell’orgoglio mostrato a opera conclusa era del tutto tangibile l’emozione di veder nascere, dalla danza dei pennelli, nuove e inaspettate composizioni. E ho pensato a come sarebbe stato altrettanto emozionante per me osservare di persona Picasso
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Segno e fotografia La scuola francese
di Danilo Cecchi Come è noto, negli anni Ottanta i centri principali della elaborazione della semiotica visiva sono la scuola di Parigi, con Greimas, ed il Gruppo “miu” di Liegi. Alla distinzione fra i livelli iconici ed i livelli plastici delle immagini si sostituisce la definizione delle immagini iconico-plastiche, dove il livello plastico ed iconico si intrecciano e si scambiano reciprocamente. Fra gli studiosi che estendono i principi della semiotica visiva alla fotografia troviamo tre nomi principali, quelli di Philippe Dubois (1958 - ), Jean Marie Schaeffer (1952 - ) e Jean Marie Floch (1947-2001), ognuno dei quali offre dei contributi originali. Dubois con “L’Act Photographique” (1983) riconosce l’importanza fondamentale del ruolo del fotografo. L’immagine fotografica è inseparabile dall’esperienza referenziale e dall’atto che la fonda, e da indice può diventare somigliante (icona) ed acquisire un senso (simbolo). Le fotografie sono atti iconici che stanno in un rapporto asimmetrico con il loro oggetto, non sono mai neutre, ma lavorate ed inseparabili dalle loro enunciazioni. L’immagine fotografica instaura un rapporto fra l’autore e l’osservatore, è il risultato di una tecnica, di una atmosfera, di un avvenimento, di un certo “savoir faire”, non ha significato per se stessa, ma il suo senso è determinato dal rapporto con l’oggetto e con la situazione di enunciazione. Ogni atto fotografico è una relazione fra soggetto ed oggetto, è un taglio, parla dell’oggetto rappresentato e del modo in cui l’immagine è stata fatta, ma parla anche dell’autore delle immagini. L’osservatore decifra le immagini fotografiche filtrate dal proprio sapere e dalla propria cultura, ma anche il fotografo realizza le immagini filtrando il reale attraverso il “suo” sapere e la “sua” cultura, assegnando all’oggetto rappresentato “significati” e “sensi”, se non “messaggi”, che l’osservatore deve riuscire a leggere. Anche Schaeffer con “L’image précaire - Du dispositif photographique” (1987) riconosce la coesistenza nelle immagini fotografiche di un aspetto indicale e di un aspetto iconico, ma mette in risalto il ruolo del ricevente piuttosto che quello dell’atto fotografico. Il riconoscimento di una immagine fotografica dipende dalla conoscenza del suo processo generativo, ma anche dalle convenzioni culturali e dai codici iconici condivisi, e dipende dalla capacità del ricevente di tradurla correttamente. L’immagine fotografica per essere compresa ha bisogno della partecipazione da parte dell’osservatore. Conside-
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rare l’immagine fotografica come un “messaggio intenzionale” non ha senso, come non ha senso studiarla in se stessa. Il senso dell’immagine fotografica dipende dallo sguardo che vi si posa. La natura ambivalente dell’immagine fotografica la caratterizza come un segno selvaggio ed intermittente, indeterminato e soggetto ad infinite variabili nella sua determinazione e ricezione culturale. Nella costruzione dell’immagine fotografica viene proiettato anche il punto di vista del fotografo, ma l’immagine non viene vista attraverso i suoi occhi, ma si cerca una motivazione per quel tipo di ripresa. La valenza semiotica dell’immagine fotografica dipende da tre diverse dimensioni: l’autore, l’oggetto dell’immagine e l’interpretante. Floch infine, in “Les formes de l’empreinte” del 1986, applica alle immagini il metodo della semiotica generativa di Greimas ed analizza il funzionamento semantico delle singole immagini a livello della fruizione. Non si interessa ai segni ma ai sistemi di relazione ed a quelle forme significanti che fanno di ogni immagine
fotografica, allo stesso modo di qualsiasi altra immagine o testo, un oggetto dotato di senso e di significato. Ogni immagine fotografica è di fatto una “impronta”, e quello che la fa diventare un oggetto di senso è la sua “forma”. Il fotografo prende il sopravvento sulla fotografia, l’uso prevale sulla grammatica ed il contesto sul testo. Partendo dal percorso generativo del senso si individuano i meccanismi di strutturazione messi in opera in ciascun testo. Le singole immagini fotografiche vengono analizzate oltre l’aspetto figurativo evidente, alla ricerca dei livelli relativi allo spazio tipologico e dell’organizzazione specifica della superficie, per determinare la dimensione plastica dell’opera e l’aspetto complessivo della sua rappresentazione. Esiste una pluralità di linguaggi fotografici, collegati ad ogni autore e ad ogni singola opera. Il procedimento fotografico di per sé non implica un tipo particolare di forma plastica specifica, ma ogni immagine fotografica può assumere gli aspetti plastici più diversi, come accade negli altri tipi di linguaggio visivo.
di Andrea Caneschi Il viaggio per P. è stato particolarmente sorprendente. Dopo una assolata mattina di mare su una delle splendide spiaggia del Deserto Des Agriates, lasciataci alle spalle la cittadina di Saint Florent, elegante porto turistico del nord-ovest della Corsica, ci stavamo dirigendo a sud con l’intenzione di raggiungere Calvi e dintorni, lungo una strada dall’apparenza cartacea piuttosto facile, quando ci siamo ricordati del tuo invito a visitare P., graziosissimo paese arrampicato sui monti – ti cito a memoria –, rinato a nuova vita attraverso una operazione ardita del suo sindaco che aveva aperto le case del paese, semideserto e abbandonato, agli artisti interessati a farne un luogo a parte, di richiamo per il turismo e dove loro stessi avrebbero trovato spazi di espressione e ospitalità. Lassù, dicevi, si beve birra corsa alla castagna dal nome forte, “Pietra”, guardando il mare da lontano, in una sospensione temporale che fa sempre bene. Insomma, non si rinuncia ad una esperienza del genere. Quindi brusca deviazione sui monti, dove, dopo attenta ricerca sulle mappe e un serrato confronto con i nostri neuroni, decidiamo che quella P. che abbiamo eletto a nostra destinazione, di cui tuttavia ricordiamo con certezza l’iniziale e poi tante ipotesi successive e nulla più, non può essere che Pieve, abbastanza alta, secondo la carta, da permetterci una visione globale, abbastanza isolata in mezzo ai monti da giustificarne lo spopolamento, abbastanza unica “P…” faticosamente rintracciata sulla carta stradale. Si va, naturalmente, pur a prezzo di una onerosa deviazione lungo un percorso che si annuncia semplice per le capre, forse un po’ meno per noi, abituati ai fondi autostradali. Non sarà una grande deviazione, forse una trentina di chilometri, in un arco che praticamente ci riporterà dopo tre ore di viaggio al nostro punto di partenza, solo pochi chilometri più avanti nella direzione di Calvi. Un’esperienza ad arco appunto, che, percorso lungo la sua convessità, contiene all’interno un paesaggio mutevole, montagnoso, aspro e faticoso, ma anche pieno di ombrose foreste, con sempre gli stessi riferimenti: il mare lontano, San Fiurenzu (alla corsa) con il suo porto ancora alla vista, una linea di colline tagliate con l’accetta, sempre riconoscibili per gli scoscesi vigneti delimitati da ampi stradoni sterrati di servizio a marcarne i confini, disegnando figure quasi geometriche in quest’area di rinomata produzione vinicola. Solo che, collina dopo collina, tra un
In Corsica, alla ricerca di P
bosco e l’altro, dalla cima di un monte o alla fine di una serpentina in salita che svoltava improvvisamente e decisamente – sempre molto decise le svolte! – su un nuovo versante, i riferimenti si alternavano, si davano il cambio, scomparivano per riapparire all’ennesima svolta, con l’impressione di fare tanta strada, senza allontanarsi tanto. Ma che strada! Larga una volta e mezzo la nostra auto, stretta qua e là appena quanto la macchina, orli sdrucciolevoli e accoglienti precipizi, per fortuna spesso mascherati da una vegetazione selvaggia cresciuta a generosa protezione della sensibilità dei viaggiatori. Ogni tanto un borgo, o quel che ne restava, poche case smandrappate, qualche rovina, a volte un bel villaggio di vacanza, dove gli antichi abitanti erano tornati con soldi abbastanza da rimettere graziosamente e decentemente le vecchie abitazioni o da
costruirne di nuove con profili modernisti. Molte “U…”, qualche “S…” (San qui, San là), e finalmente la modesta indicazione di una “Pieve”, distante ormai una manciata di chilometri. Pieve, dal nome incoraggiante per le nostre aspettative, rimesso a posto con grande dignità e rispetto del passato, quattro o cinque persone, un silenzio bellissimo, ma niente bar con beveraggi rinfrescanti e soprattutto niente mare all’orizzonte, peraltro in quell’occasione particolarmente ristretto. E ora? Unica soluzione il telefono intercontinentale, che in pochi attimi ci permetteva di abbracciare una figlia lontana, fare il punto e realizzare la completa estraneità del nostro eroico sforzo all’obiettivo che ci eravamo dati. Insomma, l’avevamo fatta fuori del tutto. Alla prossima per Pigna, che dista appena sette chilometri dalla nostra primitiva destinazione.
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di Valentino Moradei Gabbrielli Cultura senza memoria. E’ vero, che quando visitiamo un luogo già conosciuto, cerchiamo quei luoghi e monumenti che hanno arricchito maggiormente la nostra memoria. Una visita a San Biagio, un saluto a Michelozzo certamente non può mancare, ma, le Cantine del Redi costituiscono un appuntamento irrinunciabile quando visito Montepulciano. Enormi, buie, fuligginose come la cappa di un grande camino, tenebrose suggestioni piranesiane. Radicate nelle viscere del Monte Poliziano. Custodi di un passato plurimillenario. Impaziente, visito con Monica la piazza di Montepulciano, il Duomo, la terrazza panoramica sul retro del Palazzo Pubblico e un salto alla Cantina del Redi… “Non ci sono più? Erano qui…Dove sono? Eppure, mi sembrava che l’accesso fosse proprio vicino al… Monica, ti ricordi le cantine del Redi?”, “Si sono giù di qui.”, “Non le trovo. Qui c’è scritto Cantine de’ Ricci.”. Entriamo e ci muoviamo per piccoli corridoi sdruccioli e scalette sembrano queste, ma di nuovo la scritta “Cantine de’ Ricci”. Camminiamo ancora interrogati ed interrogativi, “Sono queste, ma hanno un altro nome”, e, passo dopo passo, ritroviamo quel luogo e lo riconosciamo, così caratterizzato e unico. Trovando però cartelli che indicano altro: “Le cantine de’ Ricci”. E via con la storia dei Ricci e delle cantine sotto altro nome. Testimonianza storica le cantine ecc. definite la cattedrale …d’importanza… ma sempre con il nome Cantine de’ Ricci. Eravamo davvero tentati di credere a quanto leggevamo, dubitando della nostra stessa memoria. Oppure affermare qualcosa di puntualmente negato dai cartelli. Quando dopo aver percorso quasi per intero l’ambiente non più combattuti da dubbi, ma forti della nostra memoria, abbiamo incontrato un dipendente della cantina. Ci siamo rivolti a lui chiedendogli: “Scusi, ma dove sono le Cantine del Redi?”, “Sono queste!” ha risposto. Al che gli ho chiesto del perché trovavamo indicazioni e pieghevoli così nuovi e curati che dichiaravano: “Cantine de’ Ricci”. L’operaio ci ha risposto che quello è il vero nome, perché le cantine stanno sotto il Palazzo Ricci la proprietà è recentemente cambiata e ha dato il nome del palazzo alle cantine dove commercia il proprio vino. Ho chiesto chi fosse la persona così aggiornata e che sapeva così tante cose. Ha risposto di essere un olandese con mansioni di tuttofare, che da quattro mesi vive a Montepulciano con la moglie perché visitando la città, se ne sono innamorati ed hanno deciso
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di rimanerci. Abbiamo incontrato la moglie, che ci ha dato un piccolo pieghevole con la nuova storia delle cantine e del nuovo proprietario. Siamo usciti sconsolati nel caldo del vicolo lungo le mura medioevali e, voltandosi verso l’edificio appena lasciato, abbiamo letto sulla parete con grandi lettere in rilievo un po’ scolorite in caratteri datati e pertinenti all’attività: “Cantina del Redi”. Un retaggio del “Passato”. Siamo di fronte ad un esempio importante di cultura del turismo. Una cultura che non ha memoria, non deve avere
Cantine De’ Ricci, già Cantine del Redi memoria, che si può scrivere e riscrivere ogni volta diversa per chi non tornerà. Un imprenditore rampante, un testimone olandese da quattro mesi nel paese, un luogo trasformato in non luogo, dal turismo del consumo e, dalle esigenze di mercato.
Foto di
Pasquale Comegna
Mitoraj a Pompei
di Claudio Cosma Questa immagine è quello che resta di un lungo lavoro precedente di ideazione e realizzazione, rimane trattenuta nella composizione l’attività performativa che si può considerare la sua genesi e l’alimento che sta alla base del lavoro di ricerca di Zoè Gruni. La iuta, un tessuto grossolano per sacchi e imballaggi, è il materiale meno adatto per costruire un abito, tuttavia è quello prescelto, evidentemente non interessa che stia bene indosso, che “doni”, ma che trasformi il corpo in una scultura vivente, teatralmente vivente. Rimane difficile immaginare che le membra dell’artista continuino ad esistere oltre la barriera creata dai margini del tessuto, come in una marionetta le parti visibili sono le uniche esistenti e reali. Viene interpretato un animale fantastico, mezzo umano e mezzo vacca, con gigantesche e numerose mammelle, del quale siamo incerti se esista una testa e con questa la
Copricorpo
sua volontà di determinarsi. Nella serie di lavori di questo periodo il volto è sempre nascosto per non distogliere, con una sua qualsiasi espressione, dal significato universale dell’azione. Immobile nello scatto fotografico lo potremmo vedere avanzare a quattro zampe o a balzi oltre la bassa linea d’orizzonte e scomparire nell’acqua di un fiume, essendo la scena una pescaia fluviale (non sono sicuro di averlo capito da solo o me l’ha detto Zoè quando abbiamo parlato dell’opera). Le marionette sono creature leggere e il loro toccare il suolo è solo immaginazione, sono
infatti tenute sospese da fili invisibili ed il loro agire è legato a leggende popolari spesso tramandate oralmente. In questa creatura si sente proprio questo filo conduttore, il racconto delle avventure compiute attraverso una storia ascoltata nell’infanzia e riprodotta ogni volta con piccole varianti o aggiunte. Cosa fa questa forma antropomorfa? Perché si e fermata? Forse il cielo era azzurro un attimo prima e adesso nel suo ingrigirsi sembra minacciarla. L’abbondanza promessa dalle sue mammelle è incerta e illusoria, la sua solitudine in un luogo privo di riferimenti è in qualche modo drammatica e spiazzante, dobbiamo noi osservatori aiutarla, impedire che, con una capriola, caschi in avanti, scomparendo. Secondariamente si desidera afferrare questo corpo e liberarlo dal travestimento che lo grava. Cercare di ricomporre il corpo femminile celato, restituendogli le belle forme dell’artista, non è, forse, il nostro
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di Puccio Duni Il mondo dell’arte e del design rende omaggio alla figura di Ettore Sottsass in occasione del centenario della sua nascita. Molti sono stai gli eventi alcuni già conclusi come quello di Venezia dedicato ai suoi vetri dove sono state esposte le sue collezioni realizzate con questo materiale e sempre a Venezia nel negozio Olivetti di Carlo Scarpa con le ceramiche ed altri in corso come quello di Weil am Rhein presso Vitra e su tutti quello al Met Breuer a New York ricco di inediti e di infinite suggestioni. Altri due partiranno in settembre a Milano presso la triennale e a Parma dove il CSAC esporrà una serie di Metafore dividendosi a metà con la Triennale questo argomento, uno dei tanti che Ettore ha affrontato, ogni volta effettuando scelte sempre radicali e sempre sorprendenti e coinvolgenti e mai voltandosi indietro a ripercorrere strade già percorse. Se pensate all’inizio di Ettore con Olivetti ed il suo primo Compasso d’oro con Elea, uno dei primi calcolatori elettronici o con Valentine una ammiccante macchina da scrivere e lo si confronta con l’Ettore degli anni 80. Si nota una svolta radicale che lo porterà a Memphia e ai suoi pezzi iconici ma anche questi non erano una con-
clusione del suo itinerario che continuerà con libri, foto e quant’altro, ancora diversi e ancora originali e inconfrontabili con il resto della sua creazione. Questa complessità di personalità se scoraggia in parte un’analisi completa del personaggio, si presta alla ricerca di una sintonia con qualche parte dell’attività di Ettore per cui non esiste una lettura a 360 gradi ma un afflato che ciascuno sente con uno o più periodi della sua attività. Da parte mia avendo vissuto in prima persona la parte “toscana”di Ettore sono portato a considerare il periodo degli anni 60 e 70 con più “trasporto” proprio per un coinvolgimento personale. Come d’altronde non privilegiare le sue collaborazioni di quegli anni con Adriano Olivetti, Sergio Cammilli oltre che con i Bitossi e gli Alessi nei confronti di edizioni radicali intellettualmente impegnate ma che in termini di good design perdono rilevanza a favore di una componente artistica predominante? Il periodo di Poltronova lascia tracce indelebili nella storia del design. Basta guardare un semplice componibile come Kubirolo per vedere come con un semplice segno grafico si risolve un sistema a scatoloni che altrimenti sarebbe stato uno dei tanti sistemi destinati all’oblio. E che dire del suo modo di affrontare i mobili da
100
di questi Sottsass
ufficio con Olivetti. La sua Sinthesis è così completa e coinvolgente da anticipare personaggi come Mario Bellini e dare una lezione ai maestri dell’openspace americani del tutto anonimi. Ma anche in questo caso non può mancare quella vena di autoironia che lo porta a disegnare quel “dattilo” giallo esposto anche al Met Breuer che rende decisamente più vivibile qualsiasi posto di lavoro. Altro splendido “ momento” è quello che lo ha visto collaborare con Abet Print, momento che ci ha lasciato dei pezzi assolutamente immortali come i Superbox e lo scrittoio Nefertiti. E anche in questo caso determinante è stata la collaborazione con un industriale geniale che aveva capito l’importanza della grafica nei laminati che fino a quel momento erano solo finto
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legno come la famosa Formica. Sono tutti pezzi nati alla fine degli anni 60 ed i primi 70 come i Mobili Grigi presentati all’Eurodomus che furono bocciati dalla critica miope, ma che ci hanno lasciato lo specchio Ultrafragola che può senz’altro ambire a rappresentare l’intero decennio. Tra l’Altro i Mobili grigi anticiparono quello che è stato uno dei momenti più significativi del design italiano con la mostra di New York “Italy new domestici landscape” nel 1973 dove Kartell espose una serie di mobili multiuso derivati direttamente dai pezzi di Poltronova. Quindi ad ognuno il suo Sottsass perché è praticamente impossibile non riuscire ad entrare in sintonia con uno dei presso ché infiniti campi toccati in modo esaustivo da questo genio dei nostri tempi.
di Mariangela Arnavas L’ultimo romanzo di Perissinotto (autore, tra l’altro di “ Al mio giudice” 2006, “Una piccola storia ignobile” 2007, “Semina il vento” 2011, “Le colpe dei padri” 2013) è un libro sulla stratificazione dell’esistenza e sulla memoria rimossa individuale e collettiva; ciascuno di noi percepisce il proprio passato per fasi, più o meno lunghe, più o meno dense, stadi della vita a cui corrispondono personaggi ormai non più esistenti che spesso le foto permettono di riscoprire; parafrasando Annie Ernaux, estranei che ci hanno lasciato la loro memoria in eredità. Il protagonista Edoardo Grubesich Rubessi è all’inizio della narrazione un affermato medico genetista, addirittura in odore di premio Nobel, che torna dagli Stati Uniti a Torino per un progetto di ricerca con la giovane moglie americana fotografa freelance; qui il passato è in agguato e nella città, protagonista anch’essa della narrazione come in altri romanzi di Perissinotto, gli strati della vita di Edoardo riemergono uno ad uno, in sequenza, inesorabilmente e alcune sono fasi di acuta sofferenza: nella prima infanzia dove vede morire di alcolismo i genitori profughi istriani, nella seconda infanzia e adolescenza anni di abusi, torture e vessazioni in una clinica psichiatrica; successivamente, dopo la liberazione dal manicomio un periodo di studio e impegno militante nel cattolicesimo, fino alla lotta armata e infine il salto negli Stati Uniti e la nuova vita di ricercatore. La memoria rimossa di Edoardo si intreccia in più punti della narrazione con la nostra collettiva; così Susan, la moglie di Edoardo, fotografa freelance e Aldo, suo amico di gioventù riscoprono le tracce, nei beni comuni abbandonati della città, di fasi intense, in qualche caso addirittura tragiche del recente passato. A cominciare da una psichiatra criminale che praticava, soprattutto a bambini e adolescenti, in una struttura vicina a Torino, chiamata Villa Azzurra “elettromassaggi transcranici e lombopubici,” insieme ad altre torture e abusi sessuali, al solo fine di punirli per infrazioni a regole disciplinari e di comportamento. Rileggendo i fatti di cronaca reale a cui la storia si è ispirata sembra quasi impossibile che , meno di cinquant’anni fa, fosse possibile rinchiudere in manicomio dei bambini o giovani solo per piccole trasgressioni e torturarli per anni con il pretesto della cura; in effetti è una memoria che in molti abbiamo rimosso. A Villa Azzurra Edoardo passa anni terribili, finché alla metà degli anni settanta il movimento per la chiusura dei manicomi e per una nuova psichiatria, sfociato nel 1978 nella Legge Ba-
saglia, riesce ad aprire le porte anche di questa struttura; trasferito in un collegio di Salesiani, Edoardo troverà la possibilità di studiare, anche grazie ad un anziano prete, professore di latino e greco in pensione che gli trasmetterà la passione per la medicina e la genetica e riuscirà a permettergli di frequentare l’università in Italia e poi, con una borsa di studio, trasferirsi negli Stati Uniti per la specializzazione. Ma, prima del salto negli Stati Uniti, la rabbia a lungo repressa e il legittimo desiderio di vendetta porteranno Edoardo a sfiorare la lotta armata negli anni di piombo; molto interessanti gli spaccati di memoria che la narrazione apre sui gruppuscoli rivoluzionari
spesso bambini e nei loro genitori, costretto ad un duello ostinato con la morte. Insomma, una narrazione ricca e ben equilibrata, con un ritmo impeccabile, dove l’autore dimostra di saper intrecciare alla narrazione anche altri linguaggi, come in questo caso, quello della fotografia; infatti, sono spesso le foto scattate nei luoghi più o meno abbandonati o ritrovate nei vari archivi che spesso fanno partire il meccanismo della memoria e che diventano parte integrante della scrittura. Del resto, Perissinotto aveva già dimostrato egregiamente questa capacità nel romanzo “Al mio giudice”, scrittura epistolare via mail, dove la lettera elettronica si colloca con piena dignità e inso-
nella fine degli anni ‘70 e sui legami di quegli anni tra cattolicesimo impegnato e terrorismo, sullo sfondo di una Torino profondamente segnata e ferita dai conflitti sociali e politici dei cosiddetti anni di piombo. Significativa è anche la descrizione dei dilemmi esistenziali e deontologici nel rapporto medico/paziente che il brillante Edoardo è costretto ad affrontare; il ricercatore che vorrebbe solo combattere la malattia ed è invece costretto spesso a somministrare e dosare la speranza nei malati
spettabile scorrevolezza nel tessuto narrativo. Unico appunto all’autore è una strana svista: almeno in un paio d’occasioni, descrivendo foto dei primi anni ‘80, l’autore parla di donne “con i capelli cotonati”, forse equivoca sul significato estetico del termine, ma quel tipo di pettinatura era una moda degli anni sessanta, completamente e volutamente cancellata negli anni ‘70, quando il femminismo suggeriva capelli sciolti al vento, simbolo di una libertà per le donne da conquistare pienamente.
Gli strati della vita
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di Elisa Zuri In viaggio con Murakami “Io spalo la neve”. Sono giorni che ci ripenso ed è un gran bel modo di raccontare il lavoro meticoloso, puntuale, che spesso si deve svolgere, senza che ci sia richiesto di essere originali o intelligenti. Niente di sensazionale, soltanto un lavoro che qualcuno deve fare. Tutti dicono sempre di avere successo, di fare cose straordinarie. Non vi annoiano mai? Insomma, accade che mi imbatto in Dance Dance Dance di Haruki Murakami, dove il protagonista, per guadagnarsi da vivere, scrive articoli su commissione, articoli culturali, di costume, recensioni di ristorante. E’ un compito come un altro, da eseguire, come spalare la neve. Ha trentaquattro anni, amicizie finite alle spalle, la moglie l’ha lasciato, le persone sono entrate ed uscite dalla sua vita senza che lui abbia fatto niente di significativo, forse neanche tentare di trattenerle. Anche la prostituta con cui ha avuto una relazione l’ha portato all’Albergo del Delfino, in mezzo alla natura selvaggia dell’isola di Hokkaido e l’ha mollato lì, svuotato. Dance Dance Dance inizia con un sogno. Quest’uomo, che fin dai tempi della scuola odiava presentarsi a voce alta “che diavolo posso saperne io di me?”, sogna i corridoi lunghi e stretti di un albergo, dove qualcuno piange per lui. Mi interessa e lo seguo. L’Albergo del Delfino è il primo luogo dove torna, da dove ripartire. Ma quando ci arriva, trova un albergo di catena che ci è stato costruito sopra e dell’albergo irregolare, modesto e poco trendy che lui aveva conosciuto non è rimasto niente. Eppure, restando lì, dandosi tempo, iniziano ad accadere cose inspiegabili. Scendendo dall’ascensore, improvvisamente, le percezioni si alterano ed i corridoi tornano ad essere quelli bui del vecchio albergo, puzzano di muffa e conducono in zone d’ombra, dove l’uomo incontra un personaggio assurdo che pur lo capisce e gli suggerisce qualcosa che non può fare a meno di ascoltare. Nella sua disperazione non ha scelta. “Devi danzare. Danzare senza mai fermarti. Non devi chiederti perché. Non devi pensare a cosa significa. Se ti metti a pensare a queste cose, i tuoi piedi si bloccheranno. Danzare è la tua unica possibilità”. Alzo la testa e non posso non pensare alla grande Pina Bausch, al suo “Danziamo, danziamo… altrimenti siamo perduti”. Una meraviglia infinita. Ma il nostro antieroe non è un ballerino. E’ un uomo che spala la neve. Che ha pochi soldi da parte, una Subaru, una storia triste come tanti e che ama la mu-
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sica. Che può fare allora? Continua a interessarmi e vado avanti. Un passo dopo l’altro e si imbatte in assassinii, affetti, rivelazioni e fatti apparentemente scollegati. Lo spalatore di neve cerca disperatamente un filo tra gli eventi, li osserva, li pensa, ma soprattutto, ora, li sente. Conosce una donna, la receptionist
che poi da morti risultano più vivi dei vivi. Rintraccia un compagno di liceo, che, al contrario suo, è diventato famoso e veste sempre il mondo in modo impeccabile: lo aveva invidiato, odiato, considerato irraggiungibile. Ora diventa il suo migliore amico. Ognuno di questi incontri ha una nota diversa rispetto
dell’albergo, brusca ma emotiva, con cui si sente stranamente in pace. Passa molto tempo con una ragazzina, che i genitori lasciano troppo sola e che ha bisogno di un amico. Incontra personaggi famosi e uomini insignificanti, quelli che nessuno stima e ricorda, ma
alla sua vita prima dell’Albergo del Delfino: non sono conoscenze a distanza, sono relazioni. Un passo dopo l’altro, negli spazi che si aprono, sentendo cosa si muove intorno a lui, l’uomo che spala la neve impara a piangere e a danzare. E a scrivere per sé stesso.
Spalare la neve o danzare
di Crisitna Pucci Ci sono luoghi lontani, estremi, bellissimi, di cui si ignorano usi e costumi oltre che aspetto e clima, e io, forse, anche precisa collocazione geografica. Le persone che ci vivono sono come rarefatte, perfettamente adeguate ed organizzate per condurvi la loro vita e faticosa e semplice, e difficile e piena di impensabili colori ed accoglienti calori. E infinita pace. Mongolia, monti Altai, a grandi altezze distese di pianeggianti steppe, attraversate da fiumi e punteggiate da laghi, interrotte da colline sassose e percorse e circondate da alte ed innevate ed incombenti montagne rocciose, battute da un vento continuo e veloce che fa correre le nuvole come fossero reattori. Il delizioso docufilm “La Principessa e l’aquila”, regia di Otto Bell, in programmazione al Teatro della Compagnia, passato con successo lusinghiero al Sundance e al Toronto Festival, è ambientato in questa estremità del mondo, racconta la storia, vera, di una ragazzina, tredici anni, Aishoplan, che appartiene ad una famiglia di pastori nomadi, che chiede al padre di diventare cacciatrice con l ‘aquila. Mai donna al mondo ha provato, cacciare con l’aquila è attività esclusiva dei maschi, da millenni praticata e da millenni tramandata di padre in figlio. Il padre capisce che il desiderio della figlia è importante e riconosce in lei la passione e la capacità di essere in sintonia con l’aquila, malgrado il parere contrario degli anziani, che accampano motivazioni che definirei “maschiliste”, accetta di insegnarle. Con estrema naturalezza e semplicità si segue la ragazzina che si arrampica su una vetta impossibile fino al nido dell’aquila per prendere quello che sarà il suo aquilotto e, sempre con calma e naturalezza, ascolta e segue gli insegnamenti del padre. Aishoplan va a scuola e ci resta cinque giorni su sette in quanto la scuola è lontanissima dal luogo ove, in estate, viene montata la yurta della sua famiglia. Questa bellissima abitazione è una grande tenda rodonda, pali ricurvi ne costituiscono la impalcatura e sono rivestiti di pesanti teli di feltro bianco, dentro, pareti e pavimento, sono ricoperti di coloratissimi tappeti, una stufa centrale serve a riscaldare e a cucinare. Prima che arrivi il grande freddo verrà smontata, tutti si trasferiranno a valle in piccole case in muratura. Assisteremo a queste operazioni, le case bianche di calce sono basse e vuote all’arrivo della famiglia, i loro interni saranno colorati dai tappeti e dai rivestimenti di stoffa come le yurte.Aishoplan è molto molto carina e malgrado la sua attività di coraggiosa cacciatrice si agghinda e veste con grande femminilità. Vederla a cavallo, fierissima, portare sul braccio la enorme aquila con gli occhi tappati e vedere
ritenevano scaldare l’acqua per il tè il principale compito di una donna , seguito dallo sposarsi. L’aquila serve per cacciare in inverno,quando le temperature sono proibitive e c’è ghiaccio e neve ovunque, si va, a cavallo, a cercare tracce di animali da pelliccia , volpi ad esempio, l’aquila ne mangerà la carne e la pelliccia servirà per abiti e coperte e copricapo. Dopo 7 anni l’aquila ha fatto il suo dovere e viene liberata con dolore e riconoscenza dal suo proprietario. Alla proiezione cui ho assistito c’erano tre bambini, è un film adatto ai più piccoli, e una signora che stava per partire per un viaggo in Mongolia.
La Principessa e l’Aquila
con quanta forza e grazia compie il gesto di lanciarla a conquistare le sue prede ci fa sembrare il tutto .facilissimo. Aishoplan partecipa al Festival dell’Aquila Reale, l’evento annuale che mette in competizione i pù grandi cacciatori ed addestratori della Mongolia, e lo vince per due anni consecutivi, alla barba degli anziani che
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di Francesco Gurrieri Dunque il ministro Franceschini si è convertito ai “contatori per i turisti” nelle piazze d’Italia. Roma, Firenze, Venezia, non reggono più all’urto della massificazione dei visitatori. E’ ormai impossibile godersi la Fontana di Trevi, traversare il Ponte Vecchio, entrare in San Marco scendendo dal vaporetto. Di una regolamentazione degli accessi, fra chi si occupa di conservazione delle città storiche, ne parlavamo da tempo. Ed è gradito ricordare Giovanni Klaus Koenig che, proprio sulle pagine de La Nazione scrisse, prima della sua scomparsa (1989), che se non avessimo progettato e delineato nuove strategie alternative per il turismo, ne saremmo rimasti soffocati. Koenig, da bravo e serio critico di architettura, studiava la città e i suoi mutamenti, progettava jumbotram a Milano e autobus speciali per fluidificare la mobilità urbana. Negli anni Ottanta erano già maturi i sintomi sui difficili destini delle città che puntavano sulle culture monovalenti della “rendita di posizione”; già da allora furono espressi voti e programmi per guidare il fenomeno, ma tutto, in questo ultimo quarto di secolo, è rimasto inascoltato. Così, per quanto riguarda la Toscana, Firenze, Pisa, Siena prima, e ora San Gimignano, Volterra, Cortona (ma non son certo tutte) si trovano irreversibilmente strozzate, senza via d’uscita!Chiediamo dunque al ministro Franceschini di approfon-
Koenig, profeta dei centri storici a numero chiuso dire il tema: meglio tardi che mai. Ma allora, come gli è venuto in mente di dar ordine al Direttore degli Uffizi di smantellare la Galleria degli Autoritratti del Corridoio Vasariano.
Una sala per Andrea Branzi al Centro Pompidou Ad Andrea Branzi, architetto, designer, intellettuale, uno dei fondatori del “radical italiano” con il gruppo Archizoom, autore di progetti, saggi, opere di design note in tutto il mondo, compasso d’oro alla carriera nel 1987, laurea “honoris causa” a La Sapienza nel 2008 e di cui Cultura Commestibile ha pubblicato alcuni saggi, il Centre George Pompidou ha dedicato una sala permanente che sarà inaugurata il 19 ottobre. Esprimiamo grande gioia per questo evento che riconosce l’influenza che il lavoro di Andrea ha avuto e avrà per generazioni di architetti e di intelletuali e gli rivolgiamo un affettuoso saluto.
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di Michele Morrocchi Se la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzione pare che lo sia diventata anche quella dell’antifascismo militante; perché sicuramente parte da buone, se non buonissime, intenzioni la cosiddetta Legge Fiano, che ha per oggetto la repressione della propaganda del regime fascista e nazifascista. Dunque nessuna critica, anzi, all’intenzione e nemmeno si può argomentare, come han fatto alcuni esponenti pentastellati, che il dibattito sia fuori luogo e fuori tempo. La spavalderia di alcune organizzazioni che si rifanno in maniera manifesta al fascismo è ormai evidente ed allarmante, tanto da giustificare, a parere di chi scrive, l’adozione delle norme già presenti nel codice vigente, la cosiddetta Legge Scelba, e nella Costituzione alla XII norma transitoria, imponendone lo scioglimento. Dunque il momento appariva più che propizio per definire meglio una questione che è stata, sin dalle origini, spinosissima e che tale sempre resterà per la natura propria del tipo di reati che si vorrebbe punire. La distinzione tra l’essere fascisti e il fare apologia di fascismo infatti (come prevede la normativa attuale senza che il testo attuale modifichi lo stato delle cose), rende (e ha reso storicamente) la questione complessa. Al giudice non bastava e non basta che uno si professi fascista per condannarlo ma l’accusato deve mettere in pratica atti o pensieri che ne configurino un’adesione apologetica. Il che apre un capitolo piuttosto ampio sui reati di opinione, cioè quel tipo di reati che di solito sostanziano più un regime totalitario che una democrazia. Quindi quella distinzione così aleatoria e di difficile interpretazione (essere fascisti o fare apologia di fascismo)ha prodotto tanto dibattito storico e giurisprudenziale si è prodotto, anche in virtù di una sostanziale continuità dello Stato fascista nell’amministrazione della giustizia dopo la II guerra mondiale. Un dibattito inevitabile poiché fa parte delle contraddizioni proprie di un regime democratico, a cui va aggiunto il momento storico in cui fu scritta la carta costituzionale. I costituenti stessi videro che la norma apriva un problema enorme perché, di fatto, entrava in contraddizione con i principi fondamentali della carta stessa, e ne decisero l’inserimento non nel corpo principale della carta ma nelle norme transitorie. Furono forse ottimisti nel pensare che, morti i protagonisti coevi del ventennio, nessuno avrebbe avuto in mente di riproporre un movimento politico che aveva devastato il Paese e la sua coscienza. Dunque l’iniziativa dell’Onorevole Fiano appare meritoria e persino necessaria, quello che
L’occasione sprecata della legge Fiano
preoccupa però è l’esito. Perché il testo licenziato non porta luce né individua criteri di definizione della propaganda nazifascista da punire ma anzi allarga tale fattispecie tanto da poter ipotizzare una scarsissima applicabilità della norma. Intanto il testo non abroga e modifica le disposizioni vigenti ma vi si aggiunge, aumentando le fattispecie di reato dall’apologia alla propaganda. Ma in cosa si sostanza tale propaganda? “anche solo [nella] produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti
persone, immagini o simboli […] chiaramente riferibili [al partito fascista e al partito nazionalsocialista]”. Una casistica così generica da rendere impossibile determinare il fatto ma altamente opinabile l’esito del giudizio (e dunque arbitrario il diritto stesso): perché se l’intento è vietare il manganello con la faccia del Duce, come ci si comporterà con la libreria antiquaria che tra le opere in vendita ha, a carissimo prezzo, il vademecum del perfetto fascista di Longanesi? Il tema del limitare le libertà di espressione del pensiero è tema sensibile, tocca nervi scoperti della storia del Paese e rappresenta uno dei punti più delicati dell’essere una democrazia finalmente compiuta. Per questa era da augurarsi che una siffatta norma fosse accompagnata da una riflessione compiuta, da un dibattito storico e filosofico, almeno da una frase dolorosa e necessaria sui limiti della libertà. Invece ancora una volta si sono preferiti i talk show ai convegni, il facile consenso allo studio e al dubbio, la semplificazione becera al governo della complessità. Auguriamoci solo che questo clima, fertile per regimi non certo democratici, non favorisca una drammatica eterogenesi dei fini.
FormArti2017: cantiere per giovani artisti La Fondazione Primo Conti, con il sostegno del Comune di Fiesole e la collaborazione della Fondazione Il Bisonte e con il contributo della Regione Toscana bandisce nell’ambito di “TOSCANAINCONTEMPORANEA2017”, un concorso rivolto a giovani 10 artisti di tutte le nazionalità, residenti in Toscana, di età compresa tra 18 e 25 anni, proponendo un’occasione formativa di due settimane di workshop per stimolare la propria creatività nella produzione di opere. È la terza volta, sempre nell’ambito di “TOSCANAINCONTEMPORANEA”, che la Fondazione Primo Conti indice un concorso rivolto ai giovani artisti, ai quali anche lo stesso Maestro Conti guardava con attenzione, amore e dedizione. La Fondazione ha voluto così attivare per il secondo anno consecutivo,
con il Comune di Fiesole e la Fondazione Il Bisonte, un percorso formativo legato ad una riflessione sul proprio io nei confronti della contemporaneità. Verranno offerte, agli otto partecipanti selezionati, due settimane di workshop, il primo corso dedicato alla pittura en plein air presso la Fondazione Primo Conti, il secondo corso dedicato all’incisione calcografica presso la Fondazione il Bisonte. Le domande pervenute entro le ore 12 del 29 settembre (data scadenza del bando) saranno valutate dalla Giuria Tecnica composta da Carlo Sisi (Presidente), Adriano Bimbi, Rodolfo Ceccotti e Giovanna Uzzani. Le opere realizzate saranno esposte per dieci giorni presso gli spazi espositivi messi a disposizione per l’occasione dal Comune di Fiesole.
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di M. Cristina François Nel 1680, Padre Benvenuti Priore di S. Felicita scrive: “Nella Cappella della Pietà dei Signori Capponi vi è sotto l’Altare una Sepoltura con chiusino quadro di pietra, nella quale detti Signori si seppelliscono, e nel mezzo della Cappella vi è la forma d’un chiusino tondo di marmo che non si apre, con la seguente Inscrizione: Ludovicus de Capponibus adhuc in humanis agens, et futuris Mortis haud immemor sibi Posterisque posuit” (A.S.P.S.F. - Ms.722, c.271). Dunque, il chiusino tondo fu lì posto “per indicare la sepoltura, che è poco distante, e che precisamente resta sotto la pedana di legno dell’Altare” (cfr. P. Giuseppe Balocchi, “Illustrazione dell’I. e R. Chiesa Parrocchiale di S. Felicita”, 1828). L’altare aveva due scalini (Ms.197, Inv. del 13/6/1787) e non uno, scalini sui quali si posavano “alla romana”, per gli anniversari di morte, “n° 10 candelieri di diverse grandezze, compresi due, nei quali esiste l’Arme e l’iscrizione di Mons. Orazio Capponi”. Dall’alto della Cappella pendeva “una lampana d’argento”. Da quanto detto appare chiaro che ‘protagonista’ di questa Cappella-Mausoleo fu la Memoria della famiglia Capponi. Soltanto a partire dagli studi e dai restauri a seguito dell’alluvione del 1966 ne è diventato il solo Pontormo. Nell’inedito Ms.728, F. Brunetti afferma: “Essendo Bartolommeo Barbadori nella determinazione di far costruire nella nostra Chiesa una Cappella, ne trattò con detto Filippo [Brunelleschi] […] e fece voltare la medesima senza armature per mostrare, che avrebbe pure in egual modo voltato la Cupola di S. Maria Del Fiore e vi fece anche la Pila dell’acqua Santa” (a.1819 - pp.180 e segg.). Il Brunetti ripete in proposito il Vasari. Oggi si sostiene piuttosto che, per fare detto esperimento l’artista scelse la Cappella Ridolfi in S. Jacopo sopr’Arno. Proseguendo nella storia della Cappella, questi ricorda che nel 1487 fu ceduta ai Paganelli e che il 1° luglio 1525 Bernardo di Gherardo Paganelli la cedette a Ludovico di Gino Capponi. Ludovico “la dotò e chiamò al Patronato il più antico [parente] della sua discendenza nella sua linea masculina […] e ne commesse l’abbellimento e pitture a Giacomo da Pontormo, il quale a sentimento del Vasari […] riuscì stravagante nel componimento della Tavola del tutto diversa dalle figure della volta sì nella forma, che nei colori totalmente smorti, il che diede motivo al Richa ed al Manni di asserire, che era stata guastata in occasione di esser lavata da un imperito
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La cappella Capponi: oltre Pontormo
artefice […]”. La Cappella fu da subito, con Benefizio perpetuo, intitolata dal committente a La Pietà pontormesca. Dunque, per nominare la tavola del Pontormo non si dovrebbe ricorrere al titolo di Deposizione e di Trasporto. Della Cappella sono parte integrante le iscrizioni. La prima, a caratteri d’oro su marmo nero al di sotto dell’affresco dell’Annunciazione pontormesca, documenta altre due successive Intitolazioni: all’Annunziata (Benefizio semplice eretto nel 1600) e all’Assunta (Benefizio perpetuo eretto nel 1603 e rinnovato nel 1615). La seconda iscrizione, sempre su marmo nero a lettere d’oro, ricorda che Mons. Orazio Capponi Vescovo di Carpentras fondò nel 1604 il Benefizio di S. Giovanni Battista e, il 23 luglio 1615, il Benefizio di S. Carlo Borromeo. Fra queste due epigrafi, il monumento a S. Carlo con incorporata “una cassettina di ferro ben serrata con molte reliquie di detto e di altri Santi”. Al pilastro d’angolo sud-ovest stavano, secondo il Ms.728 (fig.1), tre “Marmi” bianchi attualmente spostati nell’angolo sud-est. Il primo è il ‘Privilegium’ di Clemente XIII dell’11 dicembre
1761 concesso al Cav. Ferdinando Carlo di Ferrante che privilegiò l’Altare in perpetuo per tutta la casata. Il secondo marmo fu lì posto sempre per desiderio del Cavaliere nel 1793 per commemorare il padre Ferrante scomparso nel 1688, il fratello Cammillo deceduto nel 1817, cinque sorelle e tre figli morti in giovane età. Il terzo marmo ricorda i seguenti defunti: Ferdinando Carlo morto nel 1806, due sorelle monache, e un bambino. Dietro l’altare si legge la memoria per la Contessa Cornelia Margherita Borromeo morta nel 1722, moglie di Ferrante, il quale “in quell’anno fece restaurare nuovamente questa Cappella, e nel 1° Agosto 1723, la terminò. Fece ripulire la Tavola della pittura, ma per l’imperizia dell’artefice perdé la vivezza delle tinte migliori, come pure l’ornamento, ed anche le pitture delle muraglie, e tutti i marmi, e pietre; di più per conservare le Iscrizioni le fece rifiorire. L’Altare lo riedificò di nuovo con marmi, e finalmente per chiudere la Cappella, la circondò con cancelli di ferro, come si vede” (cfr. Balocchi p.41). Sotto l’Altare, la memoria di Lucrezia, moglie di Ferdinando Carlo, morta nel 1793, e del nipotino. La memoria del Cav. Ferdinando Carlo Ferrante, deceduto nel 1819, fu posta nell’angolo nord-ovest “sulla Colonnetta, in un piccolo marmo” (cfr. G. Balocchi, p.47) che ora si trova a sn. dell’altare. Il Brunetti documenta che nello stesso anno era ancora “Sopra i gradini dell’Altare collocato il Quadro con pittura allusiva al Sacro Cuore di Gesù [dal 1743]” e che ‘in Cornu Evangelii’ era “collocato un quadretto” di S. Girolamo Eremita” di cui la Cappella ebbe il Benefizio. Nell’angolo sud-est, sotto uno stemma Capponi un’iscrizione per Giulia Cammilla Della Gherardesca sposa del Conte Ferrante, morta nel 1793 e una ricordanza per il padre del Sen. Ferrante, Conte Cav. Sen. Cammillo Capponi morto nel 1693. Le parole del Balocchi evidenziano, per concludere sulla Cappella, la sua valenza sacra di Mausoleo: “A gloria di Dio, ed a onorevole ricordanza del nome loro qui si scorgono stabilite [le memorie], in argumento sicuro della cristiana, e religiosa munificenza de’ loro Antenati”.
di Gabriella Fiori “Anno dopo anno sempre più mi convinco che la cultura mentalità contadina, ignorata, anzi negata, abbia molto da insegnare, spero, alle generazioni giovani o prossime, perché le attuali non sanno pensare come essa possa essere restaurata e riformata”. Così commenta il suo attuale libro-sintesi I Richiami della terra, Giuseppe Lisi, scrittore unico che con le sue opere di testimonianza e riflessione sulla “civiltà contadina ci ha fatto comprendere la profondità di linguaggi, dimensioni e libertà perdute con la fine del mondo rurale toscano e italiano” spiega Giannozzo Pucci editore che premette una Nota. Postfazione di Giuseppe De Rita fondatore e presidente del CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali), da mezzo secolo impegnato nell’analisi dei mutamenti economici in Italia. Presentato il 13 giugno 2017 ai Georgofili, “sede prestigiosa, ricca del ricordo vivo della migliore agricoltura fiorentina dal ‘700 in poi: temperatura di circa 40° e un piccolo nucleo coraggioso e interessato alle prospettive di un’agricoltura alternativa”. Vero e proprio poemetto in prosa,suddiviso in titolini espressivi che guidano il nostro pensiero, in esso Lisi penetra per osmosi la vallata agricola del Mugello, conclusa come da un “emblema dal Passo detto del Giogo perché si apre tra due selle che simulano l’attacco dei buoi”. Vi passò la Linea detta Gotica, “all’indomani del conflitto il terreno era arso e privo d’alberi” ma l’erba già l’anno dopo “ricopriva le buche e nei decenni “la foresta è ricresciuta”. Devo scegliere fra i titolini. Il primo è La forza del paragone fra la dovizia dei cibi e l’eleganza (“profumo del sapone bianco destinato ai singoli della truppa!”) della “gente in armi” e il “tempo di guerra da sempre associato alla carestia e al disordine” rovesciò sui contadini “il mito della modernità”. I soldati morti presto chiusi in sacchi neri, sulla scena restavano “montagne di bottiglie vuote di birra, cumuli di bossoli sparati ma pesanti di ottone...” Sulle tavole “pane bianco in quadri, scatolette piramidali cilindriche e dorate di pancetta di maiale, arrotolata e già tagliata a fette”. Tutto quel ben di Dio, “sciorinato,ben proposto o offerto da farci sopra un guadagno, o lasciato sul posto come uno scarto, o perfino gettato dalle macchine in corsa” annunciava una vita nuova dove gli oggetti erano
I richiami della terra
“finalmente stampati uno eguale all’altro”. Mentre invece...Qui Lisi chiede al lettore “uno sforzo intellettuale”. Riusciamo a entrare in contatto? col modo di “vedere se stesso, la natura e il mondo come lo vedevano gli antichi senza sapere di vederlo a quel modo”. Ecco davanti a noi spalancarsi “un indefinito” popolato di presenze dove “ogni filo d’erba assume un carattere proprio”. Per la mentalità contadina non esisteva una sola fonte d’acqua, ma “tante diverse e taluna preferita”. Né una strada eguale all’altra, una cucina, una porta, una pentola, una falce, un uovo”. Sì, pur della stessa gallina, era diverso dal precedente e dal seguente “per il diverso futuro che portava nel guscio”. Con occhio vigile guidato non solo dalla mente ma dalle emozioni profonde vissute nell’amato Mugello, per lui terra di vacanze incantate, terra natia per il padre, lo scrittore Nicola, Giuseppe Lisi ci guida a scoprire oggetti e luoghi nei loro significati, poiché “la natura e le sue parti, come forme giornalmente individuate e definite erano i contenuti e i contenitori.” E quello che, “nella società colta viene espresso in lettere e figure, che è illustrato, spiegato, scolpito... risiedeva poeticamente effuso, nel cavo di un ulivo,sotto la pietra della fontana, alla sporgenza del tetto senza grondaia, nel nido che il vento ha tirato giù dall’albero, nel filo rosso provvidenzialmente impigliato nella rete dell’orto”. Visto con “partecipazione non fredda, ma vivente”, collegata a una lontana emozione, di gioia, giudizio, paura. Atto di fondazione - Nella trebbiatura, “al formarsi del monte dal rovesciarsi dei sacchi, l’azione da compiere era sottrarre la quantità necessaria al riprendere del ciclo. Idealmente nello stesso giorno iniziavano i lavori di aratura per la nuova raccolta”. Ricordo bene dall’infanzia la pioggia d’oro di quel grano che,affannata e fiera, avevo aiutato a falciare in spiga.
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di Roberto Giacinti Il Terzo Settore in realtà è il primo, infatti secondo i dati Istat, (IX Censimento Generale dell’Industria, dei Servizi e delle Istituzioni), in Italia operano 301.191 unità, il 28% in più di enti non profit rispetto all’ultima rilevazione, con una crescita del personale impiegato pari al 39,4 %, Il settore conta sul contributo lavorativo di 4,7 mln di volontari, 681 mila dipendenti, 270 mila lavoratori esterni e 5 mila lavoratori temporanei, numeri che evidenziano la dinamicità del Terzo Settore e la capacità di creare occupazione e crescita economica. Questa importanza ha determinato l’esigenza di regolamentare la materia, (l. 106/2017 in GU del 18 giugno 2016), con la quale siriordina tutta la normativa riguardante gli enti del terzo Settore in due macro obiettivi: valorizzazione del principio di sussidiarietà e centralità delle capacità produttive ed occupazionali di tutti gli enti del Terzo settore. Purtroppo spesso la legge è centrata sulla necessità di controllo di un mondo produttivo diventato importante, più che sul suo sviluppo: il Codice, infatti, detta molte disposizioni in materia di organizzazione, amministrazione, controllo, trasparenza, raccolta fondi, ed erogazione di beni e servizi. Vengono anzitutto definiti gli enti del Terzo Settore: Odv, Aps, enti filantropici, imprese sociali, incluse le cooperative sociali, reti associative, le Sms, le associazioni, riconosciute o non, fondazioni, ma è mancata la riforma del Libro I Titolo II del Codice Civile, auspicata anche alla luce dell’art. 118 della Costituzione. Le amministrazioni pubbliche sono chiamate a promuovere la cultura del volontariato, in particolare tra i giovani, anche attraverso apposite iniziative da svolgere nell’ambito delle strutture e delle attività scolastiche, universitarie ed extrauniversitarie. In base alla loro dimensione, questi enti saranno chiamati a pubblicare sul proprio sito internet il bilancio sociale, redatto secondo apposite linee guida, nonché gli emolumenti, compensi o corrispettivi a qualsiasi titolo attribuiti agli organi di amministrazione e controllo, ai dirigenti ed agli associati. Il trattamento economico e normativo dei lavoratori non dovrà essere inferiore a quello previsto dai contratti collettivi; specifici limiti sono previsti per i compensi eventualmente previsti per le cariche sociali, e per gli autonomi. Viene inoltre semplificata la procedura di acquisto della personalità giuridica e vengono istituiti, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il “Registro unico nazionale del Terzo settore”, al quale gli enti devono iscriversi per poter
24 16 SETTEMBRE 2017
Disegno di Aldo Frangioni
La riforma del Terzo Settore accedere ai benefici, anche tributari, ad essi riservati, e il Consiglio nazionale del Terzo Settore, organo consultivo e rappresentativo degli enti. Il Codice prevede: - una nuova definizione di enti non commerciali; - specifiche disposizioni in ordine al regime fiscale, (la determinazione forfettaria del reddito
d’impresa) e varie agevolazioni per le imposte indirette ed i tributi locali; - un credito d’imposta, (social bonus) per le erogazioni liberali in denaro per il recupero degli immobili pubblici inutilizzati e dei beni mobili e immobili confiscati alla criminalità organizzata; - misure per favorire l’assegnazione in favore degli enti di immobili pubblici inutilizzati per fini istituzionali; - la ridefinizione della disciplina delle detrazioni e deduzioni per le erogazioni liberali in denaro o in natura; - I “titoli di solidarietà”, per favorire il finanziamento ed il sostegno delle attività di interesse generale; - un regime fiscale agevolato per le attività di social lending svolta dai gestori dei portali on line; - uno specifico Fondo per il finanziamento di progetti e attività di interesse generale.
di Simonetta Zanuccoli La notizia è ormai ufficiale: la Maison Rouge, uno dei luoghi più interessanti di arte contemporanea a Parigi, sulla quale ho già scritto un articolo, chiuderà alla fine del 2018. Lo ha annunciato alla stampa il suo fondatore, il collezionista e mecenate Antoine De Galbert. Nato nel 1955 in una ricchissima famiglia di industriali del gruppo Carrefour, appassionato d’arte contemporanea, De Galbert nel 2004 si lanciò nell’avventura della Maison Rouge aprendo negli ambienti di una fabbrica in disuso in boulevard De la Bastille un particolarissimo spazio espositivo per promuovere in maniera non convenzionale le opere, spesso mai esposte prima, di collezioni private e di artisti emergenti. L’annuncio inatteso della sua decisione ha immediatamente innescato una ridda di voci su una possibile crisi economica o una grave malattia ma De Galbert, negando problemi alla sua salute fisica o finanziaria e spiazzando come sempre i suoi interlocutori, ha semplicemente replicato che fin dall’inizio sapeva che il grande progetto portato avanti dalla Maison Rouge si sarebbe un giorno concluso. Il momento è quasi arrivato perché non vedo cosa potremmo fare di meglio, come andare oltre. Mi sembra preferibile fermarci mentre siamo in cima all’onda piuttosto che correre il rischio di discenderne pian piano. Non è immodesto De Galbert. Le sue mostre scelte soprattutto fuori dai canoni di valutazione tradizionale hanno attirato sempre più pubblico e spesso le opere e i movimenti da lui presentati, non ancora etichettati nel mercato ufficiale dell’arte, hanno poi ottenuto tardivi e importanti riconoscimenti. L’avventura della Maison Rouge è stata sostenuta in tutti questi anni interamente dalla fondazione privata di De Galbert ma ora, annuncia il suo geniale creatore, la fondazione agirà in modo diverso e si dedicherà alla filantropia. Finora la Maison Rouge ha assorbito tutte le sue risorse finanziarie ma è il momento di una maggiore latitudine di azione. Aiutando gli altri si può intervenire in molte più direzioni. Intanto continua la programmazione di mostre fino a quella finale, L’ envol, del 30 ottobre 2018 (senz’altro da non perdere). Il questi giorni si sta concludendo la bellissima esposizione, in stile tipicamente Maison Rouge, dal titolo Inextricabilia. enchevetrements (incastro, intreccio) magiques. Una mostra che ha riunito opere, apparentemente tra le più eterogenee, di art brut, oggetti rituali africani, di arte sacra, popolare, moderna e contemporanea. Sono più di 50 provenienti da collezioni
Quelle tristesse, a Parigi chiude la Maison Rouge pubbliche, private, di istituti psichiatrici e da tanti importanti musei come il Quai Branly, il musée de L’Hommel, la Collection de Art Brut di Losanna. Niente, ad un primo sguardo superficiale, sembra legare le opere, come ad esempio una scultura di Judith Scott a una statuetta votiva del Congo di epoca e cultura
diversa, ma l’enchevetrement, il legame, l’intreccio esiste. Si tratta del processo creativo che sconosciuti indigeni del passato, artisti contemporanei, pazzi isolati dalla società hanno impiegato usando tecniche e materiali uguali. Cordoncini di canapa, di cuoio, di capelli, fili d’oro, fuscelli d’erba, nastri di tessuto...., materiali vegetali, organici o metallici, legati, attorcigliati, cuciti, annodati.... per creare oggetti, sculture, vestiti che sfidano nel loro significato simbolico, religioso o magico, le barriere temporali e culturali che li separano nell’intento comune di dare una forma sensibile a ciò che non lo è. Grande rimpianto quando le porte della Maison Rouge si chiuderanno definitivamente.
25 16 SETTEMBRE 2017
Via Lattea di Ruggero Stanga Di prima sera Saturno, il pianeta degli anelli, a Sud, non lontano da una brillante stella rossa, Antares. Basta un piccolo telescopio per vedere gli anelli, insieme al satellite più grande che gli orbita intorno: Titano. Ora è lontano dalla Terra circa 1350 milioni di chilometri, 9 volte la distanza Terra Sole, la luce impiega circa 75 minuti a fare la strada. Percorre la sua orbita intorno al Sole in un quasi 29 anni e sei mesi. Ha un diametro che è un po’ meno di 10 volte quello terrestre; la cosa curiosa è che ha una densità minore di quella dell’acqua, circa il 70%, per cui galleggerebbe in un oceano di adeguate dimensioni. Per confronto, la densità della Terra è 5.5 volte quella dell’acqua. Saturno gira molto rapidamente intorno al suo asse, il suo “giorno” dura un po’ meno di 11 ore: la forza centrifuga all’equatore è così alta che Saturno ha la forma di una sfera parecchio schiacciata ai poli. La caratteristica più nota di Saturno è il sistema di anelli che gli orbita intorno, con raggi fra i 60000 km e i 480000 km: una serie infinita di microsatelliti, con dimensioni dal millesimo di millimetro al metro, fatti sostanzialmente di ghiaccio. Galileo per primo vide che Saturno aveva un aspetto curioso, e, seguendo l’uso dell’epoca, lasciò traccia delle osservazioni con un anagramma smaismrmilmepoetaleumibunenugttauiras che stava per Altissimum planetam tergeminum observavi: Ho osservato il pianeta più lontano che ha un aspetto tripartito. Questo sistema criptico veniva usato per potere vantare la priorità della scoperta, prima che i risultati fossero pronti per la comunicazione definitiva. Il primo a riconoscere gli anelli fu Christiaan Huygens nel1655. Gli anelli sono parecchi, e solo per uno si conosce la provenienza dei materiali che lo compongono: si tratta dell’anello E, rifornito dalle emissioni di ghiaccio di Encelado, uno dei satelliti, osservate dalla sonda interplanetaria Huygens. In questo tratto della sua orbita, Saturno si trova davanti alla Via Lattea. La ricchezza e la complessità della regione di cielo sfugge all’occhio nudo: con un telescopio riusciamo a distinguere miriadi di stelline che gli fanno corona, insieme a immense nubi di gas e polvere. Poco più a Est, si trova il centro della nostra Galassia. La Via Lattea è una galassia a spirale, con un rigonfiamento centrale; ha un diametro di circa 100000 anni luce, uno spessore di circa 1000 anni luce, e comprende qualche centinaio di miliardi di stelle, e forse un centinaio di miliardi
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di pianeti. Circa il 70% delle galassie più vicine alla Via Lattea sono spirali, il resto sono irregolari, o ellittiche. I naturali problemi che si pongono riguardano la struttura e l’origine delle spirali. Bene, sembra che le braccia siano onde di densità di stelle e di gas: le stelle entrano nel braccio, e poi ne escono. Un po’ come succede negli ingorghi sull’autostrada: possono durare a lungo, e le auto (le stelle) entrano ed escono dall’ingorgo (il braccio della spirale, con maggiore densità di stelle) in tempi molto più brevi di quanto l’ingorgo impieghi a dissolversi. Le nubi di gas e polvere che entrano nel braccio vengono compresse, e possono collassare su se stesse, dando vita a grandi episodi di formazione stellare: per questo nelle fotografie vediamo lungo le braccia regioni molto luminose e colorate, che assomigliano a perle lungo il filo di una collana: non sono stelle singole, indistinguibili nella stragrande maggioranza di galassie, ma sono regioni di formazione stellare, in cui brillano immense estensioni di gas alla temperatura di circa 10000 gradi, scaldati e illuminati da stelle di grande massa appena generate. Tanto per dare un’idea dei progressi dell’astrofisica, fino agli anni ’20 del secolo scorso, non era per niente chiaro che le galassie fossero strutture esterne ed indipendenti dalla Via Lattea. Il Sole viaggia in un’orbita a circa 26000 anni luce dal centro della Via Lattea, ad una velocità di circa 230 chilometri al secondo. Tutta la parte centrale della Via Lattea è avvolta da polvere, che assorbe la luce visibile che viene emessa all’interno di un raggio di circa 15000 anni luce dal centro. Le nubi di polvere, però, lasciano filtrare le onde radio e la luce infrarossa. Il centro della Via Lattea è marcato da una
radio sorgente chiamata Sagittario A* intorno a cui ruotano alcune stelle, osservate nell’infrarosso. Il pennellino di luce parte da una di queste stelline, percorre indisturbato nubi di polvere e spazio interstellare, e quando arriva sulla Terra prima di giungere al sensore sul piano focale del telescopio, incontra l’atmosfera turbolenta: il pennellino viene deformato, l’identificazione della sua precisa direzione di provenienza viene degradata, non molto, ma abbastanza da impedire di distinguere una stellina da quella accanto. Una tecnica molto sofisticata permette di compensare gli effetti della turbolenza atmosferica: si chiama ottica adattiva (all’Osservatorio di Arcetri c’è un gruppo di ricercatori con una grande esperienza nel campo, di assoluto valore internazionale). Si tratta di illuminare la regione più alta dell’atmosfera con un fascio laser di grande potenza, di analizzare la (minima!) luce riflessa indietro dalla atmosfera, per capire come la turbolenza abbia deviato il percorso della luce del laser, che viene usata come riferimento, e, alla fine, di interporre uno specchio deformabile sul percorso del pennellino di luce che corregga gli effetti della turbolenza misurati sul fascio laser riflesso. Il tutto, in tempi dell’ordine del centesimo di secondo. Così, è possibile distinguere ciascuna di queste stelline, e seguirne l’orbita. Si muovono molto velocemente, e l’applicazione delle leggi della gravitazione universale porta a concludere che a dirigere la loro danza è una massa pari a qualche milione di masse solari, racchiusa in un volume così piccolo, che l’ipotesi più plausibile è che si tratti di un buco nero, quell’oggetto astrofisico da cui nemmeno la luce ha la velocità sufficiente a sfuggire.