Cultura commestibile 231

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Numero

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

Culture club

I’m a man without conviction I’m a man who doesn’t know How to sale a contradiction? You come and go, you come and go Karma Chamaleon, Maschietto Editore


Guggenheim Museum NY City, 1969

La prima

immagine Questa è stata una delle prime immagini che ho venduto al settimanale “il Mondo”. È stata pubblicata nella pagine centrale del giornale ed io, orgoglioso di questa pubblicazione, ho acquistato diverse copie della rivista, tutte da edicole diverse, perché mi vergognavo a comprarne 5 o 6 dallo stesso giornalaio! Le ho regalate ai miei migliori amici, tanto era l’orgoglio per aver raggiunto una testata così prestigiosa! Ho sempre pensato che, pur nella sua semplicità, fosse comunque un’immagine piuttosto importante. Tutto quello che vedevo in questa città dai mille volti destava sempre la mia curiosità e mi stimolava a inseguire sempre nuove visioni e nuovi soggetti. Il segreto era quello di camminare molto e guardare tutto con un occhio attento e spesso obliquo. Avevo sempre la sensazione che le immagini entrassero da sole dentro la fotocamera, tanta era la mia curiosità ed il piacere di impossessarmi di questi frammenti di vita quotidiana così lontani dal mio ristretto mondo fiorentino.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


Numero

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Riunione di famiglia Ape Man all’Onu Le Sorelle Marx

Lombroso e Forza Nuova Lo Zio di Trotzky

Diplomazia I Cugini Engels

In questo numero Lorenzo Bertolani, Dino Campana e Sibilla Alerano di Dino Castrovilli

Corpi pesanti, corpi leggeri di Claudio Cosma

Il viaggio di Elisa di Laura Monaldi

Bizzarria degli oggetti di Cristina Pucci

Cracovia d’autunno di Alessandro Michelucci

Bella Livorno, forza Livorno di Mariangela Arnavas

Chi trova un archivio, trova un tesoro di M. Cristina François

La Pigna ritrovata di Andrea Caneschi

Vom Weib (della donna) di Luisa Moradei

Il risveglio di Finnegans di Gianni Biagi

L’irresistibile fascino dei pontili di Danilo Cecchi

Encelado di Ruggero Stanga

Elogio della letteratura tecnica di Francesco Gurrieri

Segnali di fumo di Remo Fattorini

Direttore Simone Siliani

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

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Versi tra gli scaffali Lorenzo Bertolani, il poeta che ha voluto farsi farmacista (sulle orme di Dino Campana) di Dino Castrovilli Sabato 16 settembre, dentro la Villa (ex manicomio giudiziario) di Castelpulci Lorella Serni ha riproposto - ma questa volta in uno dei luoghi campaniani più significativi - Così bella come un sogno, la drammaturgia poetica su Sibilla Aleramo che Lorenzo Bertolani ha scritto nel 2008, e che da allora è diventata, giustamente, un piccolo grande classico del nostro teatro. Per la straordinaria interpretazione di Lorella Serni, la Sibilla più intensa e più vera vista al cinema e a teatro, e per la scrittura di Bertolani, un magistrale mix di poesia e prosa a più voci: quella di Dino Campana, quella di Sibilla Aleramo (l’occasione per rivedere la drammaturgia è stata il centenario dell’ultimo incontro tra Dino e Sibilla, avvenuto il 13 settembre 1917 nel carcere di Novara) e la sua: un testo (“L’ho amato,/come nessun altro avrebbe mai potuto amarlo,/come si ama l’ultima delle cose che la vita/ti ha concesso di amare prima della morte./L’ho amato come il passaggio estremo/che il destino ti pone/perché si compia il tuo destino./Il mio ricordo, tragico e dorato,/come lui, come il suo viso,/i suoi capelli, i suoi occhi./Come il suo libro…”, per citare un frammento) che prova oltre ogni dubbio il grande spessore poetico (parole di un altro autentico grande poeta, Roberto Carifi) di Lorenzo Bertolani. Che è un poeta prestato alla… Farmacia! Mentre la sua stella Dino Campana si era cimentato malvolentieri all’università in Chimica pura, Bertolani, nato nel 1962 e terza generazione della “dinastia” dei farmacisti Bertolani di Badia

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a Settimo - in occasione degli 80 anni della farmacia il poeta e scrittore ha dato alle stampe Stanze di un farmacista (Edizioni della Meridiana, 2016) - ha dovuto/voluto indossare il camice bianco di farmacista. Sempre formule, ma anche lui, come l’autore dei Canti Orfici, creatore di formule poetiche, alchimista trasformatore della realtà, anche quella professionale vissuta giorno per giorno, in suggestioni ora ironiche (“ Le parole che queste mura assorbono/andrebbero rese pubbliche./E pensare che tra i complementari/non hanno ancora inserito/l’esame di /autocontrollo: 30/ ascolto: 29/comprensione: 30 e lode./Farò una proposta ufficiale,/una raccolta di firme/sostenuta dall’Associazione.”) ora immaginifiche (“La poesia prende corpo/alla luce scheletrica del neon./In un culmine in cui/tutto sembra protendersi/s’aggruppano i destini/e le voci già prima/disperse nei secoli dei secoli./Sulle ricette e sulle biro,/sul lampo dei terminali/una vetta invisibile/li contiene”). Bertolani ha pubblicato molto di poesia e di prosa – oltre a Così bella come un sogno va segnalato Jacopino Vespignani. La sapienza del coraggio, messo in scena da Giancarlo

Cauteruccio con l’interpretazione le musiche di Luca Mauceri (Vespignani, nel luglio 1942 commissario prefettizio a Tredozio, sull’appennino tosco-romagnolo, salvò dai nazifascisti diversi concittadini) e realizzato il cd rom allegato al libro di Giovanni Cenacchi I Monti Orfici di Dino Campana (Polistampa, 2003 e 2011) – ma ci è caro soprattutto per il suo impegno a favore della comprensione e della conoscenza di Dino Campana, sul quale ha scritto, tra l’altro, due preziosi volumi: Dino Campana da Castelpulci a Badia a Settimo (Centrolibri Scandicci, 1999 e 2007) e Felice di essere povero ignudo. Felicità e religiosità nell’opera di Dino Campana (Edizioni della Meridiana, 2014). Una scintilla, quella campaniana, scoccata quando il quattordicenne Lorenzo fu visto aggirarsi dentro la chiesa di badia a settimo (dove Campana finalmente “riposa”) e fu bonariamente rimproverato dal priore Don Furno Checchi perché non conosceva Dino Campana: turbato ma soprattutto incuriosito, Lorenzo tornò a casa, cercò La Chimera, la divorò pur non potendola comprendere pienamente e iniziò a “seguire la sua via”, come avrebbe detto Campana: la Poesia.


Termine di un viaggio chiamato amore di Dino Castrovilli Il 13 settembre del 1917 si spense uno dei fuochi amorosi più violenti e intensi della storia non solo della letteratura ma forse dell’umanità, quello divampato nell’agosto del 1916, tra i prati e i monti del Mugello, tra la scrittrice Sibilla Aleramo (all’anagrafe Rina Faccio) e il poeta Dino Campana. Lei era diventata famosa per il romanzo autobiografico Una donna – la ricerca dell’emancipazione e della libertà attraverso scelte anche estreme come l’abbandono di un marito e di un figlio di 7 anni -, lui due anni prima era riuscito tra mille difficoltà (compresa la perdita del precedente manoscritto ad opera di Ardengo Soffici) a stampare il suo “libro unico”, Canti Orfici, rivelatosi col passare degli anni uno dei capolavori della letteratura del ‘900. Quel giovedì 13 settembre si videro attraverso le sbarre di una cella del carcere di Novara: Campana era stato arrestato per l’ennesima volta perché, con la sua capigliatura e barba rossicce, il suo sguardo ormai un po’ folle, sospettato di essere una spia tedesca: “Arrestato a Novara, vieni a vedermi. Campana“, le aveva telegrafato l’11 settembre. Sibilla accorre, anche se stremata dai continui inseguimenti, liti, insulti, riappacificazioni. Gli promette che intercederà presso qualche suo amico potente per farlo liberare, lo farà, e Dino verrà rispedito a Marradi con un foglio di via. Subito dopo l’incontro va alla stazione per ripartire e in attesa del treno scrive a Emilio Cecchi, amico e confidente di entrambi (in uno degli accecamenti furiosi degli ultimi tempi Campana scriverà che “(il pizzicagnolo) Cecchi a me involtolò in carta Sibilla e me la mise in tasca”) per raccontargli l’incontro. Abbiamo la lettera ufficiale, ma ecco l’ancora più struggente “trascrizione” che ne fa Lorenzo Bertolani nella sua drammaturgia poetica Così bella come un sogno: “Caro Emilio. Fra me e lui una doppia grata./I carcerieri ci

guardavano./Mi baciava le mani dalle sbarre/e mi chiedeva di non lasciarlo:/’Le ultime tue due mani’ supplicava/’fredde come questi ferri che ci separano…/Rina, Rinetta./ Rimani!’./Mi chiamava Rina, col mio vero nome./Mi ha pregato di non essere gelida,/ mi ha scongiurato di staccarmi/dal nichelino di metallo dove ero raffigurata./Le guardie ci osservavano e sembravano commuoversi/ mentre lui singhiozzava e gridava!/Ho cercato di tranquillizzarlo,/gli ho detto che avevo assicurazioni/che di lì a poche ore sarebbe stato di nuovo libero:/’Potrai tornare ai tuoi monti,/sull’Appennino./Potrai ritrovare la felicità,/la stessa di quando camminavi nei tuoi boschi./Ricorda la tua poesia, Dino,/la pacificazione nella natura,/la tua poesia…’” Campana da Marradi è tornato a Lastra a Signa, all’albergo Sanesi, da dove scrive lettere sempre più deliranti, in diverse delle quali esprime o insulti anche volgari verso Sibilla oppure dichiarazioni d’amore come, nella lettera a Raffaello Franchi, “Ditele (alla signora Aleramo) che giacché non ho potuto morire non dispero ancora di vivere per Lei” . E’ l’8 gennaio 1918: quattro giorni dopo il medico condotto di Lastra a Signa certifica che Dino Campana “è affetto da alienazione mentale et urge sia internato nel Manicomio Provinciale”. Il poeta, ormai fuori di sé, in preda ad uno stato di eccitazione mentale che lo porta alla mania di persecuzione (“Sibilla mobilita contro di me il fango delle vie”) viene portato a San Salvi, da dove, il 17 gennaio, emette l’ultimo straziante grido d’aiuto a Sibilla: “Cara, Se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo Dino”. Poi nulla più. Sibilla Aleramo si guarda bene dal rispondere o dall’andare a trovarlo, a San Salvi o a CastelpuIci, dove resterà per 14 anni. Il viaggio che chiamavano amore è giunto al termine: “In un momento sono sfiorite le rose. Erano le sue rose, erano le mie rose”.

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Le Sorelle Marx

Ape Man all’Onu

Caro direttore, vogliamo esprimerLe tutto il nostro sincero ringraziamento per averci inviate, in rappresentanza della rivista, a seguire la 72° Assemblea Generale delle Nazioni Unite. E’ stato molto istruttivo e finanche divertente. La prima cosa che vogliamo segnalare ai nostri lettori è la scenetta in cui Ape Man è salito sul palco cantando Rocket Man, la canzone di Elton John del 1972. Ape Man ha detto di chiamarsi Trump Donald, ma era chiaramente la mutazione trasgenica di Monk Keefer, il super-cattivo creato da Stan Lee e Don Heck per la Marvel Comics: un forzuto con muscoli, zigomi e bocca giganteschi, come un orango delle foreste pluviali dell’Africa. La scena era di per sé ridicola, ma quando Ape Man si è messo a cantare And I think it’s gonna be a long long time, ‘Till touch down brings

I Cugini Engels

Diplomazia

Caro direttore, anche noi, come le Sorelle Marx, la ringraziamo per averci mandato in trasferta, anche se a noi – a differenza delle Sorelle – è toccato un posto un po’ meno glamour di New York. Infatti, Pyongyang, capitale della Corea del Nord non è proprio una meta ambita del turismo internazionale, ma vista da qui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha tutto un altro sapore. E, inoltre, la sapiente guida per i caffè della capitale coreana del senatore Razzi ha reso tutto più piacevole... a parte l’incontro con con l’amato leader Kim Jong-un che, dopo le parole di Trump è andato letteralmente in bestia: ha definito Trump “un vecchio rimbambito americano mentalmente squilibrato”, ma ha anche specificato che “un cane impaurito abbaierebbe più forte”. Ora, il diplomatico Razzi ha cercato di calmarlo raccontandogli di quanto è verde il Teatino e di come tanti suoi connazionali siano andati in America a fare la fortuna del

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me round again to find, I’m not the man they think I am at home, Oh no no no I’m a rocket man, ci siamo sbellicate dalle risate. Poi, sempre Ape Man, ci ha spiegato che modestamente che “Gli Stati Uniti hanno fatto molto bene dalla mia elezione: la Borsa è a livelli record e l’occupazione in aumento. ...sono tempi di opportunità straordinari”; ma a dire il vero la delegazione messicana, quella cubana, quelle yemenita, siriana e irachena non erano molto d’accordo. Ma Ape Man ha chiuso la questione con un bel tweet: “Grande giorno alle Nazioni Unite - stanno accadendo molte cose buone e alcune complicate. Noi abbiamo un ottimo team. Grande discorso alle 10 A.M.”. L’intera assemblea si può riassumere con l’apodittica frase del Segretario Generale dell’ONU, il portoghese Guterrez: “Siamo in un mondo di pazzi”. Ops, pardon, “in pezzi”.

paese trovando sempre accoglienza. Kim voleva cavargli gli occhi, ma poi ha ricordato come Razzi lo abbia difeso in Occidente definendolo «un moderato» che «sta cercando di portare un po’ di democrazia in quel paese».Allora si è calmato e, con flemma quasi inglese, ha dichiarato che si prepareranno ad una ritorsione di enorme ampiezza alle parole di Trump. Razzi, particolarmente soddisfatto dei suoi sforzi diplomatici ha ribadito che la Corea del Nord è la «Svizzera d’Oriente», non solo per la sua vocazione pacifista, ma soprattutto per le sue «strade belle e molto pulite [...] Lì puoi andare tranquillo, nessuno ti tocca. Mica è Roma. Forse è la nazione più sicura che conosca». Caro direttore, dopo le dichiarazioni di Razzi non so se ci lasceranno tornare in Italia: Kim ha detto che ci tratterrà qui per tutelare la nostra incolumità, perché Roma è una città pericolosa... Se può, ci mandi qualche pacco di spaghetti. Grazie

Lo Zio di Trotzky

Lombroso e Forza Nuova

Forza Nuova ha iniziato le sue “passeggiate per la sicurezza” a Siena pubblicando una foto del primo manipolo di arditi impegnato nella ronda. La foto, che pubblichiamo pur consci di urtare i nostri lettori più sensibili, dimostra inequivocabilmente che due grandi pensatori dell’800 avevano incontestabilmente ragione. Il primo è il Marx del 18 brumaio, quando affermava che la storia si presenta sempre due volte la prima sotto forma di tragedia, la seconda sotto forma di farsa. Il secondo è il troppo sottovalutato Lombroso. La sua teoria della fisiognomica è infatti provata nell’osservazione dei volti dei forzanuovisti senesi. Da quello che presumiamo il capo, un passo avanti agli altri, sguardo truce, pugni serrati nella posa che vorrebbe mostrare la ferocia e invece dà l’impressione che trattenga un peto. Oppure il camerata alla sua destra con lo sguardo perso nell’infinito, o i due al centro che probabilmente cercavano una sala per giocare a Dungeons e Dragons e invece sono finiti per sbaglio nella sede di forza nuova e gli pareva brutto andarsene, ma comunque non possono fare tardi perché i genitori passeranno a riprenderli massimo alle una. Infine l’ultimo a destra nella foto, mano in tasca, anfibio regolamentare e una gran voglia di fare presto per raggiungere gli amici al bar. Insomma i cittadini senese che probabilmente dormivano sinora tranquilli adesso hanno davvero qualcosa per cui preoccuparsi.


Avanzi di Avanti Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi. Uscire da un luogo di potere senza nulla: è un esperienza che un uomo dovrebbe provare almeno una volta nella vita

Segnali di fumo di Remo Fattorini C’ero anch’io martedì al Mandela Forum. Eravamo in seimila ad ascoltare le parole di Sua Santità il XIV° Dalai Lama. Giovani e meno giovani, uomini e donne, quasi tutti paganti. Tema conduttore: la libertà nelle regole, quindi il dialogo e il rispetto delle differenze. Questioni complicate, scottanti e divisive che nelle Sue parole diventano semplici e comprensibili. “Siamo tutti uguali, siamo tutti esseri umani, abbiamo tutti due occhi, un naso e una bocca.

Mettere troppa enfasi sulle differenze secondarie serve solo ad alimentare sfiducia e sospetto che piano piano sfociano nella violenza”. Concetti condivisi, almeno all’interno del catino del Mandela. Ma che appena varcata l’uscita si scontrano con un altro mondo, fatto di parole aggressive e di insulti. Così le differenze diventano ostacoli insuperabili, motivo di contrapposizioni e scontri. Se poi ti capita di leggere il recente dossier della Caritas scopri una realtà ancora più amara: un mondo che credevi ormai superato - quello dei muri che dividono e respingono - continua invece ad esistere. Scopri che a 28 anni dalla caduta del muro di Berlino un terzo del mondo vive blindato, al riparo di muri alzati con una rapidità impressionante. Se nel 1989 si contavano 16 recinsioni fra Paesi, oggi queste barriere sono 4 volte di più (per l’esattezza 63). Sulla tendenza prevalente non ci sono dubbi: in Africa si contano 12 muri, 2 in America, 36

fra Asia e Medio Oriente. L’Europa (in particolare quella orientale) non è da meno: è caduto il muro di Berlino e sono nate nuove 16 recinsioni. Dal 2000 ad oggi sono circa 10mila i km di cemento e filo spinato che hanno sbarrato le nostre frontiere, con l’obiettivo di arginare migranti e proteggerci – così almeno ci raccontano - dal terrorismo. In realtà, a me pare, che il vero motivo sia quello di tenere separati i ricchi dai poveri, i benestanti dai diseredati. La conferma ci arriva dal bilancio di Frontex, l’agenzia dell’Ue per il controllo dei confini: triplicato negli ultimi 3 anni, passando – leggo su Avvenire – da 97 a 281 milioni di euro. Una montagna di soldi per produrre un record di vittime: nel “muro” del Mediterraneo si sono contati 3.748 morti nel 2015 e 5.143 l’anno scorso. Tutto questo accade nel pieno di una globalizzazione che ha incrementato lo scambio delle merci, delle idee e dei capitali, mentre per le persone si sono costruite solo barriere.

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di Laura Monaldi Il mondo pittorico di Elisa Zadi è inconfondibile e dettato da una particolare espressività capace di mettere in luce l’elemento emotivo al di là dell’immagine rappresentata; è un viaggio intimo nell’essenza del sé volto a cogliere le sfumature dei sensi e le manifestazioni dell’anima; è un’indagine che dalle realtà oggettive del mondo porta lo spettatore nella dimensione isolata e misteriosa dell’introspezione; è il tentativo di fare del gesto artistico un atto creativo che manipola l’immagine con espressionistici giochi di colore fino a cogliere quella spiritualità umana perduta nel tempo. Come in un gioco di specchi, l’artista racconta se stessa attraverso ciò che la tela e gli strumenti del mestiere gli permettono di comunicare, avvolta nella meditazione e nello slancio intuitivo della contemplazione. Nel suo percorso Elisa Zadi si è fatta pittrice e perfomer, unendo all’aulica tecnica pittorica il vitalismo scenografico ed eclettico della teatralità estetica, donando al mondo l’irripetibile possibilità di immergersi nei turbamenti umani, in una catarsi d’eccezione che da sguardo a sguardo purifica dal consueto modo di sentire e percepire l’esistenza circostante. Nelle sue performance il mondo naturale e umano entrano in una simbiosi mistica tale da suscitare nello spettatore un senso catartico unico e irripetibile. Variando di luogo in luogo le azioni performative di Elisa Zadi entrano in sintonia con l’ambiente circostante, facendo dello spazio e del tempo dell’azione un unicum travolgente e introspettivo. I gesti, le declamazioni, gli strumenti e gli oggetti di scena prendono parte a una sorta di atto teatrale, di cui l’artista si fa protagonista e portavoce di un messaggio da esprimere non solo con la pittura ma con tutto il proprio corpo. Il misticismo che pervade l’azione costringe a un dialogo diretto con l’Universo e i suoi segreti. L’artista diviene un vate e una sacerdotessa che ha l’arduo compito di condurre lo spettatore alla scoperta di ciò che gli occhi non possono cogliere, di ciò che esiste oltre le apparenze dell’esistenza e di ciò che si cela oltre la Vita. Intime e profonde le performance di Elisa Zadi indagano le aporie delle

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Il viaggio di Elisa

coscienze collettive, ristabilendo l’armonia naturale persa nella società contemporanea, riscoprendo miti e ideologie perse nel tempo ma che ancora vivono nell’anima sensibile di colei che ha ancora il coraggio di toccare la terra con le mani e sporcarsi con ciò che l’esistente ci dona attimo dopo attimo.


Musica

Maestro

Cracovia d’autunno

di Alessandro Michelucci Cracovia è una città bellissima. Viva, ridente, ordinata, lontana anni luce dal degrado urbano che affligge molte città italiane ed europee. Bagnata dalla Vistola, custodisce la tragica memoria della Seconda guerra mondiale: situata a 60 km da Oswiecim (Auschwitz), la città ospita numerose testimonianze della cultura ebraica. Ma Cracovia è soprattutto un centro culturale di respiro europeo. La sua Università Jagiellonica, fondata nel 1364, è uno degli atenei più antichi del continente. Inoltre, qui sono nati musicisti come Abel Korzeniowski, Krzysztof Meyer e Zbigniew Seifert; l’antropologo Bronisław Malinowski, famoso per i suoi studi sulle culture indigene della Melanesia; Helena Rubinstein, fondatrice dell’omonima fabbrica di cosmetici. Nella città hanno vissuto Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, e Stanisław Lem, autore di Solaris, uno dei capolavori della fantascienza. Senza dimenticare Karol Woytjla, arcivescovo dal 1964 al 1978, quando fu eletto papa. La città ospita una grande varietà di festival: cinematografici, letterari, musicali. Lo strumento migliore per essere aggiornati su questo panorama in continuo movimento è il mensile Karnet, diretto da Grzegorz Słącz (http:// karnet.krakow.pl). Niente paura comunque: accanto al testo in polacco viene pubblicata la traduzione inglese. Diamo quindi un’occhiata alle prossime manifestazioni musicali della città. La più vicina è Sacrum Profanum, che si svolgerà dal 26 settembre al 1o ottobre. Si tratta di un festival che gli amanti delle musiche non convenzionali dovrebbero vedere almeno una volta. Questa quindicesima edizione offre un programma vario e stimolante del quale possiamo solo accennare. La musica di Moondog (al secolo Louis Thomas Hardin, 1916–1999) verrà eseguita da due ensemble francesi, Dedalus e Muzzix. Musicista decisamente atipico, dimenticato per lungo tempo, Moondog è stato riscoperto negli ultimi tempi. Le sue musiche sono state eseguite in vari paesi e alcuni dei suoi dischi sono stati ristampati. Chi vuole conoscere questo geniale compositore americano può leggere il libro Moondog di Amaury Cornut (Le mot et

le reste, 2017). Un altro concerto da non perdere è quello di Lubomyr Melnyk, pianista canadese di origine ucraina. Autore di numerosi dischi, Melnyk viene considerato il pianista più veloce del mondo: può suonare fino a 19 note al secondo. Murcof, compositore messicano che vive a Barcellona, si esibirà insieme alla pianista Vanessa Wagner. Per l’occasione i due hanno riarrangiato brani di John Adams, Aphex Twin, John Cage e Philip Glass. Il romeno Iancu Dumitrescu, compositore e direttore d’orchestra dedito all’avanguardia spettralista, proporrà nuovi brani che ha composto per l’occasione. Ad eseguirli sarà il suo Hyperion Ensemble. Il duo composto da Barbara Kinga Majewska (voce) e Bartek Wąsik (piano), fondatore del gruppo Kwadrofonik, proporrà uno spettacolo che traversa i generi musicali rifiutando qualunque definizione. Tomasz Stańko, celebre trombettista polacco, è noto ai jazzofili per i suoi dischi pubblicati dall’etichetta ECM. La Polonia vanta una tradizione jazzistica importante ma ancora poco nota, sulla quale torneremo presto. Un altro festival musicale di grande interesse è Unsound (8-15 ottobre). Come di consue-

SCavez zacollo

to gli organizzatori hanno scelto un tema centrale: quest’anno si tratta del Flower power, l’insieme dei fermenti culturali (non solo musicali) che segnarono gli Stati Uniti e l’Europa negli anni Sessanta. La psichedelia, comunque, non viene riproposta in stile vintage, ma da musiche sperimentali che la stravolgono profondamente. Wacław Zimpel e Kuba Ziołek, due giovani artisti polacchi, propongono una musica che fonde gli stimoli più diversi: dalla psichedelia al jazz, dal folk al minimalismo. I tedeschi Einstürzende Neubauten, pionieri della musica industriale, non hanno certo bisogno di presentazioni. Il leader Blixa Bargeld è noto anche per la sua recente collaborazione con Teho Teardo. Ben Frost, australiano che vive in Islanda, eseguirà fra l’altro pezzi del suo nuovo album, The Centre Cannot Hold (Mute, 2016), prodotto da Steve Albini. Frost è una presenza assidua del festival, per il quale ha realizzato il meraviglioso Solaris (2011), composto insieme a Daníel Bjarnason. Il festival non si esaurisce nelle date cracoviane, ma include vari concerti in città come Adelaide, Londra e Toronto. Dopo Unsound, l’intensa vita culturale della città prosegue con una bella iniziativa letteraria, il Conrad Festival (23-29 ottobre). Il nome allude a Joseph Conrad, autore del celebre Cuore di tenebra. Quello che molti considerano uno scrittore inglese era in realtà polacco ed era nato a Berdyčiv (oggi Ucraina) col nome di Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski.

disegno di Massimo Cavezzali

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di Mariangela Arnavas Livorno è una città dalla quale è difficile allontanarsi, staccarsi pressoché impossibile. Naturalmente, quasi tutti i livornesi si lamentano, soprattutto del disordine stradale e del rumore, ma raramente, me compresa, riescono a schiodarsi del tutto. Sarà l’aria così leggera o i colori dei suoi pittori post macchiaioli o il “ porto delle illusioni” come lo chiamava Piero Ciampi, comunque ti resta dentro; mi risuonano in testa le parole della canzone di Bobo Rondelli: “Viaggio d’andata, senza ritorno, bella Livorno, mi fermo qui”. Sarà anche il fascino della città matriarcale, come tutte quelle dove nel tempo gli uomini stavano sempre in mare al lavoro e a casa tutto il potere restava per forza nelle mani delle donne, tanto vero che si era creata nei primi del Novecento una tradizione significativa: le donne del popolo sposate o comunque di una certa età, con i vestiti migliori e tutti gli ori addosso si davano appuntamento una volta all’anno nella piazza principale, noleggiavano tutte le carrozze disponibili e andavano insieme a fare un grande pranzo (ribotta) a Montenero, sulla collina vicina a Livorno, dove c’è il Santuario della Madonna Nera; è rimasta una commedia in vernacolo su questa ricorrenza che però era reale. Per me da anni Livorno è seconda città, anche se non nel cuore; così non c’ero la notte dei morti e del nubifragio e per qualche giorno ho seguito le cronache senza riuscire a dire neanche una parola come quando hai preso un colpo forte ed hai bisogno di tornare ad orientarti, forse anche un po’ a causa di una specie di senso di colpa per essere stata lontana. Sono tornata venerdì e c’era di nuovo allerta meteo; andando al cinema con un’amica, sotto una pioggia leggera, ho avvertito qualcosa di anomalo: all’inizio WE, ora dell’aperitivo, il centro dal quartiere Venezia fino alle piazze centrali è di solito invaso dalla movida dei giovani, rumorosi e a volte anche un po’molesti, davanti ai locali e fermi nei gruppi, invece le strade erano di piombo liquido, completamente vuote; alla Barrocciaia, dove per trovare un posto a sedere a quell’ora per mangiare un panino bisogna fare a cazzotti, i tavoli erano tutti liberi; al cinema, lo storico cinema della città La Gran Guardia, dove era arrivato il primo film dal Festival di Venezia siamo solo in due sia al primo che al secondo spettacolo . Si sente il silenzio della paura, la mia città così spavalda e strafottente è colpita, traumatizzata; si è scoperta, ad un tratto fragile e senza

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Bella Livorno forza Livorno

guida. Qualcuno ha detto che Livorno ha reagito; certo i giovani dei Centri Sociali e della Caritas sono accorsi a dare una mano subito e con generosità, così gli immigrati presenti e perfino gli ultrà del Pisa che hanno accantonato provvisoriamente lo storico antagonismo calcistico per mettersi a spalare il fango a fianco dei livornesi. Comunque la notte di venerdì piove pochissimo, ma anche la mattina di sabato non c’è gente per strada, del resto le scuole sono chiuse; è solo quando esce un po’ di sole, verso le 11, che la gente torna a uscire e circolare per le strade. Ma la città è raggelata, scossa, perfino nei commenti per strada della mattina, si sente qualcosa di strano; Livorno non ha mai lesinato le critiche anche aspre e le battute spesso pesanti e tranchant alla classe dirigente; anche quand’era il cuore rosso della Toscana e il PCI aveva quasi il 70% di voti non risparmiava neppure i personaggi sacri come Berlinguer, Ingrao, Amendola; non a caso è la città del Vernacoliere. Ma

sabato mattina, anche al mercato, le gente è poca, le facce preoccupate e i toni bassi; si percepisce il disgusto che condivido per lo spettacolo squallido dello scaricabarile andato in scena sui media nei giorni seguenti al disastro: nessuno che abbia detto: “Cerchiamo di capire dove abbiamo sbagliato”; un’unica, inutile, stupida rincorsa a “non sono stato io, non c’ero e se c’ero dormivo e il cellulare non prendeva.” Triste pantomima, peraltro inutile in quanto c’è la Procura che indaga e a breve ci sarà anche il giudizio popolare con le temutissime elezioni del 2018. Senz’altro le responsabilità ci sono a più livelli e vengono anche da lontano probabilmente, però quello che mi sento di chiedere, a nome della mia città profondamente ferita, a tutti i soggetti che hanno competenze è di mettersi a lavorare sodo e con serietà estrema per cercare di superare gli errori commessi fino ad oggi; risorse e strumenti sembrerebbero esserci. Però, per favore, in silenzio.


di Luisa Moradei La Griffelkunst è un’arte che si avvale di una tecnica variegata ed alchemica che non cessa mai di suscitare meraviglia, sia nel segno capillare e millimetrico che nel tratto ampio e materico. Quando la magia della tecnica si unisce alla suggestione tematica si pongono le basi per un forte impatto comunicativo, quello che si prova nel visitare l’esposizione Vom Weib (Della donna) in corso al Deutsches Institut Florenz in Borgo Ognissanti fino al 30 settembre. La mostra curata da Emanuele Bardazzi, noto studioso del simbolismo figurativo, offre una raffinata selezione delle opere incisorie di quegli artisti di area tedesca, legati al mondo simbolico, onirico e immaginario, che ruotano attorno a Max Klinger. Tutte le opere insistono sulla raffigurazione simbolica dell’essere femminile le cui innumerevoli sfaccettature, indagate dai vari artisti con ferocia o con benevolenza, restituiscono un’immagine caleidoscopica che da un lato ne rivendica la libertà assoluta e l’estremo predominio, dall’altro la inchioda a ruoli ed archetipi rigidi e contrastanti. Soluzioni grafiche di straordinaria fantasia e creatività affiancano e contrappongono la figura asessuata della vergine casta alla femme fatale, la donna come incarnazione di amore e armonia, ma anche creatura pericolosa, perversa e tentatrice che porta l’uomo alla perdizione; e così il mito primordiale della caduta e l’origine di tutti i mali dell’umanità vengono rappresentati attraverso le icone

Vom Weib (della donna) di Eva e Pandora, mentre il rapporto tra i sessi si carica spesso di turbamenti, nevrosi e sensi di colpa che vedono in lotta Eros e Thanatos. Questa stagione ineguagliata della grafica tra ‘800 e ‘900 è rappresentata in primis da Klinger di cui sono esposte alcune celebri incisioni. Fra queste l’opera che catalizza l’attenzione è senza dubbio la versione ad acquaforte dell’Isola dei morti dipinta da Arnold Böcklin, a cui il pittore di Basilea aveva aggiunto in un secondo tempo la piccola barca che trasporta la bara con la figura della sposa ammantata di bianco che accompagna il defunto. Sappiamo che il famoso quadro era stato commissionato da Marie Berna come opera consolatoria per lenire il dolore della perdita del marito, desiderando come addio al consorte ”un quadro per sognare”. La forza della traduzione di Klinger consiste proprio nel far proseguire il sogno. Le visioni nordiche cedono il passo ai paesaggi mediterranei di Sigmund Lipinsky nei quali prendono vita fantasie mitologiche in cui il nudo diventa allegoria e, pur non perdendo la sua corporea materialità ma anzi interagendo con la natura, si fa tramite di tensioni ideali. In particolare colpisce la rappresentazione serena e sognante di Calma marina con una delicata

teoria di nudi femminili accarezzati dalla brezza del mare sul litorale di Terracina. In contrasto con le raffigurazioni poetiche, Otto Greiner esibisce un aspetto spesso negativo e funesto della donna, vista come strumento di tentazione diabolica, tanto da volerne rappresentare una vendetta punitiva che nella litografia Der Mörser (dal ciclo Vom Weib) si esibisce in un annientamento schiacciante per opera di un mortaio fallico. Anche Franz von Stuck insiste sull’immagine femminile conturbante e luciferina: Sensualità, l’acquaforte da cui poi derivarono le varie versioni del dipinto scandalo Il peccato, mostra infatti una donna voluttuosa avviluppata da un serpente complice e protettore che le lambisce i seni, e qui siamo di fronte ad una tecnica magistrale che restituisce con dosate morsure la viscidità del rettile. Il tema atavico ed eterno del conflitto tra i sessi, Mann und Weib, viene invece affrontato simbolicamente da Bruno Héroux nei due fogli dal ciclo Vae Solis che con tratto analitico manifestano le sue profonde conoscenze anatomiche. Completano il florilegio opere di altri autori che offrono visioni mitologiche, oniriche, drammatiche e ironiche in cui la donna è al centro della rappresentazione.

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L’irresistibile fascino dei pontili

di Danilo Cecchi Spulciando fra i lavori dei fotografi contemporanei, salta fuori un tema ricorrente, presente nell’opera di molti nomi noti, da Michael Kenna a Mark Voce, da Rafal Maleszyk a Gary Newman, da Henki Koentjoro a Martin Rak, oltre che di numerosissimi altri fotografi più o meno conosciuti, presenti ed attivi. Questo irrinunciabile tema è costituito dal pontile, quella esile struttura protesa fra la terraferma e l’orizzonte, elemento dall’alto valore metaforico e simbolico, che congiunge un retroterra consolidato ed un ambiguo mondo che sta fra l’acqua ed il cielo, collegamento ideale fra un passato che ci

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lasciamo alle spalle ed un futuro che ci si apre davanti, pieno di promesse ma anche di incertezze. Il pontile può rappresentare molte cose, dalla partenza all’abbandono, dalle occasioni perdute all’attesa di qualcosa o di qualcuno che deve ancora arrivare. Così i fotografi si riversano in massa ad immortalare i pontili, qualunque tipo di pontile, oceanico o marino, lacustre, palustre o fluviale, realizzato in qualunque materiale, legno, metallo, pietra o cemento, in condizioni buone o cattive, in piena efficienza o semi sommerso e cadente, sfondato o corroso dalla ruggine, talvolta ridotto al solo scheletro o ai soli piloni di sostegno. Si fotografano tutti i tipi di pontile, da quelli completamente aperti a quelli con il parapetto su di un lato, fino a quelli stretti fra due parapetti o costeggiati da file di radi lampioni. I pontili vengono inquadrati quasi sempre in prospettiva centrale, ponendoli al centro dell’immagine, e con l’impiego di obiettivi grandangolari che ne esaltano la fuga verso l’infinito. A volte vengono inquadrati arditamente in verticale, per sottolineare il loro sviluppo in lunghezza, oppure in orizzontale per sottolineare il vuoto angosciante che si apre ai due lati, e perfino con inquadrature panoramiche che isolano il piccolo pontile in scenari molto ampi ed avvolgenti. Non mancano le inquadrature quadrate, con il pontile che riempie quasi tutto il lato inferiore e si annulla verso l’alto, come il fianco di una piramide, confondendosi con un orizzonte che è quasi sempre vuoto, ma che nel caso dei laghi lascia vedere o intravedere la irraggiungibile riva opposta. Molto spesso il ricorso alla esposizione extra lunga trasforma la superficie del mare o del lago in una tavola assolutamente piatta e priva di colore, ed il cielo in un vuoto cosmico, isolando il pontile fra due nulla opposti, sopra e sotto il tavolame consunto di cui si descrive con puntiglio ogni singolo dettaglio. A volte si aggiunge al vuoto del pontile un piccolo elemento curioso, un chiodo sporgente, un lembo di stoffa, una scarpa abbandonata, un copertone appeso su di un lato, lo scheletro di una barca, molto raramente una figuretta umana posta all’estremità più lontana. Si fotografano i pontili in bianco e nero, ma anche a colori, sia con i colori “naturali” che con quelli “caricati”, giocando sui toni grigi ed azzurri del cielo riflesso nell’acqua immobile o su quelli caldi e cangianti del tramonto. Come alternativa ai cieli bianchi e vuoti si cercano cieli tempestosi carichi di nubi minacciose ed incombenti, che sottolineano la fragilità e la precarietà della struttura del pontile, che diventa in questi casi il simbolo

dell’impraticabilità di qualsiasi via di fuga verso l’ignoto. Sedotti dall’irresistibile fascino dei pontili, i fotografi ne sondano tutte le tipologie e le casistiche, in maniera quasi ossessiva, morbosa e parossistica, realizzando talvolta opere dense di allusioni simboliche e di significati ambigui, ma molto più spesso realizzando delle banali cartoline, del tutto prevedibili e ripetitive. I pontili, del resto, hanno tutti un punto di inizio certo, tangibile e concreto, e si sporgono tutti verso il largo, senza mai arrivare da qualche parte, senza un punto di arrivo definitivo, virtualmente prolungabili all’infinito, senza una vera e propria fine.


di Andrea Caneschi Ieri, improvvisamente, ci è apparsa l’indicazione risolutiva: “Pigna 7 Km”, in cima ad un cartello che di sguincio indicava, a chi riusciva a vederlo, l’ennesimo percorso da capre per allontanarsi dal mare. Pochi chilometri più avanti, percorsi su di un equivalente di autostrada per gli standard locali, ignorando le lusinghe del tratturo, e siamo arrivati alla nostra destinazione: Algajola, tranquilla cittadina sul litorale, con tanto di forte di antica memoria, un aspetto molto riposante e accogliente ed una spiaggia ampia, non affollata, con le dotazioni minime di ombrelloni e lettini per un comodo soggiorno Ci fermiamo, anche perché ad andare più avanti rischiamo di perdere Pigna, che non ci faremo certamente mancare, avendola tanto cercata. Due sole parole per Algajola: agnellino arrosto, il migliore nella storia, tenero e ben cotto, immerso in un mare di vere patate al forno, cotte insieme a lui. Lo portiamo nel cuore, avendolo ormai laboriosamente digerito. Siamo arrivati a Pigna quasi al tramonto, per via di un eccesso di sonno che ha accompagnato la digestione. La strada naturalmente era quella più lunga possibile e, come sempre, nonostante la precedente esperienza, costantemente lato precipizio, per dare più sostanza alla salita. La zona è altamente turistica, niente a che vedere con Pieve; si attraversano un paio di paesi ben messi e ben frequentati, nonostante anche quelli siano inerpicati a mezza costa, e il traffico è quasi vivace, con piccole colonne di mezzi che si formano dietro al più prudente che si trova a guidare la fila. Due passi per Pigna, giusto per apprezzare il lavoro di restauro, molto rispettoso del vecchio paese, con l’intrico di strette stradine, lunghe, quando sono lunghe, una ventina di metri; tante piccole abitazioni all’interno di vecchi edifici ristrutturati a due, tre piani, la piazza della chiesa e il palazzo dei signori locali, trasformato in residence con annesso ristorante di livello. Laboratori artigianali e vere e proprie botteghe d’arte si aprono sulle stradine acciottolate, mostrando le numerose manifatture che hanno fatto di questo paesino in abbandono un centro turistico e culturale originale, conosciuto anche per il vario calendario di eventi musicali lungo tutto l’anno (“Cultura Commestibile” n. 223). Disseminati qua e là negozietti di specialità corse, ristoranti o botteghe da merenda, con i prodotti locali in esposizione. Ci sediamo in una di queste, su un specie di terrazza all’aperto, con copertura di canne, piccoli

Corsica La Pigna ritrovata

tavolini rusticissimi e un orizzonte infinito, con le luci che cominciano ad accendersi, e il profilo della costa che si scurisce sempre più a contrasto con la superficie del mare, su cui si spengono gli ultimi fiati del sole ormai nascosto dietro l’orizzonte Il menù è di stuzzichini, numerosi e dall’aria appetitosa. Sce-

gliamo il menù completo, per non sbagliare, e ce lo godiamo tutto (diviso per due non era poi molto). Tutto buonissimo, specialmente gli affettati, artigianato contadino, con un sapore di fondo che sapeva di campagna, come una volta le merende dagli zii in Maremma. Insomma, valeva perdersi, per ritrovarsi lì.

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di Stefano De Martin “Ai lati della strada il bosco diventava sempre più fitto, e i rumori cambiavano. Il sottofondo dei motori delle macchine diventò uno strillare di uccelli, e ogni tanto sentivo il mormorio del vento tra le foglie. Nell’aria aleggiava un odore pagano di uva matura e rosmarino. Non distante da lì era nato Michelangelo, apparso sulla terra per liberare dal marmo figure umane e divine”. Così Marco Vichi ne “La foresta del silenzio” in qualità di speciale reporter di viaggio accanto a Paolo Ciampi e Paola Zannoner . Il progetto, curato da Stefano De Martin e da Massimo Schiavo, è pubblicato da Ediciclo (casa editrice specializzata nel combinare percorsi, emergenze ambientali, turismo sostenibile, qualità letteraria) e offre suggestioni e suggerimenti per visitare, in modo slow, il magnifico Parco delle Foreste Casentinesi Monte Falterona e Campigna, a cavallo tra la Toscana e l’Emilia Romagna. Vichi lega l’arte dello scolpire a quella dello scrivere: “Anche gli scrittori facevano la stessa cosa, liberando dall’oscurità le storie che una invisibile legge della natura teneva prigioniere. E pedalare in strade sconosciute era un po’ come scoprire una nuova storia…”. Un viaggio in bicicletta (anche a pedalata assistita, per affrontare le rampe che dalla pianura portano ai contrafforti della Verna o dell’Eremo di Camaldoli: “I posti di San Romualdo e San Francesco. Abbazie, eremi, monasteri hanno cercato la salvezza dell’anima. E gli uomini che i boschi li hanno piantati, custoditi, curati, facendo di tutto questo regola, meditazione, preghiera”; affonda il bisturi nella fascinazione della spiritualità, Paolo Ciampi. Il titolo rimanda alla foresta che avvolge come un manto, a volte rado e aperto a volte impenetrabile e misterioso, questo crinale importante del centro Italia: “qui sulla bassa montagna, scivolando con la bici velocissima e silenziosa lungo la strada dentro la foresta, sembra di avvertire ancora la vibrazione delle asce e le grida dei taglialegna, lo scricchiolare dei tronchi, i tonfi delle cadute”. Paola Zannoner ci invita a liberare la fantasia nell’incontro con una natura così potente e definita, ad ascoltare con attenzione i suoi silenzi: “A quanto pare gli alberi, soprattutto i centenari come il castagno Miraglia, portano in sé la memoria antica, stampata dentro i loro cerchi, e la trasmettono come eco nel vento”. Il libro contiene dieci percorsi into the wild (da quello tutto natura e spiritualità a quel-

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La foresta del silenzio istruzioni per l’uso lo dentro le leggende casentinesi, dalle antiche vie dei legni a quello che rifocillante delle terme di Bagno Romagna. I curatori del reportage invitano poi, terminato il viaggio, a prendersi un attimo di riposo e a imbracciare le Novelle della Nonna della Emma Perodi (di cui si ricorderà a breve il centenario della morte) che hanno fatto innamorare il Casentino ai lettori grandi e piccini di fine Ottocento. E poi, ripartire, perché come dice il poeta Eliot, “noi non cesseremo mai di esplorare/ e la fine di tutto il nostro esplorare/ sarà giungere dove siamo partiti/ e conoscere il posto per la prima volta”.

Bagno Vignoni, capitale del libro Sabato 23 e domenica 24 settembre il borgo della Valdorcia, patrimonio mondiale Unesco, ospita scrittori, collezionisti e amanti della lettura. Si parlerà di Antonio Tabucchi e subito dopo di Charlie Parker, di pellegrinaggi ma anche di storia e di territorio. Tutto in due giorni intorno a una delle vasche termali più celebri d’Italia, quella di Bagno Vignoni, il piccolo borgo nella Valdorcia senese, riconosciuta dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, tanto amato da intellettuali e artisti. Venti incontri con autori per altrettanti titoli. Presentazioni a ciclo continuo e la possibilità per i visitatori di trovare nelle bancarelle il libro raro da tanto tempo cercato. Sabato 23 e domenica 24 settembre prossimi, torna per la ottava edizione “I colori del libro”, con la formula della Mostra mercato del libro usato, antico e d’occasione e la presenza di una ventina di espositori provenienti da tutta Italia.


di Claudio Cosma Nel 2010 dopo aver visto una mostra di giovani artisti orientali al Museo di Casa Masaccio a San Giovanni Val d’Arno, curata dal critico indipendente Pier Luigi Tazzi dal titolo: “Il dio delle piccole cose”, mi sono appassionato al modo di rappresentare la realtà e le situazioni di chi vive in quei mondi lontani. Sebbene nell’arte contemporanea esista un modo internazionale, marcatamente europeo e americano, di rapportarsi che tende ad escludere eventuali localismi e vernacoli a favore di un linguaggio comune, è curioso notare come concetti o stili di vita propriamente nostri, quando siano usati con soggetti e modelli etnicamente riconoscibili, si ibridino fra loro dando risultati di un “melting pot” disomogeneo e spaesante. Per esempio, un tartaro su di un dromedario con un gessato Napoli. Tada Hengsapkul, artista Thai nato a Korat nel 1987, che attualmente vive nel calderone di Bangkok, rappresenta bene questa miscela di elementi diversi in attesa che la prassi ed il tempo la rendano totalmente omogenea senza più stupori o sussulti. Di lui possiedo due fotografie del 2010: “Old me” e “Oxitisin” di carattere soft porno o comunque morbosette alquanto. Il titolo della prima fa pensare ad un sesso voyeuristico dell’artista diventato, in un futuro immaginario, vecchio e impotente e un po pasticcione. La foto rappresenta una giovane orientale in una posizione accucciata, quasi che potrebbe essere contenuta o immaginata all’interno di in un uovo, immobilizzata da inesperto “bondage” che in realtà la renderebbe liberissima di andarsene in qualsiasi momento. Questo aspetto contribuisce a dare al racconto contenuto nell’immagine un aspetto di gioco rituale quasi infantile, come se due bambini giocassero ai dottori dicendo: “ora io faccio il medico e tu la paziente, poi si cambia”. Contribuisce al carattere della messa in scena il dettaglio dei piedi sudici e la pudicizia formale dei lembi della corda che nascondono il sesso. Ricorda naturalmente il più famoso artista giapponese Araki, diversamente morboso e molto più “vecchio porco”. L’altra, “Oxitocin” rimanda ad un sesso possibile solo attraverso l’uso della sostanza oxiticin, nota come l’ormone dell’amore. Questa sostanza sembra nebulizzata tutto intorno ai due protagonisti, formando una nebbia ambigua che amplifica l’efficacia dell’abbraccio. Entrambe le foto, forse, alludono al mercato del sesso come problema sociale in Thailandia

Corpi pesanti, corpi leggeri

e alle perversioni dei turisti sessuali, un sesso morboso che si svolge in “non luoghi” dove i corpi atterrano su materassi che rimandano onde di pieghe a formare raggi di lenzuola che gli incorniciano come mandorle mistiche di sacrificio o nascosti da spruzzi di desiderio artificiale. La giovinezza, la levigatezza proverbiale della pelle delle donne orientali, i giochi erotici, i tatuaggi, le droghe, il desiderio, una atmosfera di perplessa attesa, tutto si mescola in una universalità contemporanea, dove gli scatti apparentemente istantanei di Tada Hengsapkul ci mostrano una gioventù inquieta, incerta, lontana e vicina insieme.

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di Gianni Biagi Nella spazio scenico della chiesa di Santa Verdiana in Firenze Maurizio Donadoni e Francesca della Monica hanno recitato e cantato parole dal Finnegans Wake di Joyce. Una grande presenza scenica e una grande capacità vocale hanno tenuto i numerosi spettatori incollati alle sedie per quasi un’ora, muti, di un mutismo curioso, di fronte alle parole del testo e alla bravura degli interpreti. Finnegans wake è l’ultima opera di Joyce, scritta in un linguaggio che nasce direttamente nella mente e non ha passato il filtro della grammatica e dell’analisi logica e del periodo. Un testo quasi impossibile da recitare che i due protagonisti cantano infatti. Perchè di suoni è fatto lo spettacolo più che di parole. Il testo di Joyce è un testo costituito da parole che in molti casi cerchereste invano sul vocabolario e anche quando hanno un senso non è chiaro se nel testo quel senso abbia lo stesso significato che il vocabolario gli attribuisce, ma che quando sono scandite dalla voce sapiente dei due attori restituiscono sensazioni e emozioni. “Urrà, non c’è che gleva giovane per le ruote del secchio globo in vista il che è tautaulogicamente lo stesso” inizia così la parte di “descrizione del paesaggio di Dublino. E poco più avanti continua “ Con i suoi issavan essavans e i suoi piergianmartinia proposito di

tutte quelle fuosterie e dentrase.” Lo spettacolo fa parte della edizione 2017 del “Chiostro delle Geometrie. SimmetrieAsime-

trie organizzato da Teatro Studio Krypton di Giancarlo Cauteruccio nell’ambito di Tearc/ laboratorio di Teatro/Architettura con la direzione scientifica di Carlo Terpolilli.

Il risveglio di Finnegans

L’opera totale di Luca Maria Patella alla Galleria Il Ponte La Galleria Il Ponte di Firenze (via di Mezzo 42/b) il 22 settembre presenta dettagli e materiale fotografico di Luca Maria Patella dal titolo Non oso/Oso non essere a cura di Alberto Fiz con intervista di Ilaria Bernardi . L’esposizione è stata ideata appositamente per gli spazi della galleria. Ad accogliere il visitatore, invitandolo ad un percorso quasi iniziatico strutturato sui due piani dello spazio espositivo, sono due Vasi Fisiognòmici ricavati dai profili dei Duchi di Urbino (di Piero della Francesca, oggi agli Uffizi) torniti in marmo. Attraverso uno stretto passaggio che si apre fra i due altissimi Profili del Duca di Montefeltro, si accede alla seconda sala dove, alle pareti, trovano posto opere che Patella definisce “significanti”, attraverso le quali, da ormai qualche decennio, porta avanti la sua eclettica ricerca che concilia: arte, scienza, psicanalisi e studio del linguaggio. In fondo alla sala un Campanaro batte le ore e i quarti quasi a scandire la discesa al piano inferiore dove, da un finestrino, si scorge una cameretta rosa aurorale con tutto intorno una scritta tratta dalla “Vita Nuova”: distesa su di un Letto sta Lei (Beatrice?), con gli occhi chiu-

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si e parzialmente coperta da un drappo rosato. Questa visione “funerea” rimanda al probabile antico utilizzo dei locali, dove adesso si trova la Galleria, come camera mortuaria: “Lei è morta?...”. Con questo interrogativo ci lascia l’autore al termine del nostro “viaggio” all’interno di quella che potremmo definire la sua “opera totale”. Ancora nella penombra del piano interrato sarà possibile vedere la proiezione di alcuni “films-opera” di Patella, fra cui Terra animata (1965-’67), opera assai anticipatrice rispetto a quelle tendenze che si svilupperanno oltre oceano a partire dai primi anni settanta. Lo spazio Lounge ospiterà una ricca selezione di opere fotografiche datate dai primi anni sessanta a documentare la sperimentazione e molto spesso l’invenzione di tecniche di stampa e di ripresa (utilizzo in tempi non sospetti dell’obiettivo

fish-eye, della fotografia all’infrarosso e stampa a colori di negativi in bianco/nero) che fanno di Luca Maria Patella un vero argonàuta negli spazi infiniti del linguaggio e della psiche umana. La mostra è realizzata in collaborazione con CSC - Cineteca Nazionale, Roma e Fondazione Morra, Napoli. Luca Maria Patella nasce a Roma nel 1934, dove attualmente vive e lavora. Ha vissuto in Francia e in Sud America. Ha studiato soggetti sia artistici che scientifici ed è stato fortemente influenzato da astronomia, chimica strutturale e psicologia analitica, divenendo inventivo in tutti questi campi, durante gli anni di Roma e Parigi. Molteplici le sue conoscenze e frequentazioni con artisti e personalità internazionali, tra cui Marcel Duchamp, André Masson, André Breton, Jacques Lacan, Giorgio De Chirico, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini, Lionello Venturi, Meret Oppenheim, Andy Warhol, Sol Lewitt.


Bizzarria degli

oggetti

dalla collezione di Rossano

La crociera dell’Andrea Doria

di Cristina Pucci La targhetta acquistata da Rossano è una rarità assoluta, vero possibile oggetto di culto. Trattasi dell attestato di partecipazione, firmato dal Comandante, consegnato ai passeggeri che effettuarono il viaggio inaugurale dell’Andrea Doria, “la crociera del Sole” 23 dic. 1952 -7 genn. 1953. Il nome del passeggero, come si vede nella foto del particolare, era Mario Checcacci. Costui fu un canottiere livornese, medaglia d’argento nel’“otto con” di canotaggio alle Olimpiadi di Berlino del 1936 , medaglia d’oro agli Europei di Amsterdam nel ’37 e di bronzo a Milano nel ’38. Il gruppo di atleti di cui faceva parte era detto degli “scarronzoni” dal malgarbo con cui si muovevano facendo ondeggiare, “scarrocciare” in gergo marinaro, la loro imbarcazione. L’Andrea Doria... Alla fine della seconda guerra mondiale tutte le navi, da crociera, di linea, i transatlantici, compreso il mitico Rex, vere glorie della marina italiana, erano state o affondate o requisite dagli alleati. La flotta italiana era un coacervo di imbarcazioni raffazzonate e malmesse. L’Ansaldo che aveva costruito il Rex, premiato nel 1933 per bellezza e funzionalità, ricevette l’incarico di costruire un suo fratello, più grande e splendente. I migliori ingegneri, architetti, artigiani, artisti ed operai furono convocati ed utilizzati nella realizzazione di quello che è rimasto nell’immaginario collettivo come il più bel transatlantico di tutti i tempi. E forse lo fu. Fuori slanciato ed elegantissimo con l’ unico fumaiolo e i rarefatti colori della bandiera, dentro arredato con estremo lusso secondo i progetti di tutti gli artisti che avevano partecipato all’apposita gara, fra essi Gio’ Ponti. Affreschi e quadri di famosi pittori alle pareti, ovunque ceramiche e stoffe meravigliose, vetri d’arte e smalti cangianti. Fontana collaborò alla realizzazione dei mosaici di alcune sale e delle piscine. L’Italia, ricca di storia ed ingegno creativo, volle dimostrare di essere andata oltre gli orrori ed errori del fascismo e della guerra, e ci riuscì perfettamente. Nel corso della sua breve vita la nave fu utilizzata da decine di VIP . In una scena di “Fronte del porto” Marlon Brando la osserva transitare nell’Hudson.

Cary Grant vi raggiunse Montecarlo dove doveva girare “Caccia al ladro”. In una foto John Ford lega il fiocco dell’elegante abito di Anna Magnani, che vi si imbarcò anche per raggiungere il set del film “La rosa tatuata”,

brutto sì, ma che le valse l’Oscar. Il 26 Luglio del 1956 la nave affondò. Malgrado le controverse polemiche subito successive è stato appurato che essa fu investita per colpa della motonave svedese che, oltre a non avere segnalato la sua presenza con le sirene, come è d’obbligo in caso di nebbia fitta, aveva, nella persona dell’ufficiale addetto, mal interpretato i dati del Radar sopravvalutando la distanza. Quando si videro era troppo tardi per schivarsi. Pochissimi i morti, una cinquantina su circa 1700 presenze. Questa la lettera, comparsa nel diario di bordo, di un garzone di seconda alla zia : “Carissima zia, abbiamo fatto cose quasi impossibili ed è dimostrato dalla minima percentuale di vittime, ossia soltanto quelle rimaste al momento dell’incidente. In circa due ore e mezzo di faticoso lavoro abbiamo messo in salvo tutti i passeggeri, compreso i feriti. Dopo di che, abbiamo assistito all’agonia della nave (…) .Sono contento di avere fatto il mio dovere di fronte a tante vite, come tutti i miei compagni”. L’autore però, in queste operazioni, battè la testa e morì dopo lo sbarco a New York. L’eroico Comandante Calamai voleva affondare con la sua nave e fu fatto scendere a forza. Al Galata, Museo del Mare di Genova, un intero piano è dedicato alla magnificenza ed alla disgraziata fine all’Andrea Doria, vero gioiello esposto è il suo modello di sei metri commissionato a scopo promozionale, ritirato dopo la tragedia e ritrovato dal Direttore.Viaggi sottomarini hanno cercato tesori e opere d’arte sommersi. I rari memorabilia sono preziosissimi... Rossano al solito fa furore!

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di Francesco Gurrieri È assolutamente normale parlare, leggere, studiare sui testi di “letteratura”, intendendo per questa e dando per scontato che questa sia l’insieme delle opere affidate alla scrittura. Ma ciò è scontato per la letteratura italiana, inglese, tedesca o artistica o per l’infanzia e così via: mai ci si ricorda che esiste anche una letteratura “tecnica”. Sì, tecnica, che afferisce ad esempio alla “teoria e tecnica delle strutture”: materia da ingegneri e architetti. E’ questo il caso del recentissimo volume curato da Paolo Spinelli, bravissimo collega, ordinario di Tecnica delle costruzioni nell’Ateneo fiorentino. Cos’ha fatto Spinelli? Ha semplicemente e umilmente ripubblicato un testo del professor Piero Pozzati, amato docente della stessa disciplina per molti anni a Bologna. Ne è venuta fuori, così, una continuità filologica (la filologia vale anche per la letteratura tecnica) che ci riporta a Odone Belluzzi, maestro dei maestri, sul cui testo molti di noi hanno studiato e preparato gli esami di “scienza delle costruzioni”. Ci si domanda: è una cosa così importante? Sì, lo è, eccome! Perché preparare bravi ingegneri strutturisti, che sappiano tenere ben in piedi ponti e viadotti senza farci rischiar la vita non è meno importante che saper bene leggere e scrivere o aver confidenza con la grafìa medievale in archivio. I due volumi ripubblicati da Spinelli riportano fedelmente la dedica di Pozzati al suo mèntore: “a Odone Belluzzi che mi è stato maestro, con devoto ricordo”. E come Belluzzi fu “guida saggia e paterna” per Pozzati, quest’ultimo è stato, successivamente, per molti ingegneri. Lo testimonio anch’io, avendo avuto l’onore di far parte – sotto la sua presidenza – del Comitato per la salvaguardia della Torre di Pisa che precedette quello di Michele Jamiolkowski che effettuò l’intervento. “Teoria e tecnica delle strutture del professor Piero Pozzati – ci dice Spinelli – è stato per molti ingegneri molto più di un testo didattico e operativo: è stato un libro che ha formato la coscienza dell’ingegnere, sottolinenado la responsabilità delle scelte che portano al progetto dell’opera strutturale. Accanto alle cognizioni puramente tecniche, il testo riporta infatti preziose riflessioni sulle insidie ‘dell’automatismo’ del calcolo e sulla necessità del continuo ‘ragionamento’ per arrivare alle decisioni progettuali”. Qualcosa che sembra oggi un po’ dimenticato nelle facoltà di ingegneria e di architettura. Anzi, nelle “scuole” come ora, curiosamente, si son volute.

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Elogio

della letteratura tecnica


a cura di Aldo Frangioni A villa Arrivabene, sede del Quartiere 2, in piazza Alberti a Firenze il 7 ottobre verrà presentata alle ore 17.30, la mostra di gouaches e disegni di Franco Busignani e Alessandro Gioli dal titolo “Visioni del Segno”. Ne parleranno Gaetano Di Benedetto, Francesco Milanesi e Adolfo Natalini. Nell’occasione sarà presentato il libro di Alessandro Gioli “Per finta e per davvero. Passeggiate fiorentine di due architetti nullafacenti” in cui i nulla facenti sono appunto Gioli che ha scritto e Busignani che ha fatto fotografie ad altezza d’uomo lungo il tragitto. Il libro edito da Altralinea Edizioni, Firenze 2016 è gia stato presentato alle Murate da Mario Domenichelli, Francesco Gurrieri, Mario Graziano Parri, Mario Primicerio e alla Libreria Clichy da Mimma Bresciani Califano e Gaetano Di Benedetto nell’ambito degli incontri “Firenze diversamente” a cui hanno partecipato Gianni Biagi, Riccardo Conti e Francesco Gurrieri. Dice di sè Franco Busignani: ”Ci sono momenti della vita in cui capita di traversare periodi oscuri e così è accaduto a me alcune decine di anni fa. Dall’oscurità che mi pervadeva, però, sono scaturiti barbagli di luce, di immagini vicine al sogno che ho tradotto in gouaches via via che il sentiero in quel tratto di vita oscura si andava facendo più visibile ma soprattutto più praticabile: l’albero “irretito” e tenuto fermo a terra,oppure oche che si liberano rompendo la rete che le costringe. E man mano che traducevo quei barbagli di luce in immagini fu come quelle stesse immagini mi prendessero per mano per condurmi verso luoghi più chiari, più soleggiati, sino a riportarmi verso quella “normalità” che è il vivere quotidiano. Un ricordo di quel periodo oscuro ogni tanto riaffiorava e nuove immagini nascevano accompagnandomi verso quel cammino di vita che ci conduce ogni giorno”. Sui disegni di Gioli, è stato già detto abbastanza in occasione delle varie mostre che dal 2000 ha organizzato in varie città come Firenze, Prato, Udine, Siena. Sono disegni in cui si leggono le antiche radici culturali ed espressive del luogo, la Toscana, in cui vive. Gioli disegna immagini della mente, che, in alcuni casi sono come rocce intrusive che emergono dal profondo; affiorano di rado ma a volte affiorano; lui le chiama idee: una lunghissima scala che sale adiacente ad un muro per tornare a scendere dall’altra parte, un muro di cinta che prosegue all’infinito

Le visioni dei segni di Busignani e Gioli con una piccola porta al di là della quale si materializza il mistero. In quanto architetto i suoi disegni ci conducono nel campo dell’architettura ed è “architettura” del possibile per una città non abitata dall’oggi. Disegni sorretti da una geometria astratta, da armonie inutili, da “Coincidenze e connessioni” recita il titolo di un’altra sua mostra, che sembrano consolarci; disegni come misura di uno spazio abituale, costruito con elementi urbani in cui Gioli trova la propria anima; sono di fronte agli occhi di tutti, basterebbe saperli leggere: “scalinata” fra case che offrono i loro interni oppure case che si raggruppano e si snodano “lungo strada”. Gioli propone immagini che più che descrivere suggeriscono, evocano visioni già vissute ma non sa ne dove ne quando e così le circonda col bianco della carta come oasi in un deserto. Vi si trova il monumento e la piazza, le case con le porte e le finestre vuote, i muri fra strade strette sempre in salita, non ci sono abitanti e anche gli alberi sono senza foglie; forse, lui dice, aspettano in silenzio l’arrivo della primavera. Apertura mostra:7-21 ottobre 2017 lun-ven 9-13 / mart-giov 9-13, 15-17

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di M. Cristina François La descrizione che qui presento rispecchia la topografia e l’inventariazione dell’Archivio Storico Parrocchiale di S.Felicita (ASPSF) di cui sono stata conservatrice fino al 6 maggio 2016, giorno delle mie dimissioni dall’incarico che mi era stato affidato nel novembre del 2000 quando fui chiamata a rivestirlo dall’allora Parroco Mons. Don Mino Tagliaferri e dal Consiglio Pastorale Parrocchiale. I pezzi dell’ASPSF sono stati da me riuniti e ordinatamente allogati al primo piano dei locali della Canonica, in quegli stessi ambienti di quella che fu, dal 1860, l’antica Biblioteca del Priore Niccolò Del Meglio, uno spazio storico adeguato per faldoni, codici, fascicoli, disegni e carte, non ancora inventariati e in appoggio in diversi ambienti. A conclusione del mio ordinamento ho nominato le varie Sezioni e ho realizzato un Inventario digitale che ho depositato presso l’Ufficio Parrocchiale, l’Archivio della Curia e l’Archivio di Stato di Firenze (ASF). Una volta organizzato, l’Archivio di S. Felicita è stato visitato nel 2003 da Funzionarie dell’Archivio di Stato, della Sovrintendenza Archivistica della Toscana, e dell’Archivio Vieusseux, quest’ultimo per le carte del XIX secolo. L’ASPSF è così entrato a far parte, dall’ottobre 2009, degli Archivi visitabili dall’ANAI Toscana. Nella primavera-estate 2011, l’ASPSF ha accolto, sotto il mio tutorato, il progetto IAL per “Circoli di studio” promosso dalla Provincia di Firenze. Successivamente ha aderito al progetto “Codex” della SISMEL per la Regione Toscana. Inoltre ha offerto un fondamentale apporto a mostre, restauri, convegni, concerti, inventariazioni della Curia e della Soprintendenza. Il nucleo originale di questi documenti si è costituito a partire dall’Archivio via via raccolto dalle monache di S.Felicita fino all’11 ottobre 1810, giorno della Soppressione napoleonica del Monastero. La storia dell’ASPSF comincia infatti quando alla Chiesa fu annesso il Monastero benedettino femminile di clausura le cui più antiche testimonianze risalgono all’XI secolo: il primo documento pervenutoci è datato 24 gennaio 1055. Tutto il patrimonio pergamenaceo arrivato fino a noi è oggi conservato nel Diplomatico dell’ASF (192 pergamene consegnate il 22 novembre 1796; altre 32 nel periodo del Governo francese; infine alcuni documenti acquisiti nel 1819 dal direttore G. Sarchiani). Nell’ASPSF (vedi Ms.728,

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Chi trova un archivio, trova un tesoro

Cap. “Codice Diplomatico”) è conservata una copia di 146 pergamene che vanno dal 972 al 1436. Quanto al nuovo Fondo di carattere laico e amministrativo che si formò dopo la Soppressione, esso fu affidato nel 1815, da Ferdinando III, agli Operai dell’Opera di S.Felicita, e venne denominato ‘Sezione Amministrativa’. A questa si affiancò il Fondo Parrocchiale di competenza del Parroco, cioè la ‘Sezione Parrocchiale’. Quest’ultima si rivela ai nostri giorni di grande interesse poiché, essendo la Chiesa di S.Felicita Parrocchia Granducale, conserva le “Carte della Real Corte” - materiale prezioso sui Medici, i Lorena, i Napoleonidi e i Savoia - che ho reso note, a partire dall’anno 2006, attraverso il “Bollettino degli Amici di Pitti” (consultabile on line). Questa Sezione comprende: quattro ‘Registri degli Stati d’Anime’ della Real Corte con tutti i “Ruoli e mansioni”, sempre elencati gerarchicamente, cioè partendo da Granduca e Granduchessa fino all’ultimo ruolo, quello del “servente e mercatore dei giuochi di palla”; un ‘Libro dei Matrimoni’ di Palazzo celebrati nella chiesa parrocchiale granducale di S.Felicita; gli ‘Atti dei Matrimoni’ stipulati nella Cappella Palatina e in S.Felicita per gli abitanti presso la Real Corte; i ‘Registri dei

Matrimoni dello Stato civile’, secondo le nuove Istruzioni emanate dopo la partenza del Governo francese; i ‘Libri lunghi dei Morti’ dall’anno 1537, compresi Granduchi e Cortigiani. Infine i diari e le cronache redatte dai religiosi di S.Felicita che ci consegnano notizie sui Sovrani di Pitti. Col ritorno di Ferdinando III (1814), l’esigenza di raccontare gli eventi che avevano determinato la chiusura dei monasteri dette vita a un terzo e quarto Fondo: la ‘Sezione Monastero’ e la ‘Biblioteca delle Memorie’, dove erano confluiti cronache di antiquari, monache, parroci e curati. Di grande utilità per la ricerca sulle opere d’arte di S.Felicita (Chiesa e Monastero) si rivela anche una quarta Sezione ‘Inventarj’ in cui fu riversato l’elenco, con relativa descrizione, del patrimonio sopravvissuto alla Soppressione. Di primario interesse sono i Codici in gregoriano e i Messali della ‘Sezione musicale’ che ho sottoposto all’attento esame da parte del gregorianista prof. Giacomo Baroffio e che è stata studiata dalla musicologa Silvia Lombardi che le ha dedicato tre puntuali lavori pubblicati su: “Rivista Internazionale di Musica Sacra” (RIMS a.2011 e a.2014) e “Arte Organaria Italiana” (a.2013). Grazie a una capillare indagine condotta dal prof. Baroffio, siamo giunti al reperimento di cinque antichi Codici musicali pertinenti il Monastero di S.Felicita che risultavano scomparsi dagli anni ’50 del secolo scorso. Infine la ‘Sezione iconografica’ che raccoglie una serie di rilievi, piante disegni, progetti, vecchie foto, il tutto di grande valore storico e documentario. Fino alle mie dimissioni - rassegnate il 6 maggio 2016 - i pezzi di questo Archivio sono stati fruibili da un pubblico costituito da studiosi nazionali e internazionali, studenti universitari, dottorandi, genealogisti, funzionari della Sovrintendenza, storici dell’arte, artisti, restauratori, musicologi, a segnare una continuità di stretti rapporti fra documento archivistico e ricerca. Quale destino si riserva oggi a questo Archivio? Sarà nuovamente aperto agli studiosi? Quando? Potrà finalmente fruire di qualche sostegno economico, di un riconoscimento dell’importanza che riveste?


Encelado di Ruggero Stanga Il cielo di queste sere è dominato da Giove, l’astro più luminoso in vista. Chi tira tardi, dopo la mezzanotte vede sorgere Saturno, meno brillante, ma pur sempre molto appariscente. Più in là nell’anno, Saturno anticiperà la sua comparsa, circa un paio d’ore per mese, e quest’estate sarà visibile anche prima della discoteca. Galileo fu il primo a lasciare il resoconto delle sue osservazioni di Saturno; con il suo cannocchiale vide che aveva una forma curiosa, ma non distinse chiaramente gli anelli, e in una sua lettera del 1610 lo descrisse a Keplero come pianeta triplice (trigemino). Huygens li osservò chiaramente nel 1655, insieme a Titano, il più grande della sessantina di satelliti che sono stati fino ad ora scoperti. Encelado lo scoprì Herschel nel 1789. Encelado prende il nome da un Gigante della mitologia greca, figlio di Gea. Metà uomo e metà animale, partecipò alla Gigantomachia, la battaglia con gli Dei dell’Olimpo. Fu sconfitto, Atena lo seppellì gettandogli addosso la Sicilia, ma continua a dare segno di sé, scuotendo il suolo quando si rigira là sotto. Sempre secondo il mito, il suo respiro caldo è all’origine della attività vulcanica dell’Etna. L’Encelado vero orbita intorno a Saturno ad una distanza di 238000 km dal centro del pianeta nel mezzo di uno degli anelli, l’anello E, il secondo a partire dall’esterno. Impiega circa 33 ore a fare la sua orbita, e volge sempre la stessa faccia a Saturno, per cui ha la forma di un ellissoide con i tre diametri diversi. Quello polare è il più corto, circa 497 km; quello nella direzione di Saturno è il più lungo, circa 513 km; il terzo, perpendicolare agli altri due e diretto lungo l’orbita, è di circa 503 km. È stato visitato più e più volte, prima, negli anni ’80, dalle sonde Voyager 1 e 2, e in questi anni dalla sonda Cassini, che ha fatto un gran numero di passaggi ravvicinati, alcuni anche a quote di poche decine di chilometri dalla superficie. Una grande quantità di dati è stata raccolta; dalle anomalie del campo magnetico si è visto che Encelado ha una atmosfera, anche se sottile; dai dati spettroscopici, si è visto che è costituita soprattutto di vapore d’acqua: il quadro che è emerso, è quello di un satellite ricoperto di una coltre di ghiaccio. Le immagini hanno mostrato crateri di impatto e fratture sulla superficie. La distribuzione e il numero dei crateri indica che la superficie è stata riprocessata più volte durante la vita di Encelado; molti crateri si sono degradati, a causa di spaccature nel ghiaccio che

si sono prodotte dopo la loro formazione, e a causa del rilassamento del ghiaccio stesso. Infine, nei pressi del polo Sud di Encelado immagini hanno mostrato emissioni dovute a specie di geyser che lanciano acqua ghiacciata nello spazio. Molto interessante. È ragionevole pensare che Encelado rifornisca di ghiaccio l’anello E, che è instabile, e tenderebbe a dissolversi, se non venisse alimentato con continuità. Ma da dove vengono queste emissioni? A questo punto entrano in gioco le informazioni che si possono ricavare dalla analisi delle orbite della sonda intorno a Encelado. L’orbita di una sonda è influenzata non solo dalla massa del corpo celeste intorno a cui si muove, ma anche da come è distribuita la sua massa. Se il corpo è uniforme, oppure fatto a strati di densità diversa; se il corpo ha una simmetria sferica, o se nasconde addensamenti di massa, come montagne o continenti. Studiando l’orbita dei satelliti artificiali della Terra, ad esempio, si sono imparate molte cose su come è fatta la Terra, e su come è distribuita la sua massa, al di sotto della superficie, dove non riusciamo ad andare. Bene, l’analisi delle orbite di Cassini ci ha detto che intorno ad un nucleo roccioso ci deve essere un guscio più esterno di ghiaccio di densità minore; di più, l’analisi del moto orbitale di Encelado ci ha detto che fra il nucleo e lo strato di ghiaccio c’è un oceano di acqua liquida profondo fra i 25 e i 30 km. Questo risolve un problema (i geyser sono prodotti dall’acqua dell’oceano che arriva alla superficie attraverso fratture nella coltre di ghiaccio), ma ne apre un altro: come fa ad esserci un oceano là sotto, dove la temperatura dovrebbe essere

troppo bassa per sciogliere il ghiaccio? L’ovvia risposta è che il nucleo roccioso deve essere caldo abbastanza da fonderlo, il ghiaccio. Abbiamo dei meccanismi che ragionevolmente possono scaldare il nucleo roccioso? Almeno due. Il nucleo contiene elementi radioattivi che facevano parte del materiale del Sistema Solare da cui anche Encelado si è formato e che nelle prime fasi della formazione sono affondati verso il nucleo. Ora, decadendo, rilasciano energia e dato che la massa del nucleo è abbastanza grande, il loro contribuito è rilevante. E poi, le forze di marea. Encelado non è un corpo puntiforme, ha un diametro di circa 500 km, s’è detto. L’attrazione gravitazionale di Saturno è più intensa sulla regione di Encelado più vicina, e un po’ più debole sulle regioni dal lato opposto. Encelado dunque è un po’ allungato verso Saturno, come si è visto. L’orbita del satellite, poi, non è circolare, ma ellittica, la distanza dal pianeta cambia, e cambia anche la deformazione da esso indotta. Questo tira e molla periodico fa dissipare energia nel nucleo roccioso, che si riscalda. Tutto ciò, insieme all’analisi spettrale dei componenti delle emissioni dei geyser, come ammoniaca e molecole organiche semplici, e, importante, idrogeno allo stato molecolare, fa pensare che là sotto, nelle profondità dell’oceano di Encelado, ci sia una attività idrotermale, un po’ come vicino ai vulcani sottomarini negli oceani terrestri. Un momento. C’è una ricca letteratura scientifica che discute l’ipotesi che le prime forme di vita terrestri, quelle che si datano a 3.8-4 miliardi di anni fa, si siano originate proprio in ambienti idrotermali di quella fatta. E se…?

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PLINIO NOMELLINI Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore 14 luglio · 5 novembre 2017 14 LUGLIO · 3 SETTEMBRE lunedì · venerdì 17 - 23 | sabato · domenica 10.30 - 12.30 e 17 - 23 4 SETTEMBRE · 5 NOVEMBRE martedì · sabato 15 - 20 | domenica e festivi 10.30 - 20 Ultimo ingresso 30 minuti prima dell’orario di chiusura

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Con il patrocinio di CITTÀ DI SERAVEZZA

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