Cultura commestibile 232

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“Bisogna coniugare lo slancio sotteso alla proposta di reintitolazione dell’istituto con la conservazione della memoria del passato, poiché è non dimenticando che si costruisce il futuro” Gianfranco Cuttica di Revigliasco, sindaco di Alessandria rifiutando di intitolare il liceo classico Plana a Umberto Eco

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo)

L’Eco del passato

Maschietto Editore


Guggenheim Museum NY City, 1969

La prima

immagine Il Coniglio di Alice (nel Paese delle Meraviglie) si trovava in un angolo di un simpatico parco giochi per bambini grandi e piccoli, tutto sommato abbastanza pulito e ben tenuto, il che, come spesso accade nelle grandi metropoli, non era poi una cosa così scontata! In quel momento non era particolarmente affollato perché il clima caldo umido asfissiante del tardo pomeriggio sconsigliava alla maggior parte dei genitori di bimbi piccoli la possibilità di un passaggio “ai giardini”, come si direbbe qui da noi in Italia. Solo i più avventurosi si decidevano per un’uscita che li accoglieva in condizioni climatiche molto simili a quelle di un bagno turco.

dall’archivio di Maurizio Berlincioni


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Riunione di famiglia Ancora diplomazia Le Sorelle Marx

Fotogenia innata Lo Zio di Trotzky

La furia di Dario I Cugini Engels

I taxi dei migranti Le nipotini di Bakunin

In questo numero Una lezione che continua di Roberto Barzanti

Autoritratto con materasso di Claudio Cosma

Il 3° Paradiso di Laura Monaldi

Bizzarria degli oggetti di Cristina Pucci

Luna di primavera di Alessandro Michelucci

La forza di Rifredi di Sara Chiarello

Un coretto granducale senza granduchi di M. Cristina François

“Melina” la poetessa educata di Susanna Cressati

Il Giotto ritrovato di Anna Maria Manetti Piccinini

Mario Lolli Ghetti Affettuosamente crudele di Gianni Biagi

La Spagna di Rafael Sanz Lobato di Danilo Cecchi

La più visitata città dei morti di Simonetta Zanuccoli

Contro la violenza, l’educazione di Anna Lanzetta

Ridefinito il cinque per mille di Roberto Giacinti

e Remo Fattorini, Francesco Cusa...

Direttore Simone Siliani

Illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori

Redazione Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Editore Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142 Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Progetto Grafico Emiliano Bacci

redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile


di Roberto Barzanti L’apertura di una Sala Fortini nell’ambito delle Biblioteca Umanistica del Dipartimento di Filologia e critica delle letterature antiche e moderne – nuovo lambiccata nome della facoltà di Lettere – amplifica il ruolo del Centro che raccoglie e mette a disposizione lo straordinario lascito di libri e documenti e lettere dell’intellettuale che a Siena fu a lungo docente. Il Centro svolge un’attività editoriale di altissimo livello in continuità con i temi privilegiati da un maestro che continua a parlarci. La sua è un’eredità viva. Grazie a Luca Lenzini, coordinatore infaticabile, a Elisabetta Nencini, a quanti collaborano in questo anno centenario della nascita (1917) a far vivere un intenso programma di seminari e incontri, e grazie a tutti i direttori – l’attuale è Stefano Carrai – che si son succeduti alla guida del Centro, Siena continua a fregiarsi di una lezione tra le più stimolanti per capire il tragico Novecento e le dure frontiere da infrangere. Franco Fortini ( 1917- 1994) aveva da poco ottenuto la libera docenza – sembrerà paradossale – quando, dalla metà del novembre 1971, appunto nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, iniziò l’insegnamento di “Storia della critica letteraria”: fino al collocamento fuori ruolo, nel 1986. E fu per lui un quindicennio speciale, un periodo della sua vita. Gli inverni vissuti a Siena Fortini li rubricò come “inverni di guarnigione: “si trascorrevano all’osteria, con il freddo che gravava intorno, in modo terribile e tetro”, mentre “disperazione e letizia” si alternavano, giorno dopo giorno. Non fu un docente frettoloso. E si trovò al centro di un cenacolo, che ravvivava con pungenti analisi politiche e divertite scorribande letterarie. Alle lezioni si aggiungevano gli incontri, le cene a casa di Carlo Fini e Maria Luisa Meoni, costante era la presenza di Attilio Lolini. A Siena ebbe non solo ascoltatori attenti ma editori perfino e ne fu lietissimo. Ogni tanto veniva a trovarmi al Comune. Ero sindaco ed ero molto contento che fosse approdato nella mia città una persona ai cui interventi avevo guardato con strenua attenzione. Di Siena non riusciva a definire un’immagine convincente e ferma. “Si ha l’impressione – mi disse in un’intervista più volte ristampata – che se si dovesse andare in una fenomenologia del

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Una lezione che continua

negativo qui troveremmo lo scoramento piuttosto che la disperazione. Ciò si ripropone, nei giorni che passo di qui, da un lato nella tentazione monastica e idillica e dall’altro nella consapevolezza che ciò è impossibile e che non bisogna dimenticare la realtà. A Siena ho ritrovato il variare delle stagioni, il cielo movimentato da continui treni di nuvole. Ho, però, l’impressione che questa realtà meravigliosa non sia vera. Vivo in maniera assolutamente schizoide tra qui e Milano”. Quando il docente Fortini salì in cattedra spiazzò tutti. Gli studenti accorsi ad ascoltarlo credevano magari di vederselo davanti che impugnava il libretto rosso in voga. Invece predicò pazienza, metodo ed esclude miracolose illuminazioni: “L’unica via che conosca – scandì nella lezione d’apertura il 15 novembre 1977 –, solo apparentemente umile ma difficilissima, più facile ad annunciare che a praticare, è quella di far luce con le lucerne di bordo, di usare i mezzi più elementari di cui disponiamo in comune, di leggere, spiegare, comprendere come si può, raso pagina, la lettera di alcuni testi; parola per parola, senza fretta senza preoccuparsi di concludere, di porre un fermaglio al corso, di dare dei risultati”. Aggiunse che voleva tenere “corsi che potessero servire nei concorsi e nell’insegnamento”. Non di diverso tenore fu, probabilmente, l’attacco della lezione del primo corso universitario, dedicato alla poesia di Alessandro Manzoni. A leggere la comunicazione inviata il 15 ottobre 1971 alla segreteria di Facoltà emerge nella partizione programmata delle lezioni un percorso esigente, non rispettoso delle accademiche consuetudini. All’inizio “lo stato della questione

sarà avvicinato – scrive Fortini – a partire da alcuni testi di AA. italiani e stranieri”, e si citano Lukács, Adorno, Frye, Starobinski, Barthes, Raimondi, Baldacci, quindi si sarebbe passati a letture e interpretazioni di saggi critici “volti alla indagine di strutture formali”(Auerbach, Contini, Peruzzi, Corti), infine si sarebbe affrontato il tema-fulcro: “La fortuna critica degli Inni Sacri”. Par di vederla nei volti la delusione di quanti si erano già figurato un Fortini barricadiero e provocatorio. Il professor Fortini non saltava mai una lezione: il suo calendario come quello di molti pendolari s’inscriveva nella prima parte della settimana, tra il lunedì e il giovedì.


Franco Fortini Lui si guardava bene dal raggruppare le ore in modo da risparmiarsi qualche fastidioso spostamento ferroviario. La cadenza era ben collaudata: lunedì alle 16 (“giungendo io a Siena da Firenze alle 14,40 circa”), un’ora della mattina del martedì, preferibilmente dalle 10 alle 11, infine le 10 del mercoledì. Una compiuta perlustrazione dei corsi tenuti da un eccezionale insegnante è utilissima per capire il tenore della sua proposta. E il volume di Valentina Tinacci “Inverni di guarnigione”edito dalla Fondazione Monte dei Paschi nel 2011 è indispensabile per ripercorrere interamente gli anni senesi. Nel 1972 dedicò il corso a “La poesia degli anni 1910-25 nella critica letteraria del periodo 1950-70”), nel ’74 a “Simbolismo europeo e simbolismo italiano nella critica dello scorso trentennio”. Nell’anno accademico 1975-76 fu la volta dei Canti leopardiani. Nel 1981 abbozzò un ritratto di “Manzoni nel 1821”, e giù giù fino al Dante interpretato da Auerbach, Singleton e Contini. Menzione speciale merita il corso su Torquato Tasso: autore quant’altri mai negletto dalle letture liceali e ancor più negli anni successivi. Fortini l’ha sempre avuto in considerazione altissima per la maniera sublime, e “perché – ha notato Pier Vincenzo Mengaldo – è una sorta di sintesi o minimo comune denominatore […] della tradizione italiana”. Incaricato di pronunciare, il 15 luglio 1976, la prolusione inaugurale alla Scuola di lingua e cultura italiana per stranieri non ancora divenuta, al suo sessantesimo anno, Università, scelse un tema che incrociava un’altra ricorrenza: il mezzo millennio dall’uscita del celebre opuscolo di Enea Silvio Piccolomini, la Historia de duobus amantibus, operetta stupefacente soprattutto per i giovani stranieri convenuti a imparare la lingua italiana. Tenne anche la prolusione inaugurale dell’anno accademico, il 6 dicembre 1981, su un argomento che la diffusa moda delle “pubbliche letture”

rendeva à la page oltretutto: La poesia ad alta voce. “La dizione poetica – osservava Fortini – ha preso il suo ruolo nella società dello spettacolo”. E da questa constatazione faceva discendere al solito una domanda d’inchiesta sociologica: “Che cosa significa, di che cosa è sintomo, la tendenza alla teatralizzazione di testi poetici che la tradizione avrebbe situati nell’ambito della lettura privata o di una dizione per pochi e la parallela nascita di un orfismo della parola, di una pratica estatica dei testi poetici?”. Nei giorni delle sue soste Siena fu un libro aperto, invitante ad una curiosa indagine, al di là dei luoghi comuni invalsi. Ed ebbe in Romano Luperini e Giacomo Magrini assistenti preziosi, che lo accompagnarono con totale dedizione lungo il nuovo itinerario intrapreso. Gli studenti formavano schiere composite: il professore li incontrava in treno nel viaggio di avvicinamento e aveva appreso a distinguere quelli vocianti che salivano a Empoli o a Castelfiorentino da quelli che incontravi per le vie di Siena, immersi in un luogo d’elezione, pronti a recitare uno spartito più aulico, detentori di un’altra lingua. Fortini cercò di vedere Siena attraverso i loro occhi, smitizzando le illusioni e mettendo a tacere l’enfasi. Quando si fecero sentire i sintomi di acciacchi che preludevano all’addio, Fortini ebbe per il rettore – dicembre 1983 – toni di inattaccabile autoironia: “Non tornerò a Siena che a fine febbraio. Speriamo, per le sorti della lirica nazionale che il cuore mi regga sino a quella data”. Nel ringraziare il rettore Luigi Berlinguer dell’esposizione che era stata organizzata di sue carte, in segno di saluto, ebbe uno slancio di gratitudine, in lui sempre motivata, per “l’apparizione di una convergenza a un fine. Un ad quem così raro, e così necessario, ai giorni nostri. Muoviamoci” (da Ameglia, La Spezia, 28 aprile 1989). Era un esortativo invito ad abbandonare divisioni destinate a infrangersi o a collocarsi in una prospettiva nuova. Nelle traversie del crudele declino gli tornava a mente la comunità di amici e scolari che l’aveva seguito passo passo, e ascoltato, parola dietro parola, come un Maestro d’altri tempi, al desco e nelle aule: “Dove ora siete, infelici studenti, / nelle sere delle nevi vane, / aule nere, Siena, di conventi, / trattorie di salsicce, cacio, pane…”. Indelebile il ricordo delle serate alle Logge con l’oste Gianni Brunelli impeccabile, generoso regista, che da Lotta Continua s’era fatto gagliardo imprenditore gestendo una trattoria come luogo dello spirito.

Il programma delle celebrazioni Sesto Fiorentino (Firenze), 30 settembre, Villa San Lorenzo (via Scardassieri 47), ore 21,15: “Dove si andrà”, serata di canzoni di Franco Fortini a cura dell’Istituto De Martino Firenze, 3 Ottobre, h16, Liceo Dante, Piazza della Vittoria MEMORIA DEL FUTURO. Leggere Franco Fortini a cento anni dalla nascita. I luoghi fiorentini. Lettura collettiva degli studenti del Liceo di cui Fortini fu allievo Siena, 2-4 novembre: «Traducendo…» Convegno internazionale di studi su Franco Fortini e la traduzione. Università degli Studi di Siena – Università per stranieri di Siena I. Fortini traduttore, II. Tradurre Fortini, III. Fortini e la traduzione Sedi del convegno: I Aula Magna Università di Siena; II Università per stranieri (P.za Carlo Rosselli 26/28), Santa Maria della Scala; III Biblioteca Comunale degli Intronati (Via della Sapienza, 3) Siena, 3 novembre, ore 18, Complesso museale Santa Maria della Scala (Piazza Duomo), inaugurazione della mostra “JE VOUDRAIS SAVOIR…” Il viaggio in Cina del 1955 di Franco Fortini in compagnia di Antonicelli, Bernari, Bobbio, Calamandrei, Cassola, Treccani e Trombadori (4 novembre 2017 – 7 gennaio 2018) Siena, 3 novembre, ore 21: Palazzo San Galgano (Via Roma 47): “Dove si andrà”, serata di canzoni di Franco Fortini a cura dell’Istituto De Martino Siena, 4 novembre, ore 12, Biblioteca Comunale degli Intronati (Via della Sapienza, 3): Traducendo. Mostra bibliografica e documentaria su Fortini traduttore Alberese, Parco dell’Uccellina (GR), maggio-novembre 2017. “Colloqui del Tonale. Quattro appuntamenti: Educazione, Cani del Sinai, Israele-Palestina, Fortini pubblicitario, Fortini traduttore di Brecht Siena, mercoledì 6 dicembre, ore 10, 30 (per le scuole) e 21,15, Teatro degli Intronati, rappresentazione dell’Atto unico Il soldato, testo Franco Fortini (con drammaturgia di Laura Forti), regia e musiche originali Teo Paoli, con Marion D’Amburgo, Lavinia Rosso, Silvia Baccianti, Alessandro Mazzoni, Lotar Sanchez, produzione Centrale dell’Arte/Associazione Culturale La Nottola di Minerva. A cura della Fondazione Toscana Spettacolo Onlus

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Le Sorelle Marx

Ancora diplomazia

La diplomazia postale del senatore Antonio Razzi inizia a dare i suoi frutti. Dopo che nel febbraio di quest’anno il senatore aveva scritto una lettera a Trump per proporsi quale intermediario fra lui e il leader nordcoreano Kim Jong-un (lettera che Trump ebbe qualche difficoltà a decifrare, non sappiamo se per la scrittura del mittente o per la lettura del destinatario), Razzi ha ricevuto una illuminante lettera di Kim. Nella quale, ci rivela il senatore teatino, il leader dice “di non essere rimasto contente dell’intervento del Presidente USA”.

I Cugini Engels

Chi l’avrebbe mai detto? Ma ciò che più conta è il parere di Razzi sui due: “In questo caso sono tutti e due asini. Io mi sono offerto di discuterne con entrambi, ma nessuno prende la palla al balzo” Ma Razzi non ha perso la fiducia in Kim: gli hanno chiesto i conduttori di “Un giorno da pecora”, “Secondo lei i nordcoreani hanno la bomba nucleare?” e lui, novello Kissinger, ha risposto “Penso che ce l’abbiano, ma io mi faccio gli affari miei, non l’ho vista”. Se ne discuterà probabilmente, in un summit a tre, sul pullman Roma-Pescara delle 17,30.

La furia di Dario

Come una mitragliatrice impazzita, il nostro sindachino Dario Nardella questa settimana ha incominciato a sparare sciocchezze a tutta birra su ogni argomento possibile immaginabile. Così non poteva lasciarsi scappare la ghiotta occasione di spararne una sulla Fiorentina. Dopo il discusso arbitraggio di Pairetto nella partita Fiorentina-Atalanta della scorsa settimana, si sono sfidati a colpi di scemenze twittate niente di meno che il Presidente del Consiglio Regionale Eugenio Giani e il sindaco di Firenze. Giani, più avvezzo alle faccende calcistiche, ha dichiarato: “Nel @calcio è inutile VAR con arbitri che non intendono usarla. Pairetto

malato di protagonismo che sbaglia su 3 rigori non èda serie A!!”. Nardella, uomo di raffinata cultura, ha risposto erigendosi a don Chisciotte del pallone: “Il Var? O si usa sempre o non si usa mai, non può dipendere dalla squadra che scende in campo. Gli episodi come quelli di ieri tolgono credibilità al calcio. Non chiedo rispetto solo per i fiorentini ma per l’intero mondo del pallone: altrimenti i giovani non crederanno più a questo gioco”. Eccolo lì, con il suo spadone sguainato, in sella al suo Ronzinante e con la padella in capo, partire al galoppo contro i mulini a pallone, per difendere tutto il mondo... del pallone.

Avanzi di Avanti

Piccola rubrica per i distratti che raccoglie le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di Matteo Renzi.

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Intorno a Expo ci sono anche polemiche a non finire, incidenti diplomatici, errori. Ma è normale. Bisogna smettere di pensare che tutto ciò che facciamo possa essere solo perfetto”

Lo Zio di Trotzky

Fotogenia innata

Dobbiamo ammettere che qui a Cultura Commestibile abbiamo perso un colpo. Qualche anno fa, al sorgere della stella di Dario Nardella fummo tentati di avviare una rubrica dal titolo “Nardella fa le facce” perché il nostro beneamato sindaco fu immortalato in una serie di scatti in cui Nardella mostrava le più ridicole e strane smorfie. Poi soprassedemmo all’idea pensando che si trattasse di un epifenomeno, dovuto ad una iniziale e passeggera ubriacatura di protagonismo dovuta all’elezione al più alto scranno di Palazzo Vecchio. Ma sbagliammo. Nardella ha proseguito, forse pensando così di inaugurare una nuova moda, oppure di segnare un tratto distintivo della sua sindacatura., o forse... boh, vacci a capire qualcosa di quest’uomo; è davvero enigmatico. Come nell’ultima della serie delle foto di “Nardella fa le facce”. Ecco qui il nostro eroe che imita un nobile del XVIII secolo ritratto in un quadro alla Biennale dell’Antiquariato: mento prominente, sguardo furbo, occhi socchiusi, sguardo alla “la so lunga, io”. Ma chissà cosa avrà voluto dirci con questa foto? un qualche messaggio subliminale del tipo “vi controllo tutti!”? oppure “non mi somiglia per niente!”? O ancora “vi presento il mio prozio Gastone”? Qualsiasi cosa volesse dire, debe essere con questa strategia che il Nostro si è guadagnato la palma del sindaco più amato dai suoi elettori; il che ci dice qualcosa anche su di loro.


Nel migliore dei Lidi possibili

Le nipotine di Bakunin

disegno di Lido Contemori

I taxi dei migranti

didascalia di Aldo Frangioni

Siamo tutti nella berra

Il portavoce del KKK

La questione meridionale dell’acqua

Il Presidente di Publiacqua, già impegnato a districarsi dagli impervi sentieri del caso Consip, forse non ha visto la “curiosa” pubblicità della sua azienda, esposta mercoledi sera a margine di uno spettacolo di beneficenza al cinema Alfieri a Firenze. Per magnificare le sorti dell’azienda che riesce ad erogare acqua alla Toscana centrale nonostante la siccità estiva ( e grazie ad un’opera - il lago di Bilancino - a suo tempo fortemente contestata e della quale l’attuale dirigenza di Publiacqua non ha alcun me-

Abbiamo letto anche noi dell’ideona del sindaco Nardella dopo l’infausto evento del denunciato stupro di due studentesse americane da parte di due carabinieri che le avevano accompagnate a casa dopo una serata in un locale fiorentino dove le ragazze avevano un po’ bevuto: “navette nel centro storico per riportare i ragazzi americani a casa o al loro campus”. Perché, come ha detto il questore Alberto Intini, “E’ stata segnalata anche la difficoltà a tornare a casa dopo le 3-4 di notte: non si trovano taxi, e non c’è la tramvia, ma questo non è un problema direttamente affrontabile dalle forze dell’ordine”. Ora, noi avremmo delle domande da rivolgere all’amatissimo sindaco Nardella. Non ci è chiaro con quale criterio e modalità di riconoscimento l’autista della navetta caricherà sul mezzo certi ragazzi (americani o semplicemente extracomunitari?) e ne lascerà a terra altri (italiani? Fiorentini? Area metropolitana?). Però, nel caso che il servizio fosse per gli extracomunitari, potremmo far valere il fatto che il nostro avo Michail Aleksandrovič Bakunin nacque in Russia (governatorato di Tver) e morì in Svizzera, entrambi paesi non Europei? No, perché se così fosse, potremmo venire in centro ogni tanto a farci un bicchierino di grappa e farci riportare all’Impruneta dalla navetta. A proposito, ma chi paga? I fiorentini, vero?

rito) qualche buontempone, che – speriamo provvisorimente - si occupa di marketing per l’azienda, ha scritto su un poster e sui volantini la seguente frase:”Qui c’è l’acqua. Quando al sud ci sarà la siccità qui tutto splenderà di nuovo”. Non sapevamo di pulsioni separatiste e di tensioni fra nord e sud d’Italia all’interno del “board” dell’azienda. Speriamo solo che la questione si fermi qui e non interessi l’intero ciclo delle acque compreso il sistema fognario. Di merda ne abbiamo in abbondanza in ogni parte d’Italia.

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di Laura Monaldi Corrodere le abitudini e i conformismi semantici dell’Arte Contemporanea è un privilegio e una modalità operativa di molti artisti, ma in pochi hanno saputo cogliere la ricchezza delle possibilità nascoste dei materiali e dei linguaggi “poveri” che il mondo offre. Fra questi Michelangelo Pistoletto è riuscito a realizzare, in modo rappresentativo e figurativo, i segni archetipici dell’espressione artistica, poiché l’arte non è altro che una seconda realtà da indagare e comprendere sino in fondo, procedendo oltre le apparenze. Quella di Michelangelo Pistoletto non a caso è una metafisica tesa ad assumere una maggiore responsabilità intellettiva nei confronti della vita e della spiritualità umana, che deve uscire dai labirinti introspettivi per aprirsi a un panorama più vasto e illimitato, più relativo e dinamico, nel segno della riscoperta delle più preziose relazioni interpersonali. Di fatto nel 2003 Pistoletto scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il simbolo, costituito da una riconfigurazione del segno matematico d’infinito. Tra i due cerchi contigui, assunti a significato dei due poli opposti di natura e artificio, viene inserito un terzo cerchio centrale, a rappresentare il grembo generativo di una nuova umanità, ideale superamento del conflitto distruttivo in cui natura e artificio si ritrovano nell’attuale società. «Che cos’è il Terzo Paradiso? È la fusione fra il pri-

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mo e il secondo paradiso. Il primo è quello in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è il paradiso artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana, fino alle dimensioni globali raggiunte oggi con la scienza e la tecnologia. Questo paradiso è fatto di bisogni artificiali, di prodotti artificiali, di comodità artificiali, di piaceri artificiali e di ogni altro genere di artificio. Si è formato un vero e proprio mondo artificiale che, con progressione esponenziale, ingenera, parallelamente agli effetti benefici, processi irreversibili di degrado e consunzione del mondo naturale. Il Terzo Paradiso è la terza fase dell’umanità, che si realizza nella connessione equilibrata tra l’artificio e la natura. Terzo Paradiso significa il passaggio a uno stadio inedito della civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza. A tale fine occorre innanzi tutto ri-formare i principi e i comportamenti etici che guidano la vita comune. Il Terzo Paradiso è il grande mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità nella visione globale. Il termine paradiso deriva dall’antica lingua per-

siana e significa “giardino protetto”. Noi siamo i giardinieri che devono proteggere questo pianeta e curare la società umana che lo abita. Il simbolo del Terzo Paradiso, riconfigurazione del segno matematico dell’infinito, è composto da tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano tutte le diversità e le antinomie, tra cui natura e artificio. Quello centrale è la compenetrazione fra i cerchi opposti e rappresenta il grembo generativo della nuova umanità». Sabato 30 settembre sarà possibile ammirare a Pistoia una nuova edizione del “Terzo Paradiso”, opera frutto del lavoro collettivo con donne migranti della cooperativa sociale Manusa, che hanno tagliato, aggiustato e ricomposto stracci usati e la mostra di Michelangelo Pistoletto alla Galleria Vannucchi. E’ stata realizzata grazie al lavoro delle donne. “Il Terzo Paradiso”, dopo la presentazione a Palazzo del Vescovi, attraverserà le vie del centro storico ed entrerà nella Galleria Vannucci, dove alle 18 sarà inaugurata la mostra dedicata al maestro, “Pistoia 30 settembre 2017 Michelangelo Pistoletto presente”, visitabile fino al 13 novembre.

Il 3° Paradiso


Musica

Maestro

Luna di primavera

di Alessandro Michelucci L’etichetta Moonjune è stata fondata nel 2001 da Leonardo Pavkovic (nella foto), un discografico bosniaco che vive a New York dal 1990. Proveniente dal mondo della grafica, Pavkovic aveva già creato un’etichetta jazz, ma senza successo. La sua passione per la musica, comunque, gli impediva di arrendersi. Così ha deciso di crearne una nuova e le ha dato un nome ispirato a “Moon in june”, il celebre pezzo dei Soft Machine (incluso in Soft Machine 3, 1970). Una scelta programmatica: Pavkovic spostava la propria attenzione dal jazz tout court al jazz-rock e alle numerose espressioni contaminate della musica afroamericana. Senza dimenticare il progressive più stimolante e creativo, lontano anni luce dalle pompose espressioni neoclassiche degli anni Settanta. In questo modo Pavkovic cominciava un lungo viaggio che lo avrebbe portato a collaborare con musicisti di molti paesi. Come risultato, oggi il suo catalogo spazia dalla Serbia alla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti alla Spagna. Ma uno dei meriti dell’etichetta, quello che

più la differenzia dalle altre, è l’attenzione per musicisti indonesiani molto interessanti ma ancora poco noti. Come il pianista Dwiki Dharmawan (Pasar Klewer, 2016), il gruppo SimakDialog, guidato dal pianista Riza Arshad (Demi Masa, 2009), e Tohpati, chitarrista dello stesso gruppo, che cura anche una produzione solistica (Mata Hati, 2017). Gli album citati sono soltanto un esempio e non esauriscono la consistente discografia dei singoli artisti. Un altro musicista indonesiano che incide per la Moonjune è il chitarrista Dewa Budjana, responsabile di vari CD, in parte come titolare e in parte come membro del gruppo Gigi. Recentemente è uscito il suo sesto CD, Zentuary, dove Budjana si conferma compositore raffinato e sensibile. Lo accompagnano artisti prestigiosi. Come Tony Levin, ex bassista dei King Crimson; il sassofonista Tim Garland; Gary Husband, batterista che ha collaborato con molti jazzisti, fra i quali Billy Cobham e John McLaughlin. È proprio quest’ultimo che rappresenta un’influenza evidente, an-

che se aggiornata e personalizzata (“Solas PM”, “Dear Yulman”). Se è vero che Budjana è un chitarrista jazz, è altrettanto vero che nella sua musica si ritrovano anche tracce della musica balinese. Il musicista ha vissuto nell’isola per alcuni anni, durante i quali è venuto a contatto con la tradizione locale. Queste influenze hanno personalizzato ulteriormente le sue composizioni. Lo attesta l’uso del gamelan, l’insieme di metallofoni e percussioni che rappresenta l’espressione più tipica della musica indonesiana. Nel Novecento molti musicisti europei, fra i quali Bartók e Debussy, erano rimasti affascinati dalle sue sonorità e ne avevano utilizzato certe soluzioni ritmiche e melodiche. È sempre a Bali, inoltre, che Budjana ha fatto costruire il Museum Gitarku, dove espone la sua imponente collezione di chitarre. Molte di queste sono state donate da chitarristi di tutto il mondo, come Bill Frisell, Allan Holdsworth e Pat Metheny.

Segnali di fumo

città dove il bike sharing ha avuto più successo, perfino della Cina dove è nato”, annunciando che entro ottobre, per far fronte alla crescente richiesta, ne arriveranno altre 2mila. E questo nonostante le bici siano rigide, piccole, basse, pesanti e con le ruote piene. Insomma, decisamente scomode. Oltre al fatto che la città non è molto attrezzata: poche e disorganizzate le piste ciclabili. Ostacoli che rendono l’uso della bici più impegnativo e meno sicuro. Resta il fatto che il successo di questa iniziativa è di gran lunga superiore alle aspettative. A dimostrazione che i fiorentini sono molto disposti a pedalare. Un bel segnale per un’amministrazione intenzionata a migliorare sul serio la mobilità urbana, liberandola dal traffico e riducendo così l’inquinamento e i lunghi tempi di percorrenza necessari per gli spostamenti. Se insieme all’entrata in servizio delle tre linee della tramvia si decidesse di ridurre il traffico delle auto private e l’ingresso dei bus turistici, dando spazio e sicurezza agli spostamenti in

bici e a piedi, la città cambierebbe aspetto. Diventerebbe più fruibile, più attrattiva, più salutare e al tempo stesso anche più vivace. Sia per chi ci vive che per i turisti. Si perché la bici produce benessere, genera affari, fa risparmiare denaro pubblico con benefici per la salute e l’ambiente. Per la prima volta Legambiente ha calcolato che il suo uso, già oggi genera più di 4 miliardi di Pil, che salgono a 6 con il cicloturismo, da noi ancora limitato solo ad alcune zone. Il Pil da bici più alto lo troviamo in Emilia, nel Trentino Alto Adige, poi Veneto, Friuli, Lombardia e, al sesto posto, in Toscana. L’Italia anche su questo è in fondo alla classifica: mentre in Europa l’8% dei cittadini la usa, noi siamo fermi ad un modesto 3,5. Solo il Trentino e l’Emilia tengono il passo. Il messaggio è chiaro: ogni bici in più è un’auto in meno. Lo hanno capito ad Amsterdam, Copenaghen, Parigi, Berlino. Quanto tempo servirà perché qualcuno lo capisca anche a Firenze?

di Remo Fattorini Ai fiorentini piace la bici. E piace tanto tanto. Da qualche settimana si trovano disseminate ovunque, parcheggiate dappertutto, sulle aiuole e sui marciapiedi, in centro come in periferia. Sono le mobike, le piccole e sgraziate bici arrivate recentemente in città. Le incontri a qualsiasi ora lungo strade, piazze e marciapiedi. Persino lungo la ciclabile che dalle Cascine ti porta fino ai Renai. Tanto che l’Ad di Evlonet, l’azienda che recentemente ha sbarcato in città 2 mila bici, ha commentato: “Firenze è la

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di Anna Lanzetta La violenza contro le donne, indice di grettezza mentale, frutto di un pregiudizio endemico, mina le fondamenta della nostra società, che ama definirsi in progress. Le donne sono ancora vittime di una cultura arcaica che le espone a ogni sorta di violenza. Nata da una costola di Adamo, la donna è considerata subalterna all’uomo. Ha forse un’anima? È forse uno dei pilastri della società? Con tutti i mezzi è stata demolita la sua immagine, dimenticando che fu il grembo di una giovane donna ad accogliere il Redentore. Come definire la violenza contro le donne? Gelosia, vanità, presunzione, intolleranza, timore, idea di possesso? La violenza è un regresso sociale. L’educazione un tempo si basava sulla netta distinzione tra maschi e femmine e a scuola si insegnavano le attività domestiche separando così ruoli e funzioni. Nel tempo questa forma di educazione è cambiata e la donna è riuscita ad accedere allo studio, a ottenere il diritto di voto, a raggiungere ruoli sociali importanti, ma il pregiudizio permane. Nel lavoro, è sempre la donna ad essere licenziata per prima ed è sempre lei a percepire compensi più bassi. Se guardiamo indietro, poco è cambiato nella sua considerazione. In passato, la donna è stata definita: tentatrice, demonio, strega e quant’altro di negativo si possa immaginare, senza tener conto del matriarcato. La donna, nelle società antiche, è stata considerata sottomessa all’uomo ed è prevalsa l’immagine della donna-Penelope, simbolo di fedeltà, di onestà, di moglie, di madre e di angelo del focolare, termine che appagava il gusto maschile di segregazione, di controllo e di comodo. La donna ha lottato con coraggio anche a costo della vita, pur di liberarsi di questo clichè, ma è stata sempre e in varie forme esclusa. La donna sposata passava dal dominio paterno all’arbitrio del marito ed era esposta senza difesa a ogni sorta di violenza. Erano sempre gli altri a decidere della sua sorte e in caso di trasgressione era punita con la morte. Dante ce ne offre alcuni esempi e altri se ne traggono dall’antichità come Hipazia d’Alessandria, filosofa e scienziata del IV-V secolo d. C., fatta a pezzi da uomini fanatici, forse monaci detti “paraboloni”, offesi e umiliati dalla sua cultura e dal potere che esercitava sulle folle, sperando di riscattare nell’orrore il proprio onore o in tempi recenti il caso della giovanissima Malala Yousufzai, l’attivista pakistana gravemente ferita alla testa e al collo dai Talebani per il suo impegno a promuovere l’istruzione femminile nel proprio Paese. Questa condizione ci induce a riflettere sul

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Contro la violenza, l’educazione concetto di società evoluta per cui una società non può definirsi tale se non tratta tutti i suoi membri in modo paritario e se rende le donne ancora vittime. Le peggiori violenze sono quelle che si consumano tra le mura domestiche. Molte sono le iniziative messe in atto a favore delle donne. Le leggi e i centri di assistenza aiutano e invogliano le donne a denunciare gli aggressori, a superare la paura della ritorsione ma la diffidenza permane; è ancora limitato il numero delle donne che denunciano. L’uso della violenza in tutte le sfere sociali è un sistema di difesa, di potere e di controllo. La violenza sia fisica che psicologica e verbale tende a intimorire, a sottomettere, ad annientare, a indebolire la mente e la volontà della donna fino a toglierle la possibilità di avere opinioni, emozioni o reazioni. Non è facile mutare il volto della società ma il problema, segno di un degrado che si acuisce, chiama in causa tutta la comunità. Il numero di donne violentate e uccise è in aumento e se si pensa a quelle che vivono in silenzio il proprio dramma, ci si rende conto della gravità del problema che pertanto sollecita un impegno comune. La donna ha bisogno di recuperare, all’interno della società, la stima verso sé stessa e l’orgoglio di essere donna ma in questa battaglia, non deve essere lasciata sola. Si richiede un impegno politico vigile e forte che applichi le leggi in tempi celeri in tutte le circostanze. Ma la violenza è essenzialmente un fatto culturale per cui contro la violenza molto possono la famiglia e l’educazione. È in famiglia che si consumano le peggiori violenze di cui i figli sono testimoni. I bambini seguono i modelli con i quali convivono e ne ripetono i gesti: i maschi con la violenza iterata, le femmine subendola. La violenza genera violenza ed è questo l’aspetto più raccapricciante del problema. Sono sempre gli adulti a ledere i canoni dell’educazione offrendo di sè un’immagine negativa. Il problema riguarda tutti i ceti sociali, a dimostrazione di quanto la violenza sia insita nel vivere quotidiano. Lo strumento più efficace contro ogni forma di violenza è l’ “educazione” affinché il “rispetto” e la “dignità” verso sé stessi e verso gli altri, diventino cardini del vivere civile.

L’informazione è la base dell’educazione, il mezzo più idoneo per conoscere e abbattere il pregiudizio. Solo l’istruzione, con qualsiasi mezzo si impartisca, può aprire le menti alla riflessione e abbattere l’oscurità che ci sovrasta. È tra i banchi che si diffonde il sapere, si educa, ci si educa e si legittimano principi e regole. I soldi investiti in cultura sono i più fruttuosi perché solo una corretta formazione può porre le basi di una società civile. A scuola bisogna affrontare il problema della violenza in generale, comunque si manifesti, ma essenzialmente quella contro le donne che è un oltraggio all’umanità, un crimine che ci riporta allo stato ferino. È con gli studenti che bisogna parlare di questo male sociale fin da piccoli attraverso il dialogo, la comunicazione, l’ascolto, la creatività, il gioco ma essenzialmente attraverso la conoscenza di donne che hanno segnato pagine importanti della nostra storia. Non è facile scardinare i pregiudizi ma si può attraverso un insegnamento che in tutte le discipline curriculari e non, associ alle figure maschili quelle femminili. Manca nella scuola una cultura al femminile, un’adeguata conoscenza della donna e del suo intercalarsi nella storia. Sono pochissimi, nei percorsi didattici, i nomi di donne che hanno operato nei vari campi dello scibile e che sono morte per una causa, un’ideologia o per il proprio pensiero. Solo il processo di formazione, coadiuvato dai mezzi di comunicazione e dalle immagini che ci funestano, può garantire una cultura che rifiuti la violenza come barbarie sociale. La società deve, per dovere e responsabilità, riflettere sullo stato presente e capire che solo se riprende il controllo delle proprie azioni in ogni ambito e solo se offre in ogni campo della vita associativa esempi di integrità e di rettitudine, potrà sperare in un mondo diverso, dove il “rispetto” e la “dignità” verso sé stessi e gli altri diventino gli strumenti più efficaci contro ogni forma di violenza per una società in grado di recuperare i suoi valori.


di Anna Maria Manetti Piccinini Ci sono centenari e centenari. Quelli i cui celebrati hanno la testa lontana ma i piedi ancora ben piantati nel presente, come ad es. Ettore Sottssas su i cui manufatti ancora, letteralmente, ci sediamo; e quelli di un passato molto lontano che sono ricordati su pagine più o meno specializzate. Ma tutti vogliono il loro ritorno all’attualità, con le caratteristiche dell’oggi, diciamo non proprio sommessamente. Infatti non si celebrano solo i centenari, ma anche altre date significative, come nel caso di Giotto, per i 150 anni dalla nascita (1267). Ricorrenze utili, tuttavia, per fare il punto su nuove acquisizioni. Fra le varie iniziative per le celebrazioni giottesche, mi riferisco ad una recente “lectio” all’Accademia delle Arti del Disegno tenuta da un brillantissimo dottorando della Scuola Normale di Pisa ,Giacomo Guazzini, trentenne, che ha presentato i suoi studi su la piccola Cappella della Madonna Mora della Basilica di Sant’Antonio da Padova, dove, un affresco finora trascurato, sarebbe, secondo la sua ipotesi, di mano giottesca. In effetti i confronti stilistici e iconografici sono impressionanti. Lo studioso ipotizza, innanzitutto, che la statua della Madonna Mora, opera di Rinaldino di Francia (1396) sia stata inserita, a scopi devozionali, nell’antica cappella affrescata in età assai più tarda. E proprio a causa della devozione alla statua, gli affreschi di fondo siano stati trascurati e ignorati per secoli. Ma non dall’occhio acuto del giovane studioso, il quale, col confronto stilistico con altre immagini sicuramente autografe della Cappella degli Scrovegni, mostra la stretta parentela delle pitture. La sua attenzione si appunta particolarmente sulla figura di Isaia, a sinistra della scultura della Madonna. Il volto del profeta è in effetti di una bellezza classica, tipica della iconografia medievale e giottesca. Guazzini ne mostra le caratteristiche, a partire dal taglio degli occhi al tratteggio della barba, fin nelle le singole pennellate, con diapositive eloquenti e ben accostate ad immagini giottesche sicuramente autografe. In questa sede non ci possiamo dilungare nell’analisi riguardante altre figure dell’affresco, come i tre angeli in alto che sostengono una corona, probabilmente per la testa non più esistente della Vergine e, soprattutto, il volto barbuto del Padreterno. Ma l’immagine che qui proponiamo può essere sufficiente per rendere l’idea e suscitare la curiosità del lettore che potrà trovare tutti gli approfondimenti necessari nella rivista “Nuovi Studi”, in cui Guazzini svolge il suo saggio analiticamente. Ciò detto, sono senz’altro da

Il Giotto ritrovato

tener presenti alcune osservazioni di specialisti di lungo e virtuosissimo corso, come Marco Ciatti e Giorgio Bonsanti. Il primo sostenendo la necessità di un restauro accurato con tutte le possibilità che le attuali tecnologie permettono, per poi giudicare ben oltre l’analisi stilistica a occhio nudo. Il secondo facendo notare che Giotto era anche un grande imprenditore, con squadre di aiuti sparse da

SCavez zacollo

Assisi a Padova, che non temette di lasciare i lavori di Assisi incompiuti quando fu chiamato a Padova. E quindi può essere molto azzardato parlare di autografia. Comunque fa piacere notare che studiosi giovani e seri esistono in Italia e non c’è bisogno di andare a cercarli lontano. Il problema sarà trattenerli date le scarse offerte per la ricerca, specie umanistica, nel nostro paese.

disegno di Massimo Cavezzali

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La Spagna di Rafael Sanz Lobato

di Danilo Cecchi Nella prefazione del libro fotografico di Cartier-Bresson “Da una Cina all’altra” del 1954, Jean-Paul Sartre scrive che “… molti fotografi cercano un cinese con l’aria più da cinese degli altri, lo fanno mettere in posa in maniera tipicamente cinese e lo circondano di cineserie. Ciò che fissano sulla pellicola non è un cinese, ma l’idea che essi hanno di un cinese.” Quello che osserva Sartre, su questo atteggiamento dei fotografi, non è cambiato poi molto nell’arco degli ultimi sessant’anni. Sia che si tratti della Cina, dell’India, del Giappone, del Brasile, o di qualsiasi altro paese o città del mondo, comprese quelle più vicine a noi, la maggior parte dei fotografi, per raffigurare queste realtà, scelgono la strada più facile e più commerciabile, quella del “tipico”, del “pittoresco”, del “prevedibile” e del “luogo comune”. Quando un fotografo racconta il proprio paese, quello in cui è nato e vissuto, è forse inevitabile che si avvicini a certi temi già noti e riconoscibili, ma se è un bravo fotografo, trova sempre il modo di raccontarli in maniera originale, non banale, non ripetitiva e non stereotipata. Il fotografo spagnolo Rafael Sanz Lobato (1932-2015) ha fotografato per quasi vent’anni il suo paese, la Spagna, e lo ha fatto in maniera estremamente personale e convincente, nonostante il peso dovuto alla ingombrante presenza di un altro grande fotografo spagnolo, José Ortiz Echague (1886-1980), che ha iniziato a fotografare la Spagna quasi cinquant’anni prima, con uno stile vigoroso e “pittorialista”, raggiungendo la consacrazione internazionale. Come Ortiz Echague, anche Sanz Lobato fotografa, in maniera più “realista” e moderna, gli aspetti tipici della vita nella Spagna fra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, guardandoli in profondità e con una forte partecipazione, senza mai cadere nel gratuito, nello scontato, nel già visto e nella spettacolarizzazione fine a se stessa, semmai facendo tesoro ed ampliando il discorso iniziato da W. Eugene Smith nel 1951 con la pubblicazione su LIFE del servizio sul “villaggio spagnolo” di Deleitosa nell’Estremadura. Lo sguardo di Sanz Lobato si ferma sulle manifestazioni religiose, sulle sagre paesane, sul folclore popolare, sull’allevamento di cavalli e tori, sulla vita quotidiana dei paesi dell’interno, dove la modernizzazione arriva con forte ritardo e dove trova maggiori resistenze, sui personaggi incontrati nei suoi spostamenti all’interno del paese. Egli visita la Castiglia, l’Estremadura e la Galizia nei suoi giorni libe-

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ri, mettendosi alla guida della sua prima auto, una Seat 600, e raccogliendo una serie di immagini di grande impatto emotivo e di grande valore documentario. Considerato il pioniere della fotografia antropologica in Spagna, ma messo in secondo piano da parte dei rappresentanti ufficiali della “cultura” fotografica del regime franchista, Sanz Lobato si dedica dopo la morte del dittatore all’attività professionale, lavorando nei settori del ritratto, della pubblicità e delle nature morte. Solo tardivamente viene riconosciuto il suo valore, quando nel 2004 gli viene conferita la “Medaglia d’Oro al Merito delle Belle Arti” e nel 2011 il “Premio Nazionale di Fotografia”. Spirito libero, amante

del bianco e nero e fiero della propria indipendenza, Sanz Lobato concentra il meglio della sua produzione nei lavori pubblicati all’inizio degli anni Settanta sulle tradizioni popolari laiche, come “A Rapa das Bestas” sulla doma dei cavalli selvaggi in Galizia, storiche come “La Caballada de Atienza” sulla cavalcata della domenica di Pentecoste, o religiose, come “Bercianos de Aliste” sulla celebrazione del “Santo Entierro” ed “Auto Sacramental de Camuñas” sulla rappresentazione dello scontro fra il bene ed il male. Specchio di una Spagna minore, le sue immagini raccontano una certa realtà, forse anche “tipica” e “pittoresca”, ma lo fa in maniera assolutamente personale ed inedita.


di Sara Chiarello “Ci sono fiori dappertutto, per chi è capace di vederli”, diceva Matisse. Si riassume così il motto della trentaduesima stagione del Teatro di Rifredi, che punta sulla forza del teatro, ovvero “quell’energia inarrestabile, sotterranea che spesso fiorisce spontanea anche nei terreni più ostici lottando contro ogni tipo di intemperie o di parassiti che vorrebbero toglierle la creatività, sua linfa vitale. Il Teatro di Rifredi vuole offrire un’immagine positiva: quella di un variopinto giardino dove ogni spettacolo è come un fiore fatto germogliare e curato con passione e dove ognuno di questi fiori sprigiona ancora più forza nel mostrarsi insieme a tutti gli altri”, dicono gli organizzatori. Nel programma, 26 spettacoli, 102 rappresentazioni, 7 produzioni, 7 spettacoli pomeridiani per famiglie e 40 repliche mattutine per i bambini e gli studenti. L’apertura è il 17 ottobre con Alessandro Riccio in Bruna è la notte, teatro canzone dove la vecchia e burbera Bruna, accompagnata dal triste e timido musicista Franchino, Alberto Becucci, interpreterà canzoni su periferie, amori e vite difficili. Si prosegue con il Cantico dei Cantici (26-28 ottobre), inno alla meraviglia dell’amore che si fa danza e libertà, con l’attore Roberto Latini; Geppetto e Geppetto (2-4 novembre) con Tindaro Granata (Premio UBU 2016 per Miglior progetto o Novità Drammaturgica, Premio Hystrio Twister 2017 etc) affronta con coraggio il difficile

di Sergio Favilli Fra la presa in giro e la presa per il culo c’è una enorme differenza. La presa in giro, talvolta feroce, ha come obbiettivo finale la messa in berlina di qualche malcapitato, la risata finale senza la quale la presa in giro non ha successo. Di contro, la presa per il culo, ha lo scopo finale di alterare la realtà, di far credere a terzi che Cristo l’è morto dal sonno, di falsare le carte in tavola. Insomma la presa in giro è uno sberleffo, la presa per il culo è una truffa!! Per esempio, quando io scrivo che Di Maio ha studiato sulle figurine Panini faccio una solenne presa in giro del simpatico ragazzo, quando Di Maio afferma che con lui a Palazzo Chigi verranno vendute in un anno un milione di auto elettriche compie una sonora presa per il culo per tutti noi. Quando si ricorda il progetto di legge grillonzo sulla protezione delle sirene lo sghignazzo diventa fragoroso, presa in giro,

La forza di Rifredi

Foto di Fabio Lovino

argomento della paternità tra una coppia gay. In programma il visual theatre di Paolo Nani in La lettera; il teatro vernacolare di Dory Cei Barroccini di via dell’Ariento con la compagnia Il Grillo capitanata da Sergio Forconi; la danza della Compagnia Opus Ballet; lo spettacolo under 35, prodotto da

Pupi e Fresedde, I ragazzi di via Boccaccio #Decameron su testo originale di Andrea Falcone - in con la peste viene sostituita da solitudine e dall’indifferenza - e il Kulunka Teatro, la compagnia basca rivelazione della scorsa stagione, con Solitudes. Programma completo su www.teatrodirifredi.it .

appunto!! Ma quando Di Ballista cita Rousseau e subito dopo minaccia di espulsione chi osa criticare fa una chiara operazione di presa di culo di massa!! In conclusione, dati i personaggi a disposizione, molte volte i grillonzi più in vista suscitano ilarità e stimolano la fantasia satirica di chi è uso a scriver sui fenomeni di attualità, insomma, tante continue prese per i fondelli per tenere allegro un popolo che ben conosce il senso del ridicolo. Di contro, quando i grillonzi candidano Giggino ‘o Congiuntivo insieme a sette emeriti sconosciuti per le votazioni primarie, non solo dimostrano una totale mancanza del senso dell’umorismo, ma prendono anche sonoramente per il culo proprio i loro elettori!! E di Beppe che dire?? Ma proprio volete sapere veramente il mio pensiero?? Ebbene,

se non fosse per il significato popolare che un tempo a Firenze si usava dare a questo nome, il sottoscritto del Grillo ne farebbe volentieri a meno!!!

Ilarità e truffa a 5 stelle

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di Gianni Biagi “Affettuosamente crudele” è la definizione che Pio Baldi ci regala del modo con il quale Mario Lolli Ghetti tratta le persone e i luoghi che sono descritti nel suo libro “L’Entomologo curioso” edizioni Clichy. Un libro di viaggi, e per viaggiatori, ma non un libro per turisti. Un libro che è costituito dagli appunti che Mario ha registrato dai suoi viaggi ma non un libro di appunti di viaggio. Si potrebbe chiamare un libro di appunti della memoria del viaggio; appunti scritti con misura ma “postumi” quando il filtro del tempo regala immagini più mirate e nitide dell’essenziale. “La sua cifra è la misura” ha detto Cristina Acidini che ha presentato, insieme a Carlo Sisi, il libro in una location insolita e spettacolare come la sala degli scheletri del museo della Specola a Firenze, lo scorso lunedi 25 settembre. Un libro che reinterpreta in chiave contemporanea, secondo Acidini, il “gran tour” di epoca romantica. Solo che i luoghi del viaggio non sono quelli classici dell’Europa del Sud e del medio Oriente ma tutto il mondo. Cile, Etiopia, Buthan, Cuba e naturalmente Egitto e Siria e Turchia sono alcuni dei luoghi visitati da Mario Lolli Ghetti, sia per viaggi di piacere sia per viaggi di lavoro ma sempre raccontati con l’arguzia e l’ironia, spesso anche con l’autoironia, che caratterizza l’uomo Mario Lolli Ghetti. Un uomo con una cultura interdisciplinare che gli consente di comprendere non solo quello che è esposto nei musei visitati ma anche, e soprattutto, quello che non c’è , e il perchè non c’è

Mario Lolli Ghetti Affettuosamente crudele

esposto, come ha detto Carlo Sisi. Un libro colto e divertente, irreverente e spesso capace di far vedere il luogo visitato come forse non potreste mai vederlo. Un libro ricco di particolari e di attenzione alle cose apparentemente irrilevanti e che invece sono indispensabili per comprendere davvero un luogo, una situazione, un’opera

Il racconto di Europa di Jakhnagiev a NY Al Consolato Generale d’Italia a New York dal 3 al 12 ottobre 2017, verrà presentata la personale “Colori” di Alexander Jakhnagiev. La mostra è curata da Pino Purificato. Un viaggio con le sue ultime opere dipinte per il pubblico di New York. In mostra 15 tele e una video installazione che racconta le recenti performance dell’artista. Tra i progetti di grande impatto sociale e mediatico ricordiamo la “Crash Art” la pittura su macchine incidentate per sensibilizzare sulla sicurezza stradale ospitata di fronte al Parlamento italiano a Piazza Montecitorio; “Ombrelli”, oltre 2.000 ombrelli dipinti che hanno coperto integralmente una strada ad Assisi in un’installazione di Land Art e ancora ”Ombrelli” in occasione della festa della Repubblica, durante la parata militare del 2 Giu-

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gno ai Fori Imperiali con il Presidente della Repubblica Mattarella; “Piedi d’Arte” pittura sui piedi dei calciatori della squadra di calcio del Perugia, le cui impronte su tela sono state vendute per beneficenza in favore dei bambini malati di leucemia: “Sottosuoli” e “Schiavitù” due percorsi performativi con gli homeless e con le prostitute di Roma. Alexander jakhnagiev, figlio del famoso artista Ivan jakhnagiev, ha al suo attivo oltre 100 mostre personali allestite in tutto il mondo in spazi pubblici (Parlamento Italiano, Parlamento Europeo a Bruxelles) e privati. Vive e lavora a Roma. Benedetto Della Vedova (sottosegretario agli esteri) dici di lui: “Alexander Jakhnagiev è un artista europeo. I colori vivaci delle sue opere, le sue coinvolgenti performance e il suo stile dinamico raccontano

d’arte. Un libro pervaso dalla curiosità, che è l’altra cifra caratteristica dell’autore, che viene restituita in modo disincantato e pungente. Un libro che racconta come la calma e la lentezza siano gli elementi fondamentali del viaggiare e come la velocità e la frenesia siano elementi corruttivi della percezione della bellezza. dell’Europa e delle sue genti, della pluralità che contraddistingue il vecchio continente e che lo ha reso al contempo una culla e un baluardo della libertà, espressiva ed artistica. Un artista di quella Italia Europea che sempre più dobbiamo costruire.


Autoritratto con materasso

di Claudio Cosma Il mondo rappresentato da Elene Usdin è pervaso da una femminilità “protagonista”, ci parla questo mondo, con delicata sottigliezza, non di quello che viene fatto alle donne, di solito e ultimamente soprusi, ma di quello che le donne fanno. Non esiste il lamentevole compianto delle femministe, né la rivincita sociale, né tanto meno la ancora evidente, sebbene mascherata, discriminazione dei sessi, esiste solamente l’espressione di libertà di quello che si può fare essendo donna nell’interpretare i numerosi ruoli che la vita richiede loro, fra cui quelli di: femmina, madre, figlia, moglie, ex moglie, viaggiatrice, sognatrice e più di tutto artista e aggiungerei “francese”. Elene è indiscutibilmente francese anzi di più, parigina nella sua arte e nella sua vita. Ho dimenticato moltissimi ruoli, atteggiamenti, pose, caratteristiche, modi d’essere, attitudini, preferenze ed abilità, tutto presente in gran quantità a formare la sua personalità, ma non voglio dimenticare quelli che fanno riferimento al “glamour”, per lei innato e che si riecheggia nel suo lavoro. Tutto questo che ho citato cer-

cando di delineare il suo essere, è comunque presente in ogni persona, ma sono le dosi e le proporzioni e i rapporti fra queste caratteristiche che formano lo spirito col quale si affronta la vita con la misura che ci è propria e che negli artisti si traduce nell’unicità specifica nella quale si equilibra il lavoro. Questa misura fatta di pesi contrastanti, pur tendendo all’esplosione, rimane sempre in una tensione di quiete, che è quella della perfezione. Facendo una comparazione profana e gastronomica, direi che gli ingredienti di un gran piatto che ne determinano l’eccellenza, sono quelle sostanze volatili che in piccolissime quantità indirizzano il gusto verso un’altezza che non è più solamente fisica. Nei lavori di Elene, parimenti e maggiormente, non sono le componenti più appariscenti ad essere protagoniste, ma, a volte, una piccolissima dose di spirito, come un pistillo di ottimo zafferano, che va ricercato con le più sottili papille del cervello. La foto rappresenta una ragazza caduta in un sonno immediato, o meglio nella rappresentazione caricaturale del sonno di una Cenerentola che dopo un faticosissimo lavoro casalingo si abbatte spossata su di un cumulo di materassi piegati nel mezzo, di modo che ne viene

raddoppiato lo spessore e la morbidezza e la promessa di riposo. L’azione si svolge in una soffitta con una quinta di un rosso pompeiano, prezioso al punto da far pensare che il resto della casa sia sontuoso. L’abbandono al sonno avviene nel rispetto composto delle foto di moda, il corpo, bellissimo, sembra interpretare una bilancia il cui braccio (in realtà sono le sue gambe) sinistro pende fino a toccare il suolo, suscettibile di ulteriore movimento, ancora compreso della vibrazione della caduta, bilanciato dalla pila di materassi dalla parte opposta, ricomponendo classicamente l’immagine. La piegatura dei materassi allude, discretamente, al sesso femminile dando un pizzico di malizia all’insieme e sposta magistralmente l’erotismo sotteso o suggerito dalla foto, dalla ragazza, che risulta essere semplicemente portatrice innocente dei sogni dello spettatore, alla inerte, ma colpevole pila di materassi. Di questo transfert non sono assolutamente certo e non vorrei essere incolpato di vedere cose immaginose nella piegatura di alcuni materassi, ma tant’è, il sangue non è acqua. A questo proposito chiederò all’artista che se lo negherà mi darà la certezza di avere avuto ragionissima.

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di Sara Chiarello Da cinque anni, la Multiresidenza FLOW (Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Versiliadanza e Murmuris) anima il Teatro Cantiere Florida. Per la nuova stagione propone venticinque titoli; tra i temi, la guerra, la violenza sulle donne, il terrorismo, il lavoro e la sua drammatica assenza, l’emigrazione, la memoria, il dolore, l’arte, ovvero “la vita nella sua banale, sconcertante, straordinaria normalità”. A introdurre la stagione di prosa del Teatro Cantiere Florida, dal 12 ottobre, è la seconda edizione di Oltre confine. La zattera dei migranti, eventi curati da Massimo Luconi e da Cesare Molinari che costituiscono l’esito di un lungo laboratorio di formazione dedicato a un gruppo di migranti ospitati nel territorio metropolitano, durante il quale i partecipanti hanno approfondito la conoscenza della lingua italiana e si sono confrontati con la tecnica delle arti sceniche. L’inaugurazione del cartellone di prosa è affidata invece a Giuliana Musso, insignita quest’anno del Premio Hystrio alla drammaturgia che il 20 e 21 ottobre presenta Mio eroe, in cui tre madri testimoniano sulla vita di altrettanti figli caduti in Afghanistan durante la missione ISAF (2001- 2014). Il 10 novembre è la quotidianità degli affetti il tema scelto da Kronoteatro in Educazione sentimentale, mentre il 24 novembre sul palco Trapanaterra. Tornare per non restare, prima nazionale sulla livida relazione tra due fratelli, separati dalla decisione del maggiore di abbandonare una terra d’origine, la Basilicata, resa irriconoscibile dallo sfruttamen-

to petrolifero. Il 2018 si apre il 19 gennaio con Tu es libre, testo di Francesca Garolla, diretto da Renzo Martinelli, che filtra attraverso l’arte scenica l’esistenza di Haner, una delle tante foreign fighter che ha scelto in assoluta libertà di abbandonare l’Europa per unirsi a Daesh. Il 2 e 3 febbraio protagonista Punta Corsara con Io, mia moglie e il miracolo, vincitore del premio I Teatri del Sacro 2015, il racconto di un paese senza luogo, di una bambina scomparsa, di un sedicente guaritore, immagini grottesche nelle quali è facile, e al contempo drammatico, specchiarsi. Il primo appuntamento della monografia di scena dedicata ad Alessandro Serra è per il 20 febbraio con Frame, prodotto da Cantieri Teatrali Koreja, che delinea l’universo umano, prima ancora che pittorico, di Edward Hopper. Il secondo appuntamento della monografia, inserito in Materia Prima, è previsto invece per marzo: in Macbettu, prodotto da Sardegna Teatro, Serra trasferisce la vicenda shake-

speariana in una Barbagia mitica e ancestrale. Anche quest’anno il Teatro Cantiere Florida offre una variegata selezione di spettacoli per l’infanzia e la gioventù, inseriti nel cartellone de Le Chiavi della Città e proposti anche nella rassegna domenicale Il Florida dei Piccoli. Apre la rassegna Tre porcellini di Giallo Mare Minimal Teatro (dal 12 novembre). Il calendario della Stagione Danza si inaugura invece il 27 ottobre con il debutto della nuova produzione di Leonardo Diana Egon - Introspettiva da Klimt a Schiele interpretata da Barbara Carulli, Noemi Segazzi, Valentina Sechi e dallo stesso Diana. Un lavoro, prodotto da Versiliadanza in collaborazione con Armunia, intorno alla poetica dei pittori viennesi in occasione del centenario della morte che si celebrerà nel 2018. Nello spettacolo, le opere di due videoartisti, Nicola Buttari e Martino Chiti, le musiche originali di Andrea e Luca Serrapiglio, il disegno luci di Gabriele Termine e le scenografie di Eva

Variazioni su incubi quotidiani

Sgrò. Si intitola invece Materia Prima la rassegna organizzata da Murmuris, che si inaugura a a dicembre con l’Odissea del gruppo teatrale dei detenuti di Sollicciano e un Sandokan di Zeches Teatro con 12 attori africani, proseguendo a marzo con lo spettacolo vincitore Premio Scenario 2017 Un eschimese in Amazzonia, ideazione e testo Liv Ferracchiati. Il titolo è una citazione dell’attivista Porpora Marcasciano, che fa riferimento al contesto socio-culturale avverso che compromette, ostacola, falsifica un percorso che potrebbe essere dei più sicuri e dei più tranquilli, perché di fatto mette in crisi il modello binario sesso/genere, omosessuale/eterosessuale, maschio/ femmina. Un modello binario che invade le nostre vite e le condiziona senza che ce ne accorgiamo. Per ulteriori informazioni www.teatroflorida.it .

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Bizzarria degli

oggetti

dalla collezione di Rossano

Questione di occhi(ale)

a cura di Cristina Pucci Tanto bello quanto inutilizzabile, escluso che per esporlo in un Museo, per questo ancor più ambito da Rossano. Mobiletto di legno anni ’30 con deliziosa chiusura anteriore a saracinesca che contiene, ben ordinati in apposite mini scansie, tantissimi piccoli monocoli dall’aria retrò, in cui sono montate lenti di tutte le gradazioni utili ad individuare, ed eventualmente correggere, i vari difetti di vista. Nella parte inferiore appare una lavagnetta estraibile, due mini cassetti ed una etichetta di metallo con scritto il nome della famosa ditta fiorentina che produceva, e produce, lenti ed apparecchi oftalmici, Sbisà, Piazza Signoria. In alto il marchio “Regio Esercito”, cui evidentemente apparteneva e dove trovava la sua utilizzazione nel corso delle visite che dovevano valutare la idoneità fisica di giovani maschi alla Leva Militare e, purtroppo, alla guerra nei vari anni in cui essa esisteva. Il Regio Esercito fu l’esercito del Regno d’Italia dal 4 maggio 1861 al 18 giugno 1946. Le battaglie cui aveva partecipato e le sue gesta più o meno eroiche, le caratteristiche delle divisioni e dei corpi che lo componevano, la dotazione in armi ed uomini e la storia dei suoi cambiamenti nel corso del tempo non mi hanno appassionato. L’ottica e l’oculistica invece sì.. anche se fu l’unico esame cui fui buttata fuori insieme ai sei meschini che mi avevano preceduto. In epoche antiche i Greci usavano sfere di vetro riempite di acqua per ingrandire le immagini, Archimede usò uno strumento ottico, “gli specchi ustori”, per incendiare le navi romane che assediavano Siracusa. Plinio e Seneca parlano di lenti sferiche come il famoso smeraldo con cui Nerone seguiva i combattimenti dei gladiatori. Miopos è colui che socchiude gli occhi, la parola è greca ovviamente. A Venezia, nel corso del 200, si producevano ed adoperavano lenti ed occhiali, l’arte del vetro era molto evoluta e regolamentata da appositi “capitolari”, quello dei cristallieri cita lenti da vista, dette “roidi da ogli”, e da ingrandimento, “lapis ad legendum”, e ne vieta esplicitamente la contraffazione. In un affresco, nel Convento di San Niccolò a Treviso, eseguito nel 1352 da tal Tommaso da Modena, uno dei predicatori intenti a leggere

usa una lente da lettura, un altro, Ugo da Provenza, mostra, strette al naso da una specie di cerniera a compasso, due lenti incastonate in una cornicina rotonda. Occorreranno altri due secoli per riuscire a correggere, oltre la presbiopia, anche la miopia. È a metà Settecento che l’ottico inglese Edward Scarlett inventa le stanghette, ed è in questo secolo che, oltre che oggetto utile a chi vede poco, gli occhiali diventano sfiziosi ed eleganti accessori di moda con montature svolazzanti e smaltate, a volte in oro, argento e pietre preziose. Salto un po’ e dico che è nel corso della Seconda Guerra che furono inventati i Ray-Ban con la loro classica forma e le lenti che proteggevano dai raggi ultravioletti. Pierre Marly, disegnatore parigino, creò occhiali di forme originali e bislacche, divenne famosissimo ed ebbe come clienti dive come Audrey Hepburn e la Loren, a Parigi c’è un Museo che raccoglie le sue creature, più di 3000 occhiali, molti appartenuti a scrittori, cantanti ed attori. La Luxottica nel 1991, per festeggiare i suoi 30 anni di attività, inaugurò il Museo “Ottiche e occhiali” dove trovano spazio varie collezioni acquistate nel corso degli anni e rari esemplari trovati in negozi antiquari e mercatini. A Pieve di Cadore c’è un altro Museo il cui nucleo fu la collezione messa in mostra da un medico in occasione delle Olimpiadi invernali di Cortina, 1956.

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di Francesco Cusa Uscire fuori dalla sala dopo un film di Sofia Coppola e sentirsi (per l’ennesima volta) presi per i fondelli. Questo potrebbe essere l’efficace sottotitolo di questa recensione. Sofia Coppola è la “regista del sottovuoto”. Confeziona sceneggiature con immani “pellicole” di cellophane con cui riveste gli ambienti e le scenografie, pratica artificiose insufflazioni di atmosfere stranianti che paiono fungere da preludio allo sviluppo di chissà quali evoluzioni di trama, ed infine si prodiga nella tecnica della rigirata del cucchiaino, arte in cui Ella eccelle in qualità di sopraffina maestra di rimestamenti. Nella medesima tazza di the che, da bollente, diventerà tiepida e poi fredda sboba, in questo contenitore-cornice che è il canovaccio di tutto il suo cinema, prendono a muoversi ombre e parvenze di trama, cenni di brame e ardori, sussulti e spasmi di passioni. E a noi non rimane che la contemplazione passiva di questo spazio acquoreo in cui sono immerse le sbiadite figure dei personaggi, una sorta di transfert onirico privo di pathos, melenso, noioso, fumoso. In questo suo “L’Inganno”, la nostra Sofia è riuscita nel difficilissimo compito di rendere spente e stanche le interpretazioni di un cast stellare: citiamo quantomeno Kristen Dunst, Nicole Kidman e Colin Farrel. Diciamola tutta: il cinema della Coppola è un cinema antipatico, insopportabilmente fichetto, stucchevolmente femminista (in senso brutto), insipido come una minestrina col dado dei Settanta. La Coppola ci mette del suo nel maldestro tentativo di scombinare le carte senza alcuna ragione apparente, producendo una sorta di ibrido tra il romanzo di Cullinan e il film di Siegel, o, per meglio dire, un affresco estetizzante che vorrebbe scimmiottare atmosfere à la “Picnic ad Hanging Rock”. Il gineceo che accoglie lo sventurato e fortunato soldato, è il piccolo paradiso dei frigidi, ove perfino il più bestiale degli istinti finisce relegato in quel sempiterno volumaccio che è l’abecedario rosa per adolescenti timorate da Dio (o dal Padre). Non ci incantano le obiezioni dei fan della regista, giacche tali millantate peculiarità narrative, da taluni osannate in maniera scriteriata, trovano radici nella quintessenza del nulla creativo, e sono alimentate dalla bonaccia del Mar della Noia. Un film da evitare senza se e senza ma.

18 30 SETTEMBRE 2017

Non fatevi ingannare dalla Coppola

Ciao Roberto

Si é spento nella notte del 16 settembre nella sua dimora di San Gimignano il regista teatrale Roberto Guicciardini all’età di 84 anni. Nato a Firenze il 29 maggio del 1933,diretto discendente di Francesco Guicciardini, fu tra i fondatori della compagnia Gruppo della Rocca nel 1969 , una delle prime cooperative teatrali, con il proposito di raccogliere e armonizzare i fermenti più innovativi presenti sulla scena italiana, dando vita a un teatro di forte impegno civile, ma anche solidamente fondato sul piano artistico grazie al contributo di tutti i componenti che si assunsero la responsabilità collettiva di ogni fase delIa attività teatrale. Con il Gruppo della Rocca, Guicciardini mise in scena spettacoli come La Clizia di Machiavelli (1970), Perelà uomo di fumo (1970) dal romanzo di Aldo Palazzeschi, Viaggio controverso di Candido e altri negli arcipelaghi della ragione(1971) tratto da Voltaire, Le Farse e Antigone (1972) di Bertolt Brecht, Il tumulto dei Ciompi (1973) di Massimo Dursi, L’undicesima giornata del Decamerone (1973) e Il Ventre del Gigante (1976) di Fabio Doplicher, La Missione di H.

Muller (1985), Turandot o il congresso degli imbianchini di B. Brecht (1992). Ha svolto anche un’intensa attività teatrale in teatri di lingua tedesca, (Vienna, Zurigo, Darmstadt, Graz, Berlino) privilegiando la proposta di autori classici (Machiavelli, Aretino, Gozzi, Ford, Ben Jonson) ma cimentandosi anche con autori contemporanei (Brecht, Muller, Meyer) in aperto confronto fra diverse culture teatrali. Per la televisione ha realizzato due sceneggiati: Anna Kuliscioff e Clara Wieck, e diverse opere teatrali, fra queste La Mandragola, Antonello capobrigante calabrese, Il Salotto di James, L’Onore di Sudermann, La scuola della maldicenza di Sheridan. Dal 1992 al 1998 ha diretto il Teatro Biondo Stabile di Palermo. Nel 1998 gli è stata conferita la laurea honoris causa in materie letterarie dalla Facoltà Scienze della Formazione della Università di Palermo.Tra le sue ultime regie teatrali figurano Enrico IV di Luigi Pirandello, Pigmalione di George Bernard Shaw, Romolo il Grande di Friedrich Dürrenmatt, Tito Andronico e Otello di William Shakespeare.


di Susanna Cressati È iniziato con un “sesto grado superiore” il percorso della nuova stagione letteraria al Gabinetto Vieusseux di Firenze. Perché tale è, sempre, la difficoltà da affrontare in modo corretto, non banale e non meccanicistico, un nodo delicato, sensibile della produzione poetica, quello tra poesia, appunto, e biografia. Ma l’impresa si fa ancora più ardua se l’oggetto dell’analisi è una autrice complessa come Amelia Rosselli. Come e fino a che punto tener conto nella lettura della sua opera della parabola di una vita costellata di lutti e di tormentosi fantasmi (l’assenza e la morte del padre Carlo, la scomparsa prematura dell’amico fraterno Rocco Scotellaro), del progressivo sprofondare nella malattia mentale, dell’epilogo drammatico dell’11 febbraio 1996, il suicidio nella sua casa di via del Corallo a Roma? Come riuscire a farlo senza sbrigative o disinvolte sovrapposizioni, quando mettere piede nell’universo poetico della Rosselli significa imbattersi in difficoltà di comprensione quasi insormontabili (“non torna nulla”, confessa candidamente Laura Barile,una delle sue più acute interpreti), in un flusso poetico impermeabile alla comprensione e alla parafrasi , un groviglio più simile a una partitura musicale che a un verseggiare (aveva studiato teoria musicale, etnomusicologia e composizione), eppure allo stesso tempo una struttura racchiusa nella ricerca di una forma perfetta, il mandala costruito nel rigore della pagina dattiloscritta, il cerchio perfettamente inserito nel quadrato? Ci ha provato Stefano Giovannuzzi, che dopo aver curato il “Meridiano” dedicato all’autrice, ha proseguito la sua ricerca con il volume “Amelia Rosselli: biografia e poesia” (Interlinea 2016) presentato nei giorni scorsi proprio al Vieusseux, insieme a Lau-

“Melina” la poetessa educata

ra Barile, Cecilia Bello e Niccolò Scaffai nell’ambito del festival internazionale di poesia “Voci lontane, voci sorelle” che proseguirà fino al 5 ottobre. E pensare che Pierpaolo Pasolini, altro suo illustre amico, aveva chiesto a “Melina” uno scritto con cui la poetessa provasse almeno a costruire un sé poetico comprensibile, a mettere ordine in questo flusso bruciante, che molto doveva, evidentemente, alle pressioni di una biografia così tormentata. Ma nemmeno gli Spazi metrici del 1962 risolvono il nodo, anzi ripropongono una logica spiazzata e spiazzante in cui, ripete Barile, “non torna nulla”. Allora, forse, è saggio accettare il punto di vista espresso da Cecilia Bello: “Non è con la biografia che si spiega la poesia”. Continuare a leggerla e a studiarla, come ha fatto Giovannuzzi, e anche a sentirla leggere. In rete sono disponibili molte registrazioni di interviste e interventi di Amelia Rosselli, punteggiati dalla lettura dei suoi versi, quella lettura “solfeggiata” che le aveva procurato tanto successo nelle notti di Castelporziano, il primo festival internazionale dei poeti organizzato nel 1979 sulla spiaggia di Ostia. È una voce educata, la sua, lievemente blesa, ma apertamente inquieta.

19 30 SETTEMBRE 2017


di M. Cristina François Con il trasferimento della capitale da Firenze a Roma (1871), il Coretto dei Sovrani in S. Felicita, perse la sua secolare funzione. Un po’ di storia. Nel 1550 il granduca Cosimo I viene ad abitare in Palazzo Pitti e S.Felicita diventa parrocchia granducale. Si legge nel diario del Lapini che il 19 marzo 1565 “si cominciò a fare il Corridore che va a Pitti”, terminato lo stesso anno in soli 8 mesi (Vasari dice in 5), dal marzo al novembre. Dal 1565 al 1589 i Medici avevano potuto guardare all’interno di S.Felicita solo da un affaccio nella parete del Vasariano. Nel 1589 Ferdinando I, in occasione del proprio matrimonio con Cristina di Lorena, farà costruire un Coretto con le dimensioni della sottostante cappella Canigiani la cui cupola fu per questo scapitozzata. Nel 1737 muore Giangastone ultimo dei Medici in linea maschile e, quattro anni dopo (1741), muore anche l’architetto Ferdinando Ruggieri che aveva rifatto la Chiesa nell’assetto attuale. Il fratello del Ruggieri, Giuseppe, dal 1765 continuerà per i Granduchi Lorenesi l’opera di Ferdinando creando nel lato nord della chiesa l’intra muros con lo scalone per scendere in presbiterio, ed estendendo il Coretto lungo la controfacciata fino a raggiungere “la stanza con vista” dei Capponi soprastante la loro cappella familiare. Superiormente, dove un tempo si affacciava il “coro di fondo delle Monache” fu sistemato il “Coretto per le cameriste” la cui apertura con grata risulta tamponata da anni (fig.1). Quando nel 1766 fu eretta la Cappella Palatina a Pitti, il Priore di S.Felicita venne confermato dai Lorena Parroco di Palazzo il che segnò la continuità d’uso del Palco da parte dei Granduchi. Il 6 marzo 1779, infine, Pietro Leopoldo ottenne dai Capponi la cessione del loro Coretto, così da formare un unico grande Balcone per la numerosa famiglia. Nel periodo di Firenze capitale i Savoia frequentano saltuariamente questo loro spazio privilegiato. Regnando il Re Vittorio Emanuele III, con un “Protocollo speciale” firmato l° febbraio 1914 il Coretto fu ceduto in uso temporaneo e revocabile al Parroco di S.Felicita unitamente all’intra muros (cfr. Cultura commestibile, n.229, pp.22-23). La prima trasformazione consisté, da un lato, nel tamponare la comunicazione col Vasariano, dall’altro, nell’ingrandire la finestrina del Priore che si affacciava all’interno del Palco consentendogli di parlare coi Sovrani, per trasformarla in una porta d’accesso che tramite una scala lignea conduceva allo stesso Coretto. Nel maggio 1915, un

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Un coretto granducale senza granduchi

anno dopo la cessione in uso del Palco granducale da parte del Demanio alla Chiesa, il Balcone ospitò la nuova Cappella musicale della parrocchia “allo scopo di avere la Messa in Musica tutte le Domeniche e le Feste di Precetto” (Ms.730, p.593). Il Coretto permise così gli effetti sonori dei ‘Cori battenti alla Monteverdi’ essendo posto a distanza di fronte all’altare da cui provenivano le salmodie degli officianti, mentre, contemporaneamente, ‘in cornu Evangelii’, dal Coretto dell’’organo Contini’ rispondevano in alternatim le note dello strumento. Nel 1936 l’architetto Raffaello Niccoli effettuò ricerche nel Palco granducale e nella sottostante cappella Barbadori-Capponi per studiare ciò che restava della cappella brunelleschiana: ne individuò le emergenze e tentò pure di ritrovare tracce della cupoletta pontormesca scapitozzata per creare il nuovo grande ‘Balcone lorenese’. Compiute le sue ricerche ricoprì tutta la zona indagata con assi di legno grezzo, le stesse che vediamo oggi, ed ebbe cura di lasciare

un’asse rimovibile per potere eventualmente continuare le indagini. L’assito del pavimento venne protetto nel tempo da tappeti che rimpiazzarono quelli sabaudi. Ricordiamo (cfr. Cultura commestibile, n.229, pp.22-23) che, nel ’44, il Balcone granducale permise la fuga degli ebrei e dei partigiani nascosti tra le mura della Canonica. Nel 1948 subentrò al sagrestano Genesio Cei, Alvaro Fattoiani, dal quale appresi più tardi che il Coretto era in quegli anni tappezzato con un tessuto cremisi a racemi dorati, simile a quelli dipinti a trompe-l’œil sulle ante della “finta griglia su tela per il Palco Reale” costruita nel 1872 (Ms.384). Dal 1914 gli arredi sabaudi del Coretto furono sostituiti dagli armadioni neogotici realizzati dal legnaiolo Pietro Spighi nel 1858 (Ms.369) per la Sala capitolare e da lì trasferiti a custodia delle reliquie donate alla Chiesa da un sacerdote che le aveva raccolte, oltre alle reliquie appartenute al monastero. Subito dopo l’alluvione del 1966 molte opere provenienti dalla disastrata Chiesa di S. Jacopo sopr’Arno furono trasferite in appoggio a S.Felicita e, fra queste, splendidi reliquiari che furono accolti nel Coretto dentro un armadio a vetri costruito su misura. In quell’anno fu demolita la scaletta originale che conduceva al palco superiore delle Cameriste e della quale restano solo quattro scalini: essa fu presto sostituita da un’altra scaletta ‘stile anni 1960’ che univa il Palco dei Granduchi con il lungo corridoio intra muros. Su questi scalini, dentro un sacchetto, il sagrestano Alvaro conservò le guglie del polittico di Taddeo Gaddi tolte nel 1965 per renderlo più spoglio e ripristinate nel 2006 (grazie al restauro di Daniele Rossi). Negli anni ’70 vennero levate le grate alle finestre d’affaccio del Vasariano sul Coretto di Santa Felicita, prudenzialmente reintegrate per ragioni di sicurezza dopo il clamoroso furto di opere d’arte avvenuto alla Certosa del Galluzzo. Col tempo questo Balcone accolse, oltre le reliquie, gli oggetti liturgici non più in uso divenendo così un luogo di tante sacre vestigia. A chi il compito di riportare alla luce queste memorie con un accurato restauro sia degli oggetti che dell’ambiente carico di storia che li raccoglie?


La più visitata città dei morti di Simonetta Zanuccoli Nessuno voleva seppellire i propri cari in un cimitero così lontano dal centro cittadino in un quartiere popolare e poverissimo, nonostante gli sforzi del suo progettista, Bronginart, di renderlo affascinante come un parco all’inglese aperto al pubblico dove poter passeggiare all’ombra degli immensi alberi (idea che sembrò alquanto bizzarra ai parigini del tempo). I cimiteri dell’Ancien Règime, come quello des Innocents, erano saturi, non più sufficienti al crescente impatto demografico e assolutamente privi di qualsiasi norma igienica. Il processo di secolarizzazione innescato dalla Rivoluzione aveva già affievolito l’immagine dei piccoli, spesso anonimi, luoghi di sepoltura legati alle parrocchie. In seguito Napoleone pensò di rispondere a queste esigenze igienico urbanistiche con cimiteri fuori le mura di Parigi dall’impatto altamente estetico per confermare, anche nel regno dei morti, la grandeur nazionale. Furono costruiti così a nord il cimitero di Montmartre (1825), a sud Montparnasse (1824) e solo il piccolo cimitero di Passy (1820) fu aperto nel centro della città. Il primo, a est, fu Père Laichaise, costruito nel 1804 nel popolare 20° arrondissement. Nonostante che il suo nome ufficiale sia appunto cimetière de l’Est è da sempre chiamato così in riferimento a Francois di Aix de la Chaise, confessore di Napoleone, che viveva nel monastero gesuita situato prima in quel luogo (alcuni dei 6000 alberi attualmente presenti nel cimitero sono la sopravvivenza del parco del monastero). Ma, appunto, nessuno voleva seppellire i propri cari in un luogo così lontano dal centro cittadino. Nei primi 10 anni l’immensa area si presentava pressoché vuota con sole 2.000 tombe. Così, nel 1817, il comune decise di intervenire con un operazione che oggi definiremo di marketing. Trasferì nel cimitero di Père Laichaise alcune glorie nazionali: Abelardo e Eloisa, morti nel 1142 e 1164, icone dell’amore proibito e meta di pellegrinaggio per tutto il periodo romantico, Cyrano de Bergerac (1655), Molière (1673) e La Fontaine (1695). L’escamotage ebbe molto successo e già dieci anni dopo si potevano ammirare le ricche tombe, quasi dei monumenti, di 33.000 parigini onorati di condividere la loro ultima dimora con tali celebrità. Ma Père Lechaise nasconde

un segreto. All’epoca di Jean-Baptiste Poquelin detto Molière, gli attori erano scomunicati e se non si ravvedevano almeno sul letto di morte non avevano diritto alla sepoltura in terra consacrata. Molière, crollato sul palco mentre recitava “Il malato immaginario” e portato in fin di vita a casa dai suoi attori, chiese di ricevere gli ultimi sacramenti, ma quando il sacerdote arrivò era troppo tardi. Il drammaturgo era comunque un personaggio famoso e molto amato dal re Luigi XIV e quindi il clero fu ufficialmente costretto a un compromesso seppellendolo,

sia pure di notte e senza cerimonia, nel cimitero di Saint Joseph, allora nei pressi di rue Montmartre, in una tomba sulla quale non compariva nessuna iscrizione (anche se molto probabilmente poi fu spostata in gran segreto in terreno sconsacrato). La Fontaine, più prudente, aveva già rinunciato 2 anni prima della sua morte di pubblicare i suoi racconti e favole e si era messo a scrivere storie pie e a fare esercizi religiosi quotidiani. Così fu sepolto come un buon cristiano nel cimitero des Innocents. Poi però si diffuse la voce, falsa, che il suo corpo fosse stato spostato e tumulato vicino a quello di Molière al Saint Joseph. Quando, un centinaio di anni dopo, la Rivoluzione francese era in cerca di Grands Hommes da onorare, nessuno sapeva più la posizione esatta delle tombe dei due. Comunque nel 1792 i corpi presunti delle due personalità nazionali furono spostati in pompa magna al Musée des Monuments francais e poi, quando questo chiuse nel 1816, al Père Lechaise. I veri corpi di Molière e La Fontaine, quando il cimitero di Saint Joseph e quello des Innocents furono smantellati (1796, 1788), molto probabilmente furono trasferiti e accatastati insieme a migliaia di altri scheletri da qualche parte nelle catacombe di Parigi. Ma questa è un’altra storia che ho già raccontato. Oggi il cimitero di Père Lechaise, magnifica città dei morti con 70.000 tombe monumentali distribuite tra viali e sentieri di un parco di 44 ettari, è il più celebre e visitato al mondo.

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di Roberto Giacinti Le donazioni derivanti dalle dichiarazioni dei redditi dei cittadini italiani rappresentano il primo canale di fundraising per mettere in campo iniziative e progetti sociali. Il 5 per mille andava riformato perché occorreva razionalizzare i criteri di accreditamento dei soggetti beneficiari; perché occorreva rivedere i requisiti per accedere al beneficio; perché occorreva semplificare le procedure per il calcolo del contributo (già disposto con il d. P. C. del luglio 2017 che solleva dall’obbligo di iscrizione annuale); perché occorreva disporre in tema di trasparenza. Il d. lgs. 3 luglio 2017, n. 111 prevede il completamento della riforma strutturale dell’istituto, già reso permanente dalla legge di stabilità 2015, attraverso l’individuazione delle modalità per la revisione dei criteri di accreditamento dei soggetti beneficiari, dei requisiti per l’accesso al beneficio, la semplificazione e accelerazione delle procedure per il calcolo e l’erogazione dei contributi, nonché l’introduzione di obblighi di pubblicità delle risorse erogate, attraverso un sistema improntato alla massima trasparenza. Rispetto alla disciplina precedente, le nuove norme allargano la platea dei destinatari del beneficio, estendendola a tutti gli enti del Terzo settore iscritti nel Registro unico nazionale. Rimangono inalterati i restanti settori di destinazione del beneficio: il finanziamento della ricerca scientifica e dell’università; della ricerca sanitaria; il sostegno delle attività sociali svolte dal comune di residenza; il sostegno delle associazioni sportive dilettantistiche, riconosciute ai fini sportivi dal CONI, che svolgono una rilevante attività di interesse sociale; la tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici. I beneficiari sono tenuti a: - trasmettere, entro 1 anno dalla ricezione delle somme, un apposito rendiconto, unitamente ad una relazione illustrativa, che descriva la destinazione e l’utilizzo del contributo percepito, secondo canoni di trasparenza, chiarezza e specificità; - pubblicare, sul proprio sito web, gli importi percepiti ed il relativo rendiconto. In caso di inadempimento ai predetti obblighi, si prevede un sistema sanzionatorio che comporta una preventiva diffida ad adempiere entro il termine di 30 gg. e, solo in caso di persistenza dell’inadempimento, l’applicazione della sanzione amministrativa pecu-

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niaria, corrispondente al 25% del contributo percepito. I donatori hanno l’obbligo di pubblicare sul proprio sito l’elenco dei destinatari del contributo, con l’indicazione dell’importo e del link al rendiconto pubblicato sul sito web del beneficiario. Tuttavia questo non modificherà la distribuzione delle risorse che è fortemente influenzata dalla forte concentrazione verso l’alto per cui un numero limitato di soggetti raccoglie una fetta molto larga delle risorse, (ai primi 720 enti, quelli sopra i 50mila € l’anno, viene corrisposto un importo complessivo pari a circa 310 mln di €; chi sta sopra il milione di € l’anno, sono solo 40 soggetti che totalizzano circa 200 mln su 485.) Scopriamo anche che risultano iscritti oltre 2.000 enti (su più di 53mila) che non ottengono alcun contributo ed altri 3.000 che sono sotto i 100 € o per i quali il costo della procedura è ben superiore al beneficio! Crediamo che con l’attivazione del Registro unico del Terzo settore si debba tornare a valutare le finalità e le attività effettivamente svolte e l’impatto sui beneficiari. Le nuove disposizioni hanno effetto a decorrere dall’anno successivo a quello di operatività del Registro Unico, cionondimeno l’adeguamento spontaneo donerà benefici di trasparenza utili alla raccolta.

Illustrazione di Aldo Frangioni

Ridefinito il cinque per mille


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